Archivio del Tag ‘élite’
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Renzi attacca la Merkel solo per essere ammesso a corte
Attenti a Renzi: la sua “guerra” contro la Merkel non è una semplice mossa diversiva per distrarre gli italiani dagli ultimi scandali, Banca Etruria e la famiglia Boschi. Non è un fuoco di paglia, ma un’offensiva vera e propria, avviata con la richiesta al Consiglio d’Europa di non far scattare in automatico la proproga alle sanzioni contro la Russia. Ma non è che il premier italiano abbia finalmente preso atto dell’insostenibile “regime” europeo, e quindi intenda sfidarlo a viso aperto, per indebolirlo, sulla base di sacrosante istanze sovraniste e democratiche. Al contrario: Renzi aspira ad essere finalmente ammesso in quel club esclusivo, che finora l’ha messo alla porta. Non ha funzionato con le buone? Ora ci prova con le cattive, cioè tentando di “costringere” l’élite a rassegnarsi ad accettarlo a corte, anche solo per controllarlo meglio. Ma non è detto che ci riesca: è stato talmente scaltro, il Fiorentino, da preoccupare persino il vertice europeo del supremo potere: temono che non abbia scrupoli a riservare anche ad alcuni di loro il trattamento con cui in Italia il giovane premier ha liquidato tutti, da Berlusconi a Bersani, incluso Enrico Letta.Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, saggista e massone, già gran maestro della comunione massonica di rito scozzese, confermando una prima analisi fornita da Gioele Magaldi, autore nel 2014 del libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”: «Renzi è un “bussante”, chiede di essere accolto presso una delle Ur-Lodges, cenacoli massonici del massimo potere internazionale. “Bussa”, ma non gli aprono: non si fidano di lui». Un anno dopo, dai microfoni di “Border Nights”, Carpeoro conferma: «Renzi è ancora fuori dalla porta, non lo vogliono. E allora prova a forzare, attaccando direttamente la Merkel», cioè il politico europeo che più di ogni altro incarna i voleri dell’oligarchia tecnocratica che regge l’Europa. Un super-potere eminentemente apolide e massonico, che agisce nell’ombra ma si avvale di personaggi anche di primissimo piano, come Mario Draghi e Wolfgang Schaeuble, Christine Lagarde del Fmi e Jens Weidmann, presidente della Bundesbank. Letta cenava con Draghi e Napolitano a casa di Eugenio Scalfari? Renzi no. A lui tocca il ruolo di mattatore e rottamatore. Amico dello stragista e super-massone Tony Blair? Non basta, evidentemente. Troppo spregiudicato, l’italiano, persino per i “serial killer dell’economia europea”.Hanno tutti visto la fine che ha fatto fare a Bersani e Letta, dopo aver messo nel sacco anche Berlusconi, spiega Carpeoro, che sottolinea il ruolo-cardine dei cosiddetti poteri forti nei retroscena della politica italiana: «Berlusconi è stato abbandonato di colpo sia dall’Opus Dei che dalla massoneria internazionale neo-oligarchica». Lo dimostrerebbe la doppia defezione, parallela, di Fabrizio Cicchitto, «già stretto collaboratore di Licio Gelli», e dell’attuale ministro dell’interno, la cui permamenza al potere è spiegabile solo attraverso il suo azionista (occulto) di riferimento, «l’Opus Dei». Disarcionato il Cavaliere e neutralizzato Bersani, dopo la parentesi del “venerabile” Mario Monti, Cicchitto e Alfano hanno sostenuto Letta, anch’esso – secondo Carpeoro – in quota all’Opus Dei. Poi, però, è arrivato Renzi. Che “non ha fatto prigionieri”. Ed è andato a sbattere, finora, contro i “niet” della Merkel, che rappresenta esattamente i super-poteri europei che fanno capo ai super-poteri della periferia, compresa quella italiana.Per questo, conclude Carpeoro, oggi Renzi tenta il Piano-B: l’attacco. «La guerra ormai è partita, e ne vedremo le conseguenze. Renzi e Merkel: difficilmente lo sconfitto potrà sopravvivere, politicamente». E’ lo schema tattico del “vero potere”: «Difficilmente fabbricano leader, preferiscono stare a guardare e muoversi di conseguenza, schierandosi col vincente», allo scopo ovviamente di reclutarlo per la loro causa, facendone un semplice esecutore. «Lo hanno sempre fatto: prima hanno mollato Berlusconi quando hanno capito che poteva più servirgli, poi hanno appoggiato Letta», quindi hanno assistito alla capitolazione di Letta operata in modo sfrontato da Renzi, e oggi stanno a vedere come se la cava, il Rottamatore, con la signora Merkel. Unico dato certo: il gioco è questo, l’obiettivo del premier italiano non è certo una sollevazione democratica contro l’oligarchia di Bruxelles, Berlino e Francoforte. E il Movimento 5 Stelle? «Potrà avere una chance di governo solo se starà bene agli americani», taglia corto Carpeoro, sicuro che il movimento di Grillo (e Casaleggio) sia nato «su esplicita autorizzazione degli Usa», come “gatekeeper” in grado di interpretare, convogliare e quindi controllare la protesta.Attenti a Renzi: la sua “guerra” contro la Merkel non è una semplice mossa diversiva per distrarre gli italiani dagli ultimi scandali, Banca Etruria e la famiglia Boschi. Non è un fuoco di paglia, ma un’offensiva vera e propria, avviata con la richiesta al Consiglio d’Europa di non far scattare in automatico la proproga alle sanzioni contro la Russia. Ma non è che il premier italiano abbia finalmente preso atto dell’insostenibile “regime” europeo, e quindi intenda sfidarlo a viso aperto, per indebolirlo, sulla base di sacrosante istanze sovraniste e democratiche. Al contrario: Renzi aspira ad essere finalmente ammesso in quel club esclusivo, che finora l’ha messo alla porta. Non ha funzionato con le buone? Ora ci prova con le cattive, cioè tentando di “costringere” l’élite a rassegnarsi ad accettarlo a corte, anche solo per controllarlo meglio. Ma non è detto che ci riesca: è stato talmente scaltro, il Fiorentino, da preoccupare persino il vertice europeo del supremo potere: temono che non abbia scrupoli a riservare anche ad alcuni di loro il trattamento con cui in Italia il giovane premier ha liquidato tutti, da Berlusconi a Bersani, incluso Enrico Letta.
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Etruria e Boschi? No, Russia e Merkel. Così Renzi ci distrae
«Renzi è il primo ministro italiano che applica le regole dello spin e dunque della manipolazione mediatica. La sua loquacità è spontanea ma l’uso degli slogan, la costruzione delle frasi ad effetto, il richiamo ai luoghi comuni e non da ultimo la conoscenza dei tempi dei media sono chiaramente il frutto di un approccio professionale, agli italiani sconosciuto». Berlusconi? Anche lui è (stato) uno straordinario comunicatore, ma «non si è mai fatto guidare da altri», scrive Marcello Foa. «Quando era al governo faceva sempre di testa sua, lasciandosi ispirare solo dal suo fiuto. Il suo portavoce Bonaiuti aveva il non facile compito di assecondarlo e di cercare di rimediare alle gaffe o alle uscite inopportune, tipiche di chi comunica di istinto senza programmare troppo». Il portavoce di Renzi, invece, si chiama Filippo Sensi: è uno spin doctor professionista, si è formato nel mondo anglosasssone. E, come molti spin doctor, è un ex giornalista. «Lui e Renzi non lasciano nulla al caso: calibrano tutto, salvaguardando l’apparenza di una comunicazione semplice e accessibile, che invece è il frutto di un attento calcolo».Se le cose vanno bene, scrove Foa nel suo blog sul “Giornale”, il ruolo dello spin doctor è relativo: «Quando aveva il vento in poppa, Renzi (come Berlusconi) avrebbe potuto fare tutto da solo». Lo spin doctor diventa decisivo quando si tratta di gestire la comunicazione di un governo, i cui ritmi sono asfissianti, e soprattutto quando bisogna affrontare difficoltà impreviste. «Da quando è scoppiato lo scandalo della Banca Etruria, il premier e Sensi applicano chiaramente tecniche di spin difensivo», che Foa ha evocato nel saggio “Gli stregoni della notizia”. «Sottoposti a un attacco o di fronte a uno scandalo, bisogna cercare di: a) negare; b) se non è possibile negare, minimizzare; c) se non è possibile mimizzare, screditare; d) se non è possibile screditare, distrarre». Come si è comportato il governo Renzi nell’ultimo mese, sotto la bufera degli scandali bancari? «Dapprima ha cercato di far finta di nulla, poi di minimizzare l’accaduto, poi di trovare un capro espiatorio; ma quando è esplosa la “bomba Boschi”, che ha vanificato ogni manovra, è stato costretto a ricorrere all’arma suprema: la distrazione».Eclatante il tentativo di Renzi di bloccare il rinnovo automatico delle sanzioni europee alla Russia. «Scrivevo che non sapevamo le ragioni della svolta che, nonostante alla fine non sia stata accolta dal Consiglio Europeo, era autentica», dice Foa. «Oggi possiamo intuirle: servivano anche – anzi, soprattutto – a distrarre gli italiani, a far apparire Renzi come l’unico leader che ha il coraggio di parlare contro una sempre più impopolare Europa». Lo stesso è accaduto pochi giorni fa, con titoli di giornale «straordinariamente retorici», come “Renzi contro la Merkel”, “La sfida è tra Germania e Italia”. «Non mi è stato difficile leggere la trama, tecnicamente perfetta: intervista al “Financial Times”, subito ripresa dai media italiani, da sempre molto sensibili alle pressioni non sempre amichevoli di Sensi», e quindi «grande emozione in patria, seguita da una molto meno reclamizzata precisazione diplomatica a una Germania tutt’altro che turbata, ben conoscendo l’italico premier, il quale è tanto spavaldo in patria, quanto timido e ininfluente sulla scena internazionale». Tempesta in un bicchier d’acqua? Sì, ma il fine (mediatico) è stato raggiunto: «Per qualche giorno, lo scandalo bancario è stato scalzato dai titoli di testa». Poi è arrivato il Natale. «Ha anche fortuna, “il bomba”».«Renzi è il primo ministro italiano che applica le regole dello spin e dunque della manipolazione mediatica. La sua loquacità è spontanea ma l’uso degli slogan, la costruzione delle frasi ad effetto, il richiamo ai luoghi comuni e non da ultimo la conoscenza dei tempi dei media sono chiaramente il frutto di un approccio professionale, agli italiani sconosciuto». Berlusconi? Anche lui è (stato) uno straordinario comunicatore, ma «non si è mai fatto guidare da altri», scrive Marcello Foa. «Quando era al governo faceva sempre di testa sua, lasciandosi ispirare solo dal suo fiuto. Il suo portavoce Bonaiuti aveva il non facile compito di assecondarlo e di cercare di rimediare alle gaffe o alle uscite inopportune, tipiche di chi comunica di istinto senza programmare troppo». Il portavoce di Renzi, invece, si chiama Filippo Sensi: è uno spin doctor professionista, si è formato nel mondo anglosasssone. E, come molti spin doctor, è un ex giornalista. «Lui e Renzi non lasciano nulla al caso: calibrano tutto, salvaguardando l’apparenza di una comunicazione semplice e accessibile, che invece è il frutto di un attento calcolo».
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Nell’Ue i partiti sono morti, l’ha capito anche la Spagna
Ormai possiamo chiamarla crisi della democrazia, o meglio: crisi della partitocrazia che ha sorretto l’attuale sistema. In Spagna nessuno dei partiti tradizionali – popolari (centrodestra) e socialisti – ha ottenuto la maggioranza assoluta. Come era accaduto in Italia nel 2013 e, a ben vedere, come è avvenuto poche settimane fa in Francia, dove per fermare l’avanzata di Marine Le Pen, Sarkozy e Hollande hanno dovuto coalizzarsi. Fino ad alcuni anni fa, il sistema si reggeva sull’alternanza centrodestra/centrosinistra che permetteva di mantenere ai margini i partiti alternativi e di opposizione. Quindici anni di folli politiche europee hanno portato a una continua erosione delle sovranità nazionali e al simultaneo impoverimento delle economie reali, dunque all’esplosione dell’indebitamento e della disoccupazione, generando per la prima volta dal dopoguerra massicci e spontanei moti popolari di protesta, che si traducono in un crescente consenso per i movimenti politici alternativi.La gente non crede più ai partiti tradizionali perché ne ha constatato l’impotenza. Chiede un cambiamento reale e, non trovandolo, segue “Podemos” e “Ciudadanos” in Spagna, la Le Pen in Francia, il Movimento 5 Stelle e la Lega in Italia. Trattasi, finora, di movimenti di maggioranza relativa o di forte minoranza, che però costringono l’establishment a chiudersi sulla difensiva, aprendo così un nuovo quadro: se centrodestra contro centrosinista non basta più, occorre che centrodestra e centrosinistra si uniscano nel nome, paradossalmente, del Supremo Interesse della Nazione per fermare l’“avanzata populista”, “salvare l’Europa”, “difendere l’euro”, “lottare contro le derive razziste”, eccetera eccetera. Probabilmente andrà a finire così anche in Spagna: una bella ammucchiata Psoe-Popolari. E forse basterà. Per ora. Ma dopo?Se non si affrontano le vere ragioni di questo dilagante e finora irreversibile malcontento, la protesta continuerà a crescere, come ho spiegato nel mio post di sabato 19. E da pacifica rischia di diventare violenta, inducendo l’establishment a risposte ancora più radicali. In fondo Mario Monti l’ha già lasciato intendere, in una recente intervista, affermando che«ci si può addirittura chiedere se la democrazia come noi la conosciamo e l’integrazione internazionale siano ancora compatibili, e questo porrebbe un problema gigantesco. In passato l’integrazione ha diffuso e rafforzato la democrazia in Europa, perché i vari Stati che uscivano da esperienze dittatoriali si sono aggrappati alla Ue per consolidare le loro democrazie – dalla Grecia al Portogallo, agli Stati ex comunisti. Oggi però la democrazia, anzi la deriva delle nostre democrazie, minaccia l’integrazione». Dunque il prossimo passo potrebbe essere la fine della democrazia, come la conosciamo oggi. Tutti sudditi, come nell’Unione Sovietica. Allacciate le cinture. Ci aspettano tempi difficili.(Marcello Foa, “Finta destra contro finta sinistra, anche la Spagna dice basta: il sistema sta crollando”, dal blog “Il cuore del mondo” su “Il Giornale” del 21 dicembre 2015).Ormai possiamo chiamarla crisi della democrazia, o meglio: crisi della partitocrazia che ha sorretto l’attuale sistema. In Spagna nessuno dei partiti tradizionali – popolari (centrodestra) e socialisti – ha ottenuto la maggioranza assoluta. Come era accaduto in Italia nel 2013 e, a ben vedere, come è avvenuto poche settimane fa in Francia, dove per fermare l’avanzata di Marine Le Pen, Sarkozy e Hollande hanno dovuto coalizzarsi. Fino ad alcuni anni fa, il sistema si reggeva sull’alternanza centrodestra/centrosinistra che permetteva di mantenere ai margini i partiti alternativi e di opposizione. Quindici anni di folli politiche europee hanno portato a una continua erosione delle sovranità nazionali e al simultaneo impoverimento delle economie reali, dunque all’esplosione dell’indebitamento e della disoccupazione, generando per la prima volta dal dopoguerra massicci e spontanei moti popolari di protesta, che si traducono in un crescente consenso per i movimenti politici alternativi.
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Magaldi: Isis e austerity, doppia impostura e identici registi
Non credete a quello che vi dicono, non date retta alla verità ufficiale. Non lo dice un “complottista”, ma un massone atipico come Gioele Magaldi, che da un anno gira l’Italia presentando il suo libro sconcertante, edito da Chiarelettere, che mette in piazza i misfatti di alcune delle 36 Ur-Lodges che reggono i destini del mondo, dietro le quinte, manovrando leader che spesso hanno direttamente fabbricato. Leader e “nemici da abbattere”, come la loro ultima creatura, l’Isis, fatta apposta per generare paura, odio e guerra, rimestando nel torbido stagno dello “scontro di civiltà”, evocato per la prima volta dal massone Samuel Huntington, autore del saggio “La crisi della democrazia” voluto dalla Commissione Trilaterale, organismo “paramassonico” e cinghia di trasmissione semi-ufficiale dei voleri dell’élite-ombra, il cui obiettivo, da quarant’anni, è sempre lo stesso: sabotare la sovranità degli Stati, per consegnare tutto il potere nelle mani dei signori del “mercato”. Il traffico di petrolio denunciato clamorosamente da Putin, che collega l’Isis alla famiglia presidenziale turca? Verità svelate da almeno un anno, tra le pagine del libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”: Erdogan fa parte a pieno titolo della superloggia “Hathor Pentalpha”, nel cui nome c’è già l’Isis (Hathor, secondo nome della dea egizia Iside).Loro, gli uomini del clan fondato dai Bush all’epoca dell’elezione di Reagan, avrebbero organizzato il disastro dell’11 Settembre. E oggi serebbero alle prese col nuovo copione del terrore, quello del Califfato. Per questo non bisogna mai credere all’Uomo Nero, aggiunge un altro massone, Gianfranco Carpeoro, schierato con Magaldi nel “Movimento Roosevelt”, associazione sorta per “risvegliare alla verità” la politica italiana (clamorosa la proposta, rivolta al Movimento 5 Stelle, di candidare a sindaco di Roma un valoroso combattente della democrazia come il grande economista Nino Galloni). L’Uomo Nero – ieri Bin Laden, oggi Al-Baghdadi – è sempre una creazione “magica” del potere: «Il loro obiettivo – ricorda Carpeoro a “Border Nights”, trasmissione radio via web – è sempre lo stesso: indurci a odiare il “nemico” di turno, anziché il sistema che l’ha prodotto». Ma l’Uomo Nero, per farci paura, ha bisogno di vaste coperture: politiche, diplomatiche, industriali, militari, finanziarie, mediatiche. I cosiddetti poteri forti. Attenzione, avverte Magaldi: non si tratta di una semplice élite di potere. I grandi burattinai sono tutti massoni, affiliati a superlogge segrete internazionali. E convinti che il popolo, semplicemente, non sia in grado di governarsi. Solo loro, gli “eletti”, auto-promossi in una sorta di “aristocrazia spirituale”, si credono in grado di stabilire cos’è bene e cos’è male.Sono gli uomini come il “venerabile” Mario Draghi, che Magaldi chiama “contro-iniziati”, cioè traditori della missione massonica originaria: “libertè, egalitè, fraternitè”, ideali su cui le logge del ‘700 basarono la storica guerra sotterranea contro l’assolutismo monarchico, innescando la Rivoluzione Francese e quella americana, quindi i Risorgimenti dell’800 e le grandi rivoluzioni del ‘900, compresa quella russa. Magaldi l’ha ripetuto in una lunga video-intervista che Claudio Messora ha realizzato e pubblicato sul seguitissimo blog “Byoblu”, vicino all’area grillina. Un’ora di rivelazioni a catena, per spiegare (anche) la candidatura romana di Galloni: «Se fosse eletto sindaco della capitale, esordirebbe con un gesto necessario e dirompente: la rottura del “patto di stabilità” che costringe artificiosamente gli enti pubblici a deprimere la spesa, mettendo in sofferenza i cittadini, non in nome di criteri economici ma solo di diktat ideologici imposti da quell’élite oligarchica che vuole semplicemente la fine della democrazia». L’autore di “Massoni” cita il politologo statunitense John Rawls e la sua “teoria della giustizia”: nulla in contrario alla ricchezza, se sudata, purché nella società non restino persone senza reddito, senza il diritto a un’esistenza dignitosa. Diritto al lavoro, da inserire nella Costituzione: «Oggi serve un’alta autorità deputata alla creazione della piena occupazione, in Italia», ben sapendo che la crisi – rigore, austerity, disoccupazione – è stata espressamente voluta: il bisogno e la paura del futuro trasformano i cittadini in sudditi, secondo la visione neo-feudale dell’élite dominante.Era un massone, Rawls, e purtroppo lo era anche Robert Nozick, il teorico dello “Stato minimo”: tagli drastici alla spesa sociale, come raccomandato anche dalla scuola austriaca, quella di Friedrich Von Hayek, altro massone, punto di riferimento di un esponente nostrano della massoneria neo-oligarchica, Mario Monti. Proprio la “libera muratoria”, insiste Magaldi, è il convitato di pietra dei nostri giorni: benché assente, clamorosamente, dalla storiografia, la massoneria ha letteralmente “fatto la storia”, creando le basi della modernità (democrazia, elezioni, Stato di diritto), e poi ha partorito un’élite di potere di segno opposto, reazionario, che ha dominato gli ultimi decenni. Un’élite di rinnegati e “contro-iniziati”, appunto: «Tradiscono l’ispirazione umanitaria della massoneria storica, che ha conferito ad ogni singolo cittadino, prima la prima volta, una quota di sovranità: prima non esistevano cittadini, ma solo sudditi, esposti all’arbitrio del monarca». Se non ci si decide a riconoscere finalmente il ruolo positivo e decisivo della “libera muratoria” come leva dello sviluppo civile democratico, fino alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo promossa da Eleanor Roosevelt, è impossibile capire fino in fondo chi abbiamo di fronte oggi, insiste Magaldi: è fondamentale la matrice massonica del nuovo super-potere, quello delle Ur-Lodges apolidi e affaristiche, pronte a manipolare la storia sociale del mondo in nome delle proprie convinzioni iniziatiche, corrotte dal suprematismo neo-aristocratico.Enorme, comunque, anche tra i commenti sul blog di Messora, la diffidenza nei confronti di Magaldi e della massoneria in generale. «In materia, in Italia, c’è un’ignoranza abissale», ammette lo stesso Magaldi, che nel suo libro denuncia il ruolo di Gelli e della P2 come longa manus della superloggia reazionaria e golpista “Three Eyes”, quella di Kissinger, a cui sarebbe stato affiliato anche Giorgio Napolitano. In polemica col “Grande Oriente d’Italia”, Magaldi ha condotto una battaglia per la trasparenza, fondando il “Grande Oriente Democratico”. Poi ha concepito il progetto editoriale “Massoni”, per scuotere le acque, affiliandosi anche alla Ur-Lodge progressista “Thomas Paine”. Il “Movimento Roosevelt” è l’ultima creatura, apertamente politica, per contrastare l’emergenza attuale, fondata sull’artificio ideologico del rigore. Non è casuale, ovviamente, il richiamo al grande presidente americano: «Quando gli Usa agonizzavano, in preda alla Grande Depressione, il repubblicano Hoover condusse la sua campagna elettorale nel silenzio imbarazzato del suo stesso partito: nessuno più credeva alla ricetta dell’austerity, ed era il 1929. La riscossa venne proprio dal massone Roosevelt, grazie al genio economico di un altro massone, John Maynard Keynes, l’uomo della spesa pubblica espansiva: solo lo Stato ha il potere di risollevare le sorti dell’economia. A loro, l’Europa deve lo sviluppo e la prosperità del dopoguerra».Grandi personaggi, leader storici indiscussi, di cui però viene sempre regolarmente omessa l’appartenenza massonica. Un “buco nero” a cui probabilmente ha contribuito la massoneria stessa, con la sua tradizionale riservatezza, ereditata dall’epoca in cui gli inventori della democrazia rischiavano il cercere e la forca. Oggi la massoneria torna a fare notizia, ma generalmente in negativo: sinonimo di potere occulto, di network deviato e pericoloso. «Io sono orgogliosamente massone», protesta Magaldi, «e, come me, tanti “fratelli”, in Italia e nel mondo, decisi a contrastare questa leadership egemonica nefasta». Grande complotto, da parte dei neo-aristocratici? L’autore di “Massoni” preferisce parlare di “progetto”: «E’ comprensibile che, chi ha creato la modernità, pensi di poterla pilotare a suo piacimento. Comprensibile, ma sbagliato: il potere deve assolutamente e rapidamente tornare al popolo, per via democratica. E questo, anche se i libri di storia non lo spiegano, è un orientamento non soltanto giusto, ma anche profondamente massonico, nonostante il pessimo esempio fornito dai contro-iniziati come Draghi e Monti». Il viaggio di Gioele Magaldi continua, come le tappe della presentazione del suo libro, oscurato dai media mainstream. «Lei non ha paura?», gli domanda Messora. «Ricevo minacce di morte, ma vado avanti», assicura Magaldi, deciso a completare la missione: strappare il velo che ci impedisce di vedere che i burattinai dell’Isis e quelli dell’austerity europea sono le stesse persone.Non credete a quello che vi dicono, non date retta alla verità ufficiale. Non lo dice un “complottista”, ma un massone atipico come Gioele Magaldi, che da un anno gira l’Italia presentando il suo libro sconcertante, edito da Chiarelettere, che mette in piazza i misfatti di alcune delle 36 Ur-Lodges che reggono i destini del mondo, dietro le quinte, manovrando leader che spesso hanno direttamente fabbricato. Leader e “nemici da abbattere”, come la loro ultima creatura, l’Isis, fatta apposta per generare paura, odio e guerra, rimestando nel torbido stagno dello “scontro di civiltà”, evocato per la prima volta dal massone Samuel Huntington, autore del saggio “La crisi della democrazia” voluto dalla Commissione Trilaterale, organismo “paramassonico” e cinghia di trasmissione semi-ufficiale dei voleri dell’élite-ombra, il cui obiettivo, da quarant’anni, è sempre lo stesso: sabotare la sovranità degli Stati, per consegnare tutto il potere nelle mani dei signori del “mercato”. Il traffico di petrolio denunciato clamorosamente da Putin, che collega l’Isis alla famiglia presidenziale turca? Verità svelate da almeno un anno, tra le pagine del libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”: Erdogan fa parte a pieno titolo della superloggia “Hathor Pentalpha”, nel cui nome c’è già l’Isis (Hathor, secondo nome della dea egizia Iside).
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Francia e Venezuela, la falsa sinistra: bara, e quindi perde
In una sola giornata la sinistra riceve due colpi secchi perdendo (e male) le elezioni politiche in Venezuela ed amministrative in Francia. Sono due contesti diversi e due sinistre diverse: neoliberista, europeista, moderata ed elitaria quella francese, populista e altermondialista quella carachegna, ma entrambe incapaci di essere forza di cambiamento e di affrontare una crisi internazionale come questa in corso. Nel caso francese occorre dissipare un equivoco che dilaga sui media: che si sia trattato di una reazione di fatti del 13 novembre. Intendiamoci: quella strage ha avuto la sua parte nel gonfiare le vele del Fn, con la conclamata incapacità di Hollande di far fronte al pericolo terrorista. Quando, dopo un attentato grave come quello dell’8 gennaio, si chiama in piazza la gente e ci si mette alla testa di un corteo di tre milioni di persone con i capi di Stato e poi non succede niente e gli jihadisti tornano a colpire anche più duro, hai solo dato la misura della tua impotenza e, dunque, non puoi non aspettarti una reazione molto aspra dell’elettorato. Però non si può ridurre tutto a questo solo problema: la popolarità di Hollande (e del Ps) era in picchiata ben da prima dell’attentato di Charlie Hebdo ed, anzi, fu proprio quell’attentato a regalargli una momentanea risalita nel sondaggi, come simbolo dell’unità nazionale contro l’aggressione subita.Il guaio è l’incapacità di Hollande di affrontare la crisi economica, con punte di disoccupazione mai viste e di avere una politica estera di qualche autonomia. Ed i due aspetti c’è un evidente nesso: nella questione greca Hollande si è comportato come il valletto-capo della Merkel e non ha avuto un guizzo di soggettività, mentre sulla questione ucraina e sulla Siria si è comportato come il maggiordomo di casa Obama. I francesi, si sa, hanno una idea molto alta di sé stessi e sono attenti tanto allo stato economico della nazione quanto alla politica estera ed uno straccio di presidente così proprio non lo tollerano. Di Hollande si può parlare solo per ridere e, se non fosse stato per la caduta di popolarità di quell’altra macchietta di Sarkozy ed per il noto infortunio di Dominique Strauss-Kahn, mai avrebbe potuto sognare di sedere sulla sedia che fu di De Gaulle e di Mitterrand. Quanto al Ps francese, è un partito spento sin dal dopo-Mitterrand (che pure concluse il suo ciclo presidenziale che la solenne bestialità dell’euro). Ed ora siamo all’ennesimo insuccesso della socialdemocrazia neoliberista ridotta ormai a succedaneo dei partiti della destra democristiana e liberale.Questo schema a tre, che sino a cinque anni fa, rappresentava il 90% dell’elettorato europeo, non funziona più: la crisi fa emergere con troppa evidenza la natura elitaria ed antipopolare di quel sistema politico ed insorgono i vari movimenti populisti. Anche i partiti socialisti di sinistra o comunisti d’Europa farebbero bene a chiedersi come mai abbiano intercettato ben poco del malessere sociale seguito all’esplosione della crisi e che, invece (salvo il caso di Syriza, sin che regge) si è riversato sui nuovi partiti populisti. La sinistra d’antan ha preferito guardare verso le pulsioni altermondialiste latinoamericane, di cui i chavisti erano la punta di diamante. Guardare e predicare, ma guardandosi bene dall’imitare. In realtà, anche nel caso sudamericano, si trattava di una variante dello schema populista, che mescolava marxismo, cattolicesimo sociale e peronismo e che non era in grado di esprimere una reale alternativa di governo. Di fatto, l’esperimento chavista è stato l’uso della rendita petrolifera per fondare un welfare che ne distribuisse i benefici. Ottima cosa, ma destinata all’insuccesso in mancanza di una ristrutturazione dell’economia che desse al Venezuela un solido impianto industriale.I paesi produttori di materie prime sono sempre i primi ad essere colpiti dalle crisi, come è puntualmente accaduto nel Venezuela degli ultimi quattro anni che ha dovuto gonfiare il suo debito. La formula ha funzionato in termini di consenso sin quando il debito non è esploso e sinchè il gioco era nelle mani di Chavez che, oltre che essere un personaggio carismatico, era un sincero democratico che cercava il consenso popolare. Ma, quando Chavez è morto, il gioco è passato nelle mani di un piccolo burocrate stalinista come Maduro, incapace di gestire la crisi economica e sociale del paese. L’elettorato (giustamente) non ha perdonato a Maduro la brutale repressione della protesta studentesca di due anni fa, condotta in perfetto stile fascista con l’uso della tortura da parte della polizia. Né ha perdonato il dilagare della corruzione fra militari, polizia e quadri del Pst. Senza quella vasta corruzione (che per la verità c’era già ai tempi di Chavez che, però, si sforzava di contrastarla) non si sarebbe potuto assistere al dilagare del mercato nero che ha ridotto alla fame diversi strati di popolazione.Ora è arrivato il conto. Non credo affatto che la destra che ha vinto saprà esser migliore e risolvere i problemi sociali del paese, ma gli chavisti meritavano questo severo ceffone. E qui veniamo al perché la sinistra perde, come si vede, in entrambe le versioni, quella elitaria e quella populista. La risposta è semplice: perché in entrambi i casi è una sinistra solo di nome e non di fatto. La sinistra non può essere quella di chi difende l’oligarchia europeista, ma nemmeno quella dei burocrati che fanno solo dell’egualitarismo verbale e per il resto pensano solo a procurarsi privilegi e reagiscono con la repressione alle proteste popolari. Già immagino i commenti dei difensori d’ufficio dell’uno e degli altri: la sinistra deve imparare ad essere molto severa con sé stessa e a non cedere ai facili giustificazionismi che servono solo a porre le premesse della prossima sconfitta. Se vuol tornare a vincere, la sinistra deve tornare ad essere reale forza di cambiamento, il che significa prima di tutto autoprocessarsi per gli errori passati e poi cambiare cultura politica, modelli organizzativi e forme di azioni. Il peggior tradimento di una idea è la sua mummificazione, perché una idea che non cambia nel tempo è una idea che tradisce sé stessa.(Aldo Giannuli, “Francia e Venezuela, la sinistra che perde”, dal blog di Giannuli del 7 dicembre 2015).In una sola giornata la sinistra riceve due colpi secchi perdendo (e male) le elezioni politiche in Venezuela ed amministrative in Francia. Sono due contesti diversi e due sinistre diverse: neoliberista, europeista, moderata ed elitaria quella francese, populista e altermondialista quella carachegna, ma entrambe incapaci di essere forza di cambiamento e di affrontare una crisi internazionale come questa in corso. Nel caso francese occorre dissipare un equivoco che dilaga sui media: che si sia trattato di una reazione di fatti del 13 novembre. Intendiamoci: quella strage ha avuto la sua parte nel gonfiare le vele del Fn, con la conclamata incapacità di Hollande di far fronte al pericolo terrorista. Quando, dopo un attentato grave come quello dell’8 gennaio, si chiama in piazza la gente e ci si mette alla testa di un corteo di tre milioni di persone con i capi di Stato e poi non succede niente e gli jihadisti tornano a colpire anche più duro, hai solo dato la misura della tua impotenza e, dunque, non puoi non aspettarti una reazione molto aspra dell’elettorato. Però non si può ridurre tutto a questo solo problema: la popolarità di Hollande (e del Ps) era in picchiata ben da prima dell’attentato di Charlie Hebdo ed, anzi, fu proprio quell’attentato a regalargli una momentanea risalita nel sondaggi, come simbolo dell’unità nazionale contro l’aggressione subita.
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Gli inglesi nell’Ue solo grazie all’imbroglio dell’élite segreta
I votanti al referendum inglese devono sapere che fin dal primo giorno l’Unione Europea intendeva costruire un superstato federale. Mentre ferve il dibattito sul prossimo referendum Ue, è utile ricordare in primo luogo in che modo la Gran Bretagna sia giunta all’adesione. Mi sembra, infatti, che la maggior parte della gente non capisca il motivo per cui uno dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale debba struggersi così tanto per entrare a far parte di questo “club”. E questo è un peccato, perché la risposta a questa domanda è la chiave per capire perché l’Unione Europea stia andando così male. La maggior parte degli studenti inglesi sembra pensare che la Gran Bretagna fosse in difficoltà economiche, e che la Comunità Economica Europea – come si chiamava allora – costituisse un nuovo motore economico in grado di rivitalizzare la sua economia. Altri pensano che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Gran Bretagna avesse avuto bisogno di riformulare la sua posizione geopolitica, da quella di tipo “imperiale” a una più realistica all’interno dell’Europa. Nessuno di questi argomenti, tuttavia, è valido.La Cee negli anni 1960 e 1970 non era in grado di rigenerare nessuna economia possibile. Utilizzò le sue magre risorse per l’agricoltura e la pesca e non disponeva di mezzi e di politiche per poter generare una crescita economica. Quando entrammo nella Cee il nostro tasso di crescita annuale fu un record del 7,4%, quindi per noi l’argomento “economia-paniere” non sta in piedi (l’attuale cancelliere morirebbe, per simili cifre). Quando la crescita arrivò, non fu grazie alla Comunità Europea. Dalle riforme sull’offerta di Ludwig Erhard in Germania Ovest nel 1948 alle privatizzazioni della Thatcher delle industrie nazionalizzate negli anni ‘80, la crescita europea giunse attraverso riforme introdotte dai singoli paesi e replicate in altri. La politica dell’Unione Europea è sempre stata irrilevante o addirittura dannosa (vedi l’euro). Né si può dire che la crescita britannica sia mai stata inferiore di quella Europea. A volte l’ha anche superata. Nel 1950 l’Europa occidentale registrò un tasso di crescita del 3,5%; nel 1960 era del 4,5%. Ma nel 1959, quando Harold Macmillan assunse l’incarico di governo, il reale tasso di crescita annuo del Pil britannico, secondo l’ufficio nazionale di statistica, era quasi del 6%. Ed era sempre intorno al 6% quando de Gaulle pose il veto alla nostra prima domanda di adesione alla Ce nel 1963.E che dire della geopolitica? Quale argomento, alla luce fredda del senno di poi, avrebbe potuto essere così convincente da indurci a farci prendere a calci dai nostri alleati del Commonwealth nella Seconda Guerra Mondiale per voler aderire ad una combinazione economica tra Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Francia, Germania e Italia? Quattro di questi paesi non avevano alcun peso internazionale. La Germania era stata occupata e divisa. La Francia, nel frattempo, aveva perso una guerra coloniale in Vietnam e un’altra in Algeria. De Gaulle era giunto al potere per salvare il paese dalla guerra civile. La maggior parte dei realisti sicuramente avranno considerato questi Stati come un gruppo di perdenti. De Gaulle, egli stesso un iper-realista, sottolineò che la Gran Bretagna aveva delle istituzioni politiche democratiche, legami commerciali con tutto il mondo, cibo a buon mercato dai paesi del Commonwealth ed era anche una delle maggiori potenze mondiali. Perché avrebbe voluto entrare nella Cee?La risposta è che Harold Macmillan e i suoi più stretti collaboratori erano parte di una tradizione intellettuale che vedeva la salvezza del mondo in una forma di supergoverno mondiale fondato sul federalismo regionale. Era anche molto vicino a Jean Monnet, che condivideva lo stesso pensiero. Così, Macmillan diventò il rappresentante del movimento federalista europeo nel Gabinetto britannico. In un discorso alla Camera dei Comuni sostenne il progetto della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) prima ancora che fosse annunciato in Europa. In seguito, si adoperò per la conclusione di un accordo di associazione tra Regno Unito e la Ceca, e fu sempre lui a garantire che dopo la Conferenza di Messina, che diede vita alla Cee, ai negoziati di Bruxelles fosse sempre presente un rappresentante britannico. Alla fine degli anni ’50 spinse per l’adesione dell’European Free Trade Association alla Cee. Poi, quando il generale de Gaulle iniziò a cambiare la Cee in qualcosa di meno federale, si affrettò a presentare una vera e propria domanda di adesione britannica, con l’intento di frenare le ambizioni gaulliste. Il suo scopo, in un’alleanza con gli Stati Uniti e i proponenti europei di una ordine mondiale federalista, era di dare un colpo alla emergente alleanza franco-tedesca, vista come un’alleanza tra il nazionalismo francese e quello tedesco.Lo statista francese Jean Monnet, che nel 1956 fu nominato presidente della Commissione per gli Stati Uniti d’Europa, incontrò più volte – segretamente – Heath e Macmillan, per facilitare l’ingresso britannico nella Cee. Egli, infatti, fu il primo ad essere informato in quali termini avrebbe potuto inquadrarsi un’eventuale entrata britannica nella Comunità Europea. Nonostante il consiglio del Lord Cancelliere, Lord Kilmuir, che l’adesione avrebbe significato la fine della sovranità parlamentare britannica, Macmillan fuorviò deliberatamente la Camera dei Comuni – e praticamente tutti gli altri, da statisti del Commonwealth a colleghi di governo e l’opinione pubblica – dicendo che erano coinvolti solo rapporti commerciali minori. Tentò anche di ingannare de Gaulle, dicendo di essere anti-federalista, oltre che un suo caro amico, e che avrebbe fatto in modo che anche la Francia, come la Gran Bretagna, ricevesse i missili Polaris dagli americani. Ma de Gaulle non la bevve, e pose il veto per la domanda di adesione della Gran Bretagna.Macmillan lasciò a Edward Heath il prosieguo della questione, e Heath, insieme a Douglas Hurd, dispose – secondo documenti di Monnet – che il partito Tory diventasse un membro (segreto) della Commissione per gli Stati Uniti d’Europa di Monnet. Secondo il primo assistente e biografo di Monnet, François Duchene, più tardi anche i partiti laburista e liberale fecero la stessa cosa. Nel frattempo, il conte di Gosford, uno dei ministri per la politica estera di Macmillan nella Camera dei Lord, informò apertamente la Camera che lo scopo della politica estera del governo era un supergoverno mondiale. La Commissione di Monnet ricevette anche sostegno finanziario dalla Cia e dal Dipartimento di Stato Usa. A quel punto era chiaro che l’establishment anglo-americano fosse intenzionato a creare una federazione di Stati Uniti d’Europa. Ed è così anche oggi. Potenti lobby internazionali sono già al lavoro nel tentativo di dimostrare che qualsiasi ritorno a un governo democratico “indipendente” sarà una sciagura.Alcuni funzionari americani sono già stati allertati per sostenere che un Regno Unito del genere verrebbe escluso da qualsiasi accordo di libero scambio con gli Stati Uniti e che il mondo ha bisogno del trattato commerciale Ttip, che dipende totalmente dalla sopravvivenza dell’Unione Europea. Fortunatamente, i candidati repubblicani statunitensi stanno diventando sempre più euroscettici, e giornali americani come “The National Interest” stanno pubblicando il caso del Brexit. La coalizione internazionale dietro a Macmillan e Heath questa volta non troverà un quadro altrettanto semplice come allora – soprattutto considerando le evidenti difficoltà dell’Eurozona, il fallimento delle politiche europee di immigrazione e la mancanza di coerenti politiche per la sicurezza europea. E inoltre, la cosa più importante: l’opinione pubblica inglese, burlata già una volta, sarà molto più difficile burlarla una seconda volta.(Alan Sked, “Come un’élite segreta creò l’Unione Europea per costruire un governo mondiale”, dal “Telegraph” del 27 novembre 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”. Il professor Alan Sked è uno dei fondatori originari dell’Ukip, il partito indipendentista di Nigel Farage. Docente di storia internazionale alla London School of Economics, sta raccogliendo materiale per un suo libro, che spera di pubblicare presto, sulle esperienze “europee” del Regno Unito).I votanti al referendum inglese devono sapere che fin dal primo giorno l’Unione Europea intendeva costruire un superstato federale. Mentre ferve il dibattito sul prossimo referendum Ue, è utile ricordare in primo luogo in che modo la Gran Bretagna sia giunta all’adesione. Mi sembra, infatti, che la maggior parte della gente non capisca il motivo per cui uno dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale debba struggersi così tanto per entrare a far parte di questo “club”. E questo è un peccato, perché la risposta a questa domanda è la chiave per capire perché l’Unione Europea stia andando così male. La maggior parte degli studenti inglesi sembra pensare che la Gran Bretagna fosse in difficoltà economiche, e che la Comunità Economica Europea – come si chiamava allora – costituisse un nuovo motore economico in grado di rivitalizzare la sua economia. Altri pensano che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Gran Bretagna avesse avuto bisogno di riformulare la sua posizione geopolitica, da quella di tipo “imperiale” a una più realistica all’interno dell’Europa. Nessuno di questi argomenti, tuttavia, è valido.
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Sciiti e sunniti, colpa loro. Noi occidentali? Innocenti, ovvio
“Se Allah avesse voluto una sola religione, al mondo, quella soltanto ci sarebbe”. Nel suo saggio sulle principali confessioni del pianeta, Paolo Franceschetti ricorda lo straordinario ecumenismo presente nel Corano, secondo cui “tutte le religioni sono mezzi che conducono alla stessa meta”. «Lo stesso Maometto, pur “prescelto da Dio”, aggiungeva: non compio miracoli, non servirebbe. Nonostante i suoi miracoli, nemmeno Cristo, il più grande dei profeti, è stato riconosciuto per ciò che era, ed è stato crocifisso». Ora torna in voga il refrain sullo “scontro di civiltà”, inaugurato nel 1996 da un esponente dell’élite come Samuel Huntington (“Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”) e reso tristemente celebre da Oriana Fallaci dopo l’11 Settembre. E oggi, nella narrazione mainstream frastornata da attentati e guerre a catena (Libia e Siria, Charlie Hebdo, Yemen, strage di Parigi del 13 novembre), lentamente affiora anche nei talkshow un nuovo capitolo, quello della guerra inter-islamica tra sciiti e sunniti. «Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale», scriveva Huntington. «Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro», anche perché «le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura».Superiorità occidentale? Sì, ma a mano armata: «L’Occidente – ammette ancora Huntington – non ha conquistato il mondo con la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione, ma attraverso la sua superiorità nell’uso della violenza organizzata, il potere militare». E attenzione: «Gli occidentali lo dimenticano spesso, i non occidentali mai». Lo sottolinea Paolo Barnard nel suo saggio “Perché ci odiano”, in cui intervista anche l’allora “numero tre” di Al-Qaeda: il mondo islamico ha ormai incorporato un rancore smisurato e più che giustificato verso l’Occidente, dopo aver subito – senza interruzione – un genocidio dopo l’altro, lo stupro di interi paesi e la razzia delle risorse (petrolifere, e non solo) grazie alla complicità di élite locali, i “raìs” che rinnegarono le istanze della decolonizzazione, restando al potere – dittature e monarchie – col granitico supporto occidentale. Una stagione di piombo, dopo la fine delle speranze accese dai leader terzomondisti arabi e africani sistematicamente uccisi o fatti uccidere dagli occidentali, perché scomodi: da Patrice Lumumba in Congo, liquidato dal Belgio per insediare Mobutu, fino a Thomas Sankara, in Burkina Faso (l’uomo che voleva azzerare il debito per i paesi poveri), assassinato col solito sistema, sicari locali armati da mandanti occidentali, francesi e americani.Il maggiore leader della storia egiziana moderna, Nasser, trascinò il mondo sull’orlo della guerra nel fatidico 1956: nazionalizzò il Canale di Suez per protesta contro la Banca Mondiale che rifiutava di finanziare una grande diga sul Nilo; per rovesciarlo manu militari, inglesi e francesi sbarcarono in forze a Port Said, ma furono fermati dall’Urss che intimò loro il ritiro immediato, pena l’impiego delle armi atomiche. Proprio il crollo dell’Unione Sovietica ruppe equilibri decennali, congelando al potere i vecchi autocrati, ancora sul trono o travolti solo ora dalle “primavere arabe”. Sempre in Egitto, il “faraone” Mubarak era stato il vicepresidente di Anwar Sadat, l’uomo della storica pace separata con Israele. Pagò con la vita, Sadat, e la sua fine mise sotto i riflettori, per la prima volta, la “jihad islamica”: Sadat fu ucciso nel 1981 da un killer jihadista. Meno di dieci anni dopo, l’Algeria schierò i carri armati nelle strade per annullare i risultati delle elezioni, che avevano clamorosamente incoronato il Fis, Fronte Islamico di Salvezza. Ma l’unico grande paese in cui l’Islam andò letteralmente al potere fu l’Iran, con la travolgente rivoluzione di Khomeini del 1979, guidata dal carismatico ayatollah (sciita) esiliato dal feroce regime dello “scià” Reza Pahlavi, a cui l’Occidente aveva imposto di eliminare il premier Mohammad Mossadeq, che aveva osato nazionalizzare il petrolio iraniano, saldamente in mano agli inglesi dal lontano 1908.Con Khomeini, l’identità religiosa si è trasformata anche in arma politica di autodifesa, da parte di paesi storicamente brutalizzati e rapinati dall’Occidente, che non ha mai neppure provato a sanare la devastante piaga della Palestina, martoriata fino al genocidio delle bombe al fosforo bianco sganciate anche sui bambini, dopo che a Gaza si è imposta (democraticamente, per via elettorale) la fazione sciita di Hamas. Appena più a nord, altri sciiti, quelli del partito armato di Hezbollah insediato in Libano, sono ora impegnati accanto ai russi nel sostegno militare del regime di Assad, esponente della componente sciita (alawyta) della Siria. Mentre nell’altro paese raso al suolo dalle bombe, l’Iraq, a maggioranza sciita, sono stati gli americani a emarginare, con la fine di Saddam, la componente sunnita, da cui si racconta sia partita l’ultima ondata jihadista che sta insanguinando il Medio Oriente e terrorizzando la Francia. Religione o potere? Secondo un eminente studioso come Francesco Saba Sardi, biografo di Picasso e traduttore di Simenon, Pessoa, Borges e Garcia Marquez, religione e potere compaiono insieme, nella storia della civiltà, insieme al terzo elemento: la guerra. Accade nel passaggio cruciale tra il paleolitico, abitato da cacciatori e raccoglitori, al neolitico, in cui l’uomo scopre l’agricoltura e quindi il bisogno di conquistare e difendere la terra. Nel saggio “Dominio”, Saba Sardi sostiene che proprio la religione nacque per conferire autorità al primo capo politico e militare della storia dell’umanità, il re-sacerdote.Se la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei, potrebbe essere classificato (come il Papa-re) nella categoria dei re-sacerdoti, è pur vero però che i “nemici” dei paesi islamici non professano, di fatto, alcuna religione: il biglietto da visita dell’Occidente “cristiano” non è il crocifisso, ma una valigia di dollari e una flotta di droni che sganciano missili. Tre milioni di vittime, fra i musulmani, solo negli ultimi anni. E’ sempre l’Occidente – l’ha ricordato un comico, Maurizio Crozza, citando Hillary Clinton – ad aver “fabbricato”, in Afghanistan, il fondamentalismo islamico da cui poi nacquero i Talebani e il loro profeta, l’ex uomo Cia più famoso del mondo, Osama Bin Laden. Eppure, di fronte ai fallimenti catastrofici in Medio Oriente e alla recente paura quotidiana per gli attentati, un’Europa smemorata e incerta, guidata dall’evanescente Obama, resta tra le nebbie di una politica reticente e disonesta: preferisce tacere sul ruolo di Usa, Francia e Turchia nella progettazione a tavolino della “guerra civile” in Siria, per parlare piuttosto di scontro inter-islamico tra sciiti e sunniti, come se si trattasse di una lite di famiglia tra parenti lontani, stravaganti e fanatici, fingendo di non sapere come mai, molti di loro, ce l’hanno tanto con noi.Posto che nessuno potrebbe mai farsi saltare in aria senza essere imbottito di anfetamine o debitamente manipolato con tecniche psicologiche potentissime, come quelle messe a punto nel programma Mk-Ultra della Cia, non occorre un Premio Nobel per riconoscere le ragioni di un risentimento vastissimo, motivato da decenni di mostruose sofferenze inflitte. «La differenza tra noi e voi è semplice: noi non abbiamo paura di morire», dice un jihadista. Può succedere, sostiene Marco Travaglio, se scopri di non avere più niente da perdere, perché qualcuno ti ha condotto alla disperazione, privandoti di tutto. «Aiutiamoli a casa loro», dicono – senza ridere – leader come Salvini, come se non sapessero in che modo li stiamo già “aiutando”, a casa loro, da decenni. Enrico Mattei, che alla parola “aiuto” dava un significato diverso (non rapina, ma scambio equo) fu fatto esplodere in aria, sul suo aereo. Ma era tanto tempo fa. Troppo, per ricordare. Meglio allora i pettegolezzi sulla lite di famiglia tra i sunniti, cioè gli eredi di Abu Bakr, amico e suocero di Maometto, e gli sciiti, seguaci dell’imam Alì, cugino e genero del Profeta. La divisione religiosa risale al VII secolo dopo Cristo, ma è “esplosa” soltanto adesso, da quando i paesi islamici del Vicino Oriente si sono accorti, definitivamente, della natura dell’“aiuto a casa loro” fornito dal potere occidentale.Il nostro è un potere non certo religioso, ma finanziario e militare, come ricorda Huntington, peraltro co-autore dello storico saggio “La crisi della democrazia”, commissionato dalla Trilaterale e utilizzato come Vangelo dall’oligarchia mondialista, quella che ha messo fine alla sovranità nazionale anche archiviando la sinistra dei diritti, quella che – per inciso – sosteneva le cause del terzo mondo, inclusa quella palestinese, che sta a cuore tanto ai sunniti quanto agli sciiti. Ma attenzione: buttarla in politica non risolve sempre tutto. Lo sostiene un osservatore speciale come Fausto Carotenuto, già analista di primo piano dei servizi segreti, ora animatore del network “Coscienze in rete”: conta anche, e moltissimo, la dimensione “invisibile”, quella dei pensieri. Angoscia, paura e rabbia, oppure speranza e fiducia: il “potere” della preghiera. I musulmani sono un miliardo e mezzo, nel mondo, e pregano Allah cinque volte al giorno, tutti i giorni, a ore fisse. «Ogni fedele – dice Paolo Franceschetti – sa che, mentre sta pregando, lo sta facendo insieme a tutti gli altri, in ogni parte del mondo. Questo dona una grande forza interiore, demolisce la solitudine».Per il massone Gianfranco Carpeoro, l’errore fatale dei cattolici fu quello di attaccare gli arabi con le Crociate. San Francesco d’Assisi viaggiò fino a Damietta, sul Nilo, per fare la pace coi musulmani. Che, all’imperatore esoterista Federico II, regalarono una scorta d’onore: la guarda armata del capo del Sacro Romano Impero era composta da guerrieri musulmani. Emblematico, sotto questo aspetto, il ruolo-ponte dei Sufi, confraternita iniziatica di origini antichissime, pre-islamiche, capace di sviluppare una particolarissima forma di sincretismo, oltre che una sorta di diplomazia di pace. «Sapendo che tutto è Dio, cerco Dio per trovare il tutto», sintetizzava Gabriele Mandel, eminente studioso e leader dei “dervisci” italiani, per tutta la vita impegnato nel dialogo interreligioso. Dagli islamici abbiamo molto da imparare, aggiunge Franceschetti: «Per loro la carità è un obbligo, vivono una straordinaria solidarietà quotidiana. Da sempre, nei paesi islamici, il fisco è progressivo: i ricchi pagano più tasse. E la finanzia islamica non è speculativa come la nostra, l’etica la impone il Corano: se non riesci più a a pagare il muto, la banca si riprende la casa ma si ferma lì, non ti perseguita con gli interessi. Non a caso, da noi non si vedono banche islamiche». Discorsi che portano lontano, certo. Molto più lontano dei missili sulla Siria, e di quelli sparati ogni giorno dal circo mediatico con le sue mediocri comparse senza memoria.“Se Allah avesse voluto una sola religione, al mondo, quella soltanto ci sarebbe”. Nel suo saggio sulle principali confessioni del pianeta, Paolo Franceschetti ricorda lo straordinario ecumenismo presente nel Corano, secondo cui “tutte le religioni sono mezzi che conducono alla stessa meta”. «Lo stesso Maometto, pur “prescelto da Dio”, aggiungeva: non compio miracoli, non servirebbe. Nonostante i suoi miracoli, nemmeno Cristo, il più grande dei profeti, è stato riconosciuto per ciò che era, ed è stato crocifisso». Ora torna in voga il refrain sullo “scontro di civiltà”, inaugurato nel 1996 da un esponente dell’élite come Samuel Huntington (“Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”) e reso tristemente celebre da Oriana Fallaci dopo l’11 Settembre. E oggi, nella narrazione mainstream frastornata da attentati e guerre a catena (Libia e Siria, Charlie Hebdo, Yemen, strage di Parigi del 13 novembre), lentamente affiora anche nei talkshow un nuovo capitolo, quello della guerra inter-islamica tra sciiti e sunniti. «Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale», scriveva Huntington. «Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro», anche perché «le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura».
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Nino Galloni sindaco di Roma: troppo bello per essere vero?
«Carissimi, vi giro un link del Movemento Roosevelt (MR) in cui si fa una proposta diretta al M5S per la candidatura a sindaco di Roma. La proposta è un po’ “arrogante” ma il candidato, Nino Galloni, appare di elevato livello», scrive Filippo Ridolfi, il 29 novembre, sul forum del blog di Grillo. «Puoi dire al MR di andare a fare in c***», chiarisce il grillino Massimiliano Morosini. A un altro iscritto, “Gnam Gnam”, il nome Galloni non dice granché: «Vediamo un po’. Uhm, non trovo il curriculum del tizio». Un quarto attivista, “Filippo”, s’illumina: «Ahah… ho visto anche un “Passaparola” di Beppe con Galloni». Sdoganato, quindi, il grande economista? Macché: «Preferisco Virginia Raggi», chiosa “Ste”, alludendo alla giovane avvocatessa grillina «sbarcata in Campidoglio nel 2013 col vento del grillismo per occuparsi di stanziamenti per il verde pubblico», come scrive “Linkiesta”. La Raggi? «Un po’ di lavoretti da cameriera e baby sitter, il volontariato nei canili. Oggi è avvocato civilista esperta diritto d’autore, proprietà intellettuale e nuove tecnologie. Se prendesse il posto di Marino sarebbe il primo sindaco donna nella storia della Capitale». E Galloni?La “pazza idea” di candidare a Roma l’insigne economista progressista, già alto funzionario governativo – protagonista di una battaglia sotterranea per salvare l’Italia dal disastro del Trattato di Maastricht – proviene dal movimento fondato da Gioele Magaldi, massone e autore del dirompente saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) che denuncia i misfatti di alcune Ur-Lodges, fra le 36 superlogge segrete ai vertici del potere mondiale, negli ultimi decenni alle prese con la svolta oligarchica che ha imposto la grande crisi alle masse, arricchendo l’élite. Fulcro della grande restaurazione planetaria, il taglio neoliberista dello Stato a vantaggio dei signori del “mercato”: meno spesa pubblica, azzeramento del debito, tassazione alle stelle, crollo del Pil e disoccupazione. Tutto ciò imposto, in Europa, attraverso la scure dell’euro, che Galloni considera un’arma (economica) di distruzione di massa. Tanto era temuto, Galloni, che – ai tempi dell’ultima stagione governativa di Andreotti – spinse il cancelliere Kohl a muoversi, personalmente, perché fosse rimosso. Una battaglia, la sua, per la difesa della sovranità italiana, nella certezza che le modalità di imposizione della moneta unica avrebbero devastato l’economia nazionale, declassandola e deindustrializzandola.Era un piano preciso, ha spiegato Galloni a Claudio Messora, sul blog “Byoblu”: l’euro fu imposto dalla Francia per indebolire la Germania, di cui temeva la riunificazione; in cambio, Berlino pretese (e ottenne) il ridimensionamento del suo concorrente industriale più pericoloso: noi. Questo è il personaggio su cui “Filippo”, “Ste” e “Gnam Gnam” si saranno ormai documentati. Allievo del maggiore economista europeo del dopoguerra, il professor Federico Caffè, e quindi “compagno di banco” di Bruno Amoroso, eminente economista impegnato in Danimarca, e di un certo Mario Draghi, che si laureò con una testi sulla insostenibilità della moneta unica, molto prima di salire sul Britannia per la grande svendita dell’Italia. Riuscirà il Movimento 5 Stelle a prendere in considerazione l’offerta? Galloni collabora col Movimento Roosevelt, che vuole riscrivere le linee-guida della politica (e quindi dell’economia) per aiutare l’Italia a uscire dal disastro. Fine della sudditanza rispetto all’élite finanziaria che manovra Bruxelles? «Ma noi non siamo contro l’euro», dichiarò Gianroberto Casaleggio a Marco Travaglio, giusto alla vigilia delle ultime elezioni europee, segnate dalla squillante affermazione, in tutta Europa, di partiti e movimenti decisi a mettere fine alla catastrofe economica innescata proprio dalla moneta unica, quella che lo stesso Draghi, studente modello, giudicava una follia.«Nino Galloni sindaco di Roma? Magari!», sogna ad occhi aperti Andrea Signini su “Signoraggio.it”, definendo Galloni «grande giurista, nome di punta degli anni Ottanta e Novanta, il cosiddetto “oscuro funzionario” il quale, di contro, tutto è tranne che oscuro, dal curriculum di pregio e dalla profonda conoscenza delle dinamiche dell’economia, della finanza e anche della politica, di cui non ha mai fatto parte se non a richiesta, come professionista interrogato per risolvere i problemi che la politica stessa ha sempre causato». Già ricercatore all’università di Berkeley, tra il 1980 e il 1987 Galloni collaborò strettamente col suo maestro Federico Caffè, economista post-keynesiano, all’università di Roma. In seguito, Galloni ha insegnato economia alla Luiss di Roma, alla Sapienza, alla Cattolica di Milano, negli atenei di Modena e di Napoli. E’ stato direttore generale al ministero del lavoro, ha diretto l’osservatorio sul mercato del lavoro e l’occupazione giovanile, ha lavorato all’Inpdap e all’Ocse, è tra i sindaci dell’Inps e dell’Inail. Ha anche fondato il Centro Studi Monetari, un’associazione per lo studio dei mercati finanziari e delle forme di moneta emettibili senza creare debito pubblico.Galloni punta al ritorno della sovranità finanziaria nazionale e alla netta separazione tra banche d’affari, speculative, e credito pulito al servizio dell’economia reale, com’era prima dell’abolizione del Glass-Steagall Act ad opera di Bill Clinton, che diede la stura definitiva alla roulette finanziaria mondiale, decisa a “pescare” anche nella finanza pubblica. Il dramma risale al 1981, ricorda ancora Galloni, quando Ciampi e Andreatta staccarono il Tesoro da Bankitalia, che fino ad allora era il “bancomat del governo”, a costo zero, costringendo il paese ad attingere denaro attraverso l’emissione di titoli di Stato. Interessi salatissimi: «Così, di colpo, il debito pubblico italiano raddoppiò». Galloni? «E’ l’uomo giusto al punto giusto», scrive Signini. «Apprezzato da destra a sinistra, dal popolo cosiddetto moderato e quello di nicchia; ma soprattutto ammirato da chi accorre alle sue conferenze; conferenze che tiene in tutta Italia senza mai farsi pagare, ricordiamolo. Nino è così: sobrio nelle scelte, sobrio nel vivere, anche nel vestire. Non giuda Jeep o Ferrari, no. Lo puoi trovare nei consessi internazionali di finanza ed economia e poi il giorno appresso seduto al bar con gli appartenenti di ogni forza politica, di qualsiasi colore e schieramento o a parlare amabilmente con chi lo riconosce e gli chiede consigli e suggerimenti».«Questo è Nino», conclude Signini: Galloni è «l’altro allievo di Federico Caffè, del tutto diverso da Mario Draghi». Con tutta probabilità, «grazie proprio al bagaglio culturale e professionale che ha sviluppato sin dai tempi in cui, dopo essere ritornato dagli Usa per venire ad insegnare nelle università italiane», Nino Galloni «non può che essere colui sul quale scaricare la responsabilità di rifondare Roma», devastata dalle amministrazioni Alemanno e Marino. «Tentare di pescare l’ennesimo nome dal cilindro lercio della politica, sappiatelo, è inutile, oltre che nocivo», assicura Signini: «C’è rimasto solo Galloni». Che ne pensano “Ste”, “Gnam Gnam” e tutti gli altri? E soprattuttto: come la vedono Grillo e Casaleggio? E’ ovvio che una candidatura come quella di Galloni nella capitale rappresenterebbe una rivoluzione copernicana, dopo decenni di politica nazionale affidata a mezze figure prone ai diktat dei “padroni” stranieri, i veri burattinai della “casta” impresentabile contro cui si è scagliato il grillismo prima maniera. La sola candidatura di Galloni, col suo inevitabile contributo culturale, contribuirebbe a scardinare una lunga stagione di menzogne. Mission impossible?«Carissimi, vi giro un link del Movemento Roosevelt (MR) in cui si fa una proposta diretta al M5S per la candidatura a sindaco di Roma. La proposta è un po’ “arrogante” ma il candidato, Nino Galloni, appare di elevato livello», scrive Filippo Ridolfi, il 29 novembre, sul forum del blog di Grillo. «Puoi dire al MR di andare a fare in c***», chiarisce il grillino Massimiliano Morosini. A un altro iscritto, “Gnam Gnam”, il nome Galloni non dice granché: «Vediamo un po’. Uhm, non trovo il curriculum del tizio». Un quarto attivista, “Filippo”, s’illumina: «Ahah… ho visto anche un “Passaparola” di Beppe con Galloni». Sdoganato, quindi, il grande economista? Macché: «Preferisco Virginia Raggi», chiosa “Ste”, alludendo alla giovane avvocatessa grillina «sbarcata in Campidoglio nel 2013 col vento del grillismo per occuparsi di stanziamenti per il verde pubblico», come scrive “Linkiesta”. La Raggi? «Un po’ di lavoretti da cameriera e baby sitter, il volontariato nei canili. Oggi è avvocato civilista esperta diritto d’autore, proprietà intellettuale e nuove tecnologie. Se prendesse il posto di Marino sarebbe il primo sindaco donna nella storia della Capitale». E Galloni?
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Guerra e precariato, le ciniche verità di Luttwak e Poletti
Chissà perché in questi giorni ho finito per associare Edward Luttwak a Giuliano Poletti. Sono due persone diversissime per storia cultura e esperienze, l’uno intellettuale militante dell’imperialismo Usa, l’altro burocrate un poco rozzo del pentitismo comunista. Sono persone normalmente lontanissime eppure le loro uscite di questi giorni sui mass media italiani me li hanno fatti sembrare assai vicini. Il primo a La7 ha rivendicato con orgoglio il sostegno degli Stati Uniti ai talebani e a ciò che ne è seguito. È stato un buon affare comunque, ha detto, perché in Afghanistan è crollata l’Unione Sovietica è così l’Occidente ha visto sconfitto il suo principale nemico. Il secondo ha dichiarato inutili le lauree con alti voti, magari conseguite in ritardo, e poi ha rivendicato la necessità di superare il concetto stesso di orario di lavoro, sostituendolo con la retribuzione a prestazione. Io trovo che entrambi abbiano brutalmente descritto la verità. Per Luttwak la guerra si fa per conquistare potere e chi la vince, qualsiasi mezzo usi, ha sempre ragione. Non troveremo in lui le ributtanti ipocrisie sulle guerre umanitarie e democratiche. Le guerre servono a tutelare precisi interessi e per questo devono essere astute e spietate.Le guerre di Luttwak sono quelle del capitalismo liberista e globalizzato di oggi, quello santificato da George Bush padre allorché dichiarò: il nostro sistema di vita non è negoziabile e verrà difeso in tutti i modi. Giuliano Poletti deve esercitare qualche ipocrisia in più, vista la professione, ma alla fine non scarseggia in brutalità. Il suo attacco al 110 e lode corrisponde ad un mercato del lavoro nel quale i giovani laureati vanno a fare le polpette ai McDonald’s, naturalmente nascondendo il titolo di studio altrimenti non verrebbero assunti. A che serve studiare tanto se i lavori che vengono offerti non corrispondono minimamente alla cultura acquisita? Poco tempo fa ho conosciuto un ricercatore universitario che, stufo di fare la fame, aveva rilevato la bancarella del padre ai mercatini. Poletti sta semplicemente cercando di adeguare le aspettative scolastiche alla realtà del mercato del lavoro. Nel quale serve soprattutto una piccola istruzione di base adatta alla nostra società mediatica e consumista. Solo ad una élite rigidamente selezionata, quasi sempre su basi censitarie, sarà consentito di lavorare esercitando le competenze apprese in lunghi studi. Per la maggioranza dei giovani studiare troppo è tempo buttato. Come aveva lamentato Berlusconi, non può essere che anche l’operaio voglia il figlio dottore.Le controriforme della scuola di Gelmini e Renzi hanno cominciato ad adeguare, con i tagli, il sistema formativo al mercato del lavoro fondato su precariato e disoccupazione di massa. Meglio studiare meno e prepararsi ai lavoretti precari che verranno offerti, piuttosto che accumulare rabbia per una laurea non riconosciuta da nessuno. Anche sull’orario di lavoro Poletti ha in fondo detto la verità. La globalizzazione finanziaria, l’euro, le politiche di austerità hanno progressivamente distrutto le secolari conquiste del mondo del lavoro. Che per avere un orario definito per la propria prestazione e ridotto a dimensioni umane e legato ad una retribuzione dignitosa, ha speso 150 anni di lotte e miriadi di vittime. Oggi tutto è in discussione e non perché il lavoro non abbia più bisogno delle tutele conquistate, ma perché il capitale ha trovato la forza di distruggerle. Consiglierei a Poletti, che non pare persona particolarmente colta, la lettura di Furore di John Steinbeck. È la storia di una famiglia che, durante la crisi degli anni 30 negli Usa, è costretta a migrare e a trovare lavoro a cottimo. E arrivano in una azienda ove si raccolgono le cassette di arance a cinque centesimi l’una, senza orario di lavoro e se non va bene via.Il New Deal keynesiano di Roosevelt si rivolse anche contro quel sistema di sfruttamento, che oggi non a caso viene invece riproposto nell’Europa in cui, con l’austerità, trionfa il liberismo e si distruggono lo stato sociale e i diritti del lavoro. Luttwak e Poletti sono dei reazionari, la loro visione del mondo fa venire i brividi e fa tornare indietro di secoli, ma non hanno inventato nulla. Ciò che dicono corrisponde a ciò che si fa realmente nelle nostre società malate. Quindi più che per le loro parole conviene mostrare scandalo per la realtà che cinicamente descrivono e difendono. E soprattutto conviene, quella realtà, provare a cambiarla.(Giorgio Cremaschi, “Guerra e precariato, le ciniche verità di Luttwak e Poletti”, da “Micromega” del 30 novembre 2015).Chissà perché in questi giorni ho finito per associare Edward Luttwak a Giuliano Poletti. Sono due persone diversissime per storia cultura e esperienze, l’uno intellettuale militante dell’imperialismo Usa, l’altro burocrate un poco rozzo del pentitismo comunista. Sono persone normalmente lontanissime eppure le loro uscite di questi giorni sui mass media italiani me li hanno fatti sembrare assai vicini. Il primo a La7 ha rivendicato con orgoglio il sostegno degli Stati Uniti ai talebani e a ciò che ne è seguito. È stato un buon affare comunque, ha detto, perché in Afghanistan è crollata l’Unione Sovietica è così l’Occidente ha visto sconfitto il suo principale nemico. Il secondo ha dichiarato inutili le lauree con alti voti, magari conseguite in ritardo, e poi ha rivendicato la necessità di superare il concetto stesso di orario di lavoro, sostituendolo con la retribuzione a prestazione. Io trovo che entrambi abbiano brutalmente descritto la verità. Per Luttwak la guerra si fa per conquistare potere e chi la vince, qualsiasi mezzo usi, ha sempre ragione. Non troveremo in lui le ributtanti ipocrisie sulle guerre umanitarie e democratiche. Le guerre servono a tutelare precisi interessi e per questo devono essere astute e spietate.
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L’Ue in malafede, usa il terrore per suicidare la democrazia
La terribile strage di Parigi non ha solo colpito centinaia di innocenti, ma anche le nostre sempre più traballanti democrazie, che stanno rispondendo al terrorismo fondamentalista suicidandosi. Cento anni fa fece la stessa cosa l’Impero austroungarico, che nel 1914 reagì con la guerra al terrorismo serbo. Il risultato fu la distruzione di quello Stato e la catastrofe immane della Prima Guerra Mondiale. Cambiato il mondo l’Occidente, questa volta trascinato dalla Francia, sta intraprendendo lo stesso percorso. Da 25 anni, dalla prima guerra in Iraq, il mondo occidentale risponde al terrorismo con la guerra. Il risultato è che oggi il fondamentalismo musulmano sunnita ha un suo nuovo Stato terrorista. Non è il primo perché già il regime dei Talebani in Afghanistan alimentava e sosteneva il terrorismo, allora quello di Bin Laden. Rovesciato quel regime, ucciso Bin Laden, il terrorismo islamico si è rafforzato ed esteso. Ammesso quindi che i bombardamenti aerei occidentali e russi riescano a far cadere il Califfato, non c’è alcuna garanzia che il terrorismo non si diffonda ulteriormente.Per mettere le mani avanti, tutti i governanti europei ora parlano di una guerra lunga. Lunga quanto, visto che dura dal 1990? È la guerra dei cento anni a cui dobbiamo attrezzarci? L’Unione Europea ha deciso di togliere dai vincoli dell’austerità di bilancio le spese aggiuntive per la guerra, ipocritamente mascherate come spese di difesa. Questa misura è stata presa quasi in contemporanea con la decisione del Parlamento greco di approvare 48 tagli draconiani a quel poco che in quel paese ancora resta dello stato sociale. In Grecia si chiuderanno ospedali e verranno pignorate le case dei poveri che non possono pagare i debiti. Questo in ottemperanza al memorandum della Troika accettato da Tsipras. Se però il governo greco decidesse di comprare dei droni per colpire il terrorismo, allora potrebbe non tenere conto dei vincoli di bilancio imposti. Quale modello di società è quello dove è virtuoso spendere in deficit per le armi e vizioso farlo per scuole o ospedali? Sono questi i valori che i governanti proclamano di voler difendere con la guerra?La guerra ha così trovato un naturale alleato nella politica di austerità, anche perché entrambe sono inconcludenti allo stesso modo. Da quanti anni si colpiscono l’occupazione, i diritti, i servizi sociali e i beni comuni con lo scopo dichiarato di sconfiggere la crisi? E da quanto lo si fa nel nome dell’Europa? Anche l’austerità, come la guerra, non solo non produce risultati contro il nemico che dichiara di voler combattere, ma anzi lo rafforza. E anche in questo caso, di fronte alla scarsità di risultati, i governanti spiegano che dobbiamo comunque abituarci a tempi lunghi. Secondo l’Ocse ci possono volere altri 20 anni per tornare ai livelli di sviluppo pre-crisi. Come dire che non ci torneremo mai, o che assieme alla guerra avremo anche la crisi dei cento anni. Possibile allora che i nostri governanti siano tutti stupidi e incompetenti e non sappiano trarre conclusioni e bilanci da ciò che fanno? No, non lo credo; da qui la mia convinzione sul peso sempre maggiore che ha la malafede nei sistemi di governo.Quando parlo di malafede non voglio affatto sostenere teorie complottiste. In una recente trasmissione televisiva, Edward Luttwak ha rivendicato che finanziare ed armare il fondamentalismo islamico sia stato comunque un buon affare, per l’Occidente, perché è servito a far crollare l’Unione Sovietica. E, aggiungo io, è un buon affare anche oggi per la politica coloniale di Israele nei confronti del popolo palestinese. Tuttavia, anche se è sicuro che il terrorismo islamista sia stato all’inizio sostenuto dall’Occidente, dagli Usa alla Francia, questo non vuole dire che oggi ne sia ancora un burattino. No, è evidente che il terrorismo sunnita è dilagato per forza propria, oltre che per il continuo appoggio da Stati, Arabia Saudita in testa, che l’Occidente considera e arma come propri indispensabili alleati. Il terrorismo sunnita ha raccolto la carica di violenza sprigionata dalla guerra in Irak, abbiamo dimenticato il massacro al fosforo bianco di Falluja? La guerra è poi diventata guerra di religione tra sunniti e sciiti, mentre la Turchia, membro autorevole della Nato, combatteva prima di tutto il solo popolo della regione organizzato su basi laiche, i curdi.In questo contesto, tutti gli interventi armati occidentali non han fatto altro che gettare benzina sul fuoco, fino a cancellare le stesse entità statali in Somalia e in Libia. Il fatto che ora al posto degli Stati Uniti compaia ora la Russia di Putin non cambia la sostanza. Infine è bene ricordare che il terrorismo esploso in Europa nasce prima di tutto nelle banlieue delle grandi città europee, tutti gli autori delle ultime stragi sono cittadini francesi, belgi, britannici. La malafede dei governanti non sta dunque in qualche oscuro complotto, ma nel sapere perfettamente che la guerra, così come l’austerità, sono risposte sbagliate a ciò che si dichiara di voler affrontare e sconfiggere. Sono risposte sbagliate e fallimentari, ma sono le sole che si continuano a dare perché sceglierne altre vorrebbe dire ammettere troppi errori e soprattutto mettere in discussione troppi affari, troppi interessi, troppo potere.L’Occidente dovrebbe ritirare le sue truppe sparse per il mondo, smetterla di armare gli alleati di oggi che diverranno i nemici di domani, e magari investire molto di più nella propria sicurezza interna. Gli Stati europei dovrebbero ribaltare la vergognosa licenza concessa dalla Ue e investire in deficit su lavoro e stato sociale, tagliando invece l’industria delle armi sulla quale in questi giorni si riversano gli acquisti in Borsa. E soprattutto si dovrebbe rispondere al terrorismo con più democrazia e non con le leggi speciali. Solo con la pace, la democrazia e l’eguaglianza sociale si può sconfiggere il terrorismo, ma i governanti europei preferiscono ingannare i propri popoli trascinandoli in una escalation di guerra e autoritarismo di cui non si vede la fine. Hollande ha fatto proprio il Patriot Act con il quale Bush jr reagì all’11 Settembre, e ora il paese simbolo della democrazia europea si prepara a mettere in Costituzione quello stato di emergenza che ha un solo precedente nella storia europea. Parlo della Germania di Weimar, dove proprio l’uso continuo di quello strumento da parte di governi formalmente democratici aprì la via istituzionale a Hitler. Quello vero, non quelli che da 25 anni pare sorgano ogni 6 mesi sui fronti delle varie guerre.D’altra parte è tutta la costruzione europea che respinge la democrazia, come ci ha ricordato Luciano Gallino nel suo ultimo libro. I parlamenti non son da tempo più sovrani, le politiche economiche le decidono Bruxelles e la Germania. Ora abbiamo scoperto che nel Trattato di Lisbona l’articolo 42.7 obbliga alla solidarietà armata nella Unione. Nel 1915 l’Italia fu trascinata in guerra dal colpo di Stato del Re, oggi il sovrano sta a Bruxelles e può portarci in guerra saltando le nostre istituzioni e la nostra Costituzione. Leggi speciali, austerità, spese di guerra, è così che l’Unione Europea oggi intende procedere. Se non fermiamo questa follia in malafede il rischio è che alla fine un’Europa democratica non ci sia più, mentre il terrorismo sia ancora più feroce e diffuso.(Giorgio Cremaschi, “Guerra e austerità, risposte sbagliate e in malafede”, da “Micromega” del 19 novembre 2015).La terribile strage di Parigi non ha solo colpito centinaia di innocenti, ma anche le nostre sempre più traballanti democrazie, che stanno rispondendo al terrorismo fondamentalista suicidandosi. Cento anni fa fece la stessa cosa l’Impero austroungarico, che nel 1914 reagì con la guerra al terrorismo serbo. Il risultato fu la distruzione di quello Stato e la catastrofe immane della Prima Guerra Mondiale. Cambiato il mondo l’Occidente, questa volta trascinato dalla Francia, sta intraprendendo lo stesso percorso. Da 25 anni, dalla prima guerra in Iraq, il mondo occidentale risponde al terrorismo con la guerra. Il risultato è che oggi il fondamentalismo musulmano sunnita ha un suo nuovo Stato terrorista. Non è il primo perché già il regime dei Talebani in Afghanistan alimentava e sosteneva il terrorismo, allora quello di Bin Laden. Rovesciato quel regime, ucciso Bin Laden, il terrorismo islamico si è rafforzato ed esteso. Ammesso quindi che i bombardamenti aerei occidentali e russi riescano a far cadere il Califfato, non c’è alcuna garanzia che il terrorismo non si diffonda ulteriormente.
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Guerra-Islam: stesso film da 25 anni, e ancora ci crediamo
Dieci giorni dopo il sanguinoso raid di Parigi, è difficile trovare qualcosa da dire su questa guerra che non sia già stato detto. E’ infatti già passato un quarto di secolo «e almeno mezza dozzina di crisi analoghe dall’operazione Desert Storm, ufficialmente organizzata per “liberare il Kuwait”, che oggi è fra i principali finanziatori dell’Isis», scrive Alessandra Daniele su “Carmilla Online”. «E ancora una volta tutti i commenti sono identici. Da una parte si continua a fomentare la paranoia xenofoba, e ad invocare il fuoco redentore dei bombardamenti, come se non si fosse già mille volte dimostrato prevedibilmente capace solo di diffondere l’incendio che dovrebbe estinguere, sterminando ben più civili degli attentati terroristici, e allargando sempre di più il campo di battaglia». Dall’altra, si continua pazientemente a denunciare tutte le complicità economico-politiche fra presunti nemici, le strumentalizzazioni repressive e golpiste dello Stato d’Emergenza permanente, e si continua ad evidenziare le differenze nel mondo islamico fra minoranze bellicose e maggioranze pacifiche, «benché l’opinione pubblica occidentale abbia già mille volte dimostrato di fottersene totalmente di verità, giustizia, logica, ragionevolezza».L’opinione pubblica occidentale sembra interessata «solo alle bufale sulle armi chimiche di Saddam, Bin Laden, Al Baghdadi, e sulle false suore kamikaze in agguato per il Giubileo, che già circolavano nel 2000». I media “embedded”, aggiunge la Daniele, continuano a spacciare ogni attacco terroristico «come una Pearl Harbor completamente inattesa, una “dichiarazione di guerra” improvvisa e unilaterale da parte d’una (eterogenea) fazione che l’Occidente sta in realtà direttamente bombardando da venticinque anni, dopo averla direttamente creata in funzione anti Urss», ai tempi dell’invasione sovietica dell’Afghanistan. «Alcuni di noi – commenta l’analista, desolata – hanno scritto queste cose per la prima volta in un tema scolastico». I più giovani «non erano ancora nati, e non hanno mai conosciuto un mondo senza Scontro di Civiltà». Nel gennaio 1991, quello della prima Guerra del Golfo, «Schillaci giocava in Nazionale», e «il World Wide Web non esisteva, c’era il Televideo». Il presidente del consiglio era Andreotti, il presidente degli Usa «era George Bush. Padre».All’epoca, «Antonio Lubrano spiegava su Raitre come usare una maschera antigas, mentre su Canale 5 arrivava in Italia la prima originale serie di Twin Peaks». Venticinque anni: «In quale Loggia Nera siamo prigionieri, condannati a rivivere in eterno il debutto del Tg4 di Emilio Fede che esulta “hanno attaccato”?», si domanda Alessandra Daniele. «Quale degli inferni paralleli del Bardo Thodol ci siamo meritati, e c’è ancora qualcosa che possiamo fare per uscirne?». È questo che dovremmo chiederci, conclude l’analista: «Non se rischiamo la vita, ma se non siamo in realtà già morti. Da almeno venticinque anni».Dieci giorni dopo il sanguinoso raid di Parigi, è difficile trovare qualcosa da dire su questa guerra che non sia già stato detto. E’ infatti già passato un quarto di secolo «e almeno mezza dozzina di crisi analoghe dall’operazione Desert Storm, ufficialmente organizzata per “liberare il Kuwait”, che oggi è fra i principali finanziatori dell’Isis», scrive Alessandra Daniele su “Carmilla Online”. «E ancora una volta tutti i commenti sono identici. Da una parte si continua a fomentare la paranoia xenofoba, e ad invocare il fuoco redentore dei bombardamenti, come se non si fosse già mille volte dimostrato prevedibilmente capace solo di diffondere l’incendio che dovrebbe estinguere, sterminando ben più civili degli attentati terroristici, e allargando sempre di più il campo di battaglia». Dall’altra, si continua pazientemente a denunciare tutte le complicità economico-politiche fra presunti nemici, le strumentalizzazioni repressive e golpiste dello Stato d’Emergenza permanente, e si continua ad evidenziare le differenze nel mondo islamico fra minoranze bellicose e maggioranze pacifiche, «benché l’opinione pubblica occidentale abbia già mille volte dimostrato di fottersene totalmente di verità, giustizia, logica, ragionevolezza».
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Sperando che regga l’accordo segreto tra Obama e Putin
Obama liquiderebbe volentieri Erdogan, ma intanto gongola per l’abbattimento del jet russo: non è una contraddizione, scrive “Megachip”, perché «quel che gli fa piacere e quel che gli serve sono due cose diverse». Con il suo appoggio formale alla Turchia, il presidente Usa spera di prendere diversi piccioni con una fava: «Fa il muso duro con Putin davanti a tutto il mondo, tiene agganciata la polveriera Turchia sperando che non salti in aria, non scarica brutalmente un alleato chiave nella regione (cosa che darebbe un pessimo segnale) e infine tiene a bada, o spera di tenere a bada, i neocon guerrafondai», che probabilmente hanno ispirato «l’atto di guerra irresponsabile turco». Morale: come dice Papa Francesco, la Terza Guerra Mondiale (a rate) è già iniziata. Ci stiamo scivolando dentro. E sul ponte di comando ci sono troppe mezze figure. E’ peggio che nella “crisi dei missili” di Cuba del 1962: all’epoca, Kennedy aveva il pieno controllo del suo esercito, e non era previsto nessun “first strike”, cioè il lancio non provocato di un attacco nucleare, ma solo la ritorsione nucleare. E soprattutto, «la crisi sistemica non era nemmeno iniziata», mentre oggi «sta dirigendosi velocemente verso lo showdown».Ormai, scrive “Piotr” sul newsmagazine fondato da Giulietto Chiesa, è evidente a tutti che «la cosiddetta guerra civile siriana» è in realtà «un attacco sponsorizzato dagli ex partner dell’accordo Sykes-Picot contratto durante la I Guerra Mondiale, cioè Gran Bretagna e Francia, poi istigato ideologicamente, finanziato e armato dall’Arabia Saudita, dal Qatar, dalla Turchia, col concorso attivo di Israele, e condotto da mercenari e volontari jihadisti provenienti da 83 paesi differenti». Altro che “guerra civile”. «Questo attacco – ricorda “Megachip” – fu deciso nel 2007 dall’allora vicepresidente statunitense Dick Cheney, su insistenza dei suoi consiglieri neocon, ed è stato preparato da quella vasta operazione di regime change chiamata “primavera araba”, che ha illuso la sinistra fino a farla vaneggiare, come successe a Rossana Rossanda». Un’operazione che «doveva portare uniformemente i Fratelli Musulmani al governo in Tunisia, Libia, Egitto e Siria, come già era avvenuto per vie democratiche in Turchia (anche se poi il primo ministro Erdogan ha molto poco democraticamente epurato magistratura ed esercito, per obbligo e tradizione repubblicana custodi della laicità dello Stato)».Come testimoniato a più riprese dal generale Wesley Clark, già a capo della Nato in Europa, la Siria – come la Libia e altri paesi dell’area – era già nel mirino del Pentagono fin dal 2001. All’epoca alla Casa Bianca c’era George W. Bush, ma il vero capo era il suo vice, Cheney, esponente di quei neocon che «avevano occupato stabilmente varie importanti funzioni di potere, dopo che il democratico Bill Clinton aveva aperto loro le porte». Se qualcuno non lo avesse ancora capito, continua “Piotr”, il destino della Siria, come quello della Libia, e dei suoi innocenti abitanti, era stato deciso sui ponti di comando degli Stati Uniti un decennio prima della “primavera araba”, che è stata una parte dell’implementazione del piano, preceduta dal famoso discorso di Obama all’Università del Cairo, «osannato anch’esso dalla sinistra in un crescente fervore di servilismo, consapevole o idiota, per l’impero». E chi avvertiva che si stava puntando al caos (tribalizzazione, al-qaidizzazione, flusso incontrollabile di rifugiati) verso uno stato conclamato di guerra mondiale, «veniva sbeffeggiato dagli intellettuali progressisti con un’arroganza che ora illumina impietosamente la loro cialtronaggine».Nel caos ormai è immerso tutto il Mediterraneo, a Nord come a Sud, e l’abbattimento del bombardiere russo da parte della Turchia ha portato concretamente il mondo sull’orlo della Terza Guerra Mondiale, o meglio della sua “fase conclamata”, «perché che questa guerra sia già in corso lo ha affermato anche Papa Francesco, giustamente e non a caso». Guerra che, per “Megachip”, ha una precisa data d’inizio: 11 settembre 2001. «Finora essa si è svolta come avevano “previsto” gli strateghi della Rand Corporation negli anni Novanta del secolo scorso, ovverosia mischiando supertecnologie militari con guerre di carattere tribale e premoderno». Oggi invece la Terza Guerra Mondiale è «sul punto di conclamarsi, così come si conclama una malattia infettiva dopo un periodo d’incubazione». Forse, «all’ultimo momento verranno trovati degli anticorpi», per scongiurare il peggio. Ma è impossibile evitare di vedere la realtà sotto i nostri occhi: «Mai il mondo è stato così vicino al baratro», dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.“Megachip” si sofferma sull’improvvisa visibilità del protagonismo turco, fino a ieri rimasto sottotraccia, sostenendo che l’atto di forza di Ankara – la sfida rivolta a Putin con un’operazione di pirateria aerea – è in realtà un gesto di debolezza, che rivela paura e forse disperazione. «Perché la Turchia ha osato tanto? Sa benissimo che in caso di conflitto nucleare l’Anatolia sarebbe ridotta a un posacenere». Non potendo entrare «nella testa criminale di Erdogan», è possibile avanzare soltanto ipotesi. La prima: «L’Isis tiene in ostaggio gli ex sponsor». Uno di questi è la Francia, «che tentenna e si comporta in modo incoerente (aiuta da una parte e bombarda dall’altra)», e poi ovviamente c’è la Turchia, tramortita dall’intervento militare russo in Siria e preoccupata che l’alleato americano la abbandoni, lasciandole in eredità «l’inaccettabile Kurdistan alle frontiere». Deduzioni verosimili: «Non è impossibile che i capi dell’Isis abbiano fatto capire a Erdogan che, se non reagisce alla Russia, a Istanbul ci potrebbe essere un attacco terroristico come una Parigi al quadrato», considerato che da almeno un anno la città «pullula di jihadisti», con «chissà quante cellule pronte» tra le due rive del Bosforo.Seconda ipotesi: Erdogan è «disperato», perché «da una parte c’è il martello del suo mostro di Frankenstein (in condominio conflittuale coi campioni delle crocifissioni, delle decapitazioni, delle frustate e delle lapidazioni che sono a capo dell’Arabia Saudita, che di fatto, protetti da un accordo ormai cinquantennale con gli Usa, formano un Isis con seggio all’Onu)», e dall’altra c’è «l’incudine degli accordi tra Putin e Obama». Non è un caso, scrive “Megachip”, che Erdoğan abbia deciso di abbattere un aereo russo pochissimi giorni dopo il G20 di Antalya, «dove è evidente che c’è stato un ulteriore accordo tra Obama e la Russia» (non tra l’America e la Russia, «perché la Russia è compatta dietro a Putin, ma gli Usa non lo sono affatto dietro a Obama dato che altri perseguono propri piani, addirittura peggiori e più spaventosi»). È stata dunque questa “disperazione” a suggerire a Erdogan un atto di tale gravità? Formalmente, Obama ha preso le parti della Turchia. Ovvio: se l’avesse scaricata, «come avrebbe reagito il già disperato Fratello Musulmano, che sa benissimo che si è messo una polveriera sotto il culo da solo?».Così, Obama può ancora pensare di controllare la Turchia, almeno un po’, magari con l’aiuto dei militari non epurati da Ergogan, in attesa di capire come sbarazzarsi del leader di Ankara. Schierandosi (solo a parole) contro Putin, Obama spera di tener buoni i “falchi” neocon, evitando peraltro di sacrificare l’avamposto della Nato in Medio Oriente. Ma, se anche quello di Obama è solo teatro, la situazione resta pericolosissima. Molto peggio dello scenario da incubo della crisi di Cuba, quando Usa e Urss arrivarono a un millimetro dalla guerra nucleare. Diversamente da allora, ricorda “Megachip”, oggi c’è il rischio concreto del “first strike”, l’attacco missilistico preventivo, progettato dal Pentagono su mandato di George W. Bush. Obama ha frenato: dal 2010 è tornato «al solo uso del nucleare come deterrente ad attacchi nucleari». Ma cosa accadrà domani?In più, c’è da considerare che Obama – a differenza del Kennedy del 1962 – pare abbia un controllo non completo sulle sue forze armate, «vedi il generale John Allen che paracadutava le armi all’Isis invece di buttargli le bombe». Infine, negli anni ‘60 l’Occidente era in piena, travolgente espansione. Oggi è in crisi, ininterrottamente, dal 2007. E non si vede via d’uscita, da una globalizzazione forsennata e irresponsabile, che ha finanziarizzato l’economia globale e gravemente indebolito Usa ed Europa con la catastrofe occupazionale delle delocalizzazioni, prima ancora che subentrasse il colpo di grazia dell’austerity Ue indotta dal regime monetario dell’euro. C’è un rischio concreto di collasso, anche eventualmente pilotato, per sbarrare la strada all’ascesa storica della Cina. Che fare, nel nostro piccolo? «A parte sperare che i russi continuino a mantenere il sangue freddo che stanno dimostrando, non possiamo fare nulla se non rivendichiamo la neutralità dell’Italia», conclude “Piotr”. «Questo è quanto dobbiamo fare, per noi, per i nostri figli, per il mondo».Obama liquiderebbe volentieri Erdogan, ma intanto gongola per l’abbattimento del jet russo: non è una contraddizione, scrive “Megachip”, perché «quel che gli fa piacere e quel che gli serve sono due cose diverse». Con il suo appoggio formale alla Turchia, il presidente Usa spera di prendere diversi piccioni con una fava: «Fa il muso duro con Putin davanti a tutto il mondo, tiene agganciata la polveriera Turchia sperando che non salti in aria, non scarica brutalmente un alleato chiave nella regione (cosa che darebbe un pessimo segnale) e infine tiene a bada, o spera di tenere a bada, i neocon guerrafondai», che probabilmente hanno ispirato «l’atto di guerra irresponsabile turco». Morale: come dice Papa Francesco, la Terza Guerra Mondiale (a rate) è già iniziata. Ci stiamo scivolando dentro. E sul ponte di comando ci sono troppe mezze figure. E’ peggio che nella “crisi dei missili” di Cuba del 1962: all’epoca, Kennedy aveva il pieno controllo del suo esercito, e non era previsto nessun “first strike”, cioè il lancio non provocato di un attacco nucleare, ma solo la ritorsione nucleare. E soprattutto, «la crisi sistemica non era nemmeno iniziata», mentre oggi «sta dirigendosi velocemente verso lo showdown».