Archivio del Tag ‘élite’
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Tutto già scritto: disoccupazione all’11% fino al 2019
In milioni chiedono lavoro, ma non sanno che la loro sorte è già segnata: disoccupazione stabile all’11%. «Tutti i disoccupati nel 2019 saranno ancora disoccupati: questo perché lo sviluppo voluto dai tecnocrati europei, liberisti e neomercantilisti, per l’economia italiana, ha bisogno di un tasso strutturale di disoccupazione». Lo spiega Stefano Sanna, citando documenti ufficiali del Tesoro nonché l’ultimo Def del governo Renzi: 11%. Tutto il resto sono chiacchiere, comprese le 154 crisi aziendali tuttora aperte che rappresentano solo «la punta di un iceberg chiamato disoccupazione, che galleggia nel mare del mercato del lavoro». Il resto della montagna di ghiaccio «è fatto di milioni di disoccupati di piccole aziende, che non hanno alcuna possibilità di far valere le loro ragioni davanti al governo come possono fare, invece, le 154 aziende seguite direttamente dal ministero dello sviluppo economico». Tutti quanti però sono accomunati da un fatto: aspettano una risposta. «Ma il governo delle “luci e paillettes” porterà all’infinito la commedia dei tavoli di crisi, o posticiperà la data in cui rispondere ai disoccupati, anche se la risposta è stata già scritta».Lo conferma il documento del Tesoro dell’aprile 2013 sul Nawru, acronimo di “non accelerating wage rate of unemployment”: tasso di disoccupazione d’equilibrio, tarato per non generare pressioni inflazionistiche comprimendo il potere di spesa mediante, appunto, il taglio deliberato dei posti di lavoro. Proprio il Nawru ha un ruolo centrale nella determinazione dei “diktat” che la Commissione Europea rivolge ai singoli paesi membri dell’Ue. Il presidente del Centro Europa Ricerche, l’economista Vladimiro Giacché, sul “Sole 24 Ore” osserva: «Dal punto di vista culturale, è interessante notare come il tasso di disoccupazione di equilibrio sia la leva che viene adoperata per garantire l’iper-contenimento dell’inflazione. In molti, in passato, hanno considerato l’Unione Europea un moloch impregnato di keynesismo. In realtà, anche in questo caso prevale l’egemonia del monetarismo francofortese, che mette davanti a tutto e a tutti l’imbrigliamento dell’inflazione», fino all’asfissia programmata dell’economia reale.Per quanto riguarda il Nawru, conferma il Def del governo Renzi, i parametri sono stati più volte rivisti dalla Commissione, alla luce degli effetti sul mercato del lavoro della prolungata recessione. «Il Nawru è stato pertanto rideterminato verso l’alto, determinando una riduzione nel tasso di crescita del Pil potenziale». Il che significa che il tasso di “disoccupazione di equilibrio”, tale cioè da non generare pressioni inflazionistiche sui salari, «è stato stimato in crescita negli anni della crisi, con una dinamica che, di fatto, ha fatto sì che al crescere della disoccupazione crescesse anche il Nawru». Stefano Sanna esibisce la drammatica proiezione governativa, riassunta in una tabella: la “disoccupazione programmata”, al 12,3% nel 2015, si ridurrà in modo praticamente irrilevante: 11,8% nel 2016, poi 11,4% l’anno seguente, ancora 11,1% nel 2018 e poi 10,9% nel 2019. Non c’è scampo: Bruxelles vuole che i disoccupati, in Italia, restino l’11%. Si tratta di «un piano di distruzione sociale», conclude Sanna: l’obiettivo scritto da questo governo? E’ tecnicamente impossibile da raggiungere, visto che si parla di «contenimento dell’inflazione e crescita del Pil con un tasso di disoccupazione all’11%». Una farsa sfrontata: «E’ la risposta cinica, ma mai comunicata, ai milioni di disoccupati che per anni sono stati (e saranno) presi in giro da ciarlatani di professione».In milioni chiedono lavoro, ma non sanno che la loro sorte è già segnata: disoccupazione stabile all’11%. «Tutti i disoccupati nel 2019 saranno ancora disoccupati: questo perché lo sviluppo voluto dai tecnocrati europei, liberisti e neomercantilisti, per l’economia italiana, ha bisogno di un tasso strutturale di disoccupazione». Lo spiega Stefano Sanna, citando documenti ufficiali del Tesoro nonché l’ultimo Def del governo Renzi: 11%. Tutto il resto sono chiacchiere, comprese le 154 crisi aziendali tuttora aperte che rappresentano solo «la punta di un iceberg chiamato disoccupazione, che galleggia nel mare del mercato del lavoro». Il resto della montagna di ghiaccio «è fatto di milioni di disoccupati di piccole aziende, che non hanno alcuna possibilità di far valere le loro ragioni davanti al governo come possono fare, invece, le 154 aziende seguite direttamente dal ministero dello sviluppo economico». Tutti quanti però sono accomunati da un fatto: aspettano una risposta. «Ma il governo delle “luci e paillettes” porterà all’infinito la commedia dei tavoli di crisi, o posticiperà la data in cui rispondere ai disoccupati, anche se la risposta è stata già scritta».
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Dominus del potere sub-europeo, Renzi manovra per durare
Durare nel tempo e imporsi come nuova struttura di potere: questo, per Alfonso Gianni, il senso della manovra varata da Renzi con la legge di stabilità. Operazione ambiziosa: da un lato l’apertura di una «lunga campagna elettorale, la cui prima tappa è costituita dalle amministrative della prossima primavera in quasi tutte le città più importanti del paese, vere e proprie “midterm elections in salsa italiana”». Ma, al di là del puro ritorno elettorale, la manovra «vuole consolidare un blocco di potere articolato e allo stesso tempo coeso, di cui il Pd deve essere l’unico rappresentante politico, anzi il dominus». L’esito delle elezioni 2016 non è scontato, visti i poco soddisfacenti risultati in precedenti elezioni locali, «a dimostrazione che la distruzione dei corpi intermedi, asse strategico dell’azione renziana, che comincia dalla liquidazione del suo stesso partito, ha degli effetti collaterali indesiderati, quali la mancanza di una classe dirigente diffusa e fedele». Inoltre, a orientare la manovra è il timore dei “censori” di Bruxelles, visto che il governo «ambisce ad essere niente altro che un’articolazione del sistema di potere delle élite economiche e politiche europee».Da qui, scrive Gianni sul “Manifesto”, la centralità della cosiddetta riforma fiscale, «definita con la consueta modestia una “rivoluzione copernicana”». I proprietari di 75.000 case di lusso e palazzi ne trarranno ampi benefici, almeno 2.800 euro in media a testa. «Non importa se a farne le spese sarà la sanità o altri istituti dello stato sociale, un tempo misura della nostra civiltà. Diceva il grande Petrolini: quando bisogna prendere i soldi li si cavano ai poveri, ne hanno pochi ma sono tanti. Quindi, se si fa il contrario, ovvero si concedono generosi sgravi fiscali, meglio farlo con i ricchi, perché sono meno e hanno più potere». Per questo, continua Gianni, «la più grande “riforma fiscale di tutti i tempi”, secondo un’altra sobria definizione del suo autore, va oltre al copia e incolla di quella berlusconiana». Il vecchio leader di Arcore, almeno, «ci metteva un po’ di populismo e parlava di una seconda fase dedicata all’alleggerimento della pressione fiscale sulle persone fisiche». Invece, «Renzi prevede che il secondo step deve riguardare le aziende, cioè l’Irap e l’Ires. Il resto viene dopo, se viene. E Squinzi, dopo qualche incomprensione, si riaccende di amore verso il governo».Il boss di Confindustria sembra confortato anche dai propositi del leader: intervenire d’autorità sullo svuotamento della rappresentanza sindacale e sulla liquidazione del contratto collettivo nazionale, «usando come piede di porco l’innocente salario minimo orario legale, ancora da definire». E qui, per Alfonso Gianni, «si scende negli inferi del diabolico». Il taglio dell’Ires? «Verrebbe condizionato al via libera della Ue sulla flessibilità per i costi dell’ondata migratoria. Ovvero i migranti e i profughi, quelli che sopravvivono alla guerra per terra e per mare in atto contro di loro, verrebbero usati come merce di scambio per ridurre le imposte sul reddito d’impresa. Ma un occhio di riguardo bisogna pur tenerlo anche per gli evasori fiscali: non pagano le tasse, ma votano come gli altri. Ecco quindi sbucare l’innalzamento della quota di contante da mille a tremila euro per ogni singolo pagamento, in modo da renderne impossibile la tracciabilità».Renzi vuole durare, insiste Gianni. «Per farlo, dopo la distruzione sistematica dei corpi intermedi della società civile, deve dare vita a un nuovo blocco di potere con collanti tenaci». Le “controriforme” costituzionali, istituzionali ed elettorali in atto potranno essere smantellate, forse, solo a colpi di referendum. Ma intanto il governo Renzi si fa cinghia di trasmissione del super-potere di Bruxelles, «espresso dagli organi ademocratici della Ue», e in Italia diventa «strumento di disarticolazione di ogni potenziale schieramento sociale antagonista», provando a cooptare «strati e settori sociali utili a puntellare un sistema che non sopporta la dualità sociale attiva, cioè il conflitto».Durare nel tempo e imporsi come nuova struttura di potere: questo, per Alfonso Gianni, il senso della manovra varata da Renzi con la legge di stabilità. Operazione ambiziosa: da un lato l’apertura di una «lunga campagna elettorale, la cui prima tappa è costituita dalle amministrative della prossima primavera in quasi tutte le città più importanti del paese, vere e proprie “midterm elections in salsa italiana”». Ma, al di là del puro ritorno elettorale, la manovra «vuole consolidare un blocco di potere articolato e allo stesso tempo coeso, di cui il Pd deve essere l’unico rappresentante politico, anzi il dominus». L’esito delle elezioni 2016 non è scontato, visti i poco soddisfacenti risultati in precedenti elezioni locali, «a dimostrazione che la distruzione dei corpi intermedi, asse strategico dell’azione renziana, che comincia dalla liquidazione del suo stesso partito, ha degli effetti collaterali indesiderati, quali la mancanza di una classe dirigente diffusa e fedele». Inoltre, a orientare la manovra è il timore dei “censori” di Bruxelles, visto che il governo «ambisce ad essere niente altro che un’articolazione del sistema di potere delle élite economiche e politiche europee».
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Mitterrand: basta deficit, troppi soldi (e potere) ai cittadini
Perché ancora oggi ci sono persone senza cibo o acqua mentre altre vivono nell’abbondanza? Perché ancora oggi ci sono persone senza un lavoro e altre che ne hanno svariati? Perché ancora oggi ci sono persone senza casa e altre che ne hanno svariate? Perché ancora oggi ci sono persone senza soldi e altre con tanti soldi? Se davvero esiste una soluzione ai problemi della gente, perché nessuno la metta in pratica? Perché tutti si occupano sempre degli effetti dei problemi, trascurando le cause? Perché nessuno ci spiega qual è la causa? Perché se qualcuno conosce la causa, nessuno mette in campo la soluzione? Qual è la soluzione? Quotidianamente guardiamo, ascoltiamo e leggiamo del problema dei soldi che non ci sono, della disoccupazione che aumenta, dell’economia che non va bene perché i soldi non ci sono, degli imprenditori e dello Stato che non possono assumere perché non ci sono i soldi; del fatto che il debito pubblico aumenta perché l’economia non va bene perché mancano i soldi e quindi bisogna tagliare le spese ed aumentare le tasse in modo da abbassare i decifit annuali e il debito pubblico.Spesso addirittura ci dicono che dobbiamo fare il surplus di bilancio: che in sostanza significa che lo Stato incassa più di quando spende, perché se abbassiamo il debito i “mercati” (che semplicemente sono dei privati da alcuni anni abilitati a prestarci i soldi – incredibile, ma vero…) ci guarderanno con occhio differente e le agenzie di rating americane che controllano la vita dei singoli Stati in giro per il mondo (la vita di tutti noi), saranno più felici e non ci declasseranno. Ma chi sono i proprietari di questi maledetti soldi? Ci sono persone che essendo promotrici di queste “politiche criminali” finalizzate all’arricchimento dei singoli a discapito di tutti gli altri, conoscono ovviamente anche la risoluzione dei nostri problemi: risoluzione/soluzione che potrebbe essere applicata nel giro di pochi mesi e servirebbe a mettere al sicuro miliardi di vite attualmente letteralmente abbandonate a se stesse o in estremo pericolo).Oggi gli Stati si dividono in due categorie: quelli che possiedono una moneta sovrana e quelli che non hanno moneta sovrana. Le monete sovrane, per essere considerate veramente tali, devono seguire tre criteri fondamentali: devono essere di proprietà dello Stato che le emette, non devono essere convertibili in nessun materiale concreto tipo oro o argento e devono essere fluttuanti, il che significa che non possono essere cambiate a un tasso fisso con altre monete, quindi vengono lasciate fluttuare sui mercati, che decidono di volta in volta i tassi di cambio. Il dollaro, la sterlina e lo yen, ad esempio, sono monete sovrane perché rispettano questi tre criteri. Le monete non sovrane, invece, sono monete che non hanno nessuna proprietà. Gli Stati a moneta sovrana spendono inventando la moneta e accreditano i conti correnti di coloro che vendono loro beni o servizi. Gli Stati a moneta sovrana, quindi, creano ricchezza quando spendono e tolgono ricchezza ai cittadini quando tassano. Da ciò si deduce che, se tutti gli Stati a moneta sovrana spendono più di quanto tassano, questo arricchisce la società.Negli Stati a moneta sovrana il debito pubblico non è il debito dei cittadini ma la loro ricchezza. Quindi, se uno Stato a moneta sovrana decide di eliminare o pareggiare il debito, esso cesserà l’arricchimento dei cittadini. Immaginiamo che oggi nasce lo Stato X, che abbiamo un debito zero e che il Governo appena eletto dal popolo il primo anno decide di costruire 10 caserme, 100 scuole, 1000 ospedali, 10.000 Università, 100.000 strade eccetera… quindi, cosa fa il governo? Semplicemente inventa la moneta, accredita i conti corrente delle persone che lavorano per la costruzione di queste opere, quindi spende e distribuisce ricchezza. Immaginiamo che il primo anno il governo spende 100 monete per costruire questi beni e tassa il popolo per 70 monete, quindi chiude il bilancio annuale con un debito di 30 monete. Cosa succede a fine anno? Semplicemente il governo ha arricchito il popolo di 30 monete perché ha creato un debito di 30 monete. Quindi: se il governo che possiede moneta sovrana crea debito, genera ricchezza e fa sì che le persone possano avere monete per fare la spesa, comprare casa, fare un viaggio, acquistare una macchina, eccetera.Immaginiamo invece la situazione opposta. Il governo decide di costruire altri beni, quindi paga le aziende private che gli forniscono questi beni e, naturalmente, assume ancora altro personale. Questa volta, però, il governo inventa e spende ancora 100 monete per pagare gli stipendi di coloro che gli forniscono questi beni e servizi ma tassa il popolo per 160 monete, quindi chiude il bilancio annuale in attivo, non fa alcun debito ed anzi: pareggia il debito che aveva accumulato nei primi due anni (il governo, in sostanza, in 3 anni di lavoro ha speso 300 monete ed ha incassato 300 monete). Cosa succede? Semplice: succede che i cittadini dello Stato X non avranno in tasca più nessuna moneta, quindi nessuno potrà più spendere finché il governo non deciderà di fare debito chiudendo il bilancio in passivo generando ricchezza. Il debito è la nostra ricchezza, e se i governi che possiedono moneta sovrana decidono di abbassare il debito anche di un solo punto, questo sottrae ricchezza ai popoli: azzerarlo, come sicuramente avrete compreso, è impossibile.Questo ragionamento, naturalmente, vale solo per gli Stati che possiedono la cosiddetta moneta sovrana: cioè tutti gli Stati proprietari della propria moneta (proprio come lo era l’Italia qualche anno fa: adesso, grazie all’euro, abbiamo perso la nostra sovranità e non possiamo più stampare, non possiamo più creare moneta, non possiamo più avere una vera politica, non possiamo più fare scelte autonome. Dice Paul Krugman, Premio Nobel per l’Economia: «Adottando l’euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera, con tutti i danni che ciò implica». L’unica alternativa che oggi tutti i paesi che non possiedono una moneta sovrana hanno a disposizione per cercare di sopravvivere è quella di chiedere la moneta ai mercati dei capitali privati che successivamente strangolano e distruggono questi paesi con gli interessi.L’altra possibilità che questi paesi hanno per sopravvivere, naturalmente, è quella di licenziare, non assumere, assumere attraverso contratti precari che costano poco, chiedere la moneta al popolo attraverso le tasse che aumentano quotidianamente, privatizzare, liberalizzare, svendere, innalzare l’età pensionabile, tagliare gli stipendi, tagliare le pensioni, tagliare i fondi alla cultura, alla ricerca, alla scuola, alle università, alla sanità, ai servizi sociali e locali e chi più ne ha più ne metta: ecco spiegata la quotidianità di tantissimi paesi ed il meccanismo all’interno della quale attualmente si trova anche il nostro paese. La moneta in generale, comunque, non è mai di proprietà dei cittadini privati o delle banche: essi possono solo usarla, prendendola in prestito dalle banche o guadagnandola attraverso il lavoro. I soldi sono un mezzo che lo Stato spende per primo e solo successivamente tutti i cittadini ne usufruiscono, spendendoli a loro volta.Hanno tolto ad alcuni Stati la possibilità di stampare moneta e hanno fatto credere ad altri che possono ancora stampare, che il debito sovrano di un paese è un vero debito per il preciso fine descritto in maniera impeccabile dall’economista Joseph Halevi: «Quello che è in gioco è la totale privatizzazione della finanza pubblica e dunque la distruzione degli Stati». Come ci spiega il “Rapporto Grandi Disuguaglianze Crescono” di Oxfam, presentato nel gennaio 2015: «La ricchezza detenuta da meno dell’1% della popolazione mondiale supererà nel 2016 quella del restante 99%.» François Mitterand, parlando con Halevi a proposito del tema inflazione, deflazione, disoccupazione, precarietà e naturalmente del tema della piena occupazione, affermava: «La gente deve togliersi di mezzo. La piena occupazione darebbe troppo potere al popolo. La deflazione, la disoccupazione e i lavori precari, invece, glielo sottraggono».Ok, ma quanto e fino a quando può spendere uno Stato? Randall Wray, tra i più importanti e accreditati economisti e monetaristi del mondo: «Se capiamo come funzionano i sistemi monetari, se comprendiamo che il denaro è solo impulsi elettronici o carta straccia inventata dal Tesoro e dalla Bc, allora possiamo dire che il governo a moneta sovrana può inventarsi tutti gli impulsi elettronici che vuole, con essi può pagare tutti gli stipendi che vuole, comprare tutto ciò che vuole. Possiamo avere la piena occupazione, il business può vendergli tutto ciò che deve vendere se il governo vuole comprarglielo. Può il governo permettersi queste spese? Certo, perché il governo non esaurirà mai gli impulsi elettronici, dunque non farà mai bancarotta; preme un bottone e gli stipendi appaiono sui computer delle banche. L’unico limite è l’inflazione, ma se il governo spende per aumentare la produttività nel settore privato, allora l’inflazione non è più un problema».Per quale motivo, se è così semplice raggiungere l’obiettivo della piena occupazione, esso non sia mai stato perseguito? Ancora Wray: «Non è successo perché innanzi tutto ci sono un sacco di politici ed economisti che non capiscono nulla dei sistemi monetari, cioè non sanno capire che il denaro è solo impulsi elettronici e carta straccia. Poi ci sono molti individui nelle posizioni chiave del potere che sono opposti ideologicamente a questa idea, cioè vogliono la disoccupazione, gli piace, gli dà schiere di lavoratori a stipendi sempre più ridotti e possono competere sui mercati esteri sempre meglio. Ma soprattutto questo, si faccia attenzione: se i cittadini, che formano gli Stati ed eleggono i governi, si rendessero conto che i governi possono spendere quanto vogliono senza limiti di debito, allora il settore pubblico acquisirebbe una percentuale della ricchezza nazionale troppo grossa».Eccesso di inflazione? Lo Stato introduce una tassa temporanea, in modo da togliere di mezzo gli eventuali soldi in eccesso e la situazione è risolta. In conclusione: se il settore pubblico acquisisse una percentuale della ricchezza troppo grossa, i privati non avrebbero più ragione d’esistere, avrebbero un ruolo troppo marginale, un ruolo di scarsa importanza, pochi soldi, troppo poco potere, sarebbero dei normali lavoratori: non sarebbero più intoccabili e onnipotenti come lo sono diventati oggi. Questo è il motivo per cui ci lasciano vivere nell’attuale mondo che funziona al contrario e con la quotidiana paura del debito e dell’inflazione che ci viene quotidianamente “imposta” da tutti i loro amici inseriti nell’informazione ufficiale.(Vincenzo Bellisario, estratti da “Riepilogo generale finalizzato alla comprensione dei meccanismi monetari ed economici in favore della piena occupazione applicabili in Italia e nel mondo”, intervento pubblicato sul sito del Movimento Roosevelt il 18 ottobre 2015).Perché ancora oggi ci sono persone senza cibo o acqua mentre altre vivono nell’abbondanza? Perché ancora oggi ci sono persone senza un lavoro e altre che ne hanno svariati? Perché ancora oggi ci sono persone senza casa e altre che ne hanno svariate? Perché ancora oggi ci sono persone senza soldi e altre con tanti soldi? Se davvero esiste una soluzione ai problemi della gente, perché nessuno la metta in pratica? Perché tutti si occupano sempre degli effetti dei problemi, trascurando le cause? Perché nessuno ci spiega qual è la causa? Perché se qualcuno conosce la causa, nessuno mette in campo la soluzione? Qual è la soluzione? Quotidianamente guardiamo, ascoltiamo e leggiamo del problema dei soldi che non ci sono, della disoccupazione che aumenta, dell’economia che non va bene perché i soldi non ci sono, degli imprenditori e dello Stato che non possono assumere perché non ci sono i soldi; del fatto che il debito pubblico aumenta perché l’economia non va bene perché mancano i soldi e quindi bisogna tagliare le spese ed aumentare le tasse in modo da abbassare i decifit annuali e il debito pubblico.
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Lafontaine: Italia, basta subire. Serve una sinistra No-Euro
La sconfitta del governo greco guidato da Syriza davanti all’Eurogruppo ha portato la sinistra europea a domandarsi quali possibilità abbia un governo guidato da un partito di sinistra, o un governo in cui un partito di sinistra sia coinvolto come partner di minoranza, di portare avanti una politica di miglioramento della condizione sociale di lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, e delle piccole e medie imprese, nel quadro dell’Unione europea e dei trattati europei. La risposta è chiara e brutale: non esistono possibilità per una politica tesa al miglioramento della condizione sociale della popolazione, fintanto che la Bce, al di fuori di ogni controllo democratico, è in grado di paralizzare il sistema bancario di un paese soggetto ai trattati europei. Non esistono possibilità di mettere in atto politiche di sinistra se un governo cui la sinistra partecipi non dispone degli strumenti tradizionali di controllo macroeconomico, come la politica dei tassi di interesse, la politica dei cambi e una politica di bilancio indipendenti.Per migliorare la competitività relativa del proprio paese sotto l’ombrello dell’euro, restano al singolo paese sottoposto alle condizioni dei trattati europei solo la politica salariale, la politica sociale e le politiche del mercato del lavoro. Se l’economia più forte, quella tedesca, pratica il dumping salariale dentro un’unione monetaria, gli altri paesi membri non hanno altra scelta che applicare tagli salariali, tagli sociali e smantellare i diritti dei lavoratori, così come vuole l’ideologia neoliberista. Se poi l’economia dominante gode di tassi di interesse reali più bassi e dei vantaggi di una moneta sottovalutata, i suoi vicini europei non hanno praticamente alcuna possibilità. L’industria degli altri paesi perderà sempre più quote sul mercato europeo e non europeo. Mentre l’industria tedesca produce oggi tanto quanto produceva prima della crisi finanziaria, secondo i dati Eurostat, la Francia ha perso circa il 15% della sua produzione industriale, l’Italia il 30%, la Spagna il 35% e la Grecia il 40%.La destra europea si è rafforzata anche perché mette in discussione l’euro e i trattati europei, e perché nei paesi membri cresce la consapevolezza che i trattati europei e il sistema monetario europeo soffrano di alcuni difetti costitutivi. Come dimostra l’esempio tedesco, la destra europea non si preoccupa della compressione dei salari, dello smantellamento dei diritti dei lavoratori e delle politiche di austerità più severe. La destra vuole tornare allo Stato nazionale, offrendo però soluzioni economiche che rappresentano una variante nazionalistica delle politiche neoliberiste e che porterebbero agli stessi risultati: aumento della disoccupazione, aumento del lavoro precario e declino della classe media. La sinistra europea non ha trovato alcuna risposta a questa sfida, come dimostra soprattutto l’esempio greco. Attendere la formazione di una maggioranza di sinistra in tutti i 19 Stati membri è un po’ come aspettare Godot, un autoinganno politico, soprattutto perché i partiti socialdemocratici e socialisti d’Europa hanno preso a modello la politica neoliberista.Un partito di sinistra deve porre come condizione alla sua partecipazione al governo la fine delle politiche di austerità. Tuttavia ciò è possibile solo se in Europa prende forma una costituzione monetaria che conservi la coesione europea, ma che riapra ai singoli paesi la possibilità di un ritorno a un sistema monetario europeo (Sme) migliorato, che consenta nuovamente di ricorrere alla rivalutazione e alla svalutazione. Tale sistema restituirebbe ai singoli paesi un ampio controllo sulle rispettive banche centrali e offrirebbe loro i margini di manovra necessari per conseguire una crescita costante e l’aumento dell’occupazione attraverso maggiori investimenti pubblici e a politiche capaci di aumentare la crescita e i posti di lavoro, così come per contrastare, tramite la svalutazione, l’ingiusto dumping salariale operato dalla Germania o da un altro Stato membro.Questo sistema ha funzionato per molti anni e ha impedito l’emergere di gravi squilibri economici, come ne esistono attualmente nell’Unione europea. Rivolgendomi ai sindacati italiani, tengo a sottolineare che lo Sme non è mai stato perfetto, dominato com’era dalla Bundesbank. Ma nel sistema euro la perdita del potere d’acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori attraverso salari più bassi (svalutazione interna) è maggiore. A me, osservatore tedesco, risulta molto difficile capire perché l’Italia ufficiale assista più o meno passivamente alla perdita del 30% delle quote di mercato delle sue industrie. Silvio Berlusconi e Beppe Grillo hanno messo sì in discussione il sistema euro, ma ciò non ha impedito all’Eurogruppo di imporre il modello delle politiche neoliberiste alla politica italiana. Oggi la sinistra italiana è necessaria come non mai.La perdita di quote di mercato, l’aumento della disoccupazione e del lavoro precario, con la conseguente compressione dei salari, possono rientrare nei miopi interessi delle imprese italiane, ma la sinistra italiana non può più stare a guardare questo processo di de-industrializzazione. Lo sviluppo in Grecia e in Spagna, in Germania e in Francia, dimostra come la frammentazione della sinistra possa essere superata non solo con un processo di unificazione tra i partiti di sinistra esistenti ma soprattutto con l’incontro di tante energie innovative fuori dal circuito politico tradizionale. Solo una sinistra sufficientemente forte nei rispettivi Stati nazionali potrà cambiare la politica europea. La sinistra europea ha bisogno ora di una sinistra forte in Italia.(Oskar Lafontaine, “Lettera alla sinistra italiana”, ripresa da “Contropiano” il 14 ottobre 2015. Già ministro delle finanze della Germania, Lafontaine è stato presidente dell’Spd, il partito socialdemocratico tedesco, e poi fondatore della Linke, il partito della sinistra).La sconfitta del governo greco guidato da Syriza davanti all’Eurogruppo ha portato la sinistra europea a domandarsi quali possibilità abbia un governo guidato da un partito di sinistra, o un governo in cui un partito di sinistra sia coinvolto come partner di minoranza, di portare avanti una politica di miglioramento della condizione sociale di lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, e delle piccole e medie imprese, nel quadro dell’Unione europea e dei trattati europei. La risposta è chiara e brutale: non esistono possibilità per una politica tesa al miglioramento della condizione sociale della popolazione, fintanto che la Bce, al di fuori di ogni controllo democratico, è in grado di paralizzare il sistema bancario di un paese soggetto ai trattati europei. Non esistono possibilità di mettere in atto politiche di sinistra se un governo cui la sinistra partecipi non dispone degli strumenti tradizionali di controllo macroeconomico, come la politica dei tassi di interesse, la politica dei cambi e una politica di bilancio indipendenti.
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Torna la lotta di classe, contro il regime che taglia il lavoro
La Confindustria ha deciso di non rinnovare più i contratti nazionali, nonostante la moderazione delle piattaforme già varate da Cgil, Cisl e Uil, con richieste salariali medie di 30 euro lordi all’anno e con la piena disponibilità a venire incontro a tante richieste delle imprese. A sua volta il governo ha prestato un doppio soccorso agli industriali, come imprenditore con il blocco dei contratti pubblici, e come legislatore con l’annuncio della legge sul salario minimo. Quest’ultima in realtà dovrebbe essere definita come legge per rendere minimo il salario, visto che la cifra ipotizzata, 6 euro lordi all’ora, è poco più della metà della retribuzione minima prevista dai contratti nazionali. Grazie alla nuova legge e al Jobs Act, una impresa potrebbe licenziare i suoi dipendenti pagati 12 euro e poi assumere gli stessi o altri lavoratori al salario minimo di legge. Naturalmente il minimo salario non dovrebbe essere applicato indistintamente a tutti, anche il manager più feroce sa che ci sono lavori e attività che non possono essere gestiti con paghe così basse. Qui viene in soccorso il modello di relazioni sociali proposto con grande risalto dal “Corriere della Sera”.Questo giornale, da quando Marchionne e la famiglia Agnelli ne hanno rafforzato il controllo, è diventato l’organo ufficiale di propaganda del nuovo regime padronale. Così qualche giorno fa il quotidiano milanese ha lanciato il modello sociale aziendalistico, che non è certo una novità nella storia del capitalismo imprenditoriale. Una volta non solo il salario, ma anche la casa, il cibo, le cure sanitarie, la pensione, la scuola dei figli, le vacanze, persino i funerali erano aziendali. Una volta non solo la Fiat, ma tanti padri padroni affermavano così il loro dominio sul lavoro. I conti Marzotto a Valdagno avevano costruito un sistema per cui si era dipendenti aziendali dalla nascita alla tomba. Ora la distruzione dello stato sociale, la disoccupazione e la precarietà, il Jobs Act e la cancellazione del contratto nazionale creano le condizioni per il ritorno a questo aziendalismo medioevale.La svolta da noi l’ha operata Sergio Marchionne, quando nell’estate del 2010 impose ai lavoratori di Pomigliano l’aut aut: o uscire dal contratto nazionale o uscire per sempre dalla fabbrica. Solo la Fiom ed i sindacati di base respinsero il ricatto, che alla fine però ebbe successo. L’allora segretario del Pd Bersani dichiarò che il modello Pomigliano si sarebbe potuto accettare se fosse rimasto una eccezione, ma naturalmente divenne la regola. Allora, Cgil, Cisl e Uil cercarono di ritrovare spazio con lo scambio praticato da trenta anni: l’arretramento dei lavoratori per il riconoscimento del proprio ruolo. Il 10 gennaio 2013 i sindacati confederali e la Confindustria sottoscrissero con grande enfasi una intesa che avrebbe dovuto rilanciare le relazioni industriali. I sindacati accettavano di generalizzare il modello Marchionne in ogni azienda, in cambio della promessa del rinnovo dei contratti nazionali. Oggi quell’accordo registra un totale fallimento e chi lo ha sottoscritto viene descritto come irragionevole da Squinzi. Chi si fa pecora il lupo se lo mangia, dice un proverbio siciliano.La distruzione del contratto nazionale non è solo un interesse del grande padronato italiano, è un obiettivo di fondo delle cosiddette riforme del lavoro volute dalla finanza internazionale, in Europa dalla Troika. Nel nuovo memorandum imposto alla Grecia la soppressione della contrattazione collettiva è uno dei punti cardine. La sempre da ricordare lettera di Draghi e Trichet al governo italiano, nell’agosto 2011 chiedeva sulla contrattazione le stesse cose che oggi pretendono Squinzi, Renzi e il “Corriere della Sera”. Abbattere i salari e i diritti e alzare i profitti, questa è la lotta di classe dall’alto che da tempo viene condotta contro il lavoro e che ogni sistema di potere pratica come può. La vera novità oggi sono i segnali di ripresa della lotta di classe dal basso, le ribellioni che cominciano a sorgere nel mondo del lavoro. Alla Chrysler gli operai hanno respinto in massa il contratto accettato dai loro sindacati e si preparano a scioperare. In Germania i macchinisti hanno tenuto bloccato per una settimana il trasporto ferroviario del paese. Lo stesso hanno fatto i conducenti della metropolitana di Londra. I dipendenti di Air France sono stati sui mass media, e hanno riscosso simpatia in tutto il mondo, per il brutto quarto d’ora che hanno fatto passare ai manager che li vogliono licenziare.Anche da noi ci sono simili segnali. Da tempo i lavoratori della logistica, in gran parte immigrati, organizzati dal Sicobas, fanno scioperi durissimi che spesso producono risultati. Ma ora anche il lavoro più tradizionale ha ricominciato a farsi sentire. Secondo il garante degli scioperi, le agitazioni nella scuola sono più che raddoppiate e così quelle in altri settori dei servizi. Solo pochi giorni fa i trasporti a Roma sono stati bloccati da uno sciopero che ha visto una partecipazione altissima, ben superiore alle forze della Usb che sola lo aveva proclamato. Dopo anni di rassegnazione, nel mondo del lavoro c’è chi comincia ad alzare la testa e quando lo fa esprime subito tutta la rabbia accumulata per le ingiustizie subite. È per questo che si vuole colpire il diritto stesso a scioperare. Non ci sono ancora in campo mobilitazioni sociali della portata di quelle dei decenni passati. Ma i segnali di lotta di classe dal basso sono già allarmanti per chi vuole continuare a condurla indisturbato dall’alto.La reazione contro la ripresa degli scioperi è in tutti gli Stati europei. La magistratura tedesca ha fermato lo sciopero nella Lufthansa. Il governo spagnolo ha varato leggi anti-manifestazioni. Il governo Cameron sta varando una legge sul diritto di sciopero così restrittiva, che un parlamentare che pure la sostiene l’ha comparata a quelle di un regime fascista. In Italia il solito “Corriere della Sera” ha sponsorizzato la proposta di limitazione dello sciopero di alcuni parlamentari renziani, che ricalca quella britannica. L’austerità impone il taglio dei salari e la distruzione dei diritti, l’attacco al diritto di sciopero deve prevenire la ribellione dei lavoratori, mentre i sindacati vanno ridotti all’impotenza e additati al disprezzo dell’opinione pubblica. Tutto si tiene e tutto si fa nel nome di una ripresa che, così come viene promessa, non ci sarà mai.La linea trentennale di Cgil, Cisl e Uil esce distrutta da questa nuova fase dei conflitti sociali. Il modello concertativo è diventato oramai pura gestione dell’impotenza e i proclami televisivi a cui non segue nulla non lo rafforzano di certo. L’alternativa alla resa è una sola, ci vuole un modello sindacale che faccia propria la lezione delle mobilitazioni radicali del lavoro e che, così come fa il sistema delle imprese, sostenga e promuova la lotta di classe. Il fallimento di Cgil, Cisl e Uil apre la via ad un nuovo sindacalismo conflittuale a cui sempre più si rivolgeranno i lavoratori che si ribellano. E un giorno la Confindustria rimpiangerà l’arroganza attuale.(Giorgio Cremaschi, “Il ritorno alla lotta di classe”, da “Micromega” dell’8 ottobre 2015).La Confindustria ha deciso di non rinnovare più i contratti nazionali, nonostante la moderazione delle piattaforme già varate da Cgil, Cisl e Uil, con richieste salariali medie di 30 euro lordi all’anno e con la piena disponibilità a venire incontro a tante richieste delle imprese. A sua volta il governo ha prestato un doppio soccorso agli industriali, come imprenditore con il blocco dei contratti pubblici, e come legislatore con l’annuncio della legge sul salario minimo. Quest’ultima in realtà dovrebbe essere definita come legge per rendere minimo il salario, visto che la cifra ipotizzata, 6 euro lordi all’ora, è poco più della metà della retribuzione minima prevista dai contratti nazionali. Grazie alla nuova legge e al Jobs Act, una impresa potrebbe licenziare i suoi dipendenti pagati 12 euro e poi assumere gli stessi o altri lavoratori al salario minimo di legge. Naturalmente il minimo salario non dovrebbe essere applicato indistintamente a tutti, anche il manager più feroce sa che ci sono lavori e attività che non possono essere gestiti con paghe così basse. Qui viene in soccorso il modello di relazioni sociali proposto con grande risalto dal “Corriere della Sera”.
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Gli Usa? Mai neppure tentato di colpire l’Isis: ecco le prove
Navigando su internet ho trovato un documento molto interessante, anche perché la fonte è insospettabile: il Council on Foreign Relations, ovvero il think tank di altissimo livello che forma le élites sia del partito democratico che di quello repubblicano destinate a governare il paese. Molti lo considerano, non a torto, il vero pensatoio della politica estera statunitense. Uno dei suoi ricercatori, Mikah Zenko, ha paragonato i bombardamenti degli americani nelle grandi missioni militari degli ultimi vent’anni con quelli in Siria. Vediamoli. Da quando un anno fa è stata lanciata la campagna militare contro l’Isis, il Pentagono ha sganciato 43 bombe al giorno, mentre in Irak nel 2003 ne lanciò 1.039, in Afghanistan 230, in Kosovo 364 e nel 1991 nella prima guerra addirittura 6.123. E ricordatevi la polemica di qualche mese fa, di cui ho dato conto su questo blog, quando i piloti statunitensi protestarono con il Pentagono per le regole di ingaggio a cui dovevano sottostare, regole così assurde e burocratiche che di fatto vanificavano la possibilità di colpire seriamente ed efficacemente le truppe del califfato islamico.Quando gli Usa fanno sul serio, la loro force de frappe è devastante per intensità e potenza; invece quando, come accade in Siria contro l’Isis, si limita a dei raid dimostrativi, significa che la vittoria finale non è la vera priorità e le operazioni hanno più che altro fini mediatici.Chi invece vuole vincere è Putin. E la differenza è evidente. Il Cremlino sta colpendo molto duramente i gruppi armati salafiti in Siria, persino con missili di lunga gittata. E che tali gruppi appartengano all’Isis o al Qaida o ad altre organizzazioni islamiche è francamente risibile: i ribelli armati moderati in Siria di fatto non esistono, sono tutti estremisti islamici della peggior risma. Sia chiaro: al sottoscritto non piacciono né le bombe americane né quelle russe e vorrei, come ha scritto Ron Paul, che nessun ordigno insanguinasse la Siria.Sun Tzu insegna che la guerra è la soluzione estrema, a cui bisogna ricorrere solo in casi estremi, e il fatto che si sia arrivato a tanto rappresenta una sconfitta per tutti i grandi paesi, a cominciare da quelli occidentali, dall’Arabia Saudita e dalla Turchia, responsabili per la destabilizzazione della regione. Ma una volta che è dichiarata va combattuta senza se e senza ma, soprattutto avendo ben chiari gli obiettivi: l’America dice di voler sconfiggere l’Isis ma la sua priorità è di far cadere Assad ovvero l’uomo che si oppone all’Isis. E non sembra per nulla preoccupata dalla conseguenza ultima delle sue manovre che è quella di consegnare al neocaliffato e/o ad Al Qaida l’area tra Siria e gran parte dell’Iraq, ovvero a un regime violento, settario, retrogrado; il peggio che si possa immaginare e ben lontano dai valori di democrazia, libertà, diritto che Washington difende e promuove in altre parti del mondo. Capire le logiche di questa America è davvero molto difficile.(Marcello Foa, “Ecco la prova che l’America non sta bombardando l’Isis”, dal blog di Foa su “Il Giornale” dell’8 ottobre 2015).Navigando su internet ho trovato un documento molto interessante, anche perché la fonte è insospettabile: il Council on Foreign Relations, ovvero il think tank di altissimo livello che forma le élites sia del partito democratico che di quello repubblicano destinate a governare il paese. Molti lo considerano, non a torto, il vero pensatoio della politica estera statunitense. Uno dei suoi ricercatori, Mikah Zenko, ha paragonato i bombardamenti degli americani nelle grandi missioni militari degli ultimi vent’anni con quelli in Siria. Vediamoli. Da quando un anno fa è stata lanciata la campagna militare contro l’Isis, il Pentagono ha sganciato 43 bombe al giorno, mentre in Irak nel 2003 ne lanciò 1.039, in Afghanistan 230, in Kosovo 364 e nel 1991 nella prima guerra addirittura 6.123. E ricordatevi la polemica di qualche mese fa, di cui ho dato conto su questo blog, quando i piloti statunitensi protestarono con il Pentagono per le regole di ingaggio a cui dovevano sottostare, regole così assurde e burocratiche che di fatto vanificavano la possibilità di colpire seriamente ed efficacemente le truppe del califfato islamico.
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Gender: facile da controllare, l’uomo senza identità sessuale
Verso il cosiddetto “nuovo ordine mondiale”, le élites starebbero tentando di “rielaborare” l’umanità a proprio piacimento, anche grazie la creazione dell’“uomo senza identità” che sarebbe fabbricato dall’ideologia gender, le cui strategie (e obiettivi) vengono messi a fuoco dal libro “Unisex” di Enrica Perucchietti, scritto a quattro mani con Gianluca Marletta. «Un libro che ancor prima di essere pubblicato ha scatenato forti polemiche da parte dei movimenti femministi e Lgbt, secondo i quali la cosiddetta “teoria gender” nemmeno esiste», scrive Riccardo Allione su “Vvox”. L’autrice però non ci sta: «L’ideologia di genere esiste e ha la sua storia: l’espressione è stata coniata da John Money, padre degli studi di genere insieme ad Alfred Kinsey. Dopo gli anni ’80 si arenò in seguito ai fallimenti degli esperimenti di Money e oggi è stata riesumata. È vero che esistono gli studi di genere, ma d’altra parte c’è il tentativo politico-mediatico di recuperare velleità dei padri del gender». Niente complottismi, dice la Perucchietti. Ma è evidente il «processo di globalizzazione spinto dalle lobby mondialiste che mira a spersonalizzare l’individuo, e questo processo si sta focalizzando sulla questione dell’identità sessuale, per rendere le nuove generazioni più facilmente manipolabili e omologate».Nel concreto, da un lato le multinazionali finanziano le campagne elettorali chiedendo in cambio di promuovere quelle politiche, e dall’altro c’è l’industria culturale: «Sempre più spesso, film e serie tv fanno passare l’idea di una sessualità fluida». Nel libro, la Perucchietti cita un serial di Mtv, “Faking it”, dove le protagoniste e i loro amici cambiano più volte orientamento sessuale nel corso della stagione. «C’è anche la musica: basta pensare a Miley Cyrus o Lady Gaga, che pur non essendo gay si fanno portavoce delle cause omosessuali, strumentalizzando il messaggio come strategia di marketing costruita a tavolino». Questo progetto avrebbe un duplice scopo: «I padri dell’ideologia gender sognavano una “democrazia sessuale” globale dove tutti gli orientamenti fossero leciti e legali, compresa la pedofilia. La seconda finalità è il controllo sociale: individui sempre più spersonalizzati e disorientati, senza un’identità definita, sono più facili da manipolare».Dietro l’intenzione di distruggere la famiglia tradizionale sostituendola con altri modelli c’è anche una questione economica: «Nel momento in cui vengono sdoganate le famiglie omogenitoriali, che per forza di cose non possono avere figli, si favorisce il business delle maternità surrogate e degli uteri in affitto». Tuttavia, spiega la Perucchietti, la questione non riguarda l’omosessualità in sé. «Nel libro contestiamo il fatto che si sta spingendo verso un’idea di sessualità culturale: non si nasce maschio o femmina per natura, ma lo si diventa per cultura. Un’idea contestata anche da Vladimir Luxuria durante una diretta radiofonica a cui ho partecipato. Eppure è questo ciò che insegnavano i fondatori dell’ideologia di genere. Il rischio è di sfociare nel trans-umanesimo, nel post-umano, e quello che preoccupa è che tale manipolazione avviene in maniera sempre più capillare e perfino violenta».Per contro, osserva Allione, si potrebbe controbattere che la difesa dei “valori tradizionali” è a sua volta propaganda dei poteri forti più conservatori, ad esempio la Chiesa. «Qualsiasi tesi portata avanti con il vessillo di un dogma rischia di diventare fanatismo o di essere strumentalizzata», taglia corto l’autrice. «Le difese a oltranza sono sbagliate, si finisce sempre in fazioni pro o contro, ma così non si dialoga. Non si può combattere un’ideologia con un’altra ideologia. Noi abbiamo cercato di curare un’inchiesta giornalistica storico-sociologica nel modo più obbiettivo possibile». Venendo all’attualità e al polverone alzato dal disegno di legge Fedeli sull’educazione di genere a scuola, «si è fatta molta disinformazione, però il ministro Giannini che dichiara che l’ideologia di genere è una bufala minacciando le vie legali, ricorda molto la “psico-polizia” di Orwell». Per quanto riguarda invece i libri per l’infanzia censurati a Venezia, per la giornalista torinese «l’idea dell’insegnamento gender all’asilo o alle elementari è assolutamente folle».A scuola, aggiunge la Perucchietti, non bisognerebbe parlare di certe tematiche a bambini così piccoli: «Non conosco tutti i libri, ma ne ho letti alcuni, come quello sulla maternità surrogata (“Perché hai due mamme?”, edito da “Lo Stampatello”), che mi è sembrato pazzesco. Perché bisogna spiegare queste cose a un bambino di quattro anni? Non si capisce, a me pare una strumentalizzazione per sdoganare la fecondazione eterologa». Per contrastare questa “mutazione antropologica” messa in atto dall’ideologia gender, l’unica strada passa dall’informazione. «Sia chi è contro il gender, sia i sostenitori, si sono formati un’idea sulla base di chiacchiere, per sentito dire. Molte delle critiche al nostro libro sono state fatte prima della sua pubblicazione. Come si fa a stroncare un libro non ancora uscito, sulla base della copertina? Ci vuole senso critico, dopodiché uno si forma un’idea, ma non sulla base di posizioni acritiche e fanatiche».(Il libro: Enrica Perucchietti e Gianluca Marletta, “Unisex – Cancellare l’identità sessuale, la nuova arma della manipolazione globale”, Arianna Editrice, 224 pagine, euro 11,80).Verso il cosiddetto “nuovo ordine mondiale”, le élites starebbero tentando di “rielaborare” l’umanità a proprio piacimento, anche grazie la creazione dell’“uomo senza identità” che sarebbe fabbricato dall’ideologia gender, le cui strategie (e obiettivi) vengono messi a fuoco dal libro “Unisex” di Enrica Perucchietti, scritto a quattro mani con Gianluca Marletta. «Un libro che ancor prima di essere pubblicato ha scatenato forti polemiche da parte dei movimenti femministi e Lgbt, secondo i quali la cosiddetta “teoria gender” nemmeno esiste», scrive Riccardo Allione su “Vvox”. L’autrice però non ci sta: «L’ideologia di genere esiste e ha la sua storia: l’espressione è stata coniata da John Money, padre degli studi di genere insieme ad Alfred Kinsey. Dopo gli anni ’80 si arenò in seguito ai fallimenti degli esperimenti di Money e oggi è stata riesumata. È vero che esistono gli studi di genere, ma d’altra parte c’è il tentativo politico-mediatico di recuperare velleità dei padri del gender». Niente complottismi, dice la Perucchietti. Ma è evidente il «processo di globalizzazione spinto dalle lobby mondialiste che mira a spersonalizzare l’individuo, e questo processo si sta focalizzando sulla questione dell’identità sessuale, per rendere le nuove generazioni più facilmente manipolabili e omologate».
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Volkswagen, scandalo made in Usa: guai se Berlino scappa
Anno movimentato per il gruppo Volkswagen: prima un bilancio dagli utili record ed il traguardo da primo produttore mondiale in vista, poi la notizia delle centraline manipolate che nel giro di pochi giorni brucia metà della capitalizzazione in borsa. Ad innescare lo scandalo è la statunitense Environmental Protection Agency che accusa i diesel tedeschi di emettere ossidi d’azoto oltre i limiti consentiti: le teste dei vertici di Wolfsburg cadono e l’affidabilità teutonica incassa un duro colpo. Scrupolosità ambientalistica delle agenzie americane? Sgambetto industriale? «No. Come lo scandalo Fifa, la “scoperta” di illeciti su cui si è sempre chiuso un occhio, ha finalità politiche. Berlino, nonostante la gestione di Angela Merkel, è per gli americani l’incognita dirimente», scrive Federico Dezzani. «Se la Germania si sganciasse dal blocco atlantico, Washington perderebbe il teatro europeo e, di conseguenza, l’egemonia globale». Per questo, sostiene Dezzani, è inevitabile individuare una precisa regia statunitense nell’esplosione dello scandalo che sta demolendo la credibilità di una Germania che si è fatta detestare per il trattamento riservato alla Grecia.Ein Volk, ein Wagen, ein Skandal: diesel e Germania fanno un distico, scrive Dezzani sul suo blog. «Se si volesse una terzina, allora sarebbe Diesel, Germania e Volkswagen». È nella febbricitante Germania guglielmina, apripista della seconda rivoluzione industriale, che Rudolf Diesel inventa un motore basato sulla compressione dell’aria: l’impiego non tarda nell’industria bellica ma bisogna attendere gli anni ’30 perché una vettura di lusso, la Mercedes-Benz W138, monti un pesante e costoso motore a gasolio. «Quando Adolf Hitler affida al geniale Ferdinand Porsche la progettazione di un’auto per la motorizzazione di massa, la scelta cade non a caso su un più economico motore a benzina: sono le versioni da 1,1-1,6 litri che monta la Volkswagen Typ 1, meglio nota come il “Maggiolino”. Per abbattere i costi di produzione e rendere il prezzo abbordabile, si adottano le più moderne tecniche fordiste e si erigono fabbriche ex-novo: attorno a loro nasce la cittadina di Wolfsburg, sede dell’attuale gruppo Volkswagen».La casa tedesca segue da subito le fortune della Germania: gli impianti, convertiti ad uso bellico, crollano sotto le bombe alleate del ’44-’45. Le forze d’occupazione inglesi, resistendo alle pressioni di chi vuole “ruralizzare” la Germania sconfitta, acconsentono ad un rapida ripresa dell’attività: esportare, per i tedeschi, significa tornare a vivere, nell’immediato dopoguerra. E il mito felice del Maggiolino si afferma solo col “miracolo economico”. Il decollo però coincide con l’inizio della parabola discendente per la Fiat e passa per la prima Golf del 1974, disegnata da Giorgetto Giugiaro. «Protetta dalla “legge Volkswagen” che ne impedisce le scalate ostili e blindata dai pacchetti azionari in mano al land della Bassa Sassonia ed i discendenti di Porsche – continua Dezzani – la casa di Wolfsburg fa da polo aggregante per l’industria meccanica, inglobando marchi (Audi, Seat, Skoda, Bentley, Bugatti, Lamborghini, Porsche, Ducati, Scania, Man) che consentono una diversificazione per prodotto, fascia di prezzo e paese».Sono le proprio le vetture di lusso e la trentennale presenza in Cina (oggi secondo mercato per il gruppo) a regalare un bilancio 2014 da record: un fatturato da 200 miliardi di euro, 14 miliardi di utili e il traguardo come primo produttore mondiale in vista. Quando nel marzo 2015 è presentato il bilancio consolidato, le azioni Volkswagen sono scambiate a 250 euro: «La casa di Wolfsburg è all’apice del successo, specchio di una Germania sempre più sicura della propria forza economica e dell’influenza politica derivante». Man mano che dalla Cina giungono segnali di rallentamento, le azioni Vw danno segnali di malessere, attestandosi a 170 euro a metà settembre. «Poi ha inizio il bagno di sangue, un assalto speculativo in grande stile che ricalca le recenti ondate ribassiste contro il rublo e la borsa cinese». Lunedì 21 settembre le azioni perdono il 20% del valore, bruciando 14 miliardi, e nell’arco di una settimana la capitalizzazione in borsa è pressoché dimezzata, con le azioni scambiate il 30 settembre a 95 euro. A innescare il crollo è la notizia che l’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (Epa) ha individuato un software nelle centraline delle Volkswagen che spegne il controllo delle emissioni durante la guida e lo riaccende per i test. Il gruppo tedesco, minaccia l’Epa, rischia una multa fino a 18 miliardi, 37.500 dollari per ognuna delle 480.000 auto turbodiesel incriminate.Immediata la campagna mediatica sul fallimento del sistema-paese della Germania, piuttosto che sui presunti danni all’ambiente: trascurando il fatto che i diesel ammontino solo al 24% delle vendite Volkswagen negli Usa e che l’inquinamento prodotto dal veicolo medio americano sia di gran lunga maggiore, viene «sferrato un tale bombardamento mediatico da obbligare la casa automobilistica a correre ai ripari: l’amministratore delegato Martin Winterkorn rassegna le dimissioni ed è annunciato uno “spietato repulisti” nell’azienda». Il Credit Suisse stima tra i 25 e i 75 miliardi di euro il costo dello scandalo, paventando la necessità di un aumento di capitale per la casa di Wolfsburg. La multa da 18 miliardi minacciata dall’Epa? «Un importo talmente alto da far pensare ad una provocazione, utile ad alimentare la tempesta mediatica». E’ la stessa somma appena pagata alle autorità americane dalla British Petroleum per il disastro ambientale della piattaforma Deepwater Horizon che nel 2010 causò la più grande fuoriuscita di petrolio della storia nel Golfo del Messico, con 500.000 tonnellate di greggio sversate in mare.«L’inflessibilità delle autorità americane e l’accanimento dei media sono poi doppiamente sospette se paragonate ad uno scandalo che ha recentemente coinvolto un’altra casa automobilistica, la General Motors», aggiunge Dezzani. Nel febbraio del 2014, Gm è stata costretta a richiamare 800.000 auto per un difetto al blocchetto d’accensione, che aveva provocato almeno 13 incidenti mortali. Per risparmiare pochi centesimi, la casa di Detroit aveva montato una molla difettosa che poteva ruotare la chiave sulla posizione di spegnimento ad auto in corsa, «spegnendo il motore, bloccando il servosterzo e disattivando gli airbag». Reazioni in Borsa? Nessuna. E una multa di appena 35 milioni di dollari. Fatte le debite proporzioni, la sanzione ipotizzate dall’Epa contro la Volkswagen equivarrebbero a «500 morti per avvelenamento da ossido d’azoto, peggio di una testata chimica su un centro abitato». Di certo non si ricorda un attivismo pari a quello prodigato oggi da Parigi e Londra sul caso dell’auto tedesca: il governo francese che invoca un’inchiesta europea, quello britannico definisce «inaccettabili le azioni di Vw», il “Financial Times” che alza il tiro, scrivendo che a casa di Wolfsburg è impunita, nell’Unione Europea sotto il tallone tedesco.«Lo scandalo Vw è una rappresaglia americana contro Berlino, che su troppi dossier, dall’eurocrisi alla Russia passando per il Medio Oriente, pecca di “eccesso di sicurezza”», scrive Dezzani, che denuncia anche la «strisciante retorica anti-tedesca», diffusa anche in Italia «dai media ossequiosi alle direttive d’Oltreoceano». Ovvero: «Man mano che l’eurocrisi evolveva differentemente da come preventivato, il marcescente estabilshment italiano è stato ben felice di scaricare su Berlino (a mezzo stampa) parte delle tensioni accumulate durante l’interminabile crisi economica». Dezzani invoca «un minimo di verità storica». E ricorda: «La Germania esce sconfitta dall’ultima guerra insieme all’Italia e al Giappone, e alla stregua di una potenza occupata è trattata: dispiegamento permanente di forze armate statunitensi, subalternità dell’apparato di sicurezza a quello angloamericano, pesanti limitazioni alla politica estera ed economica (vedi l’ostilità di Henry Kissinger alla Ostpolitik e gli accordi di Plaza del 1985 che, imponendo la rivalutazione del marco sul dollaro, misero a dura prova l’economia tedesca nel decennio successivo)».A differenza dell’Italia, continua Dezzan, la Germania è dotata di una classe dirigente «compatta, istruita e conscia degli interessi del paese». Mentre gli anni di piombo hanno messo in crisi l’Italia con lo smantellamento dell’economia mista, «tra bombe e assalti speculativi», la Germania è emersa nei primi anni ’90 con un manifatturiero accresciuto e «risorse tali da comprarsi la Ddr». Poi la Germania «subisce sì l’euro», ma mantiene una posizione di dominio sulla Bce. E ora «dispone di un mercato europeo senza barriere e di un enorme sistema a cambi fissi (l’euro) che consente di tosare le quote di mercato dei concorrenti (Italia in primis) ed accrescere l’attivo della bilancia commerciale». Perché gli Usa non solo acconsentono all’operazione ma addirittura la guidano? «Innanzitutto la Germania resta un paese militarmente occupato e le figure apicali dello Stato sono accuratamente selezionate in base ai criteri di Washington, poi la moneta unica non avrebbe dovuto essere fine a se stessa, bensì fonte presto o tardi di una crisi (quella attuale) che avrebbe dovuto sfociare negli Stati Uniti d’Europa, alter ego di Washington».«L’euro, come prevedibile, rende più ricca e sicura di sé la Germania, che almeno in tre riprese tenta di strappare agli angloamericani un nuovo status, non più potenza sconfitta e subalterna ma potenza alla pari», continua Dezzani. Prima, Deutsche Börse tenta di acquistare l’americana Nyse Euronext. Poi, nel 2003, Berlino cerca (senza riuscirci) di entrare nel super-esclusivo club di spionaggio “Five Eyes”, che riunisce i paesi anglosassoni (Usa, Uk, Nuova Zelanda, Australia e Canada). Infine c’è il tentativo, anch’esso fallito, da parte dell’editore tedesco Axel Springer (di provata fede atlantica) di acquistare nell’estate 2015 il pacchetto di controllo del “Financial Times”. «Il messaggio che gli angloamericani inviano alla Germania è chiaro: al tavolo con noi non vi sedete, restate nel mucchio con gli altri europei e pensate a risolvere la crisi dell’euro». Gli Usa restano scontenti di Berlino: approvano la svolta neoliberista dell’Ue, ma sanno che la moneta unica «è presto o tardi destinata a spezzarsi, se Berlino non accetta la condivisione dei debiti pubblici, la nascita di un Tesoro europeo e, a ruota, di un governo federale».Invece di imboccare la via delle federazione continentale, la Germania prima rifiuta gli eurobond nel 2011, poi si asserraglia sull’austerità che scarica tutto il peso dell’euro-regime sulla periferia: tagli ai salari e inasprimento fiscale per uccidere l’import e riequilibrare le bilance commerciali. «Quando Alexis Tsipras, che gode del palese appoggio di Washington e Londra, minaccia di rifiutare le politiche d’austerità, i falchi di Berlino non esitano a dire: bene, la porta è quella, esci dall’euro! Solo il clamoroso retromarcia di Alexis Tsipras (testimoniando quali interessi si celano dietro i vari Syriza e Movimento 5 Stelle) evitano che la Grecia abbandoni l’Eurozona, sancendo la reversibilità della moneta unica». Per Dezzani è sintomatico l’atteggiamento di Romano Prodi, il padre italiano dell’euro, che «da posizioni filo-tedesche ed anti-americane ai tempi della guerra in Iraq del 2003, si è riposizionato durante l’eurocrisi di 180 gradi ed abbraccia ora una linea anti-tedesca e filo-americana». In una recente intervista ad Eugenio Scalfari, dichiara: «I tedeschi non soltanto non credono negli Stati Uniti d’Europa, ma non li vogliono. Vogliono una Germania sola. Hanno accettato l’euro perché lo considerano soprattutto la loro moneta, il marco che ha cambiato nome, tant’è vero che la Bundesbank, la Banca centrale tedesca, si oppone alla politica di Draghi che invece considera l’euro come la vera moneta europea».Draghi, aggiunge Prodi, è uno dei pochissimi che vogliono gli Stati Uniti d’Europa, e utilizza gli strumenti a sua disposizione per spingere su quella strada. Lo stesso Prodi rincara la dose in un’intervista all’“Huffington Post”: «Il potere tedesco è arrogante. Quando arrivi a un livello di sicurezza, chiamiamola anche di arroganza, così forte, i freni inibitori sono a rischio. In Germania non c’è contraddittorio tra i vari attori sociali, c’è un sistema molto compatto. Oggi con il caso Dieselgate emerge una crisi di un sistema, molto più complicata di una crisi politica che interessa solo la Merkel. Non a caso le irregolarità legate alla Volkswagen sono state scoperte da un’autorità americana. La cosa è stata messa fuori da una struttura non europea». Come gli americani, anche Prodi «sa che l’euro è un aereo in stallo, sorretto solo dall’allentamento quantitativo di Mario Draghi e destinato a schiantarsi non appena verranno meno gli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce (cui peraltro Berlino ha imposto che l’80% del debito acquistato finisse in pancia alle rispettive banche centrali nazionali)». Aggiunge Dezzani: «Quale investitore sano di mente acquisterebbe un Btp a 10 anni che rende l’1,6%, quando il paese flirta con la deflazione, ha un rapporto debito/Pil del 140% e istituti bancari appesantiti da 200 miliardi di crediti inesigibili?».Ma i motivi di tensione tra Berlino e Washington non si esauriscono qui e spaziano dalla questione del surplus commerciale tedesco all’Ucraina, passando per il Medio Oriente. Il primo a dissociarsi dall’appoggio garantito da Angela Merkel al cambio di regime a Kiev è stato il potentissimo mondo dell’industria, «che ha interessi da difendere a Mosca ben di più che a Kiev». Poi, continua Dezzani, è stato lo stesso governo tedesco a criticare i crescenti toni bellicistici contro la Russia del generale Philip Breedlove, responsabile del comando delle forze armate americane in Europa, con sede a Stoccarda. Non va meglio in Medio Oriente «dove la Germania, su posizioni sempre meno atlantiche e sempre più vicine ai Brics, prima si dichiara contro l’intervento militare in Libia (con la clamorosa astensione sulla risoluzione Onu 1973 che impone la “no-fly zone”) poi, è storia di questi giorni, quando la Russia opta per un intervento militare risolutivo in Siria, Berlino capovolge la politica finora seguita e afferma che Bashar Assad (la cui caduta è agognata da Washington e Tel Aviv sin dal 2011) è un interlocutore imprescindibile».Per Washington, occorre quindi “riportare all’ordine” la Germania. Come? «Ad agosto è aperta la via balcanica che, attraverso Macedonia, Serbia ed Ungheria, riversa in Austria e Germania decine di migliaia di persone nel lasso di poche settimane: benché Angela Merkel si dica pronta a ricevere 800.000 immigrati all’anno (esternazione che la fa precipitare nei sondaggi) il paese dà forti segnali di stress sotto l’improvvisa ondata migratoria (270.000 persone solo a settembre, più che nell’intero 2014). Non solo si moltiplicano gli attacchi dei gruppi di estrema destra contro le strutture d’accoglienza, dove peraltro aumenta la tensione tra immigrati, ma l’intero sistema di ricezione dei profughi si avvicina al punto di ebollizione: il presidente Joachim Gauck è costretto a rettificare le parole della cancelliera, chiarendo che c’è un limite all’accoglienza». Infine, arriva lo scandalo Volkswagen, «un vero attacco al sistema-paese». Domanda: «Basteranno queste rappresaglie a “riportare l’umiltà” in Germania?».Con l’attuale situazione internazionale, sempre più dinamica (l’intervento militare russo in Siria e il saldarsi dell’asse Mosca-Teheran-Baghdad-Damasco) la Germania «è il peso determinante, ovvero la potenza che sbilanciandosi verso uno schieramento (gli angloamericani e quel che resta della Francia) o l’altro (russi e cinesi) ne determina la vittoria». Se la Germania si saldasse con Russia e Cina, sostiene Dezzani, gli Usa sarebbero espulsi dall’Eurasia, e perderebbero la “testa di ponte” per proiettarsi nell’Hearthland. L’intervento di Putin in Siria «assegna, al momento, l’intero teatro mediorientale alla Russia, che spinge la propria influenza a latitudini così basse da stabilire un nuovo record». È molto difficile che Washington incassi in silenzio la sconfitta. «Più probabile, invece, è un contrattacco in Ucraina tramite le forze nazionaliste, con lo scopo di sottoporre Mosca al logorio di due fronti, oppure imboccare la via dell’escalation militare». Dalla risoluzione del dilemma di Berlino tra Mosca e Washington, conclude Dezzani, dipenderà l’esito del conflitto, che si sta spostando rapidamente dalla Borsa e dalla stampa ai teatri operativi.Anno movimentato per il gruppo Volkswagen: prima un bilancio dagli utili record ed il traguardo da primo produttore mondiale in vista, poi la notizia delle centraline manipolate che nel giro di pochi giorni brucia metà della capitalizzazione in borsa. Ad innescare lo scandalo è la statunitense Environmental Protection Agency che accusa i diesel tedeschi di emettere ossidi d’azoto oltre i limiti consentiti: le teste dei vertici di Wolfsburg cadono e l’affidabilità teutonica incassa un duro colpo. Scrupolosità ambientalistica delle agenzie americane? Sgambetto industriale? «No. Come lo scandalo Fifa, la “scoperta” di illeciti su cui si è sempre chiuso un occhio, ha finalità politiche. Berlino, nonostante la gestione di Angela Merkel, è per gli americani l’incognita dirimente», scrive Federico Dezzani. «Se la Germania si sganciasse dal blocco atlantico, Washington perderebbe il teatro europeo e, di conseguenza, l’egemonia globale». Per questo, sostiene Dezzani, è inevitabile individuare una precisa regia statunitense nell’esplosione dello scandalo che sta demolendo la credibilità di una Germania che si è fatta detestare per il trattamento disumano riservato alla Grecia.
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Barnard: da Corbyn solo fumo negli occhi, vi spiego perché
La trasmutazione di tutti i partiti europei socialisti, socialdemocratici o addirittura comunisti (Italia) in macchine oscenamente asservite e convertite alla destra finanziaria neoliberista è immutabile, e di certo Jeremy Corbyn non rappresenta nulla di inverso e contrario. Tutta ’sta parlata di “la sinistra che in Gran Bretagna ritrova finalmente la sua anima dopo 20 anni di débacle europee” è una sciocchezza. Il Vero Potere quando ha pensato e attuato l’Olocausto di qualsiasi cosa sia di sinistra, non ha lasciato spifferi aperti nelle camere a gas, né buchi nel mantello di Dracula. La sinistra è morta e sepolta a diecimila metri sotto terra. Corbyn è un buffone per due motivi: A) o sa quanto ho scritto sopra ma finge, per attuare una scalata “à la” Tsipras (conati) B) oppure non lo sa e quindi è scemo. Io propendo per la prima.I motivi stanno in tre luoghi: A) Uno che – dopo l’evoluzione anni ‘80-’90 di milioni d’inglesi quasi poveri in piccola classe media per l’umiliazione elettorale terrificante dell’ultimo leader laburista degno di nota, Neil Kinnock – uno che, dicevo, crede ancora “nel senso di giustizia sociale, che sono i valori della maggioranza degli inglesi…”, mente (oppure è un idiota cieco). Ho vissuto là per anni e ho visto e ancora vedo coi miei occhi come milioni di britannici, anche se poveracci, alla prima sniffata thatcheriana di due soldini in speculazioni se ne sono altamente sbattuti le palle di chiunque e di qualsiasi pensionato/disoccupato che crepava nella casa accanto, e hanno salutato con entusiasmo quelli che sono oggi 36 anni consecutivi di politiche economiche di destra neoliberale in quel paese. Ma di che cazzo di senso di giustizia sociale parla ’sto Corbyn?B) Mentre il suo ministro ombra per l’economia, McDonnell, fa la solita parata di politica per uso domestico (= prende x il culo il telespettatore) parlando di elevare le paghe minime, scagliandosi contro le multinazionali Starbucks, Vodafone, Amazon o Google perché evadono le tasse, contro le super-paghe dei manager della City, e promette di convertire i soldi per le armi nucleari in infrastrutture (sì, vediamo cosa dice Washington, ciccio!), Jeremy Corbyn si mette assieme un team di 7 economisti come super-consiglieri del Re. E chi sono? Tutti mezze figure che già conosciamo a memoria per aver solo balbettato parolette alla camomilla e ben arrotondate per darla ad intendere al pubblico contro le Austerità e la finanza padrona. In altre parole, fumo negli occhi ma NESSUN VERO PERICOLO PER IL MEGA BUSINESS nessun vero pericolo per il mega-business. Eccoli: David Blanchflower, Mariana Mazzucato, Anastasia Nesvetailova, Ann Pettifor, Thomas Piketty, Joseph Stiglitz, Simon Wren-Lewis. Tutta gente che non possiede neppure un centesimo della radicalità non dico per salvare dalla povertà qualche milione di sfigati inglesi, ma neppure per paventare una qualche minaccia a BIG-BUSINESS Big Business. E Big Business non sposta come al solito le sue scarpe da 5.000 dollari dalla scrivania, neppure stavolta, cari.C) E soprattutto ’sto Jeremy Corbyn non mette in discussione la rovina di tutte la rovine di qualsiasi gestione economica nazionale: il FANTASMA DELLA RIDUZIONE DEL DEFICIT/DEBITO DI STATO fantasma della riduzione del deficit/debito di Stato. Corbyn cerca di barcamenarsi con mezze promesse alla tisana su più spesa pubblica e magari… un poooooooochino più deficit, ma poi corre trafelato a precisare che rimedierà al deficit con più tasse per i ricchi, ecc. Non capisce NIENTE niente delle realtà di macro-economia dello Stato, Cristo, e vive nella terra di un genio universale dell’economia come fu Wynne Godley, che le descrisse alla perfezione. ‘Sto Jeremy non capisce che, non solo i deficit e il debito di Stato con moneta sovrana (la sterlina) sono LA RICCHEZZA DEL PAESE la ricchezza del paese e non un suo peso, come sancì magistralmente Godley, ma neppure ci arriva vicino. E dove cazzo vai, Corbyn, se ti allinei anche tu, magari un po’ meno, ma anche tu al veleno mortale di tutte le democrazie: IL CONTENIMENTO DEL DEFICIT? Il contenimento del deficit? Ok, basta così per ’sto buffone. La City già scommette miliardi in Hedge Funds, oggi che Jeremy Corbyn non arriverà neppure alle elezioni generali. E vinceranno. No, per favore, ascoltate: Warren Mosler, Mosler Economics-Mmt, sono la vera economia salva-vite e salva-nazione con tradizione secolare di autorevolezza. Il resto è tragedia.(Paolo Barnard, “Jeremy Corbin non farà nulla: è Syriza II, meno la tragedia greca”, dal blog di Barnard del 29 settembre 2015).La trasmutazione di tutti i partiti europei socialisti, socialdemocratici o addirittura comunisti (Italia) in macchine oscenamente asservite e convertite alla destra finanziaria neoliberista è immutabile, e di certo Jeremy Corbyn non rappresenta nulla di inverso e contrario. Tutta ’sta parlata di “la sinistra che in Gran Bretagna ritrova finalmente la sua anima dopo 20 anni di débacle europee” è una sciocchezza. Il Vero Potere quando ha pensato e attuato l’Olocausto di qualsiasi cosa sia di sinistra, non ha lasciato spifferi aperti nelle camere a gas, né buchi nel mantello di Dracula. La sinistra è morta e sepolta a diecimila metri sotto terra. Corbyn è un buffone per due motivi: A) o sa quanto ho scritto sopra ma finge, per attuare una scalata “à la” Tsipras (conati) B) oppure non lo sa e quindi è scemo. Io propendo per la prima.
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Porcelli costituzionali, rottamano quel che resta dell’Italia
Pino Cabras li chiama “porcelli costituzionali”, l’ex ministro socialista Rino Formica li avrebbe battezzati “nani e ballerine”: sono gli yesman che mettono mano alle ultime regole rimaste, per liberarsene e lasciare campo libero ai super-padroni del grande business. Molti difensori della Costituzione parlano ancora come trent’anni fa, quando ancora c’erano Craxi e Andreotti, o come in anni più recenti, quelli dei girotondi contro il berlusconismo “eversivo”. Peccato che oggi l’Unione Europea – coi suoi diktat sui bilanci nazionali deprivati del potere di spesa pubblica grazie alla tagliola della moneta unica non più sovrana – scavalchi ampiamente le prerogative della Costituzione, sempre più lettera morta, piegata alla nuova sovranità “straniera” di Bruxelles. Certo, quel che resta della Carta fa ancora paura: fu Jamie Dimon (Jp Morgan) a spiegare che andava rottamata perché troppo garantista, troppo democratica, troppo attenta ai diritti del lavoro. E dunque le ultime picconate spettano a Renzi: «Ecco lo spettacolo assurdo: sono stati eletti con una legge incostituzionale, il Porcellum, e quindi non possono pensare nemmeno alla lontana di rappresentare correttamente il corpo elettorale, né sono legittimati a manomettere la Costituzione. Eppure fanno proprio questo».I renziani «fanno strame della Costituzione muovendosi dentro un orizzonte ristretto, in stanze chiuse e delegittimate, con discussioni e compromessi bizantini», scrive Cabras su “Megachip”. «E ci tocca sentire Maria Elena Boschi mentre dice che il popolo aspetta da 70 anni la riforma della Costituzione (che ha 67 anni)». Al di là dell’anacronismo ignorante, «è la prova definitiva che queste personalità non hanno rispetto alcuno verso una Costituzione che fu scritta usando parole semplici ma con una discussione sottostante molto complessa», un vero e proprio «capolavoro di ponderatissima ingegneria istituzionale». Anni luce, un altro millennio: «Per fare la Costituzione vigente fu eletta in modo proporzionale un’Assemblea Costituente, non un Parlamento di nominati. Al lavoro della Costituente si affiancava una grandiosa opera di alfabetizzazione costituzionale, partita prima dell’elezione dell’assemblea: oltre che esserci un ministero apposito (retto da Pietro Nenni), ogni giorno c’erano trasmissioni radiofoniche grazie alle quali si educavano e si informavano con grande correttezza milioni di cittadini». Sembra di sognare: «I partiti e altre formazioni sociali appassionavano più gente possibile alla scrittura del progetto di Costituzione».Era il personale politico uscito dalle rovine della guerra nazifascista: «Si trattava di personalità di ben altra dirittura e rappresentatività rispetto ai quattro scalzacani che oggi scrivono le “schiforme” in aggiunta all’obbrobrio della legge elettorale Italicum (il Porcellum al cubo)». I deputati della Costituente? Studiavano a fondo gli argomenti: «Giorgio La Pira ebbe l’illuminazione di far tradurre in italiano tutte le Costituzioni del mondo. A tutti i costituenti fu così distribuito un manuale utilissimo: quando prendevano in esame un qualunque tema di rilievo costituzionale, la loro visuale era autenticamente mondiale. Oggi abbiamo Verdini e Serracchiani (quella che ritiene che il presidente del Senato, “essendo stato eletto nel Pd, debba accettarne le indicazioni”) e altri irresponsabili che vogliono sottomettere ogni organo alla maggioranza di governo, come ricorda Gustavo Zagrebelsky». Lo spettacolo degradato della periferia consente comunque di illuminare lo scenario principale, europeo: la rimozione di qualunque residua sovranità nazionale, “pericolosa” perché elettiva e dunque democratica. Decisivo, in questo, il ruolo del centrosinistra europeista e tecnocratico, dagli anni ‘90.Niente di strano, dunque, se oggi «la principale forza che vuole rovesciare la Costituzione è proprio il Pd». E attenzione: «Non solo la maggioranza renziana, ma pure la sua minoranza (gente che si metterebbe a negoziare anche se volessero reintrodurre lo schiavismo)». Aggiunge Cabras: «Sono gli stessi che sin dall’inizio di questa pessima legislatura stavano avallando un processo di revisione costituzionale piduista, quello dei “Saggi” di Napolitano, poi fallito». Se fossimo in una situazione normale, cioè ancora paragonabile a quella del dopoguerra, basata su leggi orientate all’interesse pubblico, a tutela della comunità nazionale dei cittadini, si ragionerebbe così: «La Carta può esser cambiata – ricorda Cabras – ma con prudenza estrema, con studio e cercando largo consenso, non con le urgenze dettate dall’orizzonte di potere che si sta organizzando intorno a Renzi, il primo ministro meno eletto del mondo». Invece siamo “sudditi” di Eurolandia, i bilanci vengono stabiliti lontano dai confini nazionali, e persino quel che resta della sovranità formale – la Costituzione, appunto – viene rottamata in modo sbrigativo, come fosse spazzatura della storia.(Pino Cabras, “I porcelli costituzionali”, da “Megachip” del 26 settembre 2015).Pino Cabras li chiama “porcelli costituzionali”, l’ex ministro socialista Rino Formica li avrebbe battezzati “nani e ballerine”: sono gli yesman che mettono mano alle ultime regole rimaste, per liberarsene e lasciare campo libero ai super-padroni del grande business. Molti difensori della Costituzione parlano ancora come trent’anni fa, quando ancora c’erano Craxi e Andreotti, o come in anni più recenti, quelli dei girotondi contro il berlusconismo “eversivo”. Peccato che oggi l’Unione Europea – coi suoi diktat sui bilanci nazionali deprivati del potere di spesa pubblica grazie alla tagliola della moneta unica non più sovrana – scavalchi ampiamente le prerogative della Costituzione, sempre più lettera morta, piegata alla nuova sovranità “straniera” di Bruxelles. Certo, quel che resta della Carta fa ancora paura: fu Jamie Dimon (Jp Morgan) a spiegare che andava rottamata perché troppo garantista, troppo democratica, troppo attenta ai diritti del lavoro. E dunque le ultime picconate spettano a Renzi: «Ecco lo spettacolo assurdo: sono stati eletti con una legge incostituzionale, il Porcellum, e quindi non possono pensare nemmeno alla lontana di rappresentare correttamente il corpo elettorale, né sono legittimati a manomettere la Costituzione. Eppure fanno proprio questo».
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Franceschetti: perché il potere ha paura della spiritualità
Oppio dei popoli? Sì, quando la religione “perde l’anima” e si trasforma in struttura di potere basata su oscuri dogmi. Ma se si indaga su Buddha, Cristo e Maometto, sull’Ebraismo e sull’Induismo, si scopre che il messaggio fondamentale – la potenza assoluta della dimensione spirituale – è stato regolarmente neutralizzato e rimosso, specie in Occidente, perché mette in crisi il nostro sistema basato sul dominio: «Un individuo che vive la sua spiritualità è più libero dalle paure, quindi meno controllabile: ecco perché la spiritualità è stata così accanitamente combattuta, anche attraverso le stesse burocrazie religiose». Il giurista e saggista Paolo Franceschetti sostiene di averne avuto conferma studiando le grandi religioni. Dall’India al Medio Oriente, tutti i leader religiosi originari hanno trasmesso il medesimo credo, assolutamente positivo e destabilizzante: la divinità è già presente in noi, bisogna solo imparare ad “attivarla”. La rivelazione: è possibile trasformare radicalmente la propria vita, aprire gli occhi e superare ogni problema “trovando Dio” innanzitutto con la meditazione. Una verità che l’élite mondiale conosce da sempre e che ha cercato di tenere nascosta, sostiene Franceschetti. Ma ormai “i tempi stanno cambiando”, come cantava il giovane Dylan. E il “grande risveglio” è già cominciato.Avvocato e docente universitario, Franceschetti ha di recente abbandonato l’avvocatura per sfiducia nella giustizia: clamorosa la sua denuncia dei misfatti del potere occulto, contenuta nel suo seguitissimo blog e in libri come “Sistema massonico e Ordine della Rosa Rossa” (Uno Editori). La tesi: al vertice del potere si nasconde un clan oscuro, di formazione esoterica, dedito anche ad omicidi rituali come quelli del “Mostro di Firenze”, fino ai casi di cronaca più recenti, da Cogne a Yara Gambirasio, di cui i media omettono regolarmente i dettagli fondamentali che illuminerebbero il vero movente, quello dei sacrifici umani. Tutto cominciò quando Franceschetti venne chiamato, in carcere, da due giovani condannati all’ergastolo per il caso delle “Bestie di Satana”: «Avvocato, non pretendiamo di uscire di qui», gli dissero. «Vorremmo solo sapere perché siamo detenuti a vita, dal momento che non abbiamo mai ucciso nessuno». Dice Franceschetti: «Ho scoperto che le indagini erano state molto superficiali, e le condanne scaturite solo dall’ambigua confessione di uno dei presunti complici, in un contesto di fatti che non potevano reggere a una ricostruzione accurata».Frugando nelle cronache italiane, il legale ha intravisto un abisso: depistaggi, falsificazioni sistematiche, omissioni, capri espiatori, manovre coperte dal silenzio o dal chiasso mediatico. Domanda inevitabile: «Chi e perché agisce così? Cosa c’è nella mente di chi compie omicidi rituali, puntualmente spacciati per delitti ordinari, ancorché inspiegabili perché privi di un movente credibile?». I suoi molti lettori conoscono il coraggio e la generosità di Franceschetti, onnipresente sul web e in decine di conferenze lungo la penisola. Dopo la tragica perdita della compagna, si è impegnato persino sul difficile fronte della medicina democratica, con un blog – il primo in Italia – che presenta l’offerta esistente di cure alternative, tutte rivelatesi valide, per guarire dai tumori (il suo “testimonial” è stato un medico di Brescia, malato terminale, salvato in extremis dallo stesso Franceschetti che l’ha convinto a sottoporsi al Protocollo D’Abramo, basato sull’assunzione di vitamine e semplici biofarmaci naturali).Franceschetti pratica il buddhismo da molti anni, frequenta corsi di meditazione Yoga, è in intimità con religiosi cattolici. «La mia esperienza di avvocato poteva stroncarmi, sono stato minacciato, ho vissuto grandi pericoli. Ho rischiato la morte, e ho capito che – una volta rimossa quella paura – si diventa molto più forti». Proprio interrogandosi sul mistero dell’orrore quotidiano delle cronache, indagato con straordinaria tenacia per molti anni, Franceschetti è pervenuto a una conclusione spiazzante: «Chi uccide innocenti, in apparenza senza motivo, in realtà un suo movente ce l’ha: però è occulto e inconfessabile, di matrice esoterica. E il passo successivo è scoprire che quasi tutti i potenti della terra praticano la magia, la stessa magia che – in pubblico – sono sempre pronti a deridere. La loro è una spiritualità deviata, ma sono ben consci del potere della spiritualità vera: quella che ci nascondono con ogni mezzo, facendola sparire dai giornali, dalla televisione, persino dai telefilm: gli eroi della fiction lottano tra loro, scherzano, fanno sesso, ma nessuno mai che preghi, che esprima convinzioni religiose o almeno politiche. Non è un caso: gli egemoni vogliono che non ce ne occupiamo, dobbiamo restare completamente soli di fronte a Equitalia, al lavoro perduto, alle bollette che non sappiano come pagare. Il loro piano è semplice: ci vogliono sottomessi e prigionieri delle nostre paure, privi di soluzioni per raggiungere indipendenza, libertà, serenità e felicità».Una risposta illuminante, Franceschetti l’ha trovata nell’ispirazione originaria delle principali religioni del pianeta: ad esse è dedicato il suo ultimo libro, “Le Religioni”, che passa in rassegna le maggiori espressioni del pensiero religioso mondiale. Dal politeismo solo apparente dell’Induismo, dove la folla allegorica di divinità è in realtà sottoposta all’immanenza suprema del Brahman, fino alla più rarefatta manifestazione del perfetto monoteismo, l’Islam di Maometto, che – come anche l’Ebraismo – non ammette venerazioni intermedie come quelle dei santi cattolici, e dimostra un’insospettabile apertura universalistica: se Allah avesse voluto una sola religione, recita il Corano, solo quella ci sarebbe sulla Terra. Attraverso un approccio metodico, ricco di fonti e citazioni anche intensamente poetiche, come quelle dei grandi mistici di ogni provenienza, l’autore presenta in modo sistematico ciascun impianto religioso, le sue origini, il credo e le ritualità, ma si concentra sempre sul nocciolo essenziale di ogni espressione religiosa: cerca e trova il suo cuore mistico, spirituale. «E la sorpresa è questa: tutte le religioni, allo stato puro, esprimono la stessa verità».Inoltre, continua l’ex avvocato, ogni religione fornisce istruzioni precise per coltivare in modo concreto la pratica spirituale quotidiana, «capace di rafforzarci fino a risolvere ogni problema, grazie a un nuovo approccio non più succube della paura: proprio quel genere di strumento che la Chiesa cattolica, erede diretta dell’Impero Romano, ha accuratamente rimosso». Molto netta, nel libro, la denuncia della “manipolazione storica” operata dalla Chiesa di Roma, quella di Pietro e Paolo («non a caso: il primo rinnegò Cristo, il secondo non lo conobbe mai»), contro cui si batté per secoli il network segreto, “giovannita”, che in nome del “vero messaggio di Cristo” schierò i migliori intellettuali della cristianità – da Gioacchino da Fiore a Giordano Bruno, passando per Dante Alighieri e Leonardo da Vinci – in una sotterranea battaglia bimillenaria: San Bernardo e i Templari, San Francesco d’Assisi, San Benedetto da Norcia e gli amanuensi (accesso diretto alle fonti), i “Fidelis in Amore” e i Giordaniti, i Rosacroce, fino ai massoni. «L’amore che cita Dante, quello che “move il Sole e l’altre stelle”, è lo stesso a cui fa cenno Battiato, quando canta: “Tutto l’universo obbedisce all’amore”». Per Franceschetti, non è altro che «la legge universale dell’attrazione: siamo tutti parte di un unico organismo, il divino è in noi. Era il vero messaggio di Cristo, svelato nel Vangelo di Giovanni: siamo dèi dormienti, dobbiamo solo svegliarci». Già, ma come?Se ne occupa l’ultimo capitolo della vasta ricerca di Franceschetti, resa con agile taglio divulgativo: proprio la “spiritualità contemporanea” offre infiniti spunti e testimonianze su come migliorare il proprio stato vitale mettendo a frutto gli insegnamenti delle maggiori tradizioni religiose, rilette e reinterpretate da grandi maestri come il “messia riuttante” Jiddu Krishnamurti, e poi Mikhael Aivanhov, Georges Gurdjieff, Massimo Scaligero, Sri Aurobindo, oppure leader carismatici e scomodi, temutissimi e per questo assassinati mediante avvelenamento, come Osho e Rudolf Steiner, nonché il rosacrociano Paramahansa Yogananda (“Autobiografia di uno Yogi”). Franceschetti non disdegna neppure la vituperata “new age”, rivalutando bestseller come “The Secret”, di Rhonda Byrne, i libri di Joe Vitale e quelli di Esther e Jerry Hicks: «E’ vero, sono anche fenomeni commerciali, ma contribuiscono anch’essi a infondere coraggio e fiducia nel “risveglio”». Tutto è dunque nelle nostre mani? Non lo sostiene solo il “pensiero positivo” di Louise Hay, ma anche la “Profezia di Celestino” di James Redfield, senza contare le opere di ispirazione cristiana come le “Conversazioni con Dio” di Neal Donald Walsh e i volumi di Daniel Meurois-Givaudan, anch’essi ampiamente citati.Il libro di Franceschetti offre una panoramica trasversale e inedita dell’esperienza religiosa mondiale, da un punto di osservazione privilegiato: quello della spiritualità pura, al netto delle narrazioni culturali storiche e territoriali. Una lettura utile, per individuare sorprendenti punti di contatto tra mondi in apparenza lontanissimi o addirittura inconciliabili, come vorrebbe la vulgata attuale. In realtà, tutti raccontano la stessa storia: «Lo dimostra una volta di più l’assoluta coincidenza delle convinzioni su cui si incontrano, al vertice, l’ala mistica dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam, cioè i cabalisti Chassidim, i Rosacroce e i Sufi». Chi conosce Franceschetti e la sua onestà intellettuale non potrà che apprezzare il valore di questo libro: testimonia la passione dell’autore e l’evoluzione di una ricerca sincera, nata dal confronto con la più dura delle realtà – gli orrori della cronaca nera, il mestiere dell’avvocato – per trasformarsi in indagine non più solo sulle cause, ma sui principi che le innescano.Un lavoro editoriale dietro al quale si intravede il costante, proficuo scambio con personalità eclettiche e sorprendenti: da Gianfranco Carpeoro, studioso di simbologia e già “sovrano gran maestro” della massoneria di rito scozzese, a Fausto Carotenuto, già funzionario dei servizi segreti italiani, approdato alla via spirituale del network “Coscienze in Rete”. Il libro è un valido manuale per documentarsi su come i grandi maestri di ogni tempo hanno insegnato a pensare in modo libero, molto spesso a costo della propria vita. «Quello che ancora il potere ci nasconde – conclude Franceschetti – è l’immenso potenziale della nostra mente, se allenata e nutrita di spiritualità. E’ questo, in fondo, il grande segreto: dobbiamo smettere di avere paura. Ma non è certo un mistero: è una grande verità, declinata in infiniti modi, in ogni epoca. Oggi, grazie anche al web e alla propagazione universale della conoscenza, questa consapevolezza sta crescendo: siamo tutti dotati di un potere che, se esercitato, ci permette di liberarci dalla sofferenza, di guardare alla vita con più fiducia. E di sottrarci alla soggezione del potere, che si basa proprio sulla diffusione sistematica della paura». Dov’è l’inganno? «Ci fanno credere che con questa vita finisca tutto, mentre gli egemoni sono i primi a sapere che non è così».(Il libro: Paolo Franceschetti, “Le Religioni – Un percorso spirituale attraverso Induismo, Buddismo, Cristianesimo, Ebraismo, Islamismo e i maestri spirituali moderni”, 584 pagine, 33 euro. Il volume è acquistabile online su “Lulu”).Oppio dei popoli? Sì, quando la religione “perde l’anima” e si trasforma in struttura di potere basata su oscuri dogmi. Ma se si indaga su Buddha, Cristo e Maometto, sull’Ebraismo e sull’Induismo, si scopre che il messaggio fondamentale – la potenza assoluta della dimensione spirituale – è stato regolarmente neutralizzato e rimosso, specie in Occidente, perché mette in crisi il nostro sistema basato sul dominio: «Un individuo che vive la sua spiritualità è più libero dalle paure, quindi meno controllabile: ecco perché la spiritualità è stata così accanitamente combattuta, anche attraverso le stesse burocrazie religiose». Il giurista e saggista Paolo Franceschetti sostiene di averne avuto conferma studiando le grandi religioni. Dall’India al Medio Oriente, tutti i leader religiosi originari hanno trasmesso il medesimo credo, assolutamente positivo e destabilizzante: la divinità è già presente in noi, bisogna solo imparare ad “attivarla”. La rivelazione: è possibile trasformare radicalmente la propria vita, aprire gli occhi e superare ogni problema “trovando Dio” innanzitutto con la meditazione. Una verità che l’élite mondiale conosce da sempre e che ha cercato di tenere nascosta, sostiene Franceschetti. Ma ormai “i tempi stanno cambiando”, come cantava il giovane Dylan. E il “grande risveglio” è già cominciato.
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Sanità da medioevo, solo per ricchi: l’infame modello Renzi
Che cosa rende una visita, un esame clinico, inutile? Il fatto che il paziente non abbia nulla. Che cosa lo rende particolarmente inutile? Il fatto che questo esame sia stato prescritto solo in via precauzionale, magari proprio solo per escludere il rischio malattia e tranquillizzare il paziente. Questi esami inutili, se passa il provvedimento legislativo annunciato dal governo, non si potranno più fare, pena sanzioni contro il medico che li prescrive. Quindi saranno utili solo gli esami clinici che riscontrino effettive patologie, magari irrecuperabili. Ci rendiamo conto della mostruosità di questa misura, naturalmente giustificata con la necessità del rigore nei conti dello Stato? Naturalmente i soliti pifferai liberisti spiegheranno che si tratta di eliminare sprechi, definendo standard validi per tutti, senza danni per nessuno. Mi pare che abbiano annunciato come esempio che gli esami sul colesterolo dovrebbero farsi ogni cinque anni. Immaginiamo una persona che improvvisamente abbia sintomi di malanni che il medico giudichi dovuti a cause di scompensi nel metabolismo, da sottoporre ad analisi. Se il paziente ha oltrepassato i tempi standard dall’ultimo controllo il medico potrà fare la prescrizione, se invece così non è dovrà aspettare. Oppure rischiare di finire sotto procedura di controllo e sanzione.Si dice che in questo modo si risparmieranno 13 miliardi che potranno essere spesi meglio. Tutti i tagli alla spesa pubblica son giustificati così da sempre, e da sempre sappiamo che questo non è vero. La sostanza è che si ridurrà la prevenzione sulle malattie, solo i ricchi potranno continuare a permettersela mentre i poveri si ammaleranno e moriranno prima. Ma forse questo è proprio ciò che si vuole. Il sistema pensionistico dalla riforma Dini si fonda sull’aspettativa di vita. Più questa statisticamente sale, più si deve andare in pensione ad età elevate. Per questo le tabelle già prevedono la pensione a 70 anni di età nei prossimi decenni. Immaginiamo allora che i tagli alla sanità blocchino o addirittura abbassino questa aspettativa di vita. Sarebbe un doppio guadagno per le casse dello Stato, da un lato risparmi sulla spesa sanitaria, dall’altro su quella pensionistica perché pur andando in pensione più tardi si morirebbe prima. Tempo fa una giornalista televisiva parlando del sistema pensionistico si lasciò scappare che i costi crescevano perché “purtroppo” si viveva più a lungo. Ecco, con quel purtroppo la giornalista era in perfetta sintonia con le intenzioni dei governanti liberisti.I medici sono giustamente in rivolta contro questa legge, perché verrebbero sottoposti ad uno standard di regole e comportamenti di modello aziendalistico. È evidente infatti anche in questa “riforma” il modello Marchionne, il nume ispiratore a cui Renzi vorrebbe fare un monumento. Come nella scuola con i presidi caporali, anche nella sanità ci saranno strutture e poteri burocratici che avranno il compito di decidere sui comportamenti. Il modello aziendale fondato sul profitto è quello che da tempo si sta imponendo nei servizi pubblici, in questo modo trasformando le persone ed i loro diritti costituzionali in oggetti di mercato. Ancora più infame è poi la partita di scambio che viene offerta ai medici per compensarli della distruzione della loro libertà. Il governo intende impedire le cause dei cittadini per malasanità. Così come ha fatto con il decreto Ilva, che ha garantito impunità ai manager che inquinano nell’esercizio delle loro funzioni, il governo offre la stessa protezione ai medici. I pazienti saranno meno immuni da malattie gravi, ma i medici verranno immunizzati dalle cause dei pazienti.L’Italia è il paese di Cesare Beccaria, che alla cultura medioevale contrappose quella illuminista delle pene: meglio un colpevole libero che un innocente in prigione. Con lo stato sociale questo principio di civiltà si era esteso ai diritti sociali. Meglio spendere 13 miliardi in visite anche per chi non ne ha bisogno, che negare le cure a chi invece ne necessita. Ora con le politiche di austerità il governo abbandona i principi illuministi per tornare a quelli medioevali, meglio che un malato muoia prima piuttosto che spendere dei soldi in più. L’autorità pubblica ha così potere di vita e di morte e il principio che la ispira è quello del mercato, rispetto alla cui suprema autorità, come nel Medio Evo, le persone normali non hanno più diritti personali indisponibili. Quella dell’austerità è prima di tutto una cultura di morte.(Giorgio Cremaschi, “La sanità modello Marchionne”, da “Micromega” del 24 settembre 2015).Che cosa rende una visita, un esame clinico, inutile? Il fatto che il paziente non abbia nulla. Che cosa lo rende particolarmente inutile? Il fatto che questo esame sia stato prescritto solo in via precauzionale, magari proprio solo per escludere il rischio malattia e tranquillizzare il paziente. Questi esami inutili, se passa il provvedimento legislativo annunciato dal governo, non si potranno più fare, pena sanzioni contro il medico che li prescrive. Quindi saranno utili solo gli esami clinici che riscontrino effettive patologie, magari irrecuperabili. Ci rendiamo conto della mostruosità di questa misura, naturalmente giustificata con la necessità del rigore nei conti dello Stato? Naturalmente i soliti pifferai liberisti spiegheranno che si tratta di eliminare sprechi, definendo standard validi per tutti, senza danni per nessuno. Mi pare che abbiano annunciato come esempio che gli esami sul colesterolo dovrebbero farsi ogni cinque anni. Immaginiamo una persona che improvvisamente abbia sintomi di malanni che il medico giudichi dovuti a cause di scompensi nel metabolismo, da sottoporre ad analisi. Se il paziente ha oltrepassato i tempi standard dall’ultimo controllo il medico potrà fare la prescrizione, se invece così non è dovrà aspettare. Oppure rischiare di finire sotto procedura di controllo e sanzione.