Archivio del Tag ‘embargo’
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Hollande molla la Merkel solo per vendere la Francia al Ttip
Hollande in rotta di collisione con l’austerity della Merkel? Per certi versi, avverte Piero Pagliani, è la riesumazione di alcune delle idee con le quali il socialista francese approdò all’Eliseo nel 2012. «All’epoca erano più o meno confezionate così: nei vincoli europei non deve essere conteggiata quella parte di deficit che serve a rilanciare lo sviluppo». Un programma «tenuto in sonno per due anni, nonostante la situazione economica in Francia peggiorasse in termini esponenziali». Ora, evidentemente, qualcosa è cambiato: «Gli Usa stanno stringendo i tempi della deglobalizzazione conflittuale. Il golpe nazista a Kiev ha contribuito a isolare la Ue, e in primis la Germania, dalla Russia». La Francia? «Interpreta con fedeltà la politica statunitense: i tempi di De Gaulle ormai appartengono ad altre epoche geologiche». Sicché, François Hollande «si è lanciato con entusiasmo nella tragica messa in scena della guerra all’Isis». E tutte le cancellerie europee sanno che «sta iniziando una nuova fase della crisi mondiale, che sarà condotta con feroci attacchi militari alla Siria (quindi alla Russia) con la scusa dell’Isis».Lo ha appena ammesso anche il principe Saud bin Faysal, ministro degli esteri saudita. Si attendono anche «atti di destabilizzazione in territorio russo», mentre quelli in Cina «sono già iniziati a tenaglia». Era difficile prevederlo? Proprio per nulla, scrive Pagliani su “Megachip”, ricordando il suo romanzo “Il punto fisso” (Mimesis), che prevedeva «l’inizio della deglobalizzazione». Dunque Hollande si agita e la Merkel sta a guardare perplessa e preoccupata? «La Germania è entrata in difficoltà e fa fatica a mantenere la barra europea di una politica di austerity. Dapprima le risultava vantaggiosa, ma ha infine iniziato a segare l’albero su cui era seduta, come era facilmente prevedibile». Lezione: «La sua strategia di resistere ai piani imperial-finanziari anglosassoni per via economico-finanziaria era destinata a fallire dopo aver procurato disastri politici, economici, sociali e umani impressionanti». Infine, «ci sono le difficoltà, più che ovvie, di tutti i governanti europei, che straparlano di nuovo sviluppo e di “riforme” (leggi “massacri sociali”)». In realtà «cercano, letteralmente, di barcamenarsi per non finire troppo presto nella pattumiera della storia, loro inevitabile destinazione».Di fronte alle nuove insofferenze di Hollande, secondo Pagliani, le «basi missilistiche finanziarie di New York» reagiranno «solo quanto basta per estorcere le “riforme”», dopodiché «Renzi seguirà Hollande e infine Draghi porterà gli affondi finali contro la Germania». Vero obiettivo? Confluire, docili, sotto l’ala del Ttip, il Trattato Transatlantico negoziato in segreto dalle multinazionali Usa per riscrivere le regole del business con l’Europa secondo gli interessi atlantici. «Lo “Sblocca Italia” anticipa le richieste del Ttip». Esito inevitabile, «a meno che intervengano i Brics con mosse finanziarie oggi difficili da prevedere». Da Monti in poi, passando per Draghi, Hollande e Obama, secondo Pagliani è stata condotta una “fronda” anti-tedesca «paradossalmente sotto la bandiera dell’austerity stessa». Infatti, quel conflitto «non escludeva l’utilizzo della crisi per “normalizzare” la società (una strategia che a Monti è sempre stata a cuore), cioè appiattirla in vista del disperato e disperante tentativo di estrarre tutto il plusvalore possibile e saccheggiare i beni comuni».Ora la sinistra esulta per la “ribellione” all’austerità e indica il “socialista” Hollande come esempio positivo, colui che ha avuto il coraggio di dire di no? Sarà solo «una vera e propria “rivoluzione colorata” anti-austerity e anti-tedesca, quel tipo di rivoluzione che più eccita le sinistre, incuranti dei “forti” che stanno dietro di esse». E il resto del mondo – cioè i sei miliardi su sette? «I paesi Brics, al contrario della Germania, hanno invece capito che possono parlare di Nuova Banca di Sviluppo e magari di Bancor (la soluzione per la moneta internazionale proposta da Keynes a Bretton Woods e rifiutata per questioni di potenza dagli Usa) solo se si è muniti adeguatamente di forze armate e di bombe atomiche. Questa è l’orrenda verità». D’altra, continua Pagliani, parte il “gold dollar standard” era nato da una guerra mondiale ed è stato confermato da due città incenerite dalle bombe atomiche, «che del gold-dollar standard sono state l’ostia della prima comunione: poi c’è chi crede che l’economia sia l’unica cosa che conti nel capitalismo!». Sempre secondo Pagliani, «l’imbelle rivoluzione colorata contro l’austerity imposta dalla Germania ha come scopo non unico, ma principale, quello di passare da un parziale a un totale infeudamento della Ue nelle politiche neoimperiali e di deglobalizzazione statunitensi».Le politiche di austerità sono un disastro? Certo, «ma è anche un disastro pensare che politiche “keynesiane” sic et simpliciter riportino all’age d’or del Dopoguerra». Non sarà così: «La Bce che compra titoli di Stato non è la Banca d’Italia degli anni Cinquanta che compra il debito italiano. E neppure se lo facesse oggi una rinata Banca d’Italia. Nemmeno lontanamente. Non sarebbe più una politica monetaria dopo un conflitto mondiale, all’ombra di una stabilità imperiale, in una fase di enorme espansione in presenza di un fortissimo movimento operaio. Sarebbe – ammesso che si possa realizzare – una politica obbligata da uno stato incipiente di guerra e nel pieno di una crisi e di un caos sistemici. Una politica dovuta al fatto che i mercati stanno dividendosi in aree geopolitico-economiche contrapposte». I profitti di una volta? «Semplicemente non ci sono più», perché ormai la coperta si è accorciata. La Germania? «E’ contraria alle linee di Draghi. Ma fino a quando si potrà opporre se sarà costretta ad adeguarsi agli embarghi e le sanzioni contro l’Est che le imporrà la Superpotenza che la occupa con 179 basi militari? Senza mercati di sbocco, che fine farà il suo famoso e famigerato mercantilismo?».Il timore di Pagliani è che la politica keynesiana, «che in molti, con speranza, vedono profilarsi all’orizzonte», di fatto «non sarà capace di riportare indietro le lancette della storia». Ovvero: «Non sarà in grado né di fermare l’impoverimento della società né di indurre un ribilanciamento della ricchezza». Dalla tragedia dell’euro, per esempio, ci si può affrancare «solo in una cornice politica nazionale e internazionale totalmente nuova». Previsioni: crisi nera, ancora e sempre, magari intrerrotta da «ripresine a singhiozzo», incapaci di invertire la rotta. «Se nuovo sviluppo capitalistico ci sarà in Occidente, ci sarà solo dopo una fase conclamata di guerra mondiale che inevitabilmente ne preparerà una quarta, a meno che non riduca fin da subito la Terra all’età della pietra», conclude Pagliani. «Oppure bisognerà cambiare registro, a livello internazionale: sul modo sociale ed ecologico di produrre e di consumare e quindi – e soprattutto – sui rapporti di potere, internazionali e nazionali».Hollande in rotta di collisione con l’austerity della Merkel? Per certi versi, avverte Piero Pagliani, è la riesumazione di alcune delle idee con le quali il socialista francese approdò all’Eliseo nel 2012. «All’epoca erano più o meno confezionate così: nei vincoli europei non deve essere conteggiata quella parte di deficit che serve a rilanciare lo sviluppo». Un programma «tenuto in sonno per due anni, nonostante la situazione economica in Francia peggiorasse in termini esponenziali». Ora, evidentemente, qualcosa è cambiato: «Gli Usa stanno stringendo i tempi della deglobalizzazione conflittuale. Il golpe nazista a Kiev ha contribuito a isolare la Ue, e in primis la Germania, dalla Russia». La Francia? «Interpreta con fedeltà la politica statunitense: i tempi di De Gaulle ormai appartengono ad altre epoche geologiche». Sicché, François Hollande «si è lanciato con entusiasmo nella tragica messa in scena della guerra all’Isis». E tutte le cancellerie europee sanno che «sta iniziando una nuova fase della crisi mondiale, che sarà condotta con feroci attacchi militari alla Siria (quindi alla Russia) con la scusa dell’Isis».
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Contro il gas russo, l’Europa dei cretini autolesionisti
Ora che il governo di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra ha chiuso l’affare scozzese, tra sospetti brogli denunciati anche dalla “Bbc” e l’illusione dei gonnellini di Edimburgo di poter cambiare la loro sorte per via referendaria, Londra può di nuovo dedicarsi a quello che le riesce meglio: fare il cane da guardia Usa in Europa contro gli interessi degli stessi cittadini europei. Come mai un paese che non ha adottato la moneta unica, che non ha aderito a molti trattati comunitari, che misura la propria esistenza in pollici, acri ed once, che guida tenendo la sinistra, che non ha, insomma, nulla in comune col resto dei continentali, abbia così tanta voce in capitolo in Ue è uno di quei misteri del Vecchio Continente che resteranno sempre irrisolvibili, almeno finché non si apriranno gli occhi sui compiti storici di questa comunità tenuta insieme contro la volontà dei popoli e nata per volere di burocrazie politiche corrotte e cricche finanziarie speculatrici asservite al dominio d’oltreatlantico.Gli inglesi, i quali hanno difficoltà a badare a se stessi, per quanto la crisi li abbia colpiti meno di altre potenze europee, grazie al controllo esercitato dallo Stato sulla sterlina e sui capisaldi economici del sistema che sono stati contaminati meno dalle stupide imposizioni di Bruxelles, temono che Kiev possa restare all’addiaccio e si prodigano affinché ciò non avvenga. In realtà, si preoccupano per il saccheggio del gas da parte degli ucraini che sono stati convinti ad abbracciare l’“acquis communautaire” nonostante le uniche leggi riconosciute da quelle parti siano quelle del taglione e del taglieggiamento. Convincere questi gangster dell’est a comportarsi civilmente non sarà una cosa facile, ma averli allontanati dalla presa del potente vicino, per gli inglesi, evidentemente, vale il rischio che si sta correndo. Ora però bisogna ostacolare Mosca in tutti i modi possibili, impedendo che questa si rafforzi ancora sui mercati energetici e che eserciti ulteriormente la sua pressione sulle capitali europee dipendenti dalle sue forniture.La corsa ai giacimenti artici, dove i russi si sono lanciati con grande impeto, potrebbe essere il prossimo terreno di scontro. Il circolo polare artico pare custodisca il 22% delle risorse energetiche mondiali recuperabili. Mosca non nasconde le sue rivendicazioni sulla zona e reclama i suoi diritti di ricerca e di sfruttamento, che però vengono contestati strumentalmente da alcuni Stati nordici. Il recente embargo di tecnologia occidentale imposto da Washington al Cremlino, al quale l’Ue si è passivamente accodata, serve proprio ad evitare che Putin & co. proseguano spediti su questa rotta. Nessuno dei paesi dell’alleanza atlantica dovrà agevolare i russi nello sfruttamento di tale settore, per rallentare la loro corsa esplorativa nell’area. In secondo luogo, europei e americani puntano a indebolire Gazprom sabotando i suoi progetti in Europa come il gasdotto South Stream, che aggirando l’Ucraina favorisce percorsi più stabili di pompaggio dell’oro blu verso i clienti europei.In ossequio a questi pregiudizi autolesionistici, qualche giorno fa l’Europarlamento ha approvato una risoluzione non legislativa (che non sarà vincolante ma è di certo molto ipocrita) per sollecitare i paesi dell’Ue ad annullare gli accordi nel settore energetico previsti con la Russia, tra cui quelli per il gasdotto in questione. Nello stesso documento, gli eurodeputati hanno definito le sanzioni russe all’Ue ingiustificate. Questa manica d’idioti pretenderebbe che Mosca se ne restasse ferma mentre si cerca di isolare la sua economia. I sudditi d’Inghilterra sono quelli più accaniti contro il Cremlino e stanno pure spingendo affinché il monopolio della controllata di Stato russa venga contrastato attraverso le azioni dell’autorità antitrust europea, la quale dovrebbe multare per molti miliardi di euro la Gazprom per il suo modus operandi anticoncorrenziale. Si tratta unicamente di scuse per non rispettare i contratti ed indebolire l’influenza dell’azienda sul nostro mercato.Londra però non specifica con cosa e con chi sostituire i rifornimenti di Mosca, e i suoi scarni riferimenti al gas di scisto (da importare dagli Usa? Da trovare in casa? In quanto tempo e in che quantità?) non rassicurano affatto sul futuro energetico di un’Europa messa alle strette dalla crisi economica e dall’imbecillità dei suoi leader che parlano a vanvera ed agiscono a capocchia. E mentre loro studiano la via più breve per tagliarsi le palle da soli pensando di fare un dispetto a Putin, quest’ultimo si è trovato “un’amante cinese”. Fino a quando costoro seduti a fare danni a Bruxelles abuseranno della nostra pazienza e disporranno del nostro avvenire con inesistente senso di responsabilità?(Gianni Petrosillo, “L’Europa antirussa si fa male da sola”, da “Conflitti e Strategie” del 21 settembre 2014).Ora che il governo di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra ha chiuso l’affare scozzese, tra sospetti brogli denunciati anche dalla “Bbc” e l’illusione dei gonnellini di Edimburgo di poter cambiare la loro sorte per via referendaria, Londra può di nuovo dedicarsi a quello che le riesce meglio: fare il cane da guardia Usa in Europa contro gli interessi degli stessi cittadini europei. Come mai un paese che non ha adottato la moneta unica, che non ha aderito a molti trattati comunitari, che misura la propria esistenza in pollici, acri ed once, che guida tenendo la sinistra, che non ha, insomma, nulla in comune col resto dei continentali, abbia così tanta voce in capitolo in Ue è uno di quei misteri del Vecchio Continente che resteranno sempre irrisolvibili, almeno finché non si apriranno gli occhi sui compiti storici di questa comunità tenuta insieme contro la volontà dei popoli e nata per volere di burocrazie politiche corrotte e cricche finanziarie speculatrici asservite al dominio d’oltreatlantico.
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Il mondo produce beni, loro dollari. O così, o è guerra
Nel 1974 Richard Nixon strinse un accordo con l’Arabia Saudita, che potremmo definire come la più grande truffa nella storia degli Stati Uniti. In cambio di armi e di protezione, i sauditi avrebbero dovuto vendere il loro petrolio in dollari, che poi avrebbero dovuto di nuovo investire negli Stati Uniti. Si trattava di una questione di vita o di morte per il dollaro, in quel momento. Nixon aveva chiuso la finestra del sistema aureo tre anni prima, e ne era seguita una massiccia svalutazione del dollaro. Garantirsi che tutte le merci che venivano scambiate nel mondo e che sarebbero state commerciate in dollari, pagate in dollari, era l’unico sistema in grado di poter veramente puntellare il valore della valuta. Guardando indietro, fu una mossa strategica estremamente brillante. Il resto dell’Opec seguì lo stesso sistema e questo fu l’affare che ha determinato la supremazia finanziaria, politica e militare degli Stati Uniti per decenni. Erano nati i petrodollari.Oggi, il petrolio resta il bene largamente più commercializzato in tutto il mondo. E dato che tutte le nazioni acquistano o vendono petrolio, questo significa che ogni nazione deve possedere dei dollari. Però, per comodità, le banche estere, i governi e le banche centrali, anziché starsene sedute a controllare montagne di banconote, hanno preferito comprare dei buoni del Tesoro Usa, cioè hanno comprato un pezzetto del debito degli Stati Uniti. Ma questo significa anche che il governo degli Stati Uniti ha una scorta quasi illimitata di stranieri che vogliono impegnarsi e comprare i suoi dollari, i suoi debiti e il suo deficit. Tutto il resto del mondo deve faticare per produrre qualcosa: lavorano nei campi, fabbricano prodotti industriali, estraggono petrolio o gas dal terreno. Gli Stati Uniti, invece dal canto loro, stampano dollari. E poi usano questa carta per scambiarla con la roba che gli stranieri hanno prodotto e per la quale hanno dovuto lavorare veramente.E’ una truffa incredibile. Si sarebbe tentati di pensare che il governo degli Stati Uniti dovrebbe essere grato, e dovrebbe inviare almeno un cesto di frutta a tutti i paesi stranieri del mondo, trattandoli come amici a cui dare sempre il benvenuto. Ma non è questo, quello che fanno. In modo arrogante, il governo degli Stati Uniti dà ordini a tutte le banche del mondo che devono far riferimento all’Irs, buttano le bombe, mandano i droni e invadono paesi stranieri. Spiano sia i loro nemici che gli alleati, congelano i beni gestiti fuori dal sistema bancario Usa e multano le banche straniere che si permettono di fare affari con paesi “non graditi”. E’ una cosa incredibilmente stupida, è un comportamento che praticamente implora gli stranieri di abbandonare il sistema del dollaro e degli Stati Uniti. E questo sta cominciando ad accadere, proprio davanti ai nostri occhi.Gli Stati Uniti hanno dimostrato di essere disposti ad andare in guerra pur di sostenere questo sistema basato sui petrodollari (Saddam Hussein ebbe il sostegno delle Nazioni Unite nei primi anni 2000 per vendere il suo petrolio in euro, ma poco dopo… se n’era andato). Quindi il fatto che in questo momento si cominci a intravedere un certo rilassamento della situazione è molto preoccupante, particolarmente se si considera che il campo di battaglia è già pronto in Ucraina.(Simon Black, “L’ultima volta che è successo, gli Usa entrarono in guerra per “difendere” i loro interessi”, da “Sovereign Man” del 6 settembre 2014, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Nel 1974 Richard Nixon strinse un accordo con l’Arabia Saudita, che potremmo definire come la più grande truffa nella storia degli Stati Uniti. In cambio di armi e di protezione, i sauditi avrebbero dovuto vendere il loro petrolio in dollari, che poi avrebbero dovuto di nuovo investire negli Stati Uniti. Si trattava di una questione di vita o di morte per il dollaro, in quel momento. Nixon aveva chiuso la finestra del sistema aureo tre anni prima, e ne era seguita una massiccia svalutazione del dollaro. Garantirsi che tutte le merci che venivano scambiate nel mondo e che sarebbero state commerciate in dollari, pagate in dollari, era l’unico sistema in grado di poter veramente puntellare il valore della valuta. Guardando indietro, fu una mossa strategica estremamente brillante. Il resto dell’Opec seguì lo stesso sistema e questo fu l’affare che ha determinato la supremazia finanziaria, politica e militare degli Stati Uniti per decenni. Erano nati i petrodollari.
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Russian Compact, addio export: l’Italia perde 300 milioni
È forte la preoccupazione tra gli imprenditori italiani dell’agroalimentare dopo il blocco delle importazioni annunciato dalla Russia: le sanzioni di Mosca costeranno almeno 100 milioni di euro per il 2014, e più del doppio – circa 220 milioni – nel 2015, colpendo duramente un comparto che nell’export verso la Russia vale oltre 700 milioni di euro. Un embargo totale su carne di manzo, suina e avicola, frutta e verdura, latte e formaggi provenienti dai paesi dell’Unione Europea, ma anche da Stati Uniti, Canada, Australia e Norvegia. Durerà un anno il divieto di importazione disposto dalla Russia in risposta alle sanzioni contro Mosca adottate da Stati Uniti e Unione Europea, spiega Adolfo Marino di “Pandora Tv” in un post ripreso da “Megachip”. «La via delle sanzioni è un vicolo cieco», sostiene il premier russo Dmitrij Medvedev, «ma la Russia è stata costretta a reagire». Stando ai calcoli del “Sole 24 Ore”, in un’economia in recessione come quella italiana le tensioni con la Russia bastano da sole a mettere in ginocchio l’export e il Pil.Le imprese italiane temono «una duplice, pesante ricaduta in un settore già in difficoltà come l’agroalimentare», perché lo stop di Mosca «apre la porta a forniture da Bielorussia, Argentina e Brasile, con la perdita di quote di mercato che l’Italia difficilmente potrà riconquistare». Inoltre, con l’embargo russo, «la produzione ortofrutticola di Grecia e Spagna si scaricherà sull’Europa con effetti drammatici», sottolinea il presidente di Confcooperative, Maurizio Gardini. «L’impressione – scrive Marino – è che la portata della crisi ucraina sia stata molto sottovalutata: le recenti tensioni internazionali rimettono in questione l’Europa nel suo complesso, che dovrà adesso pensare a una politica che superi la ricetta tedesca del rigore». Ovvero: «Non sarà più possibile continuare a mortificare i consumi interni, coltivando l’illusione di una crescita basata sulle esportazioni».Proprio sulla compressione della domanda interna, attraverso il blocco decennale dei salari, si è basato il super-export tedesco di questi anni, agevolato dall’avvento dell’euro e dai conti pubblici “a doppio fondo” della Germania, che attraverso un ente di credito come la Kfw trasferisce denaro al sistema privato: in pratica, “spesa pubblica fantasma” che la Germania effettua sottobanco, aggirando la rigida normativa di Bruxelles. E’ la stessa Germania che poi impone agli altri paesi europei il massimo del rigore, fino alla super-stangata del “Fiscal Compact”. Ora, avverte Marino, che il rischio concreto che ad esso si aggiunga «un altrettanto disastroso “Russian Compact”», col taglio delle esportazioni verso Mosca. Per la prima volta, attraverso la crisi esplosa in Ucraina, si incrociano in modo drammaticamente evidente le due linee di frattura che stanno mettendo in ginocchio la nostra economia: da un lato la pretesa neoliberista di azzoppare lo Stato sovrano come soggetto economico, fondamentale partner di imprese e famiglie, e dall’altro il precipitare della crisi geopolitica accelerata dal declino Usa: molti osservatori internazionali denunciano il pericolo che Washington forzi lo scontro con Mosca per sfuggire alla contabilità della recessione attraverso la peggiore delle scorciatoie, la guerra.È forte la preoccupazione tra gli imprenditori italiani dell’agroalimentare dopo il blocco delle importazioni annunciato dalla Russia: le sanzioni di Mosca costeranno almeno 100 milioni di euro per il 2014, e più del doppio – circa 220 milioni – nel 2015, colpendo duramente un comparto che nell’export verso la Russia vale oltre 700 milioni di euro. Un embargo totale su carne di manzo, suina e avicola, frutta e verdura, latte e formaggi provenienti dai paesi dell’Unione Europea, ma anche da Stati Uniti, Canada, Australia e Norvegia. Durerà un anno il divieto di importazione disposto dalla Russia in risposta alle sanzioni contro Mosca adottate da Stati Uniti e Unione Europea, spiega Adolfo Marino di “Pandora Tv” in un post ripreso da “Megachip”. «La via delle sanzioni è un vicolo cieco», sostiene il premier russo Dmitrij Medvedev, «ma la Russia è stata costretta a reagire». Stando ai calcoli del “Sole 24 Ore”, in un’economia in recessione come quella italiana le tensioni con la Russia bastano da sole a mettere in ginocchio l’export e il Pil.
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Pilger: è tutto falso e disumano, ma chi se n’è accorto?
Geopolitica, massacri e guerre promosse dall’Occidente? «Si è realizzato nel modo più soffice il totalitarismo orwelliano, dietro l’illusione dell’“era dell’informazione” e del multiculturalismo». S’impone un’unica visione del mondo, e nessuno protesta: «Figure capaci di esprimere efficacemente un’alternativa radicale» mancano del tutto, oppure «sono sommerse dal frastuono» del mainstream, rileva John Pilger. A teatro, un’opera profetica come “1984” di Orwell viene liquidata come «un pezzo storico: remoto, innocuo, quasi rassicurante». Dunque, «come se Snowden non avesse rivelato niente, se il Grande Fratello non fosse ora una spia digitale, se lo stesso Orwell non avesse mai detto: “Per essere corrotti dal totalitarismo non occorre vivere in un paese totalitario”». Mentre le società avanzate vengono de-politicizzate, i cambiamenti sono sottili e spettacolari. «Nei discorsi di tutti i giorni il linguaggio politico viene capovolto, come profetizzato in “1984”».Lessico reinterpretato: la parola “democrazia” è ormai «una figura retorica», la pace è diventata «guerra perpetua», “globale” significa «imperiale». E il concetto di “riforma”, «un tempo foriero di speranze», nella neo-lingua del 2014 «significa aggressione, perfino distruzione», più o meno come “austerità”, che è «l’imposizione del capitalismo estremo ai poveri e il dono del socialismo ai ricchi: un sistema ingegnoso in cui la maggioranza paga il debito dei pochi». Nelle arti, scrive Pilger in un post ripreso da “Controinformazione”, l’ostilità verso la verità politica è un articolo di fede borghese, come dimostra l’“Observer” che se la prende col “periodo rosso” di Picasso. Suona strano, detto da «un giornale che ha promosso il bagno di sangue in Iraq presentandolo come una crociata liberale». Sicché, «l’opposizione di Picasso al fascismo durante tutta la sua vita è una nota a margine, così come il radicalismo di Orwell». Terry Eagleton, già professore di letteratura inglese all’università di Manchester, considerava che «per la prima volta negli ultimi 200 anni non c’è un eminente poeta, drammaturgo o romanziere britannico pronto a mettere in questione le fondamenta del modo di vita occidentale».Nessuna Mary Shelley che parli dei poveri, nessun William Blake che sforni sogni utopici, nessun Byron che condanni la corruzione della classe dominante, né un Thomas Carlyle o un John Ruskin che rivelino «il disastro morale del capitalismo». William Morris, Oscar Wilde e George Bernard Shaw «non hanno equivalenti al giorno d’oggi». Per Pilger, Harold Pinter fu l’ultimo a far sentire la sua voce. Non c’è più nessuna Virginia Woolf, che descrisse «l’arte di dominare altre persone, di governare, uccidere, acquisire terre e capitali». Sempre a teatro, lo spettacolo “Gran Bretagna” fa satira sullo scandalo delle intercettazioni telefoniche che ha visto alcuni giornalisti processati e condannati, compreso un ex redattore di “News of the World” di Rupert Murdoch. Descritto come «una farsa mordente che inchioda l’intera cultura dei media incestuosi e la ridicolizza senza pietà», ha come bersagli i «beatamente divertenti» personaggi della stampa scandalistica britannica. Ok, ma che dire dei media non scandalistici, «che si considerano rispettabili e credibili e invece svolgono il ruolo parallelo di braccio dello Stato e del potere aziendale, come nella promozione di guerre illegali?».L’inchiesta sulle intercettazioni telefoniche ha fornito uno scorcio su questo argomento tabù: Tony Blair si stava lamentando delle molestie dei tabloid su sua moglie, quando il regista David Lawley-Wakelin chiese che lo stesso Blair fosse arrestato e perseguito per crimini di guerra. «Ci fu una lunga pausa: lo shock della verità». Secondo copione, fu ordinato di cacciare «colui che diceva la verità», con mille scuse al «criminale di guerra». I complici di lunga data di Blair sono più rispettabili di chi intercetta le telefonate, scrive Pilger. Quando la presentatrice artistica della Bbc, Kirsty Wark, lo intervistò riguardo al decennale della sua invasione dell’Iraq, gli regalò un momento che poteva solo sognare: gli permise di angosciarsi della sua «difficile» decisione presa sull’Iraq, «anziché chiamarlo a rispondere del suo crimine epico». Nel nel 2003, la Bbc dichiarò che Blair poteva sentirsi «discolpato», e programmò l’influente serie televisiva “Gli anni di Blair”, per la quale David Aaronovitch fu scelto come scrittore, presentatore e intervistatore. «Quale valletto di Murdoch che aveva promosso gli attacchi militari in Iraq, Libia e Siria, Aaronovitch adulò da esperto». L’accusatore del Processo di Norimberga, Robert Jackson, definì l’invasione dell’Iraq «il crimine internazionale supremo»? Niente paura: «A Blair e al suo portavoce e complice principale, Alastair Campbell, è stato concesso ampio spazio sul “Guardian” per riabilitare la loro reputazione», anche se Blair manovra tuttora in Medio Oriente e lo stesso Campbell è consulente della dittatura militare egiziana.Mentre l’Iraq viene smembrato in conseguenza dell’invasione di Blair e Bush, il “Guardian” titola: “Rovesciare Saddam era giusto, ma ce ne siamo andati troppo presto”. Autore del pezzo: un ex funzionario di Blair, John McTernan, che aveva lavorato anche per il dittatore Iyad Allawi, installato dalla Cia. «Invocando una seconda invasione del paese che il suo ex padrone aveva contribuito a distruggere, non menzionava la morte di almeno 700.000 persone, la fuga di 4 milioni di rifugiati e i conflitti settari in una nazione un tempo fiera della sua tolleranza comunitaria». Per “bilanciare” politicamente il profilo del “Guardian”, Seumas Milne scrisse: «Blair rappresenta la corruzione e la guerra». Peccato che il giorno successivo lo stesso giornale abbia pubblicato a tutta pagina un maxi-annuncio sul caccia stealth F-35, prodotto dalla Lockeed Martin – la stessa azienda, ricorda Pilger, che fabbrica le bombe “di precisione” da 250 chili sganciate sulla popolazione civile in Afghanistan.A un’altra star del mainstream politico, Hillary Clinton, aspirante presidente degli Stati Uniti, il programma “Women’s Hour” della Bbc ha concesso di presentarsi come «un’icona di successo femminile», evitando accuratamente di interrogarla sulla «campagna di terrore della sua amministrazione che usava droni per uccidere donne, uomini e bambini». In effetti, ironizza Pilger, la conduttrice Jenni Murray una «domanda scottante» l’ha posta: la Clinton aveva perdonato Monica Lewinsky per aver avuto una storia con suo marito? Proprio lui, Bill Clinton, che all’epoca del sexgate «stava invadendo Haiti e bombardando i Balcani, l’Africa e l’Iraq». Per inciso, «stava anche distruggendo le vite di bambini iracheni: l’Unicef riportò la morte di mezzo milione di bimbi iracheni al di sotto dei 5 anni, in conseguenza di un embargo guidato da Usa e Gran Bretagna». Tutto normale: «I bambini per i media non erano persone, così come le vittime di Hillary Clinton nelle invasioni che ha supportato e promosso: Afghanistan, Iraq, Yemen, Somalia».In politica, così come nel giornalismo e nelle arti, sembra che il dissenso un tempo tollerato nei media “mainstream” sia regredito a dissidenza, osserva Pilger: negli anni ‘60, era perfettamente accettabile criticare il potere occidentale. Basta leggere i celebri resoconti di James Cameron sull’esplosione della bomba H nell’atollo di Bikini, la guerra barbarica in Corea e il bombardamento americano del Vietnam del Nord. «La grandiosa illusione di oggi è di essere in un’era dell’informazione mentre, in verità, viviamo in un’era dei media in cui l’incessante propaganda delle multinazionali mediatiche è insidiosa, contagiosa, efficace e liberal». Nel suo saggio del 1859, “Sulla libertà”, a cui i moderni liberali porgono omaggio, John Stuart Mill scrisse: «Il dispotismo è una forma di governo legittima nel trattare con i barbari, purché il fine sia il loro miglioramento e i mezzi siano giustificati dall’effettivo ottenere quel fine».I “barbari” erano vaste porzioni di umanità da cui era richiesta “obbedienza implicita”. «E’ un mito simpatico e conveniente che i liberali siano pacifisti e i conservatori guerrafondai», scrisse lo storico Hywel Williams nel 2001. Forse aveva in mente un discorso di Blair in cui l’allora primo ministro prometteva di «riordinare il mondo intorno a noi» secondo i suoi «valori morali». Richard Falk, rispettata autorità in campo di diritto internazionale e inviato speciale Onu in Palestina, una volta ha parlato di «uno scudo legale-morale autoreferenziale e unilaterale, con immagini positive di valori occidentali e di innocenza presentata in pericolo, che giustifica una campagna di sfrenata violenza politica, così largamente accettata da essere praticamente incontrastabile». Su Bbc Radio 4, Razia Iqbal ha intervistato Toni Morrison, la premio Nobel afro-americana: la Morrison si chiedeva come mai la gente fosse «così arrabbiata» con Barack Obama, che era «figo» e desiderava costruire «una forte economia e sanità». Aggiunge Pilger: «La Morrison era fiera di aver parlato al telefono con il suo eroe, che aveva letto uno dei suoi libri e l’aveva invitata alla sua inaugurazione».Né lei né la sua intervistatrice, scrive Pilger, hanno menzionato le 7 guerre di Obama, compresa la sua campagna del terrore con i droni, nella quale sono state assassinate intere famiglie, i loro soccorritori e chi li piangeva. «Quello che sembrava importare era che una uomo di colore “che parlava in modo raffinato” fosse salito ai livelli massimi di potere». In “The Wretched of the Earth” (Gli abietti della Terra) Frantz Fanon scrisse che la «missione storica» dei colonizzati era di fungere da «cinghia di trasmissione» per coloro che governavano e opprimevano. «Ai nostri giorni – aggiunge Pilger – l’impiego delle differenze etniche nei sistemi di potere e propaganda occidentali è visto come essenziale. Obama ne è l’epitomo, sebbene il gabinetto di George W. Bush – la sua banda di guerrafondai – fosse il più multirazziale nella storia presidenziale». Ieri, mentre la città irachena di Mosul veniva presa dai jihadisti dell’Isis, Obama ha affermato: «Il popolo americano ha fatto investimenti e sacrifici enormi per dare agli iracheni l’opportunità di forgiare un destino migliore».Quanto è “figa” questa bugia? E com’era “raffinato” il discorso di Obama all’accademia militare di West Point il 28 maggio sullo «stato del mondo», indirizzato a quanti «assumeranno la leadership americana» in tutto il pianeta. «Gli Stati Uniti – ha detto Obama – useranno la forza militare, unilateralmente se necessario, quando lo richiedono i nostri interessi cruciali. L’opinione internazionale ha importanza, ma l’America non chiederà mai il permesso». Ripudiando il diritto internazionale e i quelli delle nazioni, il presidente americano si presenta come una divinità basata sulla superpotenza della sua nazione. Inequivocabile: «E’ un messaggio famigliare di impunità imperiale». Evocando l’ascesa del fascismo negli anni ‘30, Obama ha aggiunto: «Credo nell’eccezionalismo americano con ogni fibra del mio essere». Lo rimbecca lo storico Norman Pollack: «A chi faceva il passo dell’oca sostituiamo l’apparentemente più innocua militarizzazione della cultura totale. E al posto del leader magniloquente abbiamo il riformatore mancato, allegramente al lavoro, che pianifica ed esegue assassinii mentre sorride tutto il tempo».A febbraio, gli Usa hanno montato uno dei loro golpe “colorati” in Ucraina, con la regia di Victoria Nuland, consigliera alla sicurezza nazionale di Obama, seguita dal vicepresidente Joe Biden e dal direttore della Cia John Brennan, giunti a Kiev per pilotare «le truppe d’assalto per il loro putsch», ovvero «fascisti ucraini». Così, «per la prima volta dal 1945, un partito neonazista apertamente antisemita controlla aree-chiave del potere statale in una capitale europea», senza che nessun leader occidentale abbia aperto bocca. «Dal collasso dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno circondato la Russia con basi militari, bombardieri nucleari e missili come parte del loro progetto di allargamento della Nato». Rinnegando una promessa fatta a Gorbaciov nel 1990, secondo cui la Nato non si sarebbe espansa «un centimetro ad est», di fatto la Nato ha occupato militarmente l’Europa orientale, costituendo – a partire dal Caucaso – «il più grande accumulo militare dalla seconda guerra mondiale». Nel mirino l’adesione di Kiev, e sullo sfondo due operazioni, “Tridente rapido”, con truppe americane e britanniche sul confine russo dell’Ucraina, e “Brezza di mare”, con navi da guerra statunitensi a distanza di avvistamento dai porti russi. «Immaginate la reazione se questi atti di provocazione, o intimidazione, venissero compiuti ai confini americani?».Nel reclamare la russa Crimea, “regalata” all’Ucraina da Nikita Krushev nel 1954 – Mosca si è semplicemente difesa, come sempre: più del 90% della popolazione ha votato per tornare con la Russia, inoltre la Crimea è sede della flotta del Mar Nero, vitale per la marina russa. Putin ha spiazzato «i partiti guerrafondai a Washington e Kiev» esortando i russi di Ucraina ad abbandonare il separatismo? «In modo orwelliano, in Occidente ciò è stato invertito nella “minaccia russa”», e Hillary Clinton «ha paragonato Putin a Hitler». Altro problema: «Senza ironia, commentatori della destra tedesca hanno fatto altrettanto». Peggio ancora: «Nei media, i neonazisti ucraini vengono definiti eufemisticamente “nazionalisti” o “ultra-nazionalisti”». Quello che temono, continua Pilger, è che Putin stia abilmente cercando una soluzione diplomatica, che potrebbe avere successo. Il presidente russo ha chiesto al Parlamento di togliergli i poteri speciali di intervento in Ucraina? Puntuale l’ultimatum di John Kerry: la Russia doveva «agire entro le prossime ore, letteralmente» per far terminare la rivolta nell’est dell’Ucraina.«Nonostante Kerry sia ampiamente riconosciuto come un pagliaccio – sostiene Pilger – il vero scopo di questi “avvertimenti” è di attribuire alla Russia lo stato di paria e di sopprimere le notizie sulla guerra del regime di Kiev al proprio popolo». Un terzo della popolazione dell’Ucraina è russofona e bilingue. «Da tempo desiderano una federazione democratica che rifletta la diversità etnica ucraina e sia autonoma e indipendente da Mosca. La maggior parte non è né “separatista” né “ribelle”, ma composta da cittadini che vogliono vivere in sicurezza nella loro patria». Il separatismo? «E’ una reazione agli attacchi della giunta di Kiev contro di loro, che hanno causato la fuga di 110.000 rifugiati (stima Onu) verso la Russia. Generalmente, donne e bambini traumatizzati. Come i bambini iracheni vittime dell’embargo, e le donne e ragazze “liberate” dell’Afghanistan, terrorizzate dai signori della guerra della Cia, queste popolazioni dell’Ucraina per i media occidentali non sono persone: la loro sofferenza e le atrocità commesse contro di loro vengono minimizzate o taciute».I media mainstream occidentali non fanno percepire la dimensione della tragedia. L’ultimo libro di Phillip Knightley, “La prima vittima: il corrispondente di guerra come eroe, propagandista e creatore di miti”, ricorda la figura di Morgan Philips Price del “Manchester Guardian”, «l’unico reporter occidentale a restare in Russia durante la rivoluzione del 1917 e a riportare la verità di una disastrosa invasione degli alleati occidentali». Imparziale e coraggioso, Price «da solo disturbò quello che Knightley chiama un “oscuro silenzio” anti-russo in Occidente». I russi restano carne da macello: come i 41 manifestanti bruciati vivi a Odessa nella sede dei sindacati, mentre la polizia ucraina stava a guardare. Il leader di “Settore Destro”, Dmytro Yarosh, salutò il massacro come «un altro giorno luminoso nella nostra storia nazionale». Ma nei media americani e britannici, l’eccidio venne riportato come «una tragedia opaca», conseguenza di «scontri» tra «nazionalisti» (neonazisti) e «separatisti», cioè le persone che raccoglievano le firme per il referendum sull’Ucraina federale.Il “New York Times” lo seppellì, liquidando come propaganda russa gli avvertimenti sulle politiche fasciste e antisemite dei nuovi agenti di Washington, mentre il “Wall Street Journal” condannò le vittime: “Mortale incendio ucraino probabilmente innescato dai ribelli, dice il governo”. E Obama si congratulò con la giunta golpista di Kiev – i carnefici – per la «moderazione» dimostrata. Il 28 giugno, il “Guardian” dedicò quasi una pagina alle dichiarazioni del “presidente” del regime di Kiev, l’oligarca Petro Poroshenko. «Di nuovo venne applicata la regola dell’inversione orwelliana». Non c’era alcun colpo di Stato, nessuna guerra contro la minoranza ucraina, la colpa di tutto era dei russi. «Vogliamo modernizzare il mio paese», disse Poroshenko. «Vogliamo introdurre libertà, democrazia e valori europei. A qualcuno questo non piace. A qualcuno non piaciamo per questo». Non una parola, dal reporter del “Guardian”, Luke Harding, sulla strage di Odessa, i bombardamenti sui quartieri, l’uccisione e il rapimento di giornalisti, l’incendio di un giornale di opposizione e la minaccia di Poroshenko di «liberare l’Ucraina dalla feccia e dai parassiti».Il nemico sono i «ribelli», i «militanti», gli «insorti», i «terroristi» e gli agenti del Cremlino. «Ripensate ai fantasmi del Vietnam, del Cile, di Timor Est, dell’Africa meridionale, dell’Iraq: notate le stesse etichette», avverte Pilger. «La Palestina è la calamita di questo immutevole inganno. L’11 luglio, in seguito all’ultimo massacro israeliano a Gaza – 80 persone, compresi 6 bambini in una famiglia – equipaggiato dagli americani, un generale israeliano scrive sul “Guardian”, titolando: “Una necessaria dimostrazione di forza”». Negli anni ‘70 Pilger incontrò Leni Riefenstahl, l’autrice dei film di propaganda che glorificavano il nazismo: usando «in modo rivoluzionario» la cinepresa e le tecniche di illuminazione, la Riefenstahl aveva prodotto «una forma di documentario che aveva ipnotizzato i tedeschi». Un “trionfo della volontà” che ha presumibilmente agevolato il maleficio di Hitler. Domanda: come funziona la propaganda nelle società che si ritengono “superiori”? La replica: i «messaggi» nei suoi film non dipendevano da «ordini dall’alto», ma dal «vuoto sottomesso» della popolazione tedesca. Compresa la borghesia liberale e istruita?, Ma certo: «Chiunque, e naturalmente anche gli intellettuali».Geopolitica, massacri e guerre promosse dall’Occidente? «Si è realizzato nel modo più soffice il totalitarismo orwelliano, dietro l’illusione dell’“era dell’informazione” e del multiculturalismo». S’impone un’unica visione del mondo, e nessuno protesta: «Figure capaci di esprimere efficacemente un’alternativa radicale» mancano del tutto, oppure «sono sommerse dal frastuono» del mainstream, rileva John Pilger. A teatro, un’opera profetica come “1984” di Orwell viene liquidata come «un pezzo storico: remoto, innocuo, quasi rassicurante». Dunque, «come se Snowden non avesse rivelato niente, se il Grande Fratello non fosse ora una spia digitale, se lo stesso Orwell non avesse mai detto: “Per essere corrotti dal totalitarismo non occorre vivere in un paese totalitario”». Mentre le società avanzate vengono de-politicizzate, i cambiamenti sono sottili e spettacolari. «Nei discorsi di tutti i giorni il linguaggio politico viene capovolto, come profetizzato in “1984”».
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Ilan Pappe: Israele non fa più parte del mondo civile
Io non so ancora chi era il vostro congiunto. Potrebbe essere stata una bambina di pochi mesi, o un bambino di qualche anno, o un vostro nonno, o un vostro figlio o un vostro genitore. Ho saputo della morte del vostro congiunto da Chico Menashe, un commentatore politico di “Reshet Bet”, la più importante stazione radio israeliana. Chico ha detto che l’uccisione del vostro congiunto e il fatto di aver ridotto Gaza in macerie e di aver costretto 150.000 persone a lasciare le loro case, è parte di una strategia israeliana ben studiata: questa strage soffocherà l’impulso dei palestinesi di Gaza a resistere alle politiche israeliane. Ho sentito queste sue parole mentre leggevo, nell’edizione del 25 luglio deIla cosiddetta “rispettabile” testata “Haaretz”, le parole del non tanto rispettabile storico Benny Morris, secondo cui persino questo che sta accadendo ora non è abbastanza.Morris considera le attuali politiche di genocidio “refisut” – deboli di mente e di spirito; fa appello ad una futura maggiore opera di distruzione, poichè è questo il modo in cui si difende la propria “capanna nella giungla”, per citare la descrizione di Israele data dall’ex primo ministro israeliano Ehud Barak. Violenza disumana. VIOLENZA DISUMANA Sì, ho paura di dire che, a parte la flebile voce di una minoranza che scompare in mezzo a tanta violenza disumana, dietro a questo massacro ci sono tutti i media e tutte le maggiori personalità israeliane. Non vi scrivo per dirvi che provo vergogna – da tempo mi sono dissociato dall’ideologia di Stato e cerco di fare il possibile, come individuo, per contrastarla e sconfiggerla. Forse questo non basta; siamo spesso inibiti da momenti di vigliaccheria, egoismo e anche da un impulso naturale di prenderci cura principalmente delle nostre famiglie e di chi amiamo.Tuttavia, sento oggi il bisogno di assumermi un impegno solenne nei vostri confronti, un impegno che nessuno dei tedeschi che mio padre conobbe durante il regime nazista fu disposto ad assumersi, quando quei selvaggi massacrarono la sua famiglia. In questo giorno di vostro profondo dolore, questo mio impegno non sarà gran cosa, ma è la cosa migliore che io possa fare; e restare in silenzio non la considero un’opzione. E’ il 2014 – la distruzione di Gaza è ben documentata. Non è il 1948, quando i palestinesi dovettero lottare con ogni mezzo per poter raccontare la loro tragica storia di orrori subiti. Moltissimi dei crimini allora commessi dai sionisti rimasero nascosti e ancora oggi non sono venuti alla luce. Quindi, il mio unico e semplice impegno sarà quello di registrare, informare e insistere perché si conosca la verità dei fatti. La mia vecchia università, ad Haifa, ha reclutato i suoi studenti per diffondere via Internet un mare di bugie israeliane in tutto il mondo; ma oggi siamo nel 2014 e una propaganda di questo genere non funzionerà.IMPEGNO A BOICOTTARE Impegno a boicottare. Tuttavia, questo certamente non può bastare. Mi impegno quindi a continuare nello sforzo di boicottare uno Stato che commette crimini di questo genere. Solo quando l’Unione delle Federazioni Calcistiche Europee espellerà Israele, quando il mondo accademico si rifiuterà di avere rapporti istituzionali con Israele, quando le compagnie aeree eviteranno di volare sui cieli d’Israele e quando si capirà che perdere denaro nel breve termine per una presa di posizione etica significa guadagnare nel lungo termine moralmente e finanziariamente – solo allora potremo dire di aver onorato degnamente la vostra perdita. Il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds), ha conseguito diversi obbiettivi e continua nel suo instancabile lavoro. Ci sono ancora ostacoli, come la falsa accusa di antisemitismo e il cinismo dei politici. E’ così che è stata bloccata all’ultimo momento un’onorevole iniziativa di architetti britannici per indurre i loro colleghi in Israele a prendere una posizione morale, piuttosto che essere complici nella colonizzazione criminale di quelle terre. Altrove, in Europa e negli Stati Uniti, politici senza spina dorsale hanno sabotato simili iniziative. Ma il mio impegno è quello di essere sempre parte attiva nello sforzo di superare questi ostacoli. La memoria del vostro amato sarà la mia forza trainante, insieme al vivo ricordo delle sofferenze dei palestinesi nel 1948 e degli anni che seguirono.MATTATOIO Mattatoio. Faccio tutto questo egoisticamente. Prego e spero fortemente che in questo tragico momento della vostra vita, mentre i palestinesi di Shujaiya, Deir al-Balah e Gaza City assistono quotidianamente al massacro da parte di aerei, carri armati e artiglieria israeliani, non vi porti a smarrire per sempre la speranza nell’umanità. Questa umanità comprende anche degli israeliani che non hanno il coraggio di parlare, ma che esprimono il loro orrore in privato, come lo attesta la mia casella di posta elettronica zeppa di messaggi, e la mia pagina Facebook, come lo attesta quella piccola minoranza in Israele che manifesta pubblicamente contro il crescente genocidio di Gaza. Questa umanità comprende anche quelli che ancora non sono nati, che forse saranno in grado di sfuggire a una macchina di indottrinamento sionista che li plasma, dalla culla alla tomba, e li addestra a disumanizzare i palestinesi a tal punto che veder bruciare vivo un ragazzo palestinese di sedici anni non li smuove e non li fa barcollare nella loro fede nel governo, nell’esercito e nella religione.SCONFITTA Sconfitta. Per il loro bene, per il mio e per il vostro bene, mi auguro di poter continuare a sognare l’alba del giorno dopo – quando il sionismo sarà sconfitto insieme all’ideologia che governa le nostre vite tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo; e che tutti noi possiamo vivere la vita normale che desideriamo e meritiamo. Quindi, oggi mi impegno a non farmi distrarre da amici e dirigenti palestinesi che ancora ripongono le loro speranze nella “soluzione dei due Stati”. Se davvero uno sente l’impulso di lavorare per un cambiamento di regime in Palestina, l’unico obbiettivo deve essere quello di lottare per la parità dei diritti umani e civili e per il pieno ristabilimento e reintegro di tutti coloro che sono e sono stati vittime di sionismo, dentro e fuori l’amata terra di Palestina.Il vostro congiunto, chiunque sia stato, possa lui/lei riposare in pace, sapendo che la sua morte non è stata vana – e non perché sarà vendicata e rivendicata all’infinito. Non abbiamo bisogno di altri spargimenti di sangue. Credo ancora che ci sia un modo per porre fine alla malvagità e alla crudeltà con la forza dell’umanità e della moralità. Giustizia significa anche portare in tribunale gli assassini che hanno ucciso la vostra persona amata e tante altre persone, e portare i criminali di guerra d’Israele davanti ai tribunali internazionali. Lo so, è una via molto più lunga, anch’io avverto a volte l’impulso di far parte di una forza che utilizza la violenza per porre fine alla disumanità. Ma mi impegno a lavorare per la giustizia, la giustizia piena, la giustizia riparatoria. Questo è quello che posso promettere – lavorare per evitare che arrivi in Palestina una prossima fase di pulizia etnica e un nuovo genocidio a Gaza.(Ilan Pappe, “Alla famiglia della millesima vittima del genocidio ad opera degli israeliani a Gaza”, dal blog “The Electronic Intifada” del 27 luglio 2014, tradotto da “Come Don Chisciotte”. Il professor Pappe, di Haifa, è uno dei massimi storici israeliani contemporanei. Durissimo il suo saggio “La pulizia etnica della Palestina”, pubblicato da Fazi, che denuncia l’orrore del genocidio anti-palestinese per mano sionista avviato decenni prima della Seconda Guerra Mondiale. Oggi, Pappe insegna all’università di Exeter, in Gran Bretagna).Io non so ancora chi era il vostro congiunto. Potrebbe essere stata una bambina di pochi mesi, o un bambino di qualche anno, o un vostro nonno, o un vostro figlio o un vostro genitore. Ho saputo della morte del vostro congiunto da Chico Menashe, un commentatore politico di “Reshet Bet”, la più importante stazione radio israeliana. Chico ha detto che l’uccisione del vostro congiunto e il fatto di aver ridotto Gaza in macerie e di aver costretto 150.000 persone a lasciare le loro case, è parte di una strategia israeliana ben studiata: questa strage soffocherà l’impulso dei palestinesi di Gaza a resistere alle politiche israeliane. Ho sentito queste sue parole mentre leggevo, nell’edizione del 25 luglio deIla cosiddetta “rispettabile” testata “Haaretz”, le parole del non tanto rispettabile storico Benny Morris, secondo cui persino questo che sta accadendo ora non è abbastanza.
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Haaretz: studenti uccisi, Israele punisce palestinesi inermi
Il rapimento e l’omicidio dei tre studenti yeshiva della West Bank è stato interpretato dai palestinesi come un altro incidente in una routine di violenza, di cui Israele è il primo responsabile. Non c’è stata nemmeno una scintilla che somigliasse ad una opposizione o a una protesta, ma non c’è stata nemmeno una scintilla a favore del rapimento, nessuno che abbia chiesto “di più”. Migliaia di famiglie palestinesi sono rimaste per due settimane sotto il rullo del compressore militare israeliano, senza che ci fosse un solo motivo che collegasse questa gente al rapimento dei ragazzi ebrei, senza che fosse mostrata almeno quella naturale compassione che nasce a livello personale. E’ questo il motivo per cui i palestinesi fondamentalmente ritengono che gli israeliani in particolare, ed il mondo in generale, li discriminino quando si parla di violenza.La violenza dei palestinesi merita di essere condannata, e i due responsabili per questa violenza, insieme a tanti che non erano responsabili di nulla, sono stati puniti con grande severità, anche se questa severità ha assunto la natura di una rappresaglia. Al contrario, la continua violenza israeliana – messa in atto dal governo perché si tratta di violenza perpetrata da un governo straniero, dall’esercito e da privati cittadini come i coloni – non solo non viene punita, ma viene anche raccontata. Non la chiamano nemmeno “violenza”, non è qualcosa che interessa gli israeliani e certamente non risveglia in nessuno un sentimento di identificazione con le vittime. Le vittime israeliane della violenza – che sono meno di quelle palestinesi – hanno tutte un nome e una faccia, sia in Israele che nel mondo. Le molte vittime palestinesi, quando va bene, entrano nel conto delle statistiche.Questa affermazione non è solo il punto di vista espresso su un editoriale, ma è alla base della vita quotidiana dei palestinesi. La loro mancanza di compassione in casi particolari, come questo, è la risposta dei palestinesi a questa loro discriminazione. Fintanto che non erano ancora stati trovati i corpi, molti palestinesi non credevano nemmeno che il rapimento fosse mai avvenuto. Per loro, il rapimento era stata tutta una invenzione per ostacolare il governo di unità nazionale palestinese, per annullare i risultati (secondo il punto di vista palestinese) della negoziazione per liberare il soldato rapito Gilad Shalit e per danneggiare Hamas. I palestinesi hanno creduto che il rapimento avrebbe solo portato vantaggi al governo di Benjamin Netanyahu, che il rapimento fosse stato solo un artifizio diplomatico (per esempio, per giustificare il rifiuto europeo e americano e l’opposizione al governo di unità nazionale palestinese).Lo sciopero della fame dei palestinesi in detenzione amministrativa in Israele aveva cominciato a fare eco sui media, e l’omicidio (omicidio, è la parola usata dai palestinesi) di due ragazzi palestinesi a Beitunia fatto dai soldati israeliani aveva rivelato le menzogne esistenti nel resoconto israeliano sull’incidente e l’assoluto imbarazzo delle autorità israeliane. Per un po’, questo aveva fatto sì che anche l’esercito e la polizia di frontiera – sia secondo i manifestanti che secondo i giornalisti – si comportassero in modo stranamente più moderato in presenza di alcune manifestazioni. Così, invece di chiedersi «chi è il palestinese che, con questo atto, è riuscito a vanificare tutti gli ultimi successi palestinesi», si sono tutti rifugiati nelle teorie della cospirazione.Questo atteggiamento ha impedito che qualsiasi discussione pubblica portasse ad una conclusione diversa: non solo non esiste nessuna strategia palestinese unificata, ma è stato dimostrato ancora una volta che, anche all’interno di Hamas, non c’è nemmeno un coordinamento tra tattica e strategia. Il rapimento mette in pericolo il nuovo governo e va contro gli interessi del leader di Hamas e di molti rami del movimento. In questo momento c’era un immediato bisogno del governo di unità nazionale, per sopravvivere alla crisi e riuscire a pagare gli stipendi ai dipendenti di Hamas a Gaza e, a lungo termine, per sbarazzarsi del peso della cronica crisi economica creata dal blocco israeliano. Eppure, anche quelli che erano furiosi – soprattutto nel partito Fatah – contro quegli attori locali che hanno pianificato e messo in atto il rapimento, sono stati costretti a reprimere i loro sentimenti di rabbia alla luce dell’assalto israeliano lanciato contro una parte tanto grande della popolazione palestinese.Altri, tra cui gli oppositori di Hamas, stavano aspettando il momento in cui i rapitori avrebbero dettato le condizioni per la restituzione degli ostaggi (vivi). Nello sbilanciamento di potere tra palestinesi e israeliani, il rapimento è visto come uno strumento legittimo. Gli assassini dovevano aver previsto che i ragazzi rapiti restassero vivi, ma qualcosa è andato storto e questo attesta il dilettantismo e la mancanza di una preparazione adeguata. Ma un dubbio resta sempre vivo: Hamas non ripudia mai pubblicamente chiunque dei suoi membri fallisca o abbia agito di propria iniziativa. In questa atmosfera, quei palestinesi che credono che sia sbagliato uccidere dei ragazzi israeliani inermi, anche se sono coloni o se studiano negli insediamenti, non osano dirlo ad alta voce.Dopo che i palestinesi sono stati costretti ad ammettere che gli israeliani rapiti non erano dei soldati armati, ma solo ragazzi, più volte hanno voluto sottolineare che, comunque, erano dei coloni. Tra i palestinesi, l’opinione prevalente è che gli attacchi contro i coloni siano giustificati, e che dovrebbe essere fatta una distinzione tra i coloni e i cittadini israeliani che vivono al di là della Linea Verde. Un uomo, che dice che non sarebbe mai capace di uccidere personalmente un colono, ha dichiarato che l’attacco a questi coloni è stato interpretato come un segnale lanciato agli israeliani, per far capire che non dovrebbero mandare i propri figli in Cisgiordania, che in quel posto non dovrebbero sentirsi al sicuro, che dovrebbero sapere che la loro presenza significa una spoliazione per i palestinesi. E’ molto dubbio che questo possa essere stato il messaggio che avrebbero voluto mandare quelli che hanno rapito e ucciso i tre ragazzi. Quel che è certo, però, è che al momento non c’è nessun dibattito interno tra i palestinesi sul fatto se l’omicidio sia effettivamente servito per questo obiettivo.(Amira Haas, “I palestinesi reagiscono con indifferenza all’assassinio dei tre ragazzi israeliani”, editoriale pubblicato sul quotidiano israeliano “Haarez” il 2 luglio 2014, tradotto da Bosque Primario per “Come Don Chisciotte”).Il rapimento e l’omicidio dei tre studenti yeshiva della West Bank è stato interpretato dai palestinesi come un altro incidente in una routine di violenza, di cui Israele è il primo responsabile. Non c’è stata nemmeno una scintilla che somigliasse ad una opposizione o a una protesta, ma non c’è stata nemmeno una scintilla a favore del rapimento, nessuno che abbia chiesto “di più”. Migliaia di famiglie palestinesi sono rimaste per due settimane sotto il rullo del compressore militare israeliano, senza che ci fosse un solo motivo che collegasse questa gente al rapimento dei ragazzi ebrei, senza che fosse mostrata almeno quella naturale compassione che nasce a livello personale. E’ questo il motivo per cui i palestinesi fondamentalmente ritengono che gli israeliani in particolare, ed il mondo in generale, li discriminino quando si parla di violenza.
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Mosul, dalla Siria con furore: l’Isil-Cia e il fantasma Blair
Tony Blair, il Fantasma dell’Opera – una tragedia infinita chiamata Medio Oriente. Per Pepe Escobar, il Fantasma è tornato, ispirando la guerriglia in Iraq. Il fatto che Blair «continui a gironzolare con la sua sequela di intricate menzogne, invece di starsene a marcire in qualche hotel di lusso», secondo il giornalista di “Asia Times” «ci sbatte in faccia tutto ciò che dobbiamo sapere circa le cosiddette “élite” occidentali, delle quali è un fedele, e ragguardevolmente ricompensato, servo». Tutto, nella regione, è precipitato con l’operazione “shock and awe”, la guerra del 2003 per uccidere Saddam Hussein sulla base di invenzioni (le armi di distruzioni di massa, inesistenti). Guerra promossa da Blair insieme a “Dubya” Bush. «Il Fantasma aveva sempre desiderato che l’amministrazione Obama bombardasse la Siria, così come aveva spinto affinchè “Dubya” distruggesse l’Iraq». La logica del Fantasma, continua Escobar, non aveva previsto che lo stesso Isil creato a Damasco (Stato Islamico dell’Islam e del Levante) ora si sarebbe spinto verso Baghdad.Proprio l’influente Blair, lo statista più amato da Renzi, continua a elargire lo stesso sanguinoso regalo, «la Guerra al Terrore, eternamente riciclata e riconfezionata, della quale il Fantasma è stato il primo sostenitore, che si tira dietro l’ultima moda Usa che bolla l’Isil come la personificazione di un nuovo 11 Settembre». Dato che Blair «sperava in Damasco come ripetizione del 2003 di Baghdad», se la logica dei bombardamenti avesse avuto la meglio in Siria, oggi Aleppo sarebbe una replica di Mosul, continua Escobar in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «Più ci si addentra, più il Fantasma sembra l’erede degli – altrettanto spiazzati – comandanti britannici nell’Afghanistan degli anni ’90». Escobar ricorda le involontarie conseguenze dei bombardamenti Usa del 2001 in Afghanistan, con Hazaras (sciiti afghani) fianco a fianco con gli iraniani, insieme all’esercito siriano di Bashar al Assad, contro i “ribelli” siriani «sostenuti dal Fantasma». Nemmeno Peter Mandelson, “signore dell’oscurità”, e mente politica del “New Labour” di Blair, «avrebbe potuto giustificare una cosa del genere».In ogni caso, prosegue Escobar, «il Fantasma è sempre stato convinto della “malvagità” dell’Iran, “avvertendo” costantemente che Teheran era sul punto di assemblare un’arma nucleare (vecchie abitudini – come per la sindrome di Saddam – dure a morire)». Stupito come Dick Cheney, il vecchio Blair, quando Washington e Teheran erano sul punto di discutere a Vienna una sorta di fronte comune per combattere l’Isil in Iraq e addirittura “super-falchi” come il senatore repubblicano Lindsey Graham affermare le impensabili parole «avremo probabilmente bisogno dell’aiuto [dell’Iran] per tenere Baghdad». Secondo Escobar, nonostante la pericolosità di Blair «non c’è alcuna strategia di fondo, nessun piano anglo-statunitense a lungo termine di politica estera in quello che il Pentagono chiama ancora “arco di instabilità”». O con noi o con i terroristi, era il motto di Bush. Peccato che in Libia e in Siria l’Occidente era schierato proprio coi terroristi islamici, secondo la filosofia del “divite et impera”.Washington, continua Escobar, ha ammesso di star inviando “assistenza” letale ai ribelli “moderati” in Siria (come, in teoria, i sicari del Fronte Islamico, non l’Isil o Jabhat al Nusra), «come se gli asset holliwoodiani della Cia non sapessero che queste armi saranno sicuramente vendute ai jihadisti più estremi – o rubate da loro». L’Isil nel deserto senza confini tra Siria e Iraq è già un proto-califfato. Armare i cosiddetti “moderati”? «Non ci sono “moderati”, come non c’erano Talebani “moderati”». Lo scenario sarà quindi ulteriormente destabilizzato: «Delle vittime fanno parte i curdi in Siria, Iraq, Turchia e Iran, i turkmeni in Iraq (come sta già avvenendo questa settimana) e ovviamente i cristiani in ogni nazione (come è già successo in Siria)». Il Fantasma? «Ora sta pregando gli Stati Uniti per un “intervento” in Iraq: prima li affami, poi li bombardi fino a una devastazione che chiamerai “democrazia” e li occupi, poi infesti il tutto di jihadisti, che poi scacci, poi gli jihadisti scatenano l’inferno (425 milioni di dollari rubati da una cassaforte governativa a Mosul, oltre a un sacco di soldi presi ai Wahabiti del Golfo per comparsi tutte quelle Toyota e quegli Rpg), poi li rioccupi lentamente. Questo è il regalo che continua ad essere distribuito».Altro scialo di retorica bugiarda, diffusa da Blair e dai neocon statunitensi: l’Isil «una minaccia per la sicurezza dell’Occidente», parole di Kerry. Ridicolo: «E’ uno scherzo enorme quanto la massa di satelliti incapaci di tracciare una colonna di Toyota bianche che avanzano nel bel mezzo del deserto iracheno – dirette verso la distruzione di quattro divisioni dell’esercito. Le hanno viste, le hanno seguite e hanno fatto finta di nulla, come insegna il libro degli schemi dell’impero del caos. Perchè non spingere il “divide et impera” tra sunniti e sciiti? Lasciamoli mangiare i cadaveri – e uccidersi tra di loro, come nella guerra pluriennale tra Iran e Iraq». La spinta dell’Isil è un remix della guerra civile tra sunniti e sciiti nel 2006 e 2007, i cui effetti, prima dell’invasione Usa, Escobar ha documentato nel reportage “Red Zone Blues”. «Il Fantasma, tuttavia, ha ottenuto ciò che voleva; l’Iraq è a pezzi, irrimediabilmente frammentato», e i curdi hanno preso il controllo del petrolio di Kirkuk.Conclude Escobar: «Il “medio oriente” – di fatto il sudest asiatico – è una finzione occidentale imposta dal potere coloniale alle popolazioni locali. Quello che il Pentagono descrive fin dagli anni 2000 come l’“arco di instabilità” è un sistema anarchico che si autoalimenta, con alcuni scampoli di “pace” rappresentati dalle petro-monarchie meglio conosciute come Consigli di Cooperazione del Golfo (dopotutto abbiamo bisogno del “nostro” petrolio). A seguire c’è il lento e inevitabile processo di integrazione eurasiatico, lungo la miriade di nuove vie della seta che fanno riferimento alla Cina. Questa è una maledizione per l’impero del caos e i suoi leccapiedi, per cui il sudest asiatico in perenne caos è più che apprezzato». E dato che c’è sempre di mezzo anche il Fantasma di Tony Blair, «l’arrogante ectoplasma», aspettiamoci pure un bell’aumento dei carburanti da aggiungere «a questo mescolone occidentale già abbastanza delirante».Tony Blair, il Fantasma dell’Opera – una tragedia infinita chiamata Medio Oriente. Per Pepe Escobar, il Fantasma è tornato, ispirando la guerriglia in Iraq. Il fatto che Blair «continui a gironzolare con la sua sequela di intricate menzogne, invece di starsene a marcire in qualche hotel di lusso», secondo il giornalista di “Asia Times” «ci sbatte in faccia tutto ciò che dobbiamo sapere circa le cosiddette “élite” occidentali, delle quali è un fedele, e ragguardevolmente ricompensato, servo». Tutto, nella regione, è precipitato con l’operazione “shock and awe”, la guerra del 2003 per uccidere Saddam Hussein sulla base di invenzioni (le armi di distruzioni di massa, inesistenti). Guerra promossa da Blair insieme a “Dubya” Bush. «Il Fantasma aveva sempre desiderato che l’amministrazione Obama bombardasse la Siria, così come aveva spinto affinchè “Dubya” distruggesse l’Iraq». La logica del Fantasma, continua Escobar, non aveva previsto che lo stesso Isil creato a Damasco (Stato Islamico dell’Islam e del Levante) ora si sarebbe spinto verso Baghdad.
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Sternhell: basta apartheid, il mondo libero isoli Israele
Chiedere ad Abu Mazen di riconoscere Israele come Stato ebraico significa pretendere che i palestinesi ammettano la loro sconfitta storica e riconoscano la proprietà esclusiva degli ebrei del paese. Ciò che si chiede loro è rinnegare la loro identità nazionale, accettando una resa storico-culturale prima ancora che politica. Ciò che mi preoccupa di più è l’idea di “pace” che oggi permea trasversalmente Israele: un’idea diventata senso comune per la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana. E’ qualcosa di più e di più grave di una idea di pace a costo zero. E’ la convinzione che l’unica pace accettabile sia la resa incondizionata dei palestinesi. Se si chiede a un cittadino medio israeliano se è per la pace o per la guerra, risponderà pronto che lui vuole la pace. Ma la “psicologia di una nazione” emerge quando si scava nell’idea di pace. E’ qui che si nasconde l’arretramento. Una pace senza giustizia è un esercizio retorico destinato a un misero fallimento.La giustizia, in questo caso, è tale se riconosce e rispetta i diritti di tutti e non solo di chi esercita il monopolio della forza. Nel mio paese chi si considera di sinistra evoca spesso la necessità di battersi per la giustizia sociale. Ma come è possibile realizzare la giustizia sociale senza definire la giustizia come un valore universale? Quali sono i confini della giustizia e della sua attuazione? Questo ci riporta all’ occupazione. La giustizia non è solo il diritto a un alloggio decente per gli ebrei, è anche il diritto alla libertà per un popolo che vive sotto occupazione. Prima che in politica, la sinistra ha perso la sua battaglia nel campo della cultura, del confronto di visioni. A 68 anni dalla nascita d’Israele, ad affermarsi sembra essere il revisionismo sionista di Jabotinsky, quello che affida a Israele una sorta di ruolo “messianico”, da popolo eletto; una idea per cui a essere centrate è “Eretz Israel”, la sacra Terra d’Israele, piuttosto che “Medinat Israel”, lo Stato d’Israele.In questa visione lo Stato non esiste per garantire la democrazia, l’uguaglianza, i diritti umani o anche una vita dignitosa a tutti; esiste per garantire il dominio ebraico sulla Terra di Israele e per assicurarsi che nessuna entità politica supplementare è qui stabilita. Tutto è ritenuto lecito per raggiungere tale fine, e nessun prezzo è considerato troppo elevato. Ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con la “modernità”. Inesorabilmente Israele si sta trasformando sempre più in una entità anacronistica. Uno Stato di apartheid? Non si tratta di un rischio, è qualcosa che già si sta determinando nella realtà quotidiana, negli atti compiuti dalle autorità e nella percezione di sé e dell’altro che ne è il tratto ideologico: l’idea per cui se il palestinese, o l’arabo israeliano, vuol essere “tollerato” deve accettare la propria inferiorità. Quello che così facendo si è creato è un “popolo di espropriati”. Espropriati non solo delle loro terre ma della loro identità, del loro essere più profondo.Purtroppo, la strada per il Sudafrica è stata pavimentata, e potrà essere smantellata solo se il mondo libero, l’Occidente, porrà Israele di fronte a un aut-aut: fermare l’annessione e smantellare la maggior parte delle colonie e lo stato dei coloni, o essere emarginato. Fuori e dentro Israele è aperto da tempo un dibattito sul boicottaggio dei prodotti che provengono dagli insediamenti. Il boicottaggio è soprattutto un modo civile, non violento ma concreto, per protestare contro il colonialismo e l’apartheid prevalente nei Territori. Una tesi condivisa da molti intellettuali israeliani. E’ un bene che sia così, ed è un bene per Israele, per la sua immagine nel mondo. Gli intellettuali israeliani sono i migliori ambasciatori del sionismo, ma rappresentano la società israeliana, non la realtà coloniale. Pensano che calpestare i diritti dei palestinesi in nome dei nostri diritti esclusivi per la terra, e in virtù di un decreto divino, contamini la storia ebraica di una macchia indelebile.C’è chi vede proprio nel sionismo la radice ideologica e l’esperienza politica “fatta Stato” che è alla base dell’espansionismo israeliano, ma non è così: questa è una caricatura del sionismo, o comunque ne è una traduzione politica strumentale, in alcuni casi funzionale ad ammantare di idealità positiva una pratica intollerabile. Il sionismo si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno. Questi diritti naturali dei popoli valgono per tutti, inclusi i palestinesi. Resto fermamente convinto che il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Purtroppo, gli insediamenti realizzati dopo la guerra del ’67 oltre la Linea Verde rappresentano la più grande catastrofe nella storia del sionismo: hanno creato una situazione coloniale, proprio quello che il sionismo voleva evitare. Da questo punto di vista, per come è stata interpretata e per ciò che ha innescato, la Guerra dei Sei Giorni è in rottura e non in continuazione con la Guerra del ’48. Quest’ultima fondò lo Stato d’Israele, quella del ’67 si trasformò, soprattutto per la destra ma non solo per essa, da risposta di difesa ad un segno “divino” di una missione superiore da compiere: quella di edificare la Grande Israele.(Zeev Sternhell, dichiarazioni rilasciate a Umberto De Giovannangeli per un’intervista pubblicata da “L’Unità” e ripresa dal blog di Gad Lerner il 5 maggio 2014. Sternhell,79 anni, è considerato il più autorevole storico israeliano, insignito nel 2008 dal Premio Israele per le Scienze Politiche, massima onorihicenza culturale del paese. Tra le sue opere, “Nascita d’Israele. Miti, storia, contraddizioni”).Chiedere ad Abu Mazen di riconoscere Israele come Stato ebraico significa pretendere che i palestinesi ammettano la loro sconfitta storica e riconoscano la proprietà esclusiva degli ebrei del paese. Ciò che si chiede loro è rinnegare la loro identità nazionale, accettando una resa storico-culturale prima ancora che politica. Ciò che mi preoccupa di più è l’idea di “pace” che oggi permea trasversalmente Israele: un’idea diventata senso comune per la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana. E’ qualcosa di più e di più grave di una idea di pace a costo zero. E’ la convinzione che l’unica pace accettabile sia la resa incondizionata dei palestinesi. Se si chiede a un cittadino medio israeliano se è per la pace o per la guerra, risponderà pronto che lui vuole la pace. Ma la “psicologia di una nazione” emerge quando si scava nell’idea di pace. E’ qui che si nasconde l’arretramento. Una pace senza giustizia è un esercizio retorico destinato a un misero fallimento.
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I grandi ladri dell’élite mondiale: uno scandalo al giorno
Siamo dei principianti. In tema di stecche, tangenti, corruzione, mazzette siamo dei principianti. Questa settimana sembrava essere andata alla grande. Si parte con il milioncino dell’Expo, si passa per i finanzieri Magnoni, addirittura si pizzica Nanni Bazoli con i suoi amici bresciani e poi Giampiero Pesenti e la barca con lo sconto grazie al leasing dell’Ubi. Come sempre si propongono nuove leggi e maggiori pene. Ma non ci siamo. Bastava sfogliare il “Financial Times” di questa settimana e accorgersi che, rispetto al resto del mondo, siamo dei dilettanti. Occorre imparare. A smazzettare, si intende. Lunedì si parte con Barclays. Ancora, qualche informato potrà dire. Eh sì: altro che Greganti e Frigerio. Fu la prima a cadere in “tassi puliti” e confessare. Questi galantuomini un paio di anni fa si misero a truccare il Libor, i tassi di interesse interbancari, in combutta con altri soci (Royal Bank of Scotland, Société Générale, Credit Agricole, Hsbc, Jp Morgan, Citigroup, Deutsche Bank e Ubs), ammisero la colpa, fecero fuori i loro capi e fecero pagare ai propri azionisti complessivamente un paio di miliardi in multe.Ebbene, lunedì scopriamo che la medesima banca avrebbe allungato circa 400 milioni di commissioni a un suo azionista per evitare il fallimento. Le autorità inglesi indagano. Ma non finisce qui. Questa volta è il procuratore generale di New York a prendere di mira Barclays (con Goldman Sachs e Credit Suisse). È un’inchiesta delicatissima sugli scambi ad alta frequenza e su piattaforme (su cui si scambiano titoli) piuttosto oscure. Per darvi un’idea, sul mercato italiano (nonostante la Tobin tax, inutile anche su questo) circa il 22 per cento degli scambi si svolge in queste forme. Manipolare tassi di interesse e scambi sul mercato, per un’istituzione finanziaria, è il peccato peggiore che si possa immaginare. Non è un caso, la notizia è di ieri, che il mercato dell’argento nato a Londra 117 anni fa, il prossimo 14 agosto chiude battenti: chi si fida di questi trader?Martedì scopriamo che Bnp Paribas, una delle principali banche francesi, e il solito Credit Suisse, sono nuovamente nei guai con gli americani. I francesi rischiano una multarella da 3,5 miliardi (praticamente l’Imu sulla prima casa). Mica un fulmine a ciel sereno: a Parigi si aspettavano una sanzione da un miliardino. Triplicata. I banchieri avrebbero fatto affari con paesi sotto embargo, e avrebbero continuato a farlo anche quando pizzicati dalle autorità americane. Si tratterebbe della multa più alta mai pagata da una banca in America. Il record, di due anni fa, era di Hsbc che versò 1,2 miliardi per aver riciclato i dollari dei narcotrafficanti. Il quel caso, visto che si raggiunse un accordo con il dipartimento di giustizia, venne coniato il termine (solo per le tangenti bancarie anglosassoni): “too big to jail”, troppo grandi per la galera. Il ministro delle finanze francese si è presentato in America per fare lobby, ma il procuratore generale lo ha spaventato e in un video ha detto che nessuna banca è più “too big to jail”. Si è dimenticato del passato.Mercoledì c’è poco da segnalare. Non vorrete commentare Bernie Ecclestone. Il boss della F1 si presenta al tribunale di Monaco con aereo privato, limo, traduttrice privata, stuolo di avvocati e parcheggia nel sotterraneo riservato ai giudici. Con questa pattuglia di assistenti ascolta il suo accusatore che la spara: Bernie mi ha offerto una mazzetta di 80 milioni di dollari per cedere la sua quota della F1. E mi ha anche spiegato che conveniva farlo a Singapore, perché si tratta di un porto sicuro: non paghi le tasse e non ti beccano. Peanuts. Bernie prende il suo jet e se ne va: altro che Maltauro. Giovedì ci si diverte. I giudici cinesi mettono sotto accusa l’inglese Gsk. Il colosso farmaceutico avrebbe pagato stecche a non finire su tutto il territorio cinese, per vendere i suoi medicinali al prezzo otto volte superiore al resto del mondo. Già sentita questa storia. L’indagine va avanti da 10 mesi. Il gruppo licenzia alcuni manager di vertice. Nell’ultimo trimestre del 2013 Gsk, vede crollare le vendite in Cina quasi del 30%. Le autorità parlano di «corruzione su larga scala».Ma torniamo alle nostre banchette. Proprio nel giorno delle indagini su Bazoli & Pesenti, scopriamo che una delle più grandi istituzioni americane, Citi, licenzia 11 dirigenti chiave in Messico. Avrebbero prestato 400 milioni di dollari, grazie all’emissione di fatture false e senza vedere indietro il becco di un quattrino. Poca roba rispetto all’indagine aperta contemporaneamente in Massachusetts, sulla medesima controllata di Citi in Messico, per un’ipotesi di riciclaggio del narcotraffico. Venerdì scopriamo, sempre sulla prima pagina del “Ft”, che il capo di Deutsche Bank se la prende con i propri trader. Invia loro una mail dicendo di non dire più parolacce. «È tutto registrato e al prossimo scandalo (del genere manipolazione tassi di interesse) farebbe molto male alla reputazione della banca, vedere il linguaggio scurrile con cui parlate» è più o meno il senso della richiesta.Venerdì è un giorno buono per la stampa specializzata in corruzione, cioè quella finanziaria. Ci sono i broker americani che pagano prostitute per i propri clienti, c’è la casa automobilistica che non cambia elettronica difettosa e potenzialmente mortale, c’è il tycoon brasiliano che vende le sue azioni il giorno prima del fallimento e nessuno lo può toccare. Insomma c’è, come sempre, di tutto. Resta il fatto che siamo dei dilettanti. Ma dei professionisti nel pensare presuntuosamente di essere peggio di tutti al mondo.(Nicola Porro, “Stecche e tangenti? All’estero sì che ci sanno fare”, dal blog di Porro su “Il Giornale” del 19 maggio 2014).http://www.ilgiornale.it/news/interni/stecche-e-tangenti-allestero-s-che-ci-sanno-fare-zuppa-porro-1020294.htmlSiamo dei principianti. In tema di stecche, tangenti, corruzione, mazzette siamo dei principianti. Questa settimana sembrava essere andata alla grande. Si parte con il milioncino dell’Expo, si passa per i finanzieri Magnoni, addirittura si pizzica Nanni Bazoli con i suoi amici bresciani e poi Giampiero Pesenti e la barca con lo sconto grazie al leasing dell’Ubi. Come sempre si propongono nuove leggi e maggiori pene. Ma non ci siamo. Bastava sfogliare il “Financial Times” di questa settimana e accorgersi che, rispetto al resto del mondo, siamo dei dilettanti. Occorre imparare. A smazzettare, si intende. Lunedì si parte con Barclays. Ancora, qualche informato potrà dire. Eh sì: altro che Greganti e Frigerio. Fu la prima a cadere in “tassi puliti” e confessare. Questi galantuomini un paio di anni fa si misero a truccare il Libor, i tassi di interesse interbancari, in combutta con altri soci (Royal Bank of Scotland, Société Générale, Credit Agricole, Hsbc, Jp Morgan, Citigroup, Deutsche Bank e Ubs), ammisero la colpa, fecero fuori i loro capi e fecero pagare ai propri azionisti complessivamente un paio di miliardi in multe.
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I denti degli oligarchi: a Biden junior il gas dell’Ucraina
R. Hunter Biden, figlio del vicepresidente Usa, Joe, ha ereditato dal padre un numero incredibile di denti. Con questi ci sorride energicamente dalle sue foto ufficiali. Ora ci informano che quei denti azzannano una delle più ambite poltrone dell’Ucraina, facendo di lui uno dei nuovi padroni della Kiev post-golpista. Biden il Giovane si è infatti da poco insediato nel consiglio di amministrazione della più importante compagnia ucraina di estrazione del gas, la Burisma, con i pozzi in Europa e la sede a Cipro, dove la controlla un’altra impresa off-shore di diritto cipriota, la Brociti Investments Ltd. Vedremo poi dove vanno le tracce. Durante il volo che lo ha portato dai cieli dell’élite statunitense alle alte sfere dell’oligarchia di un paese post-sovietico, il rampollo americano ha potuto anche lui riflettere su come è cambiata la parola oligarca.Sino a vent’anni fa l’oligarca era un generico esponente di un sistema di governo che poche persone imponevano a tutti. L’oligarca post-sovietico è invece una cosa più specifica: è un uomo d’affari che ha arraffato – mentre occupava una posizione dominante derivante dalla politica – le immense ricchezze pubbliche tratte dalla selvaggia privatizzazione dell’economia sovietica dopo il crollo dell’Urss. Questo tipo umano è ormai l’unico a essere etichettato come oligarca. La russofobia che regna nel discorso pubblico occidentale fa il resto: a est, anzi, in Russia, ci sono oligarchi; da noi, invece, sani imprenditori di specchiata virtù che mai oserebbero spolpare una nazione. Come definire altrimenti un De Benedetti. Pazienza se moltissimi oligarchi russi, prima di decidere se appoggiare o combattere la nuova “verticale del potere” di Putin, siano stati per prima cosa delle creature occidentali.Ma Hunter Biden è lì a ricordarci, con il suo cursus honorum e i suoi denti, stretti su un cucchiaio d’argento, che gli oligarchi esistono anche qui a Ovest, e prosperano e frequentano tutti i corridoi che portano alle stanze del denaro, dei governi, dell’intelligence. Con una colossale excusatio non petita, a Washington ci provano lo stesso a dircelo: secondo loro, le entrature nel governo, per il figlio del numero due della Casa Bianca non contano. E pertanto Biden ha ottenuto la sua carica nella lontana colonia europea solo per via del suo curriculum. Se i fatti ci dicono altro, è colpa nostra, che siamo prevenuti. È solo una coincidenza, infatti, che il 21 aprile Biden il Vecchio porti la sua dentatura a Kiev per dettare i suoi voleri, e che proprio negli stessi giorni Biden il Giovane diventi l’homo americanus dell’azienda più strategica del paese, in piena battaglia del gas.Il sospetto è che laggiù servisse uno sperimentato oligarca, appunto, che facesse da ufficiale di collegamento fra l’oligarchia locale e gli ottimati di Washington. E il dottor Hunter Biden aveva davvero il curriculum giusto per questo compito urgente: carriera universitaria presso le più prestigiose ed elitarie università private, e poi un impressionante lavoro di interconnessione interno e internazionale fra multinazionali, organizzazioni non governative imbevute di valori (soldi) governativi, uffici legali di super-lobbisti, ecc. Soprattutto, Hunter Biden è uno dei più stretti collaboratori del presidente del National Democratic Institute for International Affairs (Ndi), un’organizzazione creata dal governo Usa come emanazione del National Endowment for Democracy (Ned) per canalizzare contributi e donazioni miranti a «rafforzare la democrazia» in 125 diverse nazioni. Cioè un elemosiniere politico, una delle fabbriche delle rivoluzioni colorate di mezzo mondo, presieduta nientemeno che da Madeleine K. Albright, ex segretario di Stato ai tempi di Clinton e del bombardamento della Serbia. È quella stessa personalità politica che disse in Tv che mezzo milione di bambini morti per l’embargo in Iraq erano stati «un prezzo giusto», e ne era valsa la pena («the price is worth it?»).Biden si sceglie buone compagnie. Sempre assieme alla Albright, è fra gli amministratori del Truman National Security Project, un centro di formazione che impiega ingenti risorse per forgiare intere leve di esponenti politici progressisti intorno ai temi della sicurezza nazionale. Quando sentite qualche vago esponente di sinistra che parla bene della guerra, sappiate da dove viene imbeccato. Secondo Hunter Biden, il proprio compito a Kiev consisterà nel dare buoni consigli su «trasparenza, corporate governance e responsabilità, espansione internazionale e altre priorità» al fine di contribuire, nientemeno, «all’economia e al benessere del popolo ucraino». Sembra di sentire le stesse parole pronunciate nel 2003 per l’Iraq da Paul Bremer, il governatore coloniale insediato dal presidente George W. Bush quando invase e devastò quel paese. Ma mentre gli imperialisti repubblicani avevano una concezione rudimentale dell’“esportazione della democrazia”, la gente dell’Ndi è più duttile, perché afferma che «l’Ndi non presume di imporre soluzioni né ritiene che un sistema democratico si possa replicare da qualche altra parte». Semmai, l’Ndi «condivide esperienze e offre una serie di opzioni in modo che i leader possano adattare quelle pratiche e istituzioni che possano lavorare meglio nel loro proprio ambiente».“Adattare” è dunque la parola chiave. E gli imperialisti democratici americani in Ucraina si sono “adattati” così bene da allearsi con partiti fascistoidi e formazioni paramilitari naziste. Si tratta di un’alleanza scandalosa che non imbarazza minimamente gli esponenti del Partito Socialista Europeo. Come non scandalizza nemmeno il plurimiliardario Ihor Kolomyski, fondatore della European Jewish Union, doppia cittadinanza ucraina e israeliana, co-proprietario della banca Privat e di diverse società che hanno individuato grosse riserve di gas naturale proprio nelle zone ucraine in cui si combatte. Un’inchiesta di “Forbes” ha descritto molto bene il modo in cui Kolomyski ha fatto fortuna: «Kolomyski ha usato delle forze “quasi-militari” della banca Privat per far valere l’acquisizione ostile di aziende, arruolando un gruppo di “teppisti, armati di mazze da baseball, spranghe di ferro, gas e pistole con proiettili di gomma e motoseghe” per prendersi con la forza un impianto siderurgico a Kremenchuk nel 2006 e ha usato “un mix di ordini del tribunale fasulli (spesso per mano di giudici e/o cancellieri corrotti) e di maniere forti” per sostituire amministratori nei consigli di amministrazione delle società delle quali acquistava le partecipazioni».Si vede che a “Forbes” non hanno molta dimestichezza con la cronaca antimafia, che userebbe invece concetti più brevi per descrivere il profilo criminale di un siffatto personaggio. Il presidente golpista Turchynov, a ogni buon conto, lo ha nominato governatore dell’Oblast di Dnipropetrovsk, una regione confinante con i punti caldi della rivolta dei russi d’Ucraina. Kolomyski ha promesso «una taglia per chi catturi militanti sostenuti dai russi e ricompense per chi depone le armi». Questo magnate della finanza e del gas – fra un impegno di cosca e l’altro – sarà uno di quei campioni di «trasparenza, corporate governance e responsabilità» con cui dovrà interloquire Mister Biden jr. Qui c’è un punto ancora più interessante.Il sito di documentazione anticorruzione ucraino (AntAc), d’ispirazione alquanto americana, nel 2012 ha tentato di ricostruire a chi possa appartenere davvero la Burisma, che si presenta come la faccia più alla luce del sole della catena proprietaria dell’impresa gasiera. Una volta che si muovono nel territorio finanziario off-shore, le tracce diventano più difficili, come in una caccia al tesoro mondiale.Abbiamo visto che la Burisma è controllata dall’entità cipriota Brociti Investments Ltd, che l’aveva rilevata dai precedenti proprietari, gli oligarchi Mykola Zlochevsky (ministro dell’energia del deposto presidente Janukovich) e Mykola Lisin (nel frattempo deceduto). Nello schema finanziario della vendita della Brociti sembra essere coinvolta un’altra grossa impresa del settore degli idrocarburi, la Ukrnaftoburinnya. Se vogliamo sapere chi possiede Ukrnaftoburinnya, le tracce ritornano a Cipro, dove il 90% della società sta in pancia alla Deripon Commercial Ltd. Qua dobbiamo fare un volo più lungo, perché la Deripon è controllata a sua volta da una holding delle Isole Vergini britanniche, la Burrad Financial Corp. Laggiù la nebbia, ancorché ai tropici, diventa fittissima. Ma il nome della Burrad non è tuttavia insignificante, perché ricorre in svariate inchieste che ricostruiscono le operazioni finanziarie gestite dalla banca Privat. Cioè la banca di Ihor Kolomyski.Per “Forbes”, comunque, resta probabile che il proprietario sia ancora Zlochevsky (con possibile suo doppio gioco). Lo so, vi siete persi. E anche io. Ma provo a riassumere. Kolomyski, tramite società off-shore, era il dominus della Burisma, la più importante impresa estrattiva del gas in Ucraina, in cui ora si impegna in prima persona quel dentone di Hunter Biden. Kolomyski l’ha ufficialmente ceduta, grazie a uno schema finanziario che gli era familiare, a un’impresa off-shore di cui perdiamo le tracce dei proprietari. Nello stesso tempo Kolomyski è diventato un’autorità politica territoriale di riferimento per le aree in cui si presume la presenza di grandi riserve di gas in mano alla società di cui è amministratore Biden. L’Ucraina, grazie alle nuove tecnologie estrattive per gli idrocarburi sviluppate negli ultimi anni dagli Usa, è ormai un centro di attrazione per esplorazioni e sfruttamento di nuove aree. La coltivazione di questi giacimenti – ora pienamente sfruttabili nell’orbita nordamericana – minaccia apertamente la posizione dominante di Gazprom, ossia l’architrave energetica della rinata potenza russa.Il fatto che il cuore del potere Usa si scomodi per gestire così da vicino la pratica del gas inviando il figlio del vicepresidente conferma la crescente rilevanza politica di questa partita. Solo la subalternità, la ricattabilità e le misere ambizioni sub-dominanti dei politici europei potevano consentire questo gioco. Non è un caso che l’altro eminente consigliere di amministrazione della Burisma – profilo tutto politico anche il suo – sia l’ex presidente della Polonia, Aleksander Kwaśniewski, un campione di ingerenza atlantista (e polacca) in Ucraina. Il portavoce del Cremlino fa ironia, mentre dichiara di non vedere un conflitto d’interesse nel ruolo di Biden. «In fondo, come tutti sanno, non c’è nessun gas in Ucraina. Il gas in Ucraina è russo». E mostra i denti. I suoi.R. Hunter Biden, figlio del vicepresidente Usa, Joe, ha ereditato dal padre un numero incredibile di denti. Con questi ci sorride energicamente dalle sue foto ufficiali. Ora ci informano che quei denti azzannano una delle più ambite poltrone dell’Ucraina, facendo di lui uno dei nuovi padroni della Kiev post-golpista. Biden il Giovane si è infatti da poco insediato nel consiglio di amministrazione della più importante compagnia ucraina di estrazione del gas, la Burisma, con i pozzi in Europa e la sede a Cipro, dove la controlla un’altra impresa off-shore di diritto cipriota, la Brociti Investments Ltd. Vedremo poi dove vanno le tracce. Durante il volo che lo ha portato dai cieli dell’élite statunitense alle alte sfere dell’oligarchia di un paese post-sovietico, il rampollo americano ha potuto anche lui riflettere su come è cambiata la parola oligarca.
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Odio nucleare: era Israele il peggior nemico di Kennedy
Natural born killers, assassini nati. Tesi più che ardita, ma storicamente supportata da prove: cinque diversi primi ministri israeliani, prima di approdare alla politica, si erano fatti le ossa nel terrorismo sionista, firmando omicidi e stragi, per poi passare al Mossad. Perché mai non avrebbero potuto organizzare proprio loro l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, ovvero il più grande mistero irrisolto – dopo cinquant’anni – nella storia americana del secolo scorso? Se lo domanda Said Alami su “Rebelion”, citando nuovi dossier desecretati e libri-denuncia come “Final Judgment, the Missing Link in the Jfk assassination controversy”, del giornalista investigativo Michael Collins Piper. La tesi esplora un possibile movente: la centrale nucleare semi-clandestina che Israele stava allora costruendo a Dimona, nel deserto del Neghev, con tecnologia francese. Kennedy, molto contrariato, fece scendere il gelo sui rapporti con Tel Aviv. Ma non aveva calcolato che la Cia – con la quale era in guerra – era largamente infiltrata dal Mossad.La teoria secondo sui sarebbe stata proprio la Cia ad assassinare Kennedy si basa sulla profonda inimicizia che regnava tra Jfk e l’intelligence, dopo che il presidente si era rifiutato di sostenere militarmente l’agenzia durante l’invasione della Baia dei Porci nel 1963, fallita poi miseramente, causando il rafforzamento del regime rivoluzionario di Fidel Castro a Cuba. Stanco degli eccessi della Cia, Kennedy confidò al suo collaboratore Clark Clifford di voler smantellare la Cia in mille pezzi. E Israele, attraverso i suoi uomini nell’agenzia di Langley, era a conoscenza di questi rapporti di tensione tra Kennedy e l’intelligence, scrive Alami in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Possibile manovalanza dell’omicidio messo a segno a Dallas il 22 novembre 1963, la vasta rete criminale facente capo al gangster Meyer Lansky, boss della potentissima mafia ebraica negli Usa, anch’essa in stretto collegamento col servizio segreto israeliano.Le tensioni tra Usa e Israele cominciano tre anni prima dell’omicidio Kennedy, nel 1960, quando già il presidente uscente, Eisenhower, chiede spiegazioni al premier israeliano Ben Gurion sul misterioso impianto di Dimona, in pieno deserto. Gli israeliani mentono, sostenendo che si tratta di una innocua fabbrica tessile. La Cia però indaga fino a ottenere fotografie dell’installazione, classificate “top secret” ma poi pubblicate in prima pagina sul “New York Times”. Quando si insedia Kennedy, il 20 gennaio 1961, il caso Dimona è ormai diventato «un’autentica bomba a orologeria nelle relazioni fra Tel Aviv e Washington», ricorda Alami. La Casa Bianca aumenta le pressioni, e ottiene la prima ammissione: l’impianto in effetti è nucleare, ma “per scopi pacifici”. Kennedy allora rifiuta di invitare Ben Gurion a Washington, così il premier israeliano – per allentare la tensione – autorizza un’ispezione di due scienziati statunitensi, Ulysses Staebler e Jess Croach, che in un rapporto confermano la versione israeliana: Dimona non è un impianto militare. Questo sblocca il veto di Kennedy, che finalmente incontra Ben Gurion il 30 maggio e si fa promettere che Israele consentirà agli Usa (che non si fidano dell’alleato mediorientale) un monitoraggio costante dell’installazione.«Nei due anni successivi al colloquio, però – scrive Alami – la volpe israeliana non mantenne le promesse». Così, Kennedy si spazientisce e il 13 maggio 1963 intima a ben Gurion di riaprire alle ispezioni il sito di Dimona, pena l’isolamento mondiale di Israele. Per tutta risposta, Ben Gurion si dimette da primo ministro. A metà giugno, Jfk rivolge lo stesso ultimatum al successore di Ben Gurion, Levi Eshkol. Ed è qui – suggerisce Said Alami – che forse nasce il cambio radicale di strategia: far fuori il presidente-nemico, con l’aiuto della Cia. Il curriculum dei premier israeliani non è certo rassicurante, aggiunge Alami, ricordando le responsabilità della leadership di Tel Aviv nell’attività terroristica condotta per anni in Palestina, dalla pulizia etnica contro la popolazione civile agli attentati per colpire il protettorato britannico e ottenere lo status di paese indipendente.Ben Gurion, padre dello Stato di Israele, è responsabile di genocidio contro i civili palestinesi: il leader sionista fondò il primo gruppo armato, Hashomer, già nel 1909. Il suo successore al governo di Tel Aviv, Levi Eshkol, era uno dei capi dell’Haganah, organizzazione terroristica generata da Hashomer. Entrambi erano considerati «due criminali», peraltro «reclamati negli anni ’30 e ’40 dalla polizia britannica in Palestina e nel resto del mondo per i loro numerosi omicidi e attentati», ricorda Alami. Terzo illustre terrorista e futuro primo ministro di Israele è Yitzhak Shamir: era membro del gruppo terroristico ebraico Irgun e poi del gruppo Lehi, altra organizzazione terroristica in Palestina. Quando Eshkol diventò primo ministro, Shamir era a capo del comando omicidi del Mossad, dove ha servito dal 1955 al 1965, periodo in cui risiedeva per la maggior parte del tempo a Parigi, sede europea del Mossad.«Shamir serviva il Mossad, tra le altre cose, per eseguire l’Operazione Damocle, operazione in cui vennero uccisi vari scienziati tedeschi trasferiti in Egitto dopo la Rivoluzione degli Ufficiali Liberi in Egitto nel 1952 e l’arrivo al potere di Nasser», continua Alami. L’elenco prosegue col nome del quarto uomo, Menachem Beghin, anch’egli prima terrorista e poi premier. Già ricercato dalla giustizia britannica, Begin aveva militato fra i terroristi dell’Irgun fino a diventarne leader nel 1943. «E’ stato colui che ordinò la mattanza all’Hotel Rey David, a Gerusalemme, nel 1946, dove morirono 91 persone». Due anni più tardi, aggiunge Alami, 132 terroristi di Irgun, comandati proprio da Begin, furono protagonisti della famosa strage di Deir Yasin, in cui vennero assassinate centinaia di persone in due villaggi palestinesi, donne e bambini compresi. E’ dimostrato, dice Alami, che proprio Beghin abbia incontrato un gangster della mafia ebraica statunitense due settimane prima dell’omicidio di Kennedy: si tratta di Micky Cohen, uomo di fiducia di Meyer Lansky nella West Coast. Secondo Collins Piper, fu proprio Cohen a reclutare un altro ebreo, Jack Rubenstein, meglio conosciuto come Jack Ruby, per assassinare Lee Harvey Oswald, l’uomo accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di Dallas.Dalla ricostruzione, tacciata di “antisemitismo” dall’epoca dell’uscita del libro di Collins Pipier, negli anni ‘90, non si salva neppure il quinto futuro premier israeliano, il coraggioso Yitzhak Rabin, protagonista della storica pace con Arafat (gli accordi di Oslo del 1993) che gli valsero il Premio Nobel per la Pace ma anche la “condanna a morte”, eseguita nel ‘95 da un colono ebreo estremista. La notizia è che Rabin si trovava a Dallas il giorno dell’omicidio Kennedy. «Non sarebbe proprio una coincidenza – sostiene Alami – tenendo conto del fatto che anche Rabin lavorava per il Mossad». Collins Pipier ipotizza che proprio Rabin, in veste di giornalista, abbia intervistato Jack Ruby il giorno prima dell’assassinio di Oswald nel quartier generale della polizia di Dallas. Anche il dossier di Said Alami mette in luce un clamoroso intreccio di potenti uomini d’affari americani collegati a Israele, al Mossad, alla Cia e alla criminalità ebraica negli Usa. «In realtà, la teoria che Israele stia dietro all’omicidio Kennedy non è né nuova né strana», ammette Alami. La “notizia”, semmai, è che Washington e i media l’hanno semplicemente dimenticata. Magico potere della mitica “lobby ebraica” che presidia Wall Street? Una cosa è certa: i tempi in cui la Casa Bianca osa fare la voce grossa con Israele, pretendendo trasparenza, sono finiti esattamente cinquant’anni fa, nella stessa tomba di Kennedy.Natural born killers, assassini nati. Tesi più che ardita, ma storicamente supportata da prove: diversi primi ministri israeliani, prima di approdare alla politica, si erano fatti le ossa nel terrorismo sionista, firmando omicidi e stragi, per poi passare al Mossad. Perché mai non avrebbero potuto organizzare proprio loro l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, ovvero il più grande mistero irrisolto – dopo cinquant’anni – nella storia americana del secolo scorso? Se lo domanda Said Alami su “Rebelion”, citando nuovi dossier desecretati e libri-denuncia come “Final Judgment, the Missing Link in the Jfk assassination controversy”, del giornalista investigativo Michael Collins Piper. La tesi esplora un possibile movente: la centrale nucleare semi-clandestina che Israele stava allora costruendo a Dimona, nel deserto del Neghev, con tecnologia francese. Kennedy, molto contrariato, fece scendere il gelo sui rapporti con Tel Aviv. Ma non aveva calcolato che la Cia – con la quale era in guerra – era «largamente infiltrata dal Mossad».