Archivio del Tag ‘embargo’
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Proteste e bombe: Putin va abbattuto, con ogni mezzo
Se il regno di Nicola II era senescente, fragile e malvoluto, quello di Putin appare oggi ancora vitale e ricco di consensi. Zar Vladimir incomincia, però, a pagare il prezzo delle proprie ambizioni. Aver arrestato lo scivolamento dell’Ucraina verso Nato e Unione Europea, aver rimesso piede in un Medio Oriente dove l’influenza degli Usa di Obama era al lumicino, aver gettato le basi per la rinascita della potenza russa e aver ipotizzato un’intesa con Donald Trump ha sicuramente un costo. In quest’ottica il sangue di Pietroburgo e le dimostrazioni di Mosca sono i corrispettivi, da una parte, dell’intervento in Siria e dall’altra della battaglia mediatico-propagandistica condotta per inchiodare Putin allo stereotipo di leader autoritario e antidemocratico. Un leader pericoloso per l’ordine mondiale, per la stabilità del suo paese e persino per quella di un’America dove retroguardie obamiane, intelligence e grande stampa lo dipingono come il burattinaio di Donald Trump. Immaginare un grande complotto anti-russo capace di riunire gruppi jihadisti, potenze wahabite, vecchia intelligence obamiana e multinazionali globalizzate sarebbe una follia. Esiste però un’evidente e manifesta politica di potenza del Cremlino. Una politica di potenza sviluppata all’indomani della vittoria di Putin alle presidenziali del 2012. Una politica che fa della Russia il principale ostacolo alle ambizioni di entità diverse ed eterogenee.Prendiamo gli Stati Uniti del dopo Obama. Qui la grande macchina d’intelligence e media si muove ancora lungo le linee guida definite negli ultimi due quadrienni presidenziali. In quelle “linee guida” vanno contestualizzate le dimostrazioni “anticorruzione” di Mosca guidate da Alexander Navalny. Quelle dimostrazioni sono, probabilmente, la punta d’iceberg degli investimenti messi in campo dalla passata amministrazione per rinverdire il mito delle “rivoluzioni colorate” utilizzate a suo tempo per allentare il controllo russo sulle periferie dell’ex impero sovietico. Non a caso l’oppositore Navalny è stato per anni il referente del “National Endowment for Democracy”, l’organizzazione finanziata dal Congresso Usa accusata di aver progettato sia le “rivoluzioni colorate” sia la “rivolta anti-russa” in Ucraina. Accuse costate all’organizzazione la messa al bando dalla Russia fin dal luglio 2015. L’intervento in Siria, di cui le bombe di Pietroburgo sembrano il riflesso, non va visto semplicemente nel contesto della guerra al terrorismo condotta da Putin in Siria, ma in quello ben più ampio dello scontro con Turchia, Qatar e Arabia Saudita per il controllo del Medio Oriente.Nel momento in cui Mosca si garantisce Damasco, tessera fondamentale del grande risiko, i jihadisti russi, forze d’elite della legione straniera islamista, vengono rimandati a casa per colpire Pietroburgo, ovvero la città natale del nemico Putin. Ma se Pietroburgo e Mosca sono in questo inizio 2017 i contraccolpi più evidenti della guerra condotta in Siria e sull’instabile linea di faglia tra zone d’influenza russe e americane, ancor più preoccupanti rischiano d’essere i contraccolpi delle battaglie condotte sul fronte economico. Su quel fronte zar Putin non ha soltanto disinnescato l’arma del prezzo del petrolio, usata per ridimensionare la potenza russa, ma si è addirittura imposto, come mediatore tra Iran e sauditi, garantendo l’accordo per il rialzo dei prezzi del greggio. E sul fronte asiatico, dove aveva già moltiplicato gli scambi con Pechino, è persino riuscito a metter la sordina al conflitto sulle isole Kurili siglando accordi per due miliardi e mezzo di dollari con un Giappone rimasto per oltre 70 anni partner ed alleato esclusivo degli Stati Uniti. Colpe venute al pettine in questo 2017, dove sono in molti a sognare l’arrivo di un vagone piombato con un novello Lenin pronto a far cadere lo sfrontato zar.(Gian Micalessin, “Le colpe dello zar? Non aver fallito un colpo. E in tanti sognano un Lenin che lo spodesti”, da “Il Giornale” del 4 aprile 2017).Se il regno di Nicola II era senescente, fragile e malvoluto, quello di Putin appare oggi ancora vitale e ricco di consensi. Zar Vladimir incomincia, però, a pagare il prezzo delle proprie ambizioni. Aver arrestato lo scivolamento dell’Ucraina verso Nato e Unione Europea, aver rimesso piede in un Medio Oriente dove l’influenza degli Usa di Obama era al lumicino, aver gettato le basi per la rinascita della potenza russa e aver ipotizzato un’intesa con Donald Trump ha sicuramente un costo. In quest’ottica il sangue di Pietroburgo e le dimostrazioni di Mosca sono i corrispettivi, da una parte, dell’intervento in Siria e dall’altra della battaglia mediatico-propagandistica condotta per inchiodare Putin allo stereotipo di leader autoritario e antidemocratico. Un leader pericoloso per l’ordine mondiale, per la stabilità del suo paese e persino per quella di un’America dove retroguardie obamiane, intelligence e grande stampa lo dipingono come il burattinaio di Donald Trump. Immaginare un grande complotto anti-russo capace di riunire gruppi jihadisti, potenze wahabite, vecchia intelligence obamiana e multinazionali globalizzate sarebbe una follia. Esiste però un’evidente e manifesta politica di potenza del Cremlino. Una politica di potenza sviluppata all’indomani della vittoria di Putin alle presidenziali del 2012. Una politica che fa della Russia il principale ostacolo alle ambizioni di entità diverse ed eterogenee.
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Levin: gli Usa hanno interferito nelle elezioni in 45 paesi
Mentre infuriano le polemiche per le (del tutto presunte) interferenze russe nelle elezioni presidenziali americane, “Vocativ” commenta una recente ricerca in cui si contano almeno 81 casi di interventi americani in 45 paesi, dal dopoguerra ad oggi, volti a condizionare l’esito delle elezioni politiche. E questo, senza contare i colpi di Stato militari promossi e organizzati dalla Casa Bianca. Scrive “Voci dall’Estero”: «Il motivo per cui – fingiamo pure che il fatto sussista – un certo establishment americano sta gridando allo scandalo e rialzando una cortina di ferro, non è altro che quello che lo stesso establishment americano ha sempre fatto verso il resto del mondo». Lo conferma un recentissimo studio, che mostra che l’America ha una lunga storia di ingerenze nelle elezioni in paesi stranieri, sintetizza Shane Dixon Kavanaugh su “Vocative”, prendendo spunto dalla clamorosa propaganda di Obama contro la Russia: 35 diplomatici espulsi e la richiesta di nuove sanzioni, in risposta a ciò che gli Usa ritengono essere una serie di cyber-attacchi condotti da Mosca durante la campagna presidenziale. Peccato che questa specialità – il pilotaggio delle elezioni altrui – sia un talento squisitamente statunitense.Per la Cia, il Cremlino avrebbe tentato di aiutare Donald Trump a conquistare la presidenza? «Eppure, nessuno dei due paesi può dirsi estraneo a tentativi di ingerenza nelle elezioni di altri paesi». Gli Stati Uniti, per di più, vantano record ineguagliati in questo campo: «Hanno una storia lunga e impressionante di tentativi di influenzare le elezioni presidenziali in altri paesi», scrive Shane Dixon Kavanaugh, in un post ripreso da “Voci dall’Estero” in cui si documentano i risultati del recente studio condotto da Dov Levin, ricercatore in scienze politiche dell’Università Carnegie-Mellon di Pittsburgh, Pennsylvania. E’ un fatto: gli Usa hanno «cercato di influenzare le elezioni in altri paesi per ben 81 volte tra il 1946 e il 2000». Spesso lo hanno fatto «agendo sotto copertura», con tentativi che «includono di tutto: da agenti operativi della Cia che hanno portato a termine con successo campagne presidenziali nelle Filippine negli anni ’50, al rilascio di informazioni riservate per danneggiare i marxisti sandinisti e capovolgere le elezioni in Nicaragua nel 1990». Facendo la somma, calcola Levin, gli Usa avrebbero condizionato le elezioni in non meno di 45 paesi in tutto il mondo, durante il periodo considerato. E nel caso di alcuni paesi, come l’Italia e il Giappone, gli Stati Uniti hanno cercato di intervenire «in almeno quattro distinte elezioni».I dati di Levin, aggiunge Shane Dixon Kavanaugh, non includono i golpe militari o i rovesciamenti di regime che hanno seguito l’elezione di candidati contrari agli Stati Uniti, come ad esempio quando la Cia ha contribuito a rovesciare Mohammad Mosaddeq, il primo ministro democraticamente eletto in Iran nel 1953. Il ricercatore definisce l’interferenza elettorale come «un atto che comporta un certo costo ed è volto a stabilire il risultato delle elezioni a favore di una delle due parti». Secondo la sua ricerca, questo includerebbe: diffondere informazioni fuorvianti o propaganda, creare materiale utile alla campagna del partito o del candidato favorito, fornire o ritirare aiuti esteri e fare annunci pubblici per minacciare o favorire un certo candidato. «Spesso questo prevede dei finanziamenti segreti da parte degli Usa, come è avvenuto in alcune elezioni in Giappone, Libano, Italia e altri paesi».Per costruire il suo database, Levin si è basato su documenti declassificati della stessa intelligence americana, come anche su una quantità di report del Congresso sull’attività della Cia. Ha poi esaminato ciò che considera resoconti affidabili della Cia e delle attività americane sotto copertura, nonché ricerche accademiche sull’intelligence statunitense, resoconti di diplomatici della guerra fredda e di ex funzionari sempre della Cia. «Gran parte delle ingerenze americane nei processi elettorali di altri paesi sono ben documentate, come quelle in Cile negli anni ’60 o ad Haiti negli anni ’90», senza contare il caso di Malta nel 1971: secondo lo studio di Levin, gli Usa avrebbero cercato di condizionare la piccola isola mediterranea strozzandone l’economia nei mesi precedenti all’elezione di quell’anno. «I risultati della ricerca suggeriscono che molte delle interferenze elettorali americane sarebbero avvenute durante gli anni della guerra fredda, in risposta all’influenza sovietica che andava espandendosi in altri paesi», sottolinea Shane Dixon Kavanaugh.«Per essere chiari, gli Usa non sarebbero stati gli unici a cercare di determinare le elezioni all’estero. Secondo quanto riportato da Levin lo avrebbe fatto anche la Russia per 36 volte dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla fine del ventesimo secolo. Il numero totale degli interventi da parte di entrambi i paesi sarebbe stato dunque, in quel periodo, pari a 117». Eppure, anche dopo il crollo dell’Unione Sovietica, avvenuto nel 1991, nonostante venisse a mancare l’alibi della guerra fredda, il grande nemico a Est, gli Stati Uniti «hanno continuato i propri interventi all’estero, prendendo di mira elezioni in Israele, nella ex Cecoslovacchia e nella stessa Russia nel 1996». In altre parole: se la Russia di Putin ha archiviato le attività “imperiali” dell’Urss, l’America ha invece raddoppiato la posta: secondo Levin, dal 2000 a oggi gli Usa hanno pesantemente interferito con le elezioni in Ucraina, Kenya, Libano e Afghanistan, per citarne solo alcuni dei paesi sottoposti alle “attenzioni elettorali” di Washington.Mentre infuriano le polemiche per le (del tutto presunte) interferenze russe nelle elezioni presidenziali americane, “Vocativ” commenta una recente ricerca in cui si contano almeno 81 casi di interventi americani in 45 paesi, dal dopoguerra ad oggi, volti a condizionare l’esito delle elezioni politiche. E questo, senza contare i colpi di Stato militari promossi e organizzati dalla Casa Bianca. Scrive “Voci dall’Estero”: «Il motivo per cui – fingiamo pure che il fatto sussista – un certo establishment americano sta gridando allo scandalo e rialzando una cortina di ferro, non è altro che quello che lo stesso establishment americano ha sempre fatto verso il resto del mondo». Lo conferma un recentissimo studio, che mostra che l’America ha una lunga storia di ingerenze nelle elezioni in paesi stranieri, sintetizza Shane Dixon Kavanaugh su “Vocative”, prendendo spunto dalla clamorosa propaganda di Obama contro la Russia: 35 diplomatici espulsi e la richiesta di nuove sanzioni, in risposta a ciò che gli Usa ritengono essere una serie di cyber-attacchi condotti da Mosca durante la campagna presidenziale. Peccato che questa specialità – il pilotaggio delle elezioni altrui – sia un talento squisitamente statunitense.
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Fidel, 90 anni di resistenza contro i golpe Usa nel mondo
Nella sua Cuba a 90 anni è morto Fidel Castro, l’ultimo comunista. Un uomo simbolo della resistenza antimperialista statunitense, l’unico a non essere riuscito a far invadere culturalmente ed economicamente il proprio paese. Per far ciò ha dovuto instaurare un regime che di certo non è stato un esempio di libertà e democrazia. La pressione esterna era immensa e rafforzare il più possibile le mura del fortino cubano per Fidel Castro è stata l’unica possibilità. La storia non raccontata o mal celata degli organi d’informazione occidentali, evidenzia che la rivoluzione cubana del 1959 portò al rovesciamento di Fulgencio Batista che garantiva immensi introiti alle multinazionali statunitensi che controllavano l’intera economia dell’isola. Allen Dulles, direttore della Cia dal 1953 al 1961, aveva come fine primario quello di eliminare Castro. Dulles era un esperto in rovesciamento di presidenti, fu lui, prima di essere costretto da John Kennedy a lasciare, a svolgere un ruolo determinante a destituire Mossadeq in Iran, Guzman in Guatemala e Lumumba in Congo.Fu sempre lui, insieme ai vertici militari e ai capi di stato maggiore, a fomentare l’ossessione anticomunista usata come pretesto per alimentare l’industria bellica. Questo clima di caccia alle streghe convinse il neo eletto presidente degli Usa Kennedy ad acconsentire controvoglia, al piano d’aggressione alla vicina isola cubana. La colpa di Castro oltre a quella di essere comunista, era stata di aver sequestrato terreni a multinazionali Usa come la United Fruit che quell’aprile contribuì al tentativo di invadere Cuba prestando proprie imbarcazioni. La tesi del direttore Dulles era che durante lo sbarco realizzato da esuli cubani e agenti della Cia, dopo aver bombardato l’aviazione cubana, gli abitanti dell’isola si sarebbero uniti nel cacciare Castro. Ma ciò non avvenne. I cubani restarono fedeli a Casto. A quel punto Dulles e i comandi militari tentarono in tutti i modi di convincere Kennedy d’intraprendere un’azione diretta dell’esercito Usa, ma il presidente si rifiutò. L’invasione della Baia dei Porci fu un totale fallimento e gli agenti della Cia, in tre giorni furono sconfitti.La frattura tra Cia, generali dell’esercito e Kennedy fu profonda. Una rottura che divenne abissale poco dopo, durante la crisi dei missili sovietici portati a Cuba, che spinsero il mondo vicino alla catastrofe nucleare. John e suo fratello Robert addirittura temettero che in quei terribili momenti dove la guerra fredda raggiunse l’apice, i militari stessero per effettuare un colpo di Stato. Kennedy non era quel simpatizzante cubano come alcuni storici l’hanno descritto. Fu proprio lui nel 1961 diede il via all’operazione Mangusta diretta dalla Cia che durò fino al 1975. Nei primi quattordici mesi furono attuate ben 5.780 azioni terroristiche e 716 atti di sabotaggio miranti a danneggiare l’economia cubana. Dopo la crisi dei missili a Cuba del 1961 Kennedy cambiò atteggiamento; la rottura con la Cia fu totale e licenziò il potente presidente Dulles, un uomo che aveva legami economici con la United Fruit. Robert Kennedy, dopo l’attentato mortale del fratello del 22 novembre del 1963, la prima cosa che fece fu di andare alla sede della Cia a Langley in Virginia e chiedere se fossero loro i responsabili.Il merito di Castro è quello di essere riuscito a frenare l’avanzata statunitense che negli anni ’80 con le aggressioni nel Centro America ha destituito Paesi, appoggiando feroci dittature militari come fatto in Cile, Bolivia, El Salvador, Nicaragua, Colombia, Guatemala, Honduras e Panama. L’affronto agli Stati Uniti la popolazione di Cuba l’ha pagato con un embargo durissimo che è durato cinquant’anni. Una crudeltà che gli Usa hanno imposto a tutti i paesi non allineati come l’Iraq di Saddam. Nonostante l’apartheid globale che ha dovuto subire, il paese, anche se con difficoltà, è andato avanti e, attraverso delle politiche sociali, sanità e istruzione hanno raggiunto alti livelli. Fidel Castro muore nel tempo dominato dal pensiero unico neoliberista. I regimi comunisti esistenti sono anch’essi avvinti al dogma mercantile. Castro muore avendo vinto la sua battaglia, ma la guerra contro il capitalismo è persa. Almeno per ora.(Gianluca Ferrara, “Fidel Castro, morto l’uomo che sconfisse gli Usa”, dal blog di Ferrara sul “Fatto Quotidiano” del 26 novembre 2016).Nella sua Cuba a 90 anni è morto Fidel Castro, l’ultimo comunista. Un uomo simbolo della resistenza antimperialista statunitense, l’unico a non essere riuscito a far invadere culturalmente ed economicamente il proprio paese. Per far ciò ha dovuto instaurare un regime che di certo non è stato un esempio di libertà e democrazia. La pressione esterna era immensa e rafforzare il più possibile le mura del fortino cubano per Fidel Castro è stata l’unica possibilità. La storia non raccontata o mal celata degli organi d’informazione occidentali, evidenzia che la rivoluzione cubana del 1959 portò al rovesciamento di Fulgencio Batista che garantiva immensi introiti alle multinazionali statunitensi che controllavano l’intera economia dell’isola. Allen Dulles, direttore della Cia dal 1953 al 1961, aveva come fine primario quello di eliminare Castro. Dulles era un esperto in rovesciamento di presidenti, fu lui, prima di essere costretto da John Kennedy a lasciare, a svolgere un ruolo determinante a destituire Mossadeq in Iran, Guzman in Guatemala e Lumumba in Congo.
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Dal ‘45, Usa e Occidente hanno ucciso 55 milioni di persone
Gli Stati Uniti sono l’impero più sanguinario, il maggior “terrorista” del mondo: dal dopoguerra hanno ucciso 55 milioni di persone. Lo afferma Gianluca Ferrara, saggista e blogger del “Fatto Quotidiano”. Su “ByoBlu”, il video-blog di Claudio Messora, offre una spietata cronologia della strage. A cominciare dal 6 agosto 1945: Hiroshima, 200.000 civili sterminati. «Oggi gli Usa possiedono 7.000 ordigni atomici, 2.000 già dispiegati: ognuno di questi ha un potenziale esplosivo fino a tremila volte superiore a quello di Hiroshima». Come l’Impero Romano e quello napoleonico, gli Usa sono trainati da un’economia di guerra: «Per sopravvivere, hanno bisogno di trovare costantemente un nuovo nemico da combattere». Solo nel 2015 hanno investiti 1.800 miliardi di dollari in armamenti, al servizio di una politica estera «stabilita da un élite» che ci narcotizza, utilizzando i media mainstream. Di fatto, gli Usa «sono l’impero terrorista più brutale della storia: dal 1945 ad oggi, la politica estera dell’Occidente ha determinato l’uccisione di 55 milioni di esseri umani. E nel 1990 l’obiettivo degli Stati Uniti è diventato la conquista del Medio Oriente».La prima Guerra del Golfo ebbe inizio grazie ad un inganno: Saddam venne portato a credere che l’occupazione del Kuwait, che era stato un protettorato inglese ma che era rivendicato dall’Iraq fin dal 1961 come appartenente al suo territorio, sarebbe avvenuta senza l’interessamento degli Usa. «Fu una trappola tesa da April Gaspie, ambasciatrice Usa a Baghdad dell’epoca, che fece intendere che gli Usa non avrebbero interferito». Poi, l’11 settembre 2001, «l’abbattimento delle Torri Gemelle fornì il pretesto per terminare il lavoro». Dei 19 presunti attentatori nessuno era iracheno e nessuno era afghano: ben 15 di loro erano sauditi. Ma ad essere colpita non fu l’Arabia Saudita, bensì l’Afghanistan. «La sfortuna degli afghani – dice Ferrara – fu che in quel territorio doveva transitare un oleodotto, che i Talebani non volevano». Una condotta lunga 1.680 chilometri per portare il gas turkmeno di Dauletabad fino in Pakistan attraverso l’Afghanistan occidentale, cioè le province di Herat e Kandahar.Il progetto venne avviato nel 1996 dalla compagnia petrolifera statunitense Unocal, per la quale lavoravano sia Hamid Karzai che Zalmay Khalizad, in cooperazione con il regime talebano. Nel 1996, la Unocal apre una sede a Kandahar. E l’anno dopo, esponenti del governo talebano vengono ricevuti negli Usa. Ma il piano viene poi accantonato per le difficoltà politiche imputabili ai Talebani. «La seconda sfortuna era che gli anni ’70 avevano visto il boom della produzione di oppio e di eroina in Afghanistan. Era il cosiddetto triangolo d’oro», formato da Laos, Birmania e Cambogia. Triangolo «controllato dalla Cia, che in questo modo finanziava le operazioni anticomuniste nel sud-est dell’Asia». I Talebani negli anni ’90 «continuarono il business della droga con la Cia, ma nel 2000 il Mullah Omar lo mise al bando, allo scopo di guadagnarsi un consenso internazionale». L’anno dopo, la produzione di oppio crollò a valori prossimi allo zero. «Grazie alla conquista dell’Afghanistan, la produzione di eroina afghana (che gli Usa si rifiutarono di combattere, sostenendo che non era compito loro) tornò presto a soddisfare il 93% del fabbisogno mondiale».Gli Stati Uniti non combattono mai una guerra inseguendo un solo obiettivo, continua Ferrara: secondo l’Unicef, i 10 anni di embargo all’Iraq hanno causato la morte di un milione e mezzo di persone, tra cui cinquecentomila bambini. Il segretario di Stato Usa Madeleine Albright, quando le fu chiesto di commentare la morte di questi 500 mila bambini, rispose che la scelta era stata difficile, ma che ne era valsa la pena. «La balla sesquipedale delle armi di distruzione di massa, che sarebbero state in mano a Saddam, fu la scusa per impadronirsi definitivamente dell’Iraq, nel quadro della strategia economico-commerciale “Pivot to Asia”, che mirava a cinturare la Cina per impedirle un’espansione a ovest». Ma le uniche armi di distruzione di massa in mano a Saddam «erano quelle che proprio gli Stati Uniti gli avevano venduto, perché fossero usate per lo sterminio dei curdi».Un genocidio, quello del Kurdistan iracheno, al quale abbiamo contribuito anche noi italiani, con la vendita a Saddam di ben 9 milioni di mine antiuomo: «Del resto ancora adesso Matteo Renzi ritiene doveroso fare affari con chi finanzia l’Isis». Ma anche supponendo che l’Iraq avesse posseduto quelle armi, aggiunge Ferrara, i 7.000 ordigni nucleari di cui gli Stati Uniti d’America sono dotati non sono forse “armi di distruzione di massa”? Bisognerebbe chiederlo all’allora vice di Bush, Dick Cheney, che «per pura coincidenza era anche a capo della grande azienda petrolifera Halliburton, che si avvantaggiò successivamente dell’occupazione dei pozzi petroliferi iracheni». Ma, chiusa la partita con l’Iraq, il processo di colonizzazione prevedeva l’invasione della Siria. «Senza dimostrare molta fantasia, gli Stati Uniti cercarono di convincere il mondo che Assad usava armi chimiche contro i suoi cittadini». Solo la ferma opposizione di Putin riuscì a bloccare Obama, che nel 2013 era a un passo dall’attacco.Serviva allora un’altra strategia: così si inventarono la guerra per procura. «Bisognava finanziare i gruppi che si opponevano ad Assad: Al Nusra e l’Isis. Così, arrivarono piogge di dollari statunitensi sugli jihadisti, come rivelarono in tanti, tra cui ex dipendenti della Cia, ex ufficiali». Michael Flynn: «Sostenere Isis fu una nostra decisione deliberata». Tra le ammissioni persino quelle di un senatore, Rand Paul, e di una deputata, Tulsi Gabbard. Per non parlare del vicepresidente Joe Biden, che nell’ottobre del 2014 rivelò che sugli jihadisti impegnati in Siria erano arrivate piogge di dollari statunitensi. «La vera ragione per cui Assad è stato attaccato – afferma Ferrara – è che nel 2009 si era rifiutato di far transitare sul proprio territorio un gasdotto, proposto dal Qatar e dall’Arabia Saudita, che doveva passare per la Turchia e avere come destinazione l’Europa, per togliere alla Russia di Putin il monopolio». Non solo: «Assad si era accordato con l’Iraq per accogliere un gasdotto alternativo, ed era dalla parte dei palestinesi contro le aggressioni dello Stato di Israele».Poco prima, il “trattamento” era toccato alla Libia, che possiede le riserve di petrolio africane più importanti: 48.000 miliardi di barili, più 1.500 miliardi di metri cubi di gas. «Ma in realtà Gheddafi fu fatto fuori anche per un’altra ragione: proprio come Saddam, aveva deciso di non vendere più il petrolio in dollari, bensì attraverso un’altra moneta sovrana che stava creando: il dinaro libico». Dalla Libia alla Siria, fino all’attuale terrorismo internazionale: i recenti attentati in Francia, Belgio e Germania «hanno delle analogie con quello che accadde in Italia negli anni ’90, dopo la rottura del patto Stato-mafia, quando Roma e Milano furono duramente colpite dalle ritorsioni di Cosa Nostra». Dietro ai kamikaze ci sono «veri professionisti del terrore, che da sempre hanno usato mercenari, criminali, fondamentalisti e perfino squilibrati per seminare la paura e instaurare, sotto la copertura di una finta democrazia, una dittatura economico-militare». I jihadisti, poi, svolgono anche un altro ruolo importante: «Sono un eccellente concime per far germogliare il seme della paura in Occidente: più abbiamo paura, più cerchiamo protezione». Con buona pace del grande Tiziano Terzani, secondo cui «il problema del terrorismo non si risolve uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali».Gli Stati Uniti sono l’impero più sanguinario, il maggior “terrorista” del mondo: dal dopoguerra hanno ucciso 55 milioni di persone. Lo afferma Gianluca Ferrara, saggista e blogger del “Fatto Quotidiano”. Su “ByoBlu”, il video-blog di Claudio Messora, offre una spietata cronologia della strage. A cominciare dal 6 agosto 1945: Hiroshima, 200.000 civili sterminati. «Oggi gli Usa possiedono 7.000 ordigni atomici, 2.000 già dispiegati: ognuno di questi ha un potenziale esplosivo fino a tremila volte superiore a quello di Hiroshima». Come l’Impero Romano e quello napoleonico, gli Usa sono trainati da un’economia di guerra: «Per sopravvivere, hanno bisogno di trovare costantemente un nuovo nemico da combattere». Solo nel 2015 hanno investiti 1.800 miliardi di dollari in armamenti, al servizio di una politica estera «stabilita da un élite» che ci narcotizza, utilizzando i media mainstream. Di fatto, gli Usa «sono l’impero terrorista più brutale della storia: dal 1945 ad oggi, la politica estera dell’Occidente ha determinato l’uccisione di 55 milioni di esseri umani. E nel 1990 l’obiettivo degli Stati Uniti è diventato la conquista del Medio Oriente».
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Oliver Stone: Putin e Trump meglio di Obama e Hillary
«Non è stato facile farmi coinvolgere in una storia controversa come questa, dopo i miei film in Sudamerica so bene che posso subire attacchi anche violenti, e per me è inconcepibile che si possa essere accusati solo perché si mostrano fatti in contrasto con le versioni ufficiali. Ma è importante che l’opinione pubblica conosca gli eventi dell’Ucraina orientale da una prospettiva diversa da come ci sono stati presentati». Oliver Stone parla di “Ukraine on fire” dell’ucraino Igor Lopatonok, cittadino americano dal 2008, presentato in anteprima mondiale al festival di Taormina, del quale non solo è coproduttore ma partecipa come intervistatore dell’ex presidente Viktor Yanukovich e del presidente russo Vladimir Putin. Il film, scrive Maria Pia Fusco su “Repubblica”, ricostruisce la storia del paese dal 1941 al 2014, ponendo l’accento sui movimenti nazionalisti che parteciparono alla seconda guerra mondiale affiancando i nazisti nella strage di ebrei e polacchi. E che, supportati dalla Cia durante la guerra fredda, si sono infiltrati nelle manifestazioni ucraine pacifiche degli ultimi anni.Oliver Stone parla di «necessità di una controinformazione» e cita Mark Twain: “Se non leggi i giornali non sei informato, se li leggi sei informato male”. «E’ importante per gli Usa e per l’Europa conoscere la realtà, perché tutto questo, che è anche una guerra fatta dai media, ha portato alle sanzioni, all’embargo, conseguenze dure per l’economia». È vero che in Ucraina molti manifestanti erano motivati da ragioni giuste e si sentivano oppressi, riconosce il regista, «ma noi raccontiamo la storia da prima della rivoluzione arancione, e come sappiamo in Ucraina ci son sempre stati governi corrotti. Sicuramente in questo governo, insediato da due anni, ci sono elementi che discendono da assassini, persone che si unirono al Reich. È il primo governo con elementi nazisti, è molto pericoloso. E negli Usa non c’è stata reazione, si parla solo dell’aggressione russa». Il ruolo dei media: così determinante? Eccome: «Sappiamo quante volte la Cia abbia usato il cosiddetto “soft power” per influenzare altri paesi, magari per scongiurare l’affermazione di governi di sinistra. Ma prima dell’Ucraina, gli Usa sono intervenuti in tanti paesi dell’ex Urss, con addestramenti delle forze Nato, storie che i grandi media non raccontano».A Stone, la Fusco chiede direttamente un giudizio su Putin come persona e come leader. «Un uomo molto intelligente, articolato, razionale, che conosce a fondo i problemi», risponde Stone. «Putin dal 2001 in poi sta cercando una sorta di alleanza con gli Usa: ha espresso la sua solidarietà dopo l’11 Settembre, ha cercato di affiancarli nell’Asia centrale e nella lotta al terrorismo, ma il comportamento degli americani è sempre lo stesso: abbattere i regimi ostili e crearne di compiacenti, senza cercare di capire le ragioni interne di un paese, la cultura, il disagio, le divisioni». E non è cambiato niente con la presidenza Obama?«L’ho votato due volte, ma sono deluso», amette il cineasta. «Aveva promesso di cambiare la politica estera di Bush, parlava di trasparenza, voleva smettere con le intercettazioni illegali. Non è successo niente, non ha capito che non si può lottare contro le idee, bisogna prima capirle». E il futuro? «Il sistema americano è troppo consolidato, penso che nessuno possa cambiarlo veramente: né Trump, né la Clinton. Anzi, Hillary mi sembra ancora più radicale di Obama in tema di politica estera».«Non è stato facile farmi coinvolgere in una storia controversa come questa, dopo i miei film in Sudamerica so bene che posso subire attacchi anche violenti, e per me è inconcepibile che si possa essere accusati solo perché si mostrano fatti in contrasto con le versioni ufficiali. Ma è importante che l’opinione pubblica conosca gli eventi dell’Ucraina orientale da una prospettiva diversa da come ci sono stati presentati». Oliver Stone parla di “Ukraine on fire” dell’ucraino Igor Lopatonok, cittadino americano dal 2008, presentato in anteprima mondiale al festival di Taormina, del quale non solo è coproduttore ma partecipa come intervistatore dell’ex presidente Viktor Yanukovich e del presidente russo Vladimir Putin. Il film, scrive Maria Pia Fusco su “Repubblica”, ricostruisce la storia del paese dal 1941 al 2014, ponendo l’accento sui movimenti nazionalisti che parteciparono alla seconda guerra mondiale affiancando i nazisti nella strage di ebrei e polacchi. E che, supportati dalla Cia durante la guerra fredda, si sono infiltrati nelle manifestazioni ucraine pacifiche degli ultimi anni.
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Da Regeni all’Airbus: demolire l’Egitto che si oppone all’Isis
Cade nell’Egeo il volo Parigi-Cairo, ma il primo missile lanciato contro l’Egitto si chiamava Giulio Regeni: «Sprovveduto frequentatore di ambienti dello spionaggio e della provocazione angloamericana, non si è reso conto fino a che punto quegli ambienti ti possono trasformare da amico del giaguaro in utile idiota, utilizzandoti nel primo ruolo e sacrificandoti nel secondo». E così, scrive Fulvio Grimaldi, Regeni è diventato il trampolino da cui far piombare sull’Egitto un uragano di anatemi tale da renderlo definitivamente infrequentabile. «Metrojet russo, Egypt Air, Regeni, più un paesaggio egiziano percosso da folgori e schianti fatti in casa da coloro cui è stato detto che, più sconquassano e massacrano, più li si favorirà a tornare al potere nell’ultimo Stato nazionale arabo (insieme all’Algeria) non frantumato, o ridotto all’obbedienza neocolonialista e neoliberista». Risultato: il turismo che dal 20% delle entrate scende a zero e sprofonda il paese in una catastrofe economico-sociale da cui si calcola potrà sognare di risollevarsi unicamente vendendosi.Con l’abbattimento dell’aereo russo s’è già persa una bella quota di quel 20%, continua Grimaldi sul blog “Mondo Cane”. «Extra bonus, uomo avvisato mezzo salvato, con riferimento a Putin e Al Sisi che al Cairo avevano firmato ampi accordi commerciali, militari e di investimenti». Della “bomba a grappolo Regeni”, «tutti si ostinano a ignorare il torbido romanzo di formazione negli Usa dell’intelligence e l’approdo alla società di spionaggio Oxford Analytica, diretta da tre specialisti del terrorismo su vasta scala: Mc Coll, già capo dei servizi britannici, David Young, ex-galeotto per il complotto Watergate e John Negroponte, sterminatore di civili in Centroamerica e Iraq con i suoi squadroni della morte. Le ricadute dell’ordigno umano sono state un’altra fetta di turismo andata e, soprattutto, un gigantesco business Italia-Eni-Egitto, attorno al più grande giacimento di gas del Mediterraneo, messo a repentaglio, forse definitivamente».Addio gas all’Italia e alla Francia. «Diversamente dall’orrido Tap (Trans Adriatic Pipeline) imposto da Shell, Obama e Renzi, che devasterà le coste del Salento e degraderà la Puglia in hub energetico europeo, ma che parte dall’amerikano e filo-Erdogan Azerbaijan (ultimamente meritevole anche per l’aggressione al filo-russo Nagorno), quel gas egiziano, insieme all’altro arabo dall’Algeria, pure malvisto, ci avrebbe dato un sacco di soddisfazioni energetiche senza deturpare nulla, ma anche senza mano Usa sul rubinetto». Sicché, «dopo aver spento la musica al valzer Egitto-Italia, era arrivato in sala da ballo il castigamatti dell’Africa francofona, il restauratore della mai dimenticata FranceAfrique in Costa d’Avorio, Mali, Niger, Ciad, Rca e giù giù fino al Gabon e oltre. Ma se al clown da circo dell’orrore, Hollande, il diversivo neocolonialista dai disastri nella metropoli poteva essere consentito nella FranceAfrique (dopottutto si muoveva anche nel nome della Nato), il suo precipitarsi in Egitto a concordare con Al Sisi la sostituzione del partner francese a quello italiano costituiva invasione di campo».Intollerabile, l’attivismo francese in Egitto, per gli anglosassoni, «inventori e poi padrini dei Fratelli Musulmani e dei loro apprendisti stregoni Daish». Quanto al Cairo, il problema si chiama Abdel Fatah Al Sisi, il generale che sfrattò Mohamed Morsi su richiesta di 33 milioni di egiziani, dopo la rivoluzione del 2011 che aveva insediato i Fratelli Musulmani. Una rivolta «infiltrata e manipolata dai soliti esperti di “regime change” statunitensi perchè fingesse un superamento della dittatura di Mubaraq attraverso un regime di musulmani “moderati”». Alle presidenziali votò il 35% degli aventi diritto e solo il 17% si espresse per Morsi. «Vibranti furono le congratulazioni di Washington. L’intera amministrazione dello Stato fu occupata dai Fm. Gli assassini del presidente Sadat furono ricevuti da Morsi e messi a capo del Consiglio dei Diritti Umani. L’autore del famoso massacro di Luxor fu nominato governatore di quella provincia. Seguirono gli arresti degli oppositori laici di Mubaraq e i pogrom anticristiani. Tutte le maggiori imprese dello Stato vennero privatizzate e fu annunciata la possibile vendita del Canale di Suez al Qatar, una specie di Vaticano dei Fm, sponsor dell’Isis».Morsi, continua Grimaldi, inviò una delegazione ufficiale dal capo dell’Isis, Al Baghdadi, e ordinò alle forze armate di essere pronte ad attaccare la Siria, cosa che suscitò vivissime reazioni contrarie tra i militari. Morsi rimediò inviando “volontari” a supporto dei jihadisti. Questi e altri provvedimenti innescarono quella che sarebbe stata la più grande manifestazione di massa contro un presidente egiziano. I Fratelli Musulmani reagirono con le armi e per un mese si succedettero scontri sanguinosi. Il Qatar e la Turchia di Erdogan furono i primi a denunciare il “colpo di Stato”. La guerra civile fu evitata grazie alle elezioni, boicottate dagli islamisti, e in cui Al Sisi riportò il 96% dei voti. «Da quel momento inizia la campagna degli attentati terroristici. I media occidentali parlano di arresti e condanne di oppositori. Quasi sempre si tratta di Fm responsabili degli attentati con centinaia di vittime».Chi è Abdel Fatah Al Sisi? A dispetto del terrorismo islamista, con Al Sisi l’Egitto conosce una certa pace sociale: vengono liberati prigionieri politici e ricostruite le chiese copte bruciate. Ma l’economia è a pezzi, l’ostilità dell’Occidente e del Qatar provoca isolamento. «Tanto più che il Cairo si propone come autorevole mediatore nel conflitto libico e come forza effettivamente capace di debellare, con il legittimo governo di Tobruk (che aveva vinto le elezioni ed era aperto ai gheddafiani) e il generale Haftar, i mercenari Isis spediti dalla Turchia, beneaccetti dai Fratelli di Tripoli e dai tagliatori di teste di Misurata e finanziati dal Qatar. Solito pretesto per l’intervento Nato». E non è tutto: «Con l’aiuto della Cina, imperdonabile, l’Egitto raddoppia la capacità del Canale di Suez e quindi le entrare che ne derivano. Dovrebbe essere un segmento cruciale della nuova temutissima Via della Seta e dell’interscambio tra Africa e Cina. Nell’estate del 2015 l’Eni rivela la scoperta dell’enorme giacimento di gas e di altri idrocarburi nell’area marina di Zohr, che permetterebbe al Cairo di ricavarne l’equivalente di 5,5 miliardi di barili di petrolio.Anche per questo, contemporaneamente, dilaga il terrorismo dei Fratelli Musulmani: vengono uccisi il procuratore generale della Repubblica e altri alti funzionari e magistrati. Ne segue un’ondata di arresti che fa gridare in Occidente alla brutale repressione del nuovo Pinochet. Mohammed Hassanein Heikal, il più brillante e cosmopolita giornalista egiziano, già portavoce di Nasser e direttore del primo quotidiano egiziano, “Al Ahram”, sollecita Al Sisi a denunciare la macelleria saudita nello Yemen (e difatti le truppe egiziane verranno ritirate), di sostenere la resistenza del presidente siriano Assad e di cercare un riavvicinamento con l’Iran. «A 87 anni, Heikal, che anni fa avevo intervistato per il “Nouvel Observateur” scoprendovi uno dei più colti e appassionati intellettuali arabi incontrati in mezzo secolo, muore», racconta Grimaldi, «prima che Al Sisi possa portare avanti quel discorso».Nella notte dall’11 al 12 aprile, si viene a sapere che l’Egitto ha ceduto due isolotti nel Mar Rosso all’Arabia Saudita. Nelle stesse ore re Salman è al Cairo e annuncia investimenti per 25 miliardi di dollari. Sulle due isole, Tiran e Sanafir, si dovrebbe posare il grande ponte che, nei progetti sauditi ed egiziani, unirebbe le due coste del Golfo di Aqaba. Intanto gli Usa offrono rinnovate forniture d’armi. «Se non si riesce a far tornare Morsi, meglio provare a non lasciare campo aperto a russi, italiani, francesi, cinesi». La cessione delle isole provoca una serie di manifestazioni di protesta dei nazionalisti egiziani che si chiedono dove Al Sisi stia andando, tra Russia, Cina, Usa, Libia e Arabia Saudita. «La risposta sta nelle condizioni economiche in cui l’Egitto è stato ridotto da una guerra economica, terroristica e mediatica, partita appena il nuovo presidente è arrivato al potere e si è dichiarato ispirato da Nasser. La sua pare la mossa della disperazione prima che la società egiziana precipiti nel baratro e della nazione araba non rimangano che brandelli, spettri alitanti tra le rovine di Aleppo, nella polvere dell’ultima bomba Isis a Baghdad, tra le immagini di Gheddafi sepolte in cassetti segreti di case che non dimenticano».E mentre gli altri megafoni della demonizzazione dell’Egitto e del suo “Pinochet” si stavano acquietando, anche di fronte all’evidenza del carattere “schiumogeno” che le accuse contro gli inquirenti sul caso Regeni stavano rivelando, insieme alla «ambigua identità del giovanotto, rilevata da molta stampa estera», il “Manifesto” «accentuava il suo bombardamento di contumelie, congetture, illazioni, accuse senza fondamento», denuncia Grimaldi. «Personaggi da assegnare alle categorie degli utili idioti o degli amici del giaguaro, a seconda della percezione di ognuno, tra i quali un magistrato disertore e fallito politico come Ingroia, il compare di Sofri Manconi, vari dirittoumanisti di complemento, cantanti, nani e ballerine, invocavano sull’Egitto di Al Sisi i fulmini di Giove, Marte, Saturno, Urano, Diopadre, sanzioni, embargo, interventi Onu, magari, sotto sotto, bombe alla libica. Neanche uno di questa compagnia di giro cripto-Nato che si fosse chiesto cosa cazzo ci facesse Regeni con criminali come Young, Negroponte e McColl», conclude Grimaldi. «Non è solo malafede. E’ complicità con chi usa altri mezzi per distruggere l’Egitto. Complicità, in ogni caso, con chi è comunque peggio di Al Sisi».Cade nell’Egeo il volo Parigi-Cairo, ma il primo missile lanciato contro l’Egitto si chiamava Giulio Regeni: «Sprovveduto frequentatore di ambienti dello spionaggio e della provocazione angloamericana, non si è reso conto fino a che punto quegli ambienti ti possono trasformare da amico del giaguaro in utile idiota, utilizzandoti nel primo ruolo e sacrificandoti nel secondo». E così, scrive Fulvio Grimaldi, Regeni è diventato il trampolino da cui far piombare sull’Egitto un uragano di anatemi tale da renderlo definitivamente infrequentabile. «Metrojet russo, Egypt Air, Regeni, più un paesaggio egiziano percosso da folgori e schianti fatti in casa da coloro cui è stato detto che, più sconquassano e massacrano, più li si favorirà a tornare al potere nell’ultimo Stato nazionale arabo (insieme all’Algeria) non frantumato, o ridotto all’obbedienza neocolonialista e neoliberista». Risultato: il turismo che dal 20% delle entrate scende a zero e sprofonda il paese in una catastrofe economico-sociale da cui si calcola potrà sognare di risollevarsi unicamente vendendosi.
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Obama fa pace con l’Iran. Smetterà di sostenere l’Isis?
«È sicuramente storico: la diplomazia forse ha vinto». Così anche Pepe Escobar saluta l’accordo tra Usa e Iran, dopo 35 anni di incomunicabilità e le tensioni continue dell’ultimo decennio. Un accordo “epocale”, nei termini del Nuovo Grande Gioco in Eurasia, con «conseguenti scosse tettoniche che riorganizzano la zona». In pratica, l’Iran, supportato da Russia e Cina , «ha finalmente, con successo, scoperto il bluff degli atlantisti – lungo, tortuoso e durato 12 anni – riguardo le proprie “armi nucleari”». Tutto ciò, continua Escobar, è accaduto solo perché l’amministrazione Obama ha bisogno di «almeno un successo di politica estera», nonché di un modo per «provare a influenzare la messa in opera del nuovo ordine geopolitico che ruoterà attorno all’Eurasia». Grande domanda, a questo punto: se gli Usa “sdoganano” Teheran, permettendole di svolgere appieno il suo ruolo di grande potenza regionale, questo significa che Washington si appresta ad abbandonare il sostegno occulto all’Isis, consentendo agli iraniani di sbaragliare sul campo i tagliagole jihadisti annidati in Siria e in Iraq sotto la protezione delle monarchie petrolifere del Golfo?Ci spera Vladimir Putin, super-negoziatore accanto all’Iran, secondo cui l’accordo contribuirà alla lotta al terrorismo in Medio Oriente. Il presidente russo parla di «miglioramento della sicurezza globale e regionale, dato dal rafforzamento dell’accordo di non-proliferazione del nucleare», fino alla eventuale «creazione, in Medio Oriente, di una zona libera da armi di distruzione di massa». Il vero problema, scrive Escobar in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è iniziato quando il ministro degli esteri russo Sergeij Lavrov ha affermato che Mosca si aspetta la cancellazione del piano di difesa missilistica di Washington, dopo che l’accordo con l’Iran ha dimostrato che Teheran non è, e non sarà, una “minaccia” nucleare. «Ecco l’ostacolo. Il Pentagono semplicemente non vuole cancellare una parte della propria dottrina militare “Full Spectrum Dominance”», accampando banali ragioni “diplomatiche”. «Ogni analista di sicurezza non accecato dall’ideologia sa che la difesa missilistica non è mai stata rivolta all’Iran, ma alla Russia. L’ultima analisi militare del Pentagono menziona – non a caso – le maggiori figure asiatiche (Iran, Russia e Cina) come “minacce” alla sicurezza nazionale statunitense».Dal punto di vista delle relazioni Iran-Russia, aggiunge Escobar, il commercio è destinato ad aumentare, specialmente in nanotecnologie, componenti meccaniche e agricoltura. Sul fronte energetico, l’Iran sicuramente competerà con la Russia sui più importanti mercati come la Turchia e presto l’Europa occidentale, ma c’è ampio margine per Gazprom e l’iraniana Nioc (National Iranian Oil Company) per spartirsi le quote di mercato. Il capo di Nioc, Mohsen Qamsari, anticipa che l’Iran darà priorità alle esportazioni verso l’Asia e proverà a recuperare almeno il 42% del mercato che aveva in Europa prima delle sanzioni. «Piuttosto mediocre», secondo Escobar, reazione di Washington: «Obama ha preferito affermare – giustamente – che ogni percorso che portasse ad armi nucleari iraniane è stato impedito, e ha promesso di porre il veto a qualsiasi intervento del Congresso atto a bloccare l’accordo. Quando ero a Vienna, la settimana scorsa, ho avuto una conferma sicura – da fonte europea – che l’amministrazione Obama è fiduciosa di avere i voti necessari a Capitol Hill».Cosa succederà a tutto quel greggio iraniano? Tariq Rauf, ex capo delle politiche di sicurezza dell’Aiea, l’agenzia Onu per il controllo del nucleare, e ora direttore del programma di non-proliferazione e disarmo all’Istituto di Ricerca Internazionale sulla Pace di Stoccolma (Sipri), definisce l’intesa «il più importante accordo multilaterale sul nucleare degli ultimi vent’anni», dopo quello contro i test nucleari del 1996, al punto di proporre il Nobel per la Pace per il segretario di Stato John Kerry e il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif. «Ricostruire la fiducia tra Iran e Usa, tuttavia, sarà una via lunga e pericolosa», spiega Escobar. Teheran ha acconsentito a una moratoria di 15 anni per limitare di due terzi la sua potenzialità di arricchimento dell’uranio. Entro il 15 dicembre, tutte le questioni ancora in sospeso – si parla di 12 punti – andranno chiarite, e l’Aiea farà una valutazione finale. «Uno dei punti più spinosi è stato risolto quando Teheran ha permesso agli ispettori dell’Onu di visitare potenzialmente tutti i siti». Non ci saranno ispettori statunitensi, ma solo di nazioni con relazioni diplomatiche in atto con l’Iran. Tuttavia, «l’implementazione dell’accordo richiederà almeno i prossimi 5 mesi», sicché «le sanzioni verranno tolte solo all’inizio del 2016».L’Iran diventerà una calamita per gli investimenti esteri, continua Escobar: «Le più grandi multinazionali occidentali e asiatiche sono già ai blocchi di partenza per iniziare a martellare questo mercato praticamente vergine, con più di 70 milioni di abitanti, tra cui una classe dall’educazione molto valida. Ci sarà un boom in settori come l’elettronica, l’industria dell’auto e il turismo e il tempo libero». Poi c’è, come al solito, il greggio. «L’Iran ha ben 50 milioni di barili conservati in porto – pronti ad essere buttati sul mercato globale. Il cliente preferito sarà, inevitabilmente, la Cina – dato che l’Occidente resta imbrigliato nella recessione. Il primo punto all’ordine del giorno iraniano è riacquisire le fette di mercato perse a vantaggio dei produttori del Golfo. Attualmente il trend dei prezzi del greggio è in discesa – quindi l’Iran non può contare su grandi profitti a medio-breve termine». E la “guerra al terrore”, finora solo promessa da Obama? Tanto per cominciare, «l’embargo ai danni dell’Iran per quanto riguarda le armi convenzionali resta in essere, per 5 anni: è assurdo, se paragonato ad Israele e alla Casa di Saud che continuano ad armarsi fino ai denti».Lo scorso maggio, ricorda Escobar, il Congresso Usa ha approvato un vendita di armi da 1,9 miliardi di dollari ad Israele. Comprende 50 bombe anti-bunker Blu-113 («per far cosa? Bombardare il sito iraniano di Natanz?») e 3.000 missili Hellfire. Per quanto riguarda l’Arabia Saudita, secondo il Sipri, la Casa di Saud ha speso ben 80 miliardi di dollari in armi lo scorso anno: più del potenziale nucleare di Francia e Gran Bretagna. L’Arabia Saudita «sta foraggiando una – illegale – guerra in Yemen», accusa il giornalista. «Il Qatar non sta indietro di molto. Ha raggiunto un accordo da 11 miliardi di dollari per acquistare elicotteri Apache e sistemi di difesa missilistica Patriot, e ha in programma di comprare un sacco di caccia F-15». Trita Parsi, presidente del Consiglio Nazionale Statunitense-Iraniano, va dritto al punto: «L’Arabia Saudita spende per la difesa 13 volte l’Iran, ma in qualche modo l’Iran, e non l’Arabia Saudita, è visto dagli Usa come un potenziale aggressore». Questa è la realtà: «Quindi, qualsiasi cosa succeda, aspettiamoci giorni duri», conclude Escobar, presente ai negoziati di Vienna.A un ristretto gruppo di giornalisti indipendenti, racconta Escobar, il ministro degli esteri Zafidha rivelato che le negoziazioni saranno un successo perché Usa e Iran si sono accordati sul «non umiliarsi a vicenda». Ha affermato di aver pagato «un alto prezzo domestico per non incolpare gli statunitensi» e ha elogiato Kerry come «un uomo ragionevole». Ma era molto sospettoso dell’establishment Usa, «fermamente intenzionato a non togliere le sanzioni». Zarif ha anche elogiato l’idea russa: in seguito all’accordo, sarebbe ora di creare una vera coalizione contro il terrorismo, unendo Stati Uniti, Iran, Russia, Cina ed Europa – anche se Putin e Obama hanno acconsentito a lavorare insieme per “questioni regionali”. «La diplomazia iraniana dava segnali del fatto che l’amministrazione Obama si è finalmente resa conto che l’alternativa ad Assad in Siria è l’Isis/Isil/Daesh, non il “libero” esercito siriano». Un tale grado di collaborazione, dopo il muro della diffidenza, deve ancora essere visto. Solo allora «sarà veramente possibile valutare chiaramente se l’amministrazione Obama avrà preso una decisione strategica e se la “normalizzazione” delle relazioni con l’Iran comporti più di quanto non stia alla luce del sole», compresa quindi la liquidazione dell’armata di tagliagole telecomandati che agisce in favore di telecamera.«È sicuramente storico: la diplomazia forse ha vinto». Così anche Pepe Escobar saluta l’accordo tra Usa e Iran, dopo 35 anni di incomunicabilità e le tensioni continue dell’ultimo decennio. Un accordo “epocale”, nei termini del Nuovo Grande Gioco in Eurasia, con «conseguenti scosse tettoniche che riorganizzano la zona». In pratica, l’Iran, supportato da Russia e Cina , «ha finalmente, con successo, scoperto il bluff degli atlantisti – lungo, tortuoso e durato 12 anni – riguardo le proprie “armi nucleari”». Tutto ciò, continua Escobar, è accaduto solo perché l’amministrazione Obama ha bisogno di «almeno un successo di politica estera», nonché di un modo per «provare a influenzare la messa in opera del nuovo ordine geopolitico che ruoterà attorno all’Eurasia». Grande domanda, a questo punto: se gli Usa “sdoganano” Teheran, permettendole di svolgere appieno il suo ruolo di grande potenza regionale, questo significa che Washington si appresta ad abbandonare il sostegno occulto all’Isis, consentendo agli iraniani di sbaragliare sul campo i tagliagole jihadisti annidati in Siria e in Iraq sotto la protezione delle monarchie petrolifere del Golfo?
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Guerra e bugie: rapinare la Jugoslavia, tutto cominciò lì
Guai se la denuncia del nazifascismo, risuonata nel 70° anniversario della liberazione di Auschwitz, serve a depistare l’opinione pubblica dall’altro fascismo, il “nostro”, fondato sulla menzogna che giustifica le peggiori, sistematiche aggressioni. Per esempio la Libia di Gheddafi, travolta dopo la decisione di costituire una banca africana e una moneta alternativa al dollaro. E la Jugoslavia, rasa al suolo dopo la decisione della Germania di riconoscere i separatisti: inaccettabile, per la nascente Eurozona, la sopravvivenza di un grande Stato multientico con l’economia interamente in mani pubbliche. E avanti così, dalla Siria all’Ucraina, fino alle contorsioni terrificanti del cosiddetto Isis, fondato sulle unità di guerriglia addestrate dall’Occidente in Libia contro Gheddafi, poi smistate in Siria contro Assad e quindi dirottate in Iraq. Possiamo chiamarlo come vogliamo, dice John Pilger, ma è sempre fascismo. E’ il “nostro” fascismo quotidiano. «Iniziare una guerra di aggressione», dissero nel 1946 i giudici del tribunale di Norimberga, «non è soltanto un crimine internazionale, ma è il crimine internazionale supremo». Se i nazisti non avessero invaso l’Europa, Auschwitz e l’Olocausto non sarebbero accaduti.«Se gli Stati Uniti e i loro vassalli non avessero iniziato la loro guerra di aggressione in Iraq nel 2003, quasi un milione di persone oggi sarebbero vive, e lo Stato islamico, o Isis, non ci avrebbe in balìa delle sue atrocità», scrive Pilger in una riflessione ripresa da “Come Don Chisciotte”. I nuovi “mostri” sono «la progenie del fascismo moderno, svezzato dalle bombe, dai bagni di sangue e dalle menzogne, che sono il teatro surreale conosciuto col nome di “informazione”». Infatti, «come durante il fascismo degli anni ‘30 e ‘40, le grandi menzogne vengono trasmesse con la precisione di un metronomo grazie agli onnipresenti, ripetitivi media e la loro velenosa censura per omissione». In Libia, nel 2011 la Nato ha effettuato 9.700 attacchi, più di un terzo dei quali mirato ad obiettivi civili, con strage di bambini. Bombe all’uranio impoverito, Misurata e Sirte bombardate a tappeto. L’omicidio di Gheddafi «è stato giustificato con la solita grande menzogna: stava progettando il “genocidio” del suo popolo». Se gli Usa avessero esitato, disse Obama, la città di Bengasi «avrebbe potuto subire un massacro che avrebbe macchiato la coscienza del mondo». Peccato che Bengasi non sia mai stata minacciata da nessuno: «Era un’invenzione delle milizie islamiche che stavano per essere sconfitte dalle forze governative libiche».Le milizie, scrive Pilger, dissero alla “Reuters” che ci sarebbe stato «un vero e proprio bagno di sangue, un massacro come quello accaduto in Ruanda». La menzogna, segnalata il 14 marzo 2011, ha fornito la prima scintilla all’inferno della Nato, definito da David Cameron come «intervento umanitario». Molti dei “ribelli”, segretamente armati e addestrati dalle Sas britanniche, sarebbero poi diventati Isis, decapitatori di “infedeli”. «Per Obama, Cameron e Hollande – scrive Pilger – il vero crimine di Gheddafi era l’indipendenza economica della Libia e la sua dichiarata intenzione di smettere di vendere in dollari Usa le più grandi riserve di petrolio dell’Africa», minacciando così il petrodollaro, che è «un pilastro del potere imperiale americano». Gheddafi aveva tentato con audacia di introdurre una moneta comune in Africa, basata sull’oro, e voleva creare una banca tutta africana per promuovere l’unione economica tra i paesi poveri ma dotati di risorse pregiate. «Era l’idea stessa ad essere intollerabile per gli Stati Uniti, che si preparavano ad “entrare” in Africa corrompendo i governi africani con offerte di collaborazione militare». Così, “liberata” la Libia, Obama «ha confiscato 30 miliardi di dollari dalla banca centrale libica, che Gheddafi aveva stanziato per la creazione di una banca centrale africana e per il dinaro africano, valuta basata sull’oro».La “guerra umanitaria” contro la Libia aveva un modello vicino ai cuori liberali occidentali, soprattutto nei media, continua Pilger, ricordando che, nel 1999, Bill Clinton e Tony Blair inviarono la Nato a bombardare la Serbia, «perché, mentirono, i serbi stavano commettendo un “genocidio” contro l’etnia albanese della provincia secessionista del Kosovo». L’ambasciatore americano David Scheffer affermò che «circa 225.000 uomini di etnia albanese di età compresa tra i 14 e i 59 anni potrebbero già essere stati uccisi». Sia Clinton che Blair evocarono l’Olocausto e «lo spirito della Seconda Guerra Mondiale». L’eroico alleato dell’Occidente era l’Uck, Esercito di Liberazione del Kosovo, «dei cui crimini non si parlava». Finiti i bombardamenti della Nato, con gran parte delle infrastrutture della Serbia in rovina – insieme a scuole, ospedali, monasteri e la televisione nazionale – le squadre internazionali di polizia scientifica scesero sul Kosovo per riesumare le prove del cosiddetto “olocausto”. L’Fbi non riuscì a trovare una singola fossa comune e tornò a casa. Il team spagnolo fece lo stesso, e chi li guidava dichiarò con rabbia che ci fu «una piroetta semantica delle macchine di propaganda di guerra». Un anno dopo, un tribunale delle Nazioni Unite sulla Jugoslavia svelò il conteggio finale dei morti: 2.788, cioè i combattenti su entrambi i lati, nonché i serbi e i rom uccisi dallUck. «Non c’era stato alcun genocidio. L’“olocausto” era una menzogna».L’attacco Nato era stato fraudolento, insiste Pilger, spiegando che «dietro la menzogna, c’era una seria motivazione: la Jugoslavia era un’indipendente federazione multietnica, unica nel suo genere, che fungeva da ponte politico ed economico durante la guerra fredda». Attenzione: «La maggior parte dei suoi servizi e della sua grande produzione era di proprietà pubblica. Questo non era accettabile in una Comunità Europea in piena espansione, in particolare per la nuova Germania unita, che aveva iniziato a spingersi ad est per accaparrarsi il suo “mercato naturale” nelle province jugoslave di Croazia e Slovenia». Sicché, «prima che gli europei si riunissero a Maastricht nel 1991 a presentare i loro piani per la disastrosa Eurozona, un accordo segreto era stato approvato: la Germania avrebbe riconosciuto la Croazia». Quindi, «il destino della Jugoslavia era segnato». La solita macchina stritolatrice: «A Washington, gli Stati Uniti si assicurarono che alla sofferente economia jugoslava fossero negati prestiti dalla Banca Mondiale, mentre la Nato, allora una quasi defunta reliquia della guerra fredda, fu reinventata come tutore dell’ordine imperiale».Nel 1999, durante una conferenza sulla “pace” in Kosovo a Rambouillet, in Francia, i serbi furono sottoposti alle tattiche ipocrite dei sopracitati tutori. «L’accordo di Rambouillet comprendeva un allegato B segreto, che la delegazione statunitense inserì all’ultimo momento». La clausola esigeva che tutta la Jugoslavia – un paese con ricordi amari dell’occupazione nazista – fosse messa sotto occupazione militare, e che fosse attuata una “economia di libero mercato” con la privatizzazione di tutti i beni appartenenti al governo. «Nessuno Stato sovrano avrebbe potuto firmare una cosa del genere», osserva Pilger. «La punizione fu rapida; le bombe della Nato caddero su di un paese indifeso. La pietra miliare delle catastrofi era stata posata. Seguirono le catastrofi dell’Afghanistan, poi dell’Iraq, della Libia, della Siria, e adesso dell’Ucraina. Dal 1945, più di un terzo dei membri delle Nazioni Unite – 69 paesi – hanno subito alcune o tutte le seguenti situazioni per mano del moderno fascismo americano. Sono stati invasi, i loro governi rovesciati, i loro movimenti popolari soppressi, i risultati delle elezioni sovvertiti, la loro gente bombardata e le loro economie spogliate di ogni protezione, le loro società sottoposte a un assedio paralizzante noto come “sanzioni”. Lo storico britannico Mark Curtis stima il numero di morti in milioni. «Come giustificazione, in ogni singolo caso una grande menzogna è stata raccontata».Guai se la denuncia del nazifascismo, risuonata nel 70° anniversario della liberazione di Auschwitz, serve a depistare l’opinione pubblica dall’altro fascismo, il “nostro”, fondato sulla menzogna che giustifica le peggiori, sistematiche aggressioni. Per esempio la Libia di Gheddafi, travolta dopo la decisione di costituire una banca africana e una moneta alternativa al dollaro. E la Jugoslavia, rasa al suolo dopo la decisione della Germania di riconoscere i separatisti: inaccettabile, per la nascente Eurozona, la sopravvivenza di un grande Stato multientico con l’economia interamente in mani pubbliche. E avanti così, dalla Siria all’Ucraina, fino alle contorsioni terrificanti del cosiddetto Isis, fondato sulle unità di guerriglia addestrate dall’Occidente in Libia contro Gheddafi, poi smistate in Siria contro Assad e quindi dirottate in Iraq. Possiamo chiamarlo come vogliamo, dice John Pilger, ma è sempre fascismo. E’ il “nostro” fascismo quotidiano. «Iniziare una guerra di aggressione», dissero nel 1946 i giudici del tribunale di Norimberga, «non è soltanto un crimine internazionale, ma è il crimine internazionale supremo». Se i nazisti non avessero invaso l’Europa, Auschwitz e l’Olocausto non sarebbero accaduti.
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Boicottare Wall Street, il piano di Putin per un mondo libero
Nessuna delle tribù barbare alle frontiere dell’Impero Romano avrebbe potuto, individualmente, annientare la macchina da guerra rappresentata da quest’impero ed entrare vittoriosa a Roma. L’impero s’era fornito di più risorse e più cavalieri in vista della distruzione del suo nemico. I barbari erano divisi e si muovevano in modo scoordinato. Roma, infatti, cadde solamente quando le sue strutture di governo si decomposero e l’esercito cessò di esistere. L’impero, poco a poco, perse le sue province; privato delle sue risorse, si indebolì e perse i mezzi con cui opporsi agli invasori. Ciò significa che per vincere gli Usa, che si considerano come gli eredi dell’impero romano, bisogna: 1. Unirsi a coloro che si vogliono liberare del potere di Washington; 2. Indebolire dall’interno la “nuova Roma”; 3. Privarla di quante più risorse possibili. I paesi stanchi dell’egemonia degli Usa si sono uniti nel quadro dei Brics, dello Sco e dell’Unione Doganale Eurasiatica. Indebolire gli Usa dall’interno è molto complicato, perchè ciò richiede delle azioni specifiche: una preparazione di alto livello delle Ong e di specialisti delle “rivoluzioni colorate”, le quali non sono possedute né dalla Russia né dalla Cina.Tuttavia gli Usa non mancano di problemi interni, che ultimamente peggiorano e si espandono, vedasi l’affare Ferguson. In tal maniera, il mezzo più efficace di opporsi agli Usa è il privarli di risorse, rifiutando tutti i prodotti-chiave americani. Ciò andrebbe a scapito del dollaro, che è il mezzo con cui Washington opera la ridistribuzione delle risorse. Per trattare questo argomento bisogna allontanarsi dagli assalti dell’isteria mass-mediatica. Innanzitutto, bisogna smettere di comprare le obbligazioni Usa ed europee, che succhiano le riserve dei fondi russi. Dal primo gennaio, i fondi che erano utilizzati per l’acquisto di queste obbligazioni dei “partner occidentali” saranno utilizzati per i bisogni del Tesoro. In seguito, nelle strutture profonde del partito “Russia Unita” si prepara una rivoluzione economica a partire dai piani alti. In terzo luogo si persegue l’approccio con la Cina, sulla quale è utile soffermarsi in modo più preciso. Oltre che la messa in moto del memorabile progetto dell’oleodotto “Forza siberiana” si persegue un lavoro comune, determinato e coordinato, del rafforzamento dei mezzi militari, oltre che lo stabilizzare i partner dell’Asia centrale.Per esempio, la Cina appare essere uno degli investitori principali nel Tagikistan. Tutta una serie di progetti comuni tra Russia e Cina sono stati intrapresi, come l’inaugurazione d’un infrastruttura aeronautica comprende anche gli elicotteri. In relazione a ciò, sta venendo fatto pure un lavoro fondamentale di distacco dal dollaro americano negli scambi commerciali. È utile sottolineare che gli Usa, con le loro azioni ad Hong Kong, hanno decisamente irritato Pechino: il livello di sostegno della popolazione cinese è passato dal 47% al 66% in un solo anno, in seguito al suo confronto con l’Occidente. Durante la diciottesima sessione della commissione russo-cinese per la preparazione degli incontri governativi, il vicepremier ministro Wang Yang ha dichiarato come «sbagliate» le sanzioni occidentali contro la Russia e ha esortato sia la Russia che la Cina a dare una risposta appropriata ai paesi occidentali. Durante il forum economico russo-cinese, il presidente della banca centrale cinese, quinto istituto finanziario al mondo, ha dichiarato che «è indispensabile rafforzare la cooperazione in materia di tali operazioni e mettere fine al monopolio del dollaro». I meccanismi per disgregare l’egemonia del dollaro sono stati oramai concepiti.L’11 ottobre la stampa ha confermato che la Russia e la Cina hanno concluso un accordo sulle operazioni “swap” (ossia le operazioni di scambi) per le esportazioni in rubli e yen. Senza dubbio, dopo aver firmato quest’accordo “swap”, il numero dei candidati che intendono astenersi dal dollaro dovrebbe aumentare, perchè anche la Turchia ne é interessata. Intanto si rafforza l’approccio con l’Iran. Teheran e Mosca studiano una transazione nota come “petrolio in cambio di centrali elettriche”. Dato che l’Iran resta vincolato dalle sanzioni, le banche commerciali russe stanno inaugurando una serie di collaborazioni con la Persia, e sta venendo anche effettuato uno studio per stabilire una banca comune per il mutuo finanziamento dei progetti economici e commerciali. E tutto ciò senza parlare delle attività ininterrotte per l’inaugurazione dello spazio economico eurasiatico, al quale s’aggiunge anche l’Armenia e a cui prenderà parte anche il Kirghizistan prima della fine dell’anno. Insomma, il piano strategico di Putin, il cui fulcro è la cooperazione con coloro che sono stanchi dell’egemonia degli Usa, mira a privare gli Stati Uniti delle loro risorse e a rinforzare la propria economia evitando di ricorrere al dollaro per le transazioni. E tutto ciò senza che la Russia e la Cina rischino di incappare nei tranelli che sono tesi loro, sotto forma di “paracaduti gialli” o di prese di posizioni radicali nella guerra civile ucraina. La nuova Roma, senza dubbio, crollerà.(Ivan Lizin, estratti dall’intervento “Il diabolico manuale di Putin, piccolo manuale di combattimento contro l’impero mondiale”, pubblicato da “Reseau International” il 17 ottobre 2014 e tradotto da “Come Don Chisciotte”).Nessuna delle tribù barbare alle frontiere dell’Impero Romano avrebbe potuto, individualmente, annientare la macchina da guerra rappresentata da quest’impero ed entrare vittoriosa a Roma. L’impero s’era fornito di più risorse e più cavalieri in vista della distruzione del suo nemico. I barbari erano divisi e si muovevano in modo scoordinato. Roma, infatti, cadde solamente quando le sue strutture di governo si decomposero e l’esercito cessò di esistere. L’impero, poco a poco, perse le sue province; privato delle sue risorse, si indebolì e perse i mezzi con cui opporsi agli invasori. Ciò significa che per vincere gli Usa, che si considerano come gli eredi dell’impero romano, bisogna: 1. unirsi a coloro che si vogliono liberare del potere di Washington; 2. indebolire dall’interno la “nuova Roma”; 3. privarla di quante più risorse possibili. I paesi stanchi dell’egemonia degli Usa si sono uniti nel quadro dei Brics, dello Sco e dell’Unione Doganale Eurasiatica. Indebolire gli Usa dall’interno è molto complicato, perché ciò richiede delle azioni specifiche: una preparazione di alto livello delle Ong e di specialisti delle “rivoluzioni colorate”, le quali non sono possedute né dalla Russia né dalla Cina.
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Craig Roberts: i Clinton? In galera, anziché alla Casa Bianca
Glenn Greenwald ha rivelato che Hillary Clinton è il candidato presidenziale dei bankster e dei guerrafondai. Pam e Russ Martens registrano che Elizabeth Warren è la sua concorrente populista. Dubito però che un politico che rappresenti il popolo possa raccogliere abbastanza fondi per poter competere in una campagna presidenziale. Se comunque la Warren dovesse diventare una minaccia, tutto l’establishment si muoverebbe per costruirle intorno una cornice nella quale la potrebbero dipingere in qualsiasi modo pur di farla fuori. Hillary Clinton come presidente significherebbe guerra alla Russia. Con neocon-nazisti come Robert Kagan e Max Boot a gestire la politica militare e con una Hillary che fa confronti tra il presidente della Russia Putin e Adolf Hitler, la guerra dovrebbe essere una certezza. E, come hanno scritto Michel Chossudovsky e Noam Chomsky, la guerra, stavolta, sarebbe nucleare. Se Hillary fosse eletta presidente, i gangster finanziari e tutti quei criminali che traggono vantaggio dalle guerre riuscirebbero a completare il loro impossessamento del paese. E questo sarebbe per sempre, o almeno fino all’arrivo dell’Armageddon, la resa dei conti finale.Per comprendere a che cosa si andrebbe incontro con Hillary, proviamo a ripensare alla presidenza Clinton. Mise in moto delle trasformazioni che in qualche modo non vengono riconosciute. Clinton distrusse il partito democratico con gli accordi sul “libero commercio”, che regolò il sistema finanziario e inaugurò la politica di Washington – che ancora continua – del “cambio di regime”, con gli attacchi militari illegali su Jugoslavia e Iraq, e il suo regime cominciò ad usare una forza omicida e ingiustificata contro dei civili americani, per poi coprire gli omicidi depistando le indagini, con false investigazioni. Questi quattro grandi cambiamenti sono quelli che hanno gettato il paese in una spirale viziosa che ha portato alla militarizzazione della polizia e ad una ostentata iniquità dei redditi e della ricchezza. Si potrebbe capire perché i repubblicani volevano il “North American Free Trade Agreement”, ma fu Bill Clinton che lo trasformò in legge: è un meccanismo usato dalle multinazionali Usa per esportare la loro produzione di merci e servizi venduti sui mercati americani.Spostando la produzione all’estero, i risparmi sul costo del lavoro fanno aumentare i profitti delle multinazionali e il valore delle loro azioni, producendo dei guadagni di capitale per gli azionisti e dei bonus multimilionari in dollari per i loro dirigenti che hanno contribuito al raggiungimento degli obiettivi. I vantaggi per il capitale sono enormi, ma questi vantaggi sono tutti a spese dei lavoratori della manifattura Usa e delle minori entrate in tasse per le città e per gli Stati. Quando si chiudono gli stabilimenti e si manda il lavoro all’estero, non c’è più lavoro per la classe media. I sindacati delle industrie e della manifattura perdono iscritti, distruggendo così i sindacati dei lavoratori, che sono quelli che finanziano le campagne elettorali dei democratici. Il contrappeso del potere che era costituito dal lavoro contro il capitale, in questo modo era annullato. E i democratici dovettero ricorrere alle stesse fonti di sovvenzionamento dei repubblicani. Il risultato è uno Stato con un solo partito.L’indebolimento della base di tassazione che città e Stati hanno dovuto fronteggiare ha reso possibile un attacco dei repubblicani contro i sindacati del settore pubblico. Oggi il partito democratico non esiste più, visto che la politica del partito non è più finanziata da quei sindacati che rappresentano la gente comune. Oggi entrambi i partiti politici rappresentano gli interessi degli stessi gruppi di potere: il settore finanziario, il complesso militare barra security, le lobby di Israele, le industrie estrattive e l’agro-business. Non c’è più un partito che rappresenti veramente i propri elettori, malgrado il fatto che la gente comune continui a pagare con le proprie tasse tutti i costi dei salvataggi delle finanziarie e delle guerre intraprese, mentre le industrie estrattive e la Monsanto distruggono l’ambiente e portano al degrado la catena alimentare. Le elezioni non hanno più nulla a che vedere con le cose reali, come la perdita della protezione costituzionale da parte dei cittadini o un governo che agisca in base alle leggi esistenti. Al contrario, i partiti si mettono a discutere su argomenti come i matrimoni omosessuali e la raccolta di fondi federali per l’aborto. L’abrogazione della legge Glass-Steagall, firmata da Clinton, fu solo la prima mossa di quello che servì per rimuovere tanti altri vincoli che permisero al sistema finanziario di trasformarsi in un casinò, dove il gioco d’azzardo e le scommesse sono garantiti da fondi pubblici e dalla Federal Reserve. Le conseguenze definitive a cui porterà il paese questa trasformazione restano ancora da vedere.L’attacco del regime Clinton contro i serbi, secondo il diritto internazionale, fu un crimine di guerra, ma invece fu il presidente jugoslavo, che aveva cercato di difendere il proprio paese, che fu messo sotto processo come criminale di guerra. Quando il regime Clinton fece uccidere la famiglia di Randy Weaver a Ruby Ridge e altre 76 persone a Waco, sottoponendo i pochi sopravvissuti ad un processo-farsa, i crimini del regime contro l’umanità sono rimasti impuniti. Lo stesso sistema impostato da Clinton è continuato poi per altri 14 anni con i crimini commessi anche da Bush/Obama contro l’umanità in sette paesi, dove milioni di persone sono state uccise, mutilate e cacciate dalle loro case… ma questo sembra tutto accettabile. E ‘abbastanza facile per un governo fomentare la propria popolazione contro gli stranieri, come ben dimostrano i successi di Clinton, di George W. Bush e di Obama. Ma il regime Clinton riuscì a mettere americani contro altri americani. Quando l’Fbi gratuitamente uccise la moglie di Randy Weaver e il suo figlioletto, le denunce di Randy Weaver furono tacciate di propaganda e non considerate, senza motivo.Quando l’Fbi attaccò la setta dei Davidians – un movimento religioso staccatosi dalla Chiesa cristiana “avventista del settimo giorno” – con carri armati e gas velenosi, provocando un incendio che fece morire bruciate 76 persone, soprattutto donne e bambini, queste uccisioni e questo omicidio di massa furono giustificate dal regime Clinton, che considerò come accuse selvagge e infondate quelle che venivano mosse per chiedere giustizia per il massacro compiuto dal governo. Tutti gli sforzi di attribuire la responsabilità per i crimini compiuti dalla polizia furono bloccati e (purtroppo) cominciarono a costituire dei precedenti che sono serviti a far approvare una normativa che garantisce, in casi simili, l’immunità dalla legge. Questa immunità ora si è estesa a tutte le polizie locali, che possono regolarmente compiere abusi e uccidere cittadini americani sulle loro strade e nelle loro case.La mancanza di rispetto delle leggi internazionali da parte di Washington è un argomento su cui i governi di Russia e Cina si lamentano sempre più, e che ebbe origine con il regime Clinton. Le bugie di Washington su Saddam Hussein e sulle “armi di distruzione di massa” cominciarono durante il regime Clinton, così come l’obiettivo di un “cambio di regime” in Iraq e come i bombardamenti illegali di Washington e gli embarghi che costarono la vita di mezzo milione di bambini iracheni che persero la vita (ma che il segretario di Stato di Clinton disse che erano giustificabili). Il governo degli Stati Uniti aveva già fatto cose malvagie in passato. Ad esempio, la guerra ispano-americana fu un trampolino di lancio per costruire l’impero, e Washington ha sempre tutelato gli interessi delle società americane da qualsiasi oppositore latino-americano, ma il regime Clinton ha globalizzato la criminalità. I golpe per il cambio di regime sono diventati sempre più spericolati fino a rischiare una guerra nucleare, perché ormai non sono più governi come quello di Grenada o dell’Honduras ad essere rovesciati. Oggi si prendono di mira Russia e Cina. E certe zone, che fino a pochi anni fa erano parte integrante della Russia stessa, come Georgia e Ucraina, sono state trasformate in Stati vassalli di Washington.Washington ha finanziato le Ong che organizzano la “lotta studentesca” di Hong Kong, nella speranza che le proteste si diffonderanno fino in Cina e che destabilizzino il governo. L’incoscienza di questi interventi negli affari interni di paesi stranieri, potenze nucleari, è senza precedenti. Hillary Clinton è una guerrafondaia, e la stessa cosa sarà anche il candidato che presenteranno i repubblicani. L’irrigidimento della retorica anti-russa che parte da Washington e dai suoi pessimi Stati-fantoccio della Ue sta mettendo il mondo sulla strada della propria estinzione. Gli arroganti neoconservatori, con la loro esasperante convinzione che gli Stati Uniti siano il paese “eccezionale e indispensabile”, vedrebbero un abbassamento dei toni della loro retorica e una de-escalation delle sanzioni come un passo indietro. Quanto più i neocon e i politici come John McCain e Lindsey Graham salgono nei toni della loro retorica, tanto più ci si avvicina alla guerra.Mentre oggi il governo degli Stati Uniti istiga la polizia agli arresti preventivi e alle incarcerazioni di chiunque potrebbe un giorno commettere un crimine, quella che invece dovrebbe essere arrestata e incarcerata, buttando via la chiave, dovrebbe essere tutta intera la squadra di questi guerrafondai-neocon, prima che riescano a distruggere l’umanità. Gli anni di Clinton hanno prodotto una gran quantità documentazione sui tanti crimini e sulle coperture di fatti come l’attentato di Oklahoma City, Ruby Ridge, Waco, lo scandalo dei laboratori criminali dell’Fbi, la morte di Vincent Foster, il coinvolgimento della Cia nel traffico di droga, la militarizzazione delle forze dell’ordine, il Kosovo… e si può andare avanti finché si vuole. La maggior parte di questi documenti sono stati scritti da persone che non avevano un punto di vista parziale, né liberal, né conservatore, perché nessuno si rendeva ancora conto della natura della trasformazione che stava avvenendo nella governance americana. Quelli che hanno dimenticato e quelli che sono troppo giovani non hanno la capacità di vedersi o di riconoscersi in quello che sono stati gli anni di Clinton. Recentemente ho parlato del libro di Ambrose Evans-Pritchard “The Secret Life of Bill Clinton”. Altro libro con una documentazione importante è “Feeling Your Pain”, di James Bovard.Sia il Congresso che i media hanno lavorato non poco per appoggiare e per dare le opportune coperture a molti eventi importanti avvenuti durante la presidenza Clinton, ma si sono concentrati solo su faccende di poco conto come le vendite immobiliari di Whitewater o la relazione sessuale di Clinton con la stagista della Casa Bianca Monica Lewinsky. Clinton e il suo regime corrotto hanno mentito su molte cose ben più importanti, ma la Camera dei Rappresentanti lo ha messo sotto accusa solo per le bugie raccontate sulla sua relazione con Monica Lewinsky. Ignorando le numerose (e ben più importanti) ragioni che avrebbero potuto portare a un impeachment, si è parlato tanto solo di un fatto inconsistente, e il Congresso e i media sono stati complici nel permettere che crescesse a dismisura un ramo dannoso dell’esecutivo. Questa mancanza di responsabilità ci ha portato alla tirannia in patria e alla guerra all’estero, e sono questi i due mali che ci stanno avviluppando tutti, ogni giorno di più.(Paul Craig Roberts, “Con le prossime presidenziali Usa, la guerra sarà più vicina”, da “Information Clearing House” del 18 novembre 2014, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Glenn Greenwald ha rivelato che Hillary Clinton è il candidato presidenziale dei bankster e dei guerrafondai. Pam e Russ Martens registrano che Elizabeth Warren è la sua concorrente populista. Dubito però che un politico che rappresenti il popolo possa raccogliere abbastanza fondi per poter competere in una campagna presidenziale. Se comunque la Warren dovesse diventare una minaccia, tutto l’establishment si muoverebbe per costruirle intorno una cornice nella quale la potrebbero dipingere in qualsiasi modo pur di farla fuori. Hillary Clinton come presidente significherebbe guerra alla Russia. Con neocon-nazisti come Robert Kagan e Max Boot a gestire la politica militare e con una Hillary che fa confronti tra il presidente della Russia Putin e Adolf Hitler, la guerra dovrebbe essere una certezza. E, come hanno scritto Michel Chossudovsky e Noam Chomsky, la guerra, stavolta, sarebbe nucleare. Se Hillary fosse eletta presidente, i gangster finanziari e tutti quei criminali che traggono vantaggio dalle guerre riuscirebbero a completare il loro impossessamento del paese. E questo sarebbe per sempre, o almeno fino all’arrivo dell’Armageddon, la resa dei conti finale.
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Liberare il paese da chi ci ha venduto al potere mondiale
Si è diffuso il convincimento che il “vero potere” sia internazionale o comunque non nazionale. Talvolta il vero potere è identificato senz’altro con lo stato imperiale, talaltra si affiancano a quel centro di potere altri poteri, cosmopoliti, costituiti da titolari e gestori del grande capitale e dei grandi strumenti di propaganda. Questo punto di vista, che contiene indubbiamente una parte di verità, è foriero di molte conseguenze negative, soprattutto quando, ingenuamente, l’assunto venga considerato come un vangelo da interpretare alla lettera. Le conseguenze negative riguardano l’azione pratica, ossia l’azione politica, che si pensasse di voler compiere per sottrarsi al “vero potere”. Invero, esistono soltanto “situazioni economiche nazionali” e “politiche economiche nazionali”. La situazione economica globale è soltanto la risultante di politiche economiche nazionali, eventualmente coordinate e indirizzate da centri di potere dello stato imperiale o ad esso legati, centri di potere che comunque devono sempre servirsi di politici nazionali venduti o servi.Anche la creazione di organizzazioni internazionali vincolanti avviene attraverso il consenso dei poteri nazionali e la persistenza dei vincoli dipende soltanto dalla volontà o dall’interesse dei politici nazionali. Senza l’appoggio del potere nazionale, il preteso “vero potere” imperiale e del grande capitale, sul piano politico, non può fare nulla e addirittura è impotente. Un popolo che abbia riconquistato tutto il potere nazionale, ha conquistato tutto il potere politico. Il potere imperiale o cosmopolita o internazionale, senza l’appoggio dei governi nazionali, può soltanto accerchiarti, mettere sanzioni, bombardarti e attaccarti. Insomma, perso il potere politico, il potere imperiale, internazionale e cosmopolita è costretto a ricorrere alla palese e dichiarata guerra commerciale, diplomatica e militare. Subire la guerra commerciale, diplomatica e militare è la testimonianza che il popolo è libero, perché si è liberato.Perciò, il miglior attacco – anzi l’unico vero, realistico, sensato attacco – al potere imperiale, internazionale e cosmopolita, consiste nel sottrarre ad esso il controllo del (vero) potere nazionale, controllo che ha acquisito attraverso un lungo lavoro volto alla conformazione ideologica dell’opinione pubblica (svolto attraverso il “dominio delle onde”), e a garantire potere e interessi economici dei traditorii nazionali (coloro che vengono a patti con il potere imperiale e del grande capitale cosmopolita). Ovviamente, se si può evitare di subire la guerra commerciale, diplomatica o militare è molto meglio. Sotto questo profilo è bene che l’attacco al potere imperiale e del grande capitale provenga da più direzioni, ossia da più popoli che più o meno contestualmente sottraggano, in vario modo, il potere politico ai traditori, ai rappresentanti e agli alleati nazionali del potere imperiale e del grande capitale cosmopolita.Chi partecipa a una rivoluzione nazionale non deve attribuire alcun rilievo al carattere che hanno le altre rivoluzioni nazionali: non deve avere timore di nessuna di esse. Ogni rivoluzione nazionale, che si svolga contestualmente ad altre, siccome indebolisce il potere imperiale e del grande capitale internazionale, è alleata delle altre rivoluzioni nazionali, perché ne agevola il compimento. Il momento delle alleanze strategiche, dei riposizionamenti geopolitici viene dopo: è un problema che si pone soltanto per chi abbia avviato e condotto a buon punto la propria rivoluzione nazionale.(Stefano D’Andrea, “Il vero potere politico è nazionale”, da “Appello al Popolo” del 15 settembre 2014).Si è diffuso il convincimento che il “vero potere” sia internazionale o comunque non nazionale. Talvolta il vero potere è identificato senz’altro con lo stato imperiale, talaltra si affiancano a quel centro di potere altri poteri, cosmopoliti, costituiti da titolari e gestori del grande capitale e dei grandi strumenti di propaganda. Questo punto di vista, che contiene indubbiamente una parte di verità, è foriero di molte conseguenze negative, soprattutto quando, ingenuamente, l’assunto venga considerato come un vangelo da interpretare alla lettera. Le conseguenze negative riguardano l’azione pratica, ossia l’azione politica, che si pensasse di voler compiere per sottrarsi al “vero potere”. Invero, esistono soltanto “situazioni economiche nazionali” e “politiche economiche nazionali”. La situazione economica globale è soltanto la risultante di politiche economiche nazionali, eventualmente coordinate e indirizzate da centri di potere dello stato imperiale o ad esso legati, centri di potere che comunque devono sempre servirsi di politici nazionali venduti o servi.
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L’arsenale della democrazia fabbrica guerre senza fine
Ormai comunemente si osserva che l’arsenale della democrazia continua a intervenire con le sue guerre, coinvolgendo i suoi alleati subalterni, per buttare giù soggetti politici che esso stesso aveva messo su, armandoli e finanziandoli. Pensiamo ai Talebani, a Saddam Hussein, a Osama Bin Laden, ai miliziani dell’Isis. Queste odierne operazioni in due fasi, costruzione e demolizione, sono la continuazione di ciò che l’arsenale della democrazia aveva fatto col nazismo, sostenendolo finanziariamente persino in tempo di guerra attraverso partecipazioni societarie, e combattendolo nella seconda fase con grande dispendio di mezzi, in larga parte addebitati agli alleati. È stato infatti grazie all’indebitamento abissale degli alleati e poi delle potenze sconfitte nella Seconda Guerra Mondiale, che l’arsenale della democrazia ha assunto l’egemonia di gran parte del pianeta, facendosi suo fornitore di credito e, con Bretton Woods, di moneta di riserva.In Ucraina avviene oggi qualcosa di simile: l’arsenale della democrazia dapprima sostiene una sorta di colpo di stato contro un regime eletto, poi incoraggia una deriva anti-russi a Kiev, usa ogni mezzo per fare della Russia un nemico e una minaccia militari per l’Europa occidentale, imponendoci di adottare contro Mosca sanzioni autolesionistiche per noi, che però ci rendono più dipendenti dall’arsenale della democrazia per le forniture energetiche, quindi arricchiscono l’arsenale della democrazia in termini di profitti ed egemonia; al contempo, annuncia che potrà in futuro contribuire alle spese della Nato in misura ridotta, quindi gli alleati europei dovranno metterci più soldi, ossia dovranno comprare più armamenti dall’arsenale della democrazia, il quale è di gran lunga il principale produttore di armamenti, con una larga quota del Pil e dell’occupazione dipendente dalla produzione e… dal consumo di questi articoli; così contribuiranno alla prosperità della sua industria bellica a spese dei propri cittadini contribuenti.L’arsenale della democrazia ha una necessità oggettiva e strutturale di agire così, per rimanere egemone e per assicurare grandi profitti al suo complesso finanziario e industriale-militare, e salario ai suoi addetti. E per continuare a imporre la sua ultra-inflazionata valuta come valuta internazionale di riserva e pagamenti soprattutto delle materie prime, con cui comperare tutto, nel mondo, continuando a stampare carta. Ha necessità di essere fabbrica di guerre, tiranni e terrori. La sua fisiologia richiede una continua domanda di armamenti, quindi continue guerre, tensioni, conflitti nel mondo. I suoi governi assicurano e producono queste condizioni. Nel corso della sua storia, l’arsenale della democrazia è quasi sempre stato impegnato in qualche guerra. Il Papa non parla mai di questa causa di guerre e violenza. È una necessità oggettiva, che non ha implicazioni morali. Nessuno va condannato. Finché resterà l’arsenale della democrazia, avremo guerre senza fine. Dopo, chissà.(Marco Della Luna, “Arsenale della democrazia e fabbrica delle guerre”, dal blog di Della Luna del 23 settembre 2014).Ormai comunemente si osserva che l’arsenale della democrazia continua a intervenire con le sue guerre, coinvolgendo i suoi alleati subalterni, per buttare giù soggetti politici che esso stesso aveva messo su, armandoli e finanziandoli. Pensiamo ai Talebani, a Saddam Hussein, a Osama Bin Laden, ai miliziani dell’Isis. Queste odierne operazioni in due fasi, costruzione e demolizione, sono la continuazione di ciò che l’arsenale della democrazia aveva fatto col nazismo, sostenendolo finanziariamente persino in tempo di guerra attraverso partecipazioni societarie, e combattendolo nella seconda fase con grande dispendio di mezzi, in larga parte addebitati agli alleati. È stato infatti grazie all’indebitamento abissale degli alleati e poi delle potenze sconfitte nella Seconda Guerra Mondiale, che l’arsenale della democrazia ha assunto l’egemonia di gran parte del pianeta, facendosi suo fornitore di credito e, con Bretton Woods, di moneta di riserva.