Archivio del Tag ‘élite’
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Si goda Trump, l’infame sinistra che ha tradito il popolo
«Sinistre infami», che per “progresso politically correct” intendono «la demolizione di ogni sovranità per accumulare fortune immani sull’economia speculativa». E l’economia reale? «Marcisca assieme a milioni di sfigati che non leggono il “New Yorker”, la “London Review of Books”, o “Micromega” e “Repubblica”». E adesso “godetevi” Donald Trump, dice Paolo Barnard, che avverte: «Non abbiamo ancora visto niente». Trump in realtà «iniziò a vincere» già 16 anni fa, nel 2000. Il giornalista, all’epoca impegnato a “Report”, lo disse: «Stiamo portando masse immense dritte nelle mani delle destre estreme». Era a West Miffling, «uno dei miserabili ruderi dell’ex potenza dell’acciaio Usa, parte della tragica “Rust Belt”, la cintura della ruggine che prende dentro tutta la Pennsylvania e parte dell’Ohio ma praticamente tutto il centro d’America, così chiamata perché proprio a partire da Bush Senior, e terribilmente con Bill Clinton, il cuore industriale americano fu lasciato a marcire con milioni di licenziati, esodati, tutti i cosiddetti colletti blu. Gli impieghi andavano in Cina. Vidi letteralmente intere cittadine abbandonate ai rovi con le porte delle case o negozi deserti chiusi con assi di legno inchiodate».Filmò tutto per “Report”, Barnard. La mid-class si domandava cosa mai volessero quei “bifolchi” che «ancora pretendevano un salario quando i miliardi si potevano fare a Wall Street, nella Silicon Valley e con Google». E quindi «che crepassero, a milioni, pensò l’America “educated e politcally correct” di New York e di San Francisco, cioè i Democratici e parte dei Repubblicani ‘Liberal’». Il reportage per la Gabanelli, scrive Barnard nel suo blog, includeva una manifestazione a Pittsburgh dove migliaia di anziani marciavano con il trespolo della flebo attaccata al braccio e i cartelli “O la cena, o le cure”. «Ma che cazzo volevano ’sti bifolchi che ancora pretendevano la sanità pubblica quando bastava una polizza per avere tutto? Non l’avevano? Incapaci e falliti loro, pensò l’America “educated e politcally correct” di New York e San Francisco. Poco importa se la sanità ObamaCare ha strafallito dopo aver regalato 70 miliardi di dollari alle assicurazioni. Poco importa se il manifatturiero Usa cerca oggi 3,5 milioni di lavoratori che nessuno ha mai istruito. Sapete, i ragazzi dovevano studiare economics, servizi… non essere bifolchi colletti blu».Dall’America all’Europa: Halikidiki, un villaggio nell’est greco, appena a sud di Macedonia e Bulgaria. «Fu dopo il Trattato di Maastrich e col progressivo allargamento a est della Ue che in Grecia iniziarono a piovere orde di lavoratori dell’est europeo, gente disperata per una cena e che di regola forniva la stessa manodopera di un greco al 40% in meno», racconta Barnard. «L’imbianchino di Halkidiki che incontrai, Sakis Martini, non aveva mai avuto un problema prima. Casetta, soldi, auto, e tanto lavoro. Quando l’incontrai io, aveva subito un crollo di commesse tragico». Si era ridotto a tornare alla pesca notturna per racimolare due soldi in più. «Sono albanesi, macedoni, e chissà da dove», gli disse, «ci stanno fottendo la vita». Ma a Bruxelles «una scrollata di spalle dei colletti bianchi calciava in un angolo il bifolco greco che non capiva l’illuminante destino di una Grande Unione Europea in espansione!». Stessa amarezza per il signor Elio, un pomeriggio del 2000. «Se ne stava passeggiando, mani dietro la schiena, alla periferia di Bologna, quando un cane lupo lo aggredisce. Il cane apparteneva a un campo nomadi, i rom, specie protetta dall’Unesco». Quando il malcapitato protestò coi rom, fu preso a spintoni. Si rivolse alla polizia, ma l’agente gli disse: «Non posso farci nulla. Se li tocco, quelli denunciano me». Scrisse al “Resto del Carlino” una lettera di protesta, «e gli fu risposto dall’illuminata sinistra degli allora Democratici di Sinistra che era un razzista. Tornò a casa, nero di livore, a 76 anni e con una gamba zoppa».Una sera, continua Barnard, si trovava a una cena in un salotto buono «della sinistra Pds, Ds poi Pd», in compagnia di insegnanti, psicologi, politologi. Si mise a urlare: «Questa truffa delle nuove sinistre intellettual-elitarie, voi colletti bianchi sinistra snob, politcally correct e soprattutto servi della nuova finanza mondiale, porterà milioni di occidentali a buttarsi alla destra di Gianfranco Fini o di Bush, e saranno cazzi, stolti!». Dice oggi Barnard: «Donald J. Trump ha vinto esattamente per questo. L’Europa, dalla Le Pen alla Lega, da Alba Dorata in Grecia a Hofer in Austria a Farage in Inghilterra, segue e seguirà. Lo urlai 16 anni or sono».Il “New York Times” ha un grafico oggi che fa impressione, continua Barnard. C’è una mappa bianca con solo i confini degli Stati Usa, coperta da uno sciame di micro-freccette rosse che indicano lo spostamento dei colletti blu verso Trump. «Lo sciame diventa un’invasione di locuste precisamente sopra Pittsburgh, la Pennsylvania, ma anche a ovest e a est lungo tutto la “Rust Belt”. Questo, 16 anni dopo il mio stare in piedi su quel ponte arrugginito a guardare una devastazione sociale che denunciai».Nel tritacarne, osserva Barnard, sono finite anche le classi medie americane, che vedono i loro redditi in termini reali stagnanti addirittura dal 1972, epoca Nixon. «Gente che si trovò a milioni a dormire in tenda dopo la crisi dei subprime, mentre Obama sborsava 13.000 miliardi di dollari per salvare le banche. Una classe media che oggi paga dal 4 al 12% in più su polizze sanità che non coprono neppure un diabete serio. Ci sono anche loro fra i dimenticati dal Dio Sinistra finanziaria politically correct. Ci sono anche loro fra i Trump boys». E’ semplicissimo: «La trasmutazione delle sinistre, sia europee che americane, in arroganti fighetti intellettualoidi snob, politically correct “sons of a bitch”, ’ste sinistre totalmente vendute alla nuova era della finanza speculativa, nemici giurati di qualsiasi economia reale di salari, pensioni, scuole, sanità». Questa «trasmutazione infame delle sinistre», accusa Barnard, «ha tradito per 30 anni centinaia di milioni di persone. Le ha lasciate a marcire, le ha lasciate a gridare proteste a cui veniva risposto dal New Labour di Tony Blair, dai socialisti di Mitterrand in poi, dall’infame Pds-Pd-Unipol, Monte dei Paschi-Lista Tsipras, dai Democratici Usa sopra ogni altro, cioè dalle sinistre intellettual-elitarie, colletti bianchi snob politically correct, e soprattutto servi della nuova finanza mondiale».«Sinistre infami», che per “progresso politically correct” intendono «la demolizione di ogni sovranità per accumulare fortune immani sull’economia speculativa». E l’economia reale? «Marcisca assieme a milioni di sfigati che non leggono il “New Yorker”, la “London Review of Books”, o “Micromega” e “Repubblica”». E adesso “godetevi” Donald Trump, dice Paolo Barnard, che avverte: «Non abbiamo ancora visto niente». Trump in realtà «iniziò a vincere» già 16 anni fa, nel 2000. Il giornalista, all’epoca impegnato a “Report”, lo disse: «Stiamo portando masse immense dritte nelle mani delle destre estreme». Era a West Miffling, «uno dei miserabili ruderi dell’ex potenza dell’acciaio Usa, parte della tragica “Rust Belt”, la cintura della ruggine che prende dentro tutta la Pennsylvania e parte dell’Ohio ma praticamente tutto il centro d’America, così chiamata perché proprio a partire da Bush Senior, e terribilmente con Bill Clinton, il cuore industriale americano fu lasciato a marcire con milioni di licenziati, esodati, tutti i cosiddetti colletti blu. Gli impieghi andavano in Cina. Vidi letteralmente intere cittadine abbandonate ai rovi con le porte delle case o negozi deserti chiusi con assi di legno inchiodate».
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Foa: solo i media si stupiscono della rivolta contro l’élite
«E’ troppo presto per dire che Trump sarà un pessimo presidente, così come era stato troppo presto affermare, otto anni fa, che Obama sarebbe stato un grande presidente. Lasciamoci sorprendere». Parola di Marcello Foa, uno dei pochissimi grandi osservatori italiani a potersi dichiarare nient’affatto stupito dalla clamorosa vittoria di Donald Trump. Un uomo, dice, da cui teoricamente l’Europa potrebbe aspettarsi solo vantaggi. Uno su tutti: la fine delle tensioni con la Russia, pericolose e per noi costosissime. L’establishment è nel panico? Anche qui, nessuna sorpresa: «I media sono i grandi sconfitti di queste elezioni, perché ancora una volta non avevano previsto nulla», dichiara Foa sulla sua pagina Facebook poco dopo l’ufficializzazione della vittoria di Trump. «Bastava andava a vedere l’andamento della campagna elettorale sui siti Internet e sui social media, osservando quanta gente andava ai comizi di Trump e quanta poca gente andava ai comizi di Hillary: appariva chiaro che in America c’era un malessere profondo, che aspettava solo l’occasione giusta per esplodere e per manifestarsi». Attenzione: «E’ lo stesso malessere che aveva indotto la maggior parte degli americani, otto anni fa, a dare fiducia a Barack Obama, quando prometteva speranza e cambiamento».Come sappiamo, «Obama non è stato all’altezza dell’aspettativa e ha prolungato le campagne politiche di Clinton e Bush. E questo ha deluso profondamente gli americani, impoverendo la classe media, la quale oggi ha dato fiducia all’unica persona che ha saputo capire le sue paure: Donald Trump». E’ un personaggio ideale? «La risposta ovviamente è no, perché – in un mondo normale – un personaggio come Trump», magari anche «simpatico» però «eccentrico, totalmente fuori dagli schemi, quasi clownesco» non avrebbe mai avuto la possibilità di diventare presidente. «Però, se lo è diventato, la colpa è fondamentalmente delle élite che hanno governato gli Stati Uniti, che sono diventate troppo autoreferenziali: non capiscono i problemi della popolazione normale, della gente, delle piccole e medie industrie». Le oligarchie di potere, continua Foa, «hanno rovinato il tessuto sociale degli Stati Uniti». Quello dato a Trump «è un voto contro la globalizzazione, contro l’anteporre interessi troppo ristretti rispetto a quelli della maggioranza – e questo è il segnale che è uscito anche dalla Brexit. Di certo, gli americani si sono riappropriati della loro democrazia».Il corollario è consueto: paura, allarme. «Il dollaro crolla, le Borse crolleranno, è uno scenario già visto altre volte – l’abbiamo visto con la Brexit». Dobbiamo dedurne che Trump sarà un cattivo presidente? Niente affatto, sostiene Foa: «La storia insegna che le oscillazioni dei mercati finanziari vanno prese per quello che sono, movimenti a corto termine. Quel che per noi è importante capire, invece, è quale sarà il programma di Donald Trump e quale sarà la sua squadra». In politica estera, «paradossalmente Trump è più rassicurante, meno pericoloso di quanto sarebbe stata Hillary Clinton, se fosse stata eletta alla Casa Bianca, perché Trump propone una distensione con la Russia e vede un ruolo dell’America meno aggressivo e meno destabilizzante di quanto sia stato fino ad oggi». E questo, aggiunge Foa, «per noi europei è perlomeno un’aspettativa senz’altro positiva: abbiamo bisogno di stabilità e distensione col nostro più grande vicino, che è la Russia».L’incognita principale è proprio la squadra del neopresidente: «Oggi non sappiamo chi siano gli uomini dietro a Trump, non sappiamo neanche se si sia costruito una squadra con sé». Questo sarà il grande tema dei prossimi due mesi, ovvero il tempo che ci separa dal momento in cui Trump verrà insediato ufficialmente alla Casa Bianca. Dobbiamo essere preoccupati? «Be’, in una certa misura sì: quando non si sa qual è la squadra, ovviamente c’è da farsi qualche domanda. Però, tradizionalmente, quando personaggi eccentrici e imprevedibili come Donald Trump arrivano al potere, di solito l’effetto è opposto a quello che la maggior parte dei media si aspetta». Ovvero: «Quando sei nella stanza dei bottoni, appena ti rendi conto di quanto potere hai, e che governare un grande paese democratico come gli Stati Uniti significa rispettare i “check and balances” e il rapporto col Congresso, di solito l’effetto è calmante, moderatore». Magari «tenterà alcune riforme», ma per diversi mesi, profetizza Foa, il neopresidente «risulterà più moderato e rassicurante di quanto non sia stato in campagna elettorale, dove come sappiamo si tende a esagerare». Aspettiamo e vediamo, conclude Foa. E soprattutto: non affrettiamo giudizi sbagliati, come fu per Obama.«E’ troppo presto per dire che Trump sarà un pessimo presidente, così come era stato troppo presto affermare, otto anni fa, che Obama sarebbe stato un grande presidente. Lasciamoci sorprendere». Parola di Marcello Foa, uno dei pochissimi grandi osservatori italiani a potersi dichiarare nient’affatto stupito dalla clamorosa vittoria di Donald Trump. Un uomo, dice, da cui teoricamente l’Europa potrebbe aspettarsi solo vantaggi. Uno su tutti: la fine delle tensioni con la Russia, pericolose e per noi costosissime. L’establishment è nel panico? Anche qui, nessuna sorpresa: «I media sono i grandi sconfitti di queste elezioni, perché ancora una volta non avevano previsto nulla», dichiara Foa sulla sua pagina Facebook poco dopo l’ufficializzazione della vittoria di Trump. «Bastava andava a vedere l’andamento della campagna elettorale sui siti Internet e sui social media, osservando quanta gente andava ai comizi di Trump e quanta poca gente andava ai comizi di Hillary: appariva chiaro che in America c’era un malessere profondo, che aspettava solo l’occasione giusta per esplodere e per manifestarsi». Attenzione: «E’ lo stesso malessere che aveva indotto la maggior parte degli americani, otto anni fa, a dare fiducia a Barack Obama, quando prometteva speranza e cambiamento».
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Tsunami Trump, nel panico l’élite del globalismo armato
«L’impossibile è avvenuto. Il Mule, l’incontrollabile, il pazzo, è riuscito a convicere un popolo stordito dalla crisi più di quanto non potesse fare l’esausta icona dell’establishment, la Killary capace di distruggere la Libia senza un piano per tenerla insieme o di chiedere se fosse possibile mandare un drone per far fuouri Julian Assange. Due esempi, tra i tanti, della “democraticità ed equilibrio” che dovevano sbarrare la strada al “populismo”». Così il blog “Contropiano”, a scrutinio americano non ancora concluso ma di fatto, nei numeri, più che consolidato. «E’ stata una vittoria netta. Non solo in termini di superdelegati, ma anche in termini di voti popolari», quasi un milione e mezzo di elettori a favore di Donald Trump, che «ha conquistato tutti i principali Stati-chiave, a partie da quell’Ohio che era un tempo il cuore dell’industria automobilistica Usa e quindi anche della classe operaia». “Contropiano” ricorda che «la disoccupazione reale statunitense è diventata già da 20 anni talmente esplosiva da far entrare anche la classe operaia – prima del 2007, prima dell’esplosione dei mutui subprime e di Lehmann Brothers – nel novero del presunto “ceto medio”».E lo stesso, continua il blog, era avvenuto per molti “farmers”, agricoltori e allevatori, «buzzurri quanto si vuole, ma rovinati progressivamente e irreversibilmente dalla concorrenza globale, fondata su salari da fame incomparabili con quelli Usa». Un’analisi squisitamente socio-economica: «Il lavorio della crisi, che suscita paure, insofferenza, paura del futuro, ha alla fine generato un gigantesco “vaffa” che ora minaccia di attraversare il pianeta come uno tsunami che non conosce ostacoli». Per il newsmagazine, che si definisce “giornale comunista online”, Trump è «il sintomo, il collettore, il terminale inconsapevole e inadeguato di una miriade di contraddizioni persino difficili da elencare». Così, «chi aveva spinto per la “riduzione del danno” – l’establishment di tutti i paesi – ha perso tutto». L’explot di Trump, «se non verrà in qualche modo imbrigliato e depotenziato dagli apparati del potere (statale e finanziario, nazionale e multinazionale), mette in discussione i pilastri della governance globale degli ultimi 70 anni».In altre parole, insiste “Contropiano”, lo storico pronunciamento popolare dei cittadini statnitensi «mette in discussione “l’ordine mondiale” centrato sulla capacità degli Stati Uniti di esercitare egemonia (culturale, politica, economica e soprattutto militare) sul resto del mondo». Un’avvisaglia dello sconvolgimento globale che questo risultato annuncia la si ricava dalle piazze finanziarie asiatiche, le prime ad aprire: yen e euro si rafforzano sul dollaro, il peso messicano precipita (Trump ha condotto una campagna fortemente anti-immigrati dal paese confinante) mentre vola l’oro, bene-rifiugio per eccellenza. L’indice giapponese Nikkei perde il 4,8%, Hong Kong il 2,8 (dopo essere arrivata al -3,4%), Taiwan il 2,7%. Catastrofe annunciata per Wall Street, cioè il vero “fortino” di Hillary Clinton. La cittadella finanziaria di Manhattan, per “Contropiano”, è «la vera sconfitta in queste elezioni».«L’impossibile è avvenuto. Il Mule, l’incontrollabile, il pazzo, è riuscito a convicere un popolo stordito dalla crisi più di quanto non potesse fare l’esausta icona dell’establishment, la Killary capace di distruggere la Libia senza un piano per tenerla insieme o di chiedere se fosse possibile mandare un drone per far fuouri Julian Assange. Due esempi, tra i tanti, della “democraticità ed equilibrio” che dovevano sbarrare la strada al “populismo”». Così il blog “Contropiano”, a scrutinio americano non ancora concluso ma di fatto, nei numeri, più che consolidato. «E’ stata una vittoria netta. Non solo in termini di superdelegati, ma anche in termini di voti popolari», quasi un milione e mezzo di elettori a favore di Donald Trump, che «ha conquistato tutti i principali Stati-chiave, a partie da quell’Ohio che era un tempo il cuore dell’industria automobilistica Usa e quindi anche della classe operaia». “Contropiano” ricorda che «la disoccupazione reale statunitense è diventata già da 20 anni talmente esplosiva da far entrare anche la classe operaia – prima del 2007, prima dell’esplosione dei mutui subprime e di Lehmann Brothers – nel novero del presunto “ceto medio”».
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Putin: chi terremota il mondo vi sta portando via il futuro
«Tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90, c’è stata la possibilità non solo di accelerare il processo di globalizzazione, ma anche di dare ad esso una diversa qualità e renderlo più armonico e sostenibile. Ma alcuni paesi che si vedevano vincitori della Guerra Fredda hanno colto l’occasione per rimodellare l’ordine politico ed economico globale solo per soddisfare i propri interessi». A parlare è il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, di fronte ai 150 rappresentanti di 53 paesi che hanno partecipato alla riunione annuale del Club Valdai, uno dei più prestigiosi spazi internazionali di confronto e analisi tra l’élite economica e culturale russa e quella del resto del mondo. Il discorso di Putin va letto con attenzione perché rappresenta non solo un atto di accusa diretto alle politiche dell’Occidente, ma anche un’analisi realista e in qualche caso ironica di ciò che l’egemonia americana sta imponendo. Questi paesi, ha continuato Putin, «nella loro euforia, hanno sostanzialmente abbandonato dialogo e parità con gli altri attori della vita internazionale, hanno scelto di non migliorare né di creare istituzioni universali, ma di portare il mondo sotto le loro organizzazioni, le loro norme e le loro regole».Putin si scaglia contro l’Occidente, contro le sue guerre umanitarie e i suoi tentativi di esportare la democrazia fuori da una cornice multipolare: le guerre in Serbia, in Iraq, in Afghanistan e in Libia «spesso condotte senza le relative decisioni del Consiglio di Sicurezza Onu»; e poi ancora hanno deciso «di spostare l’equilibrio strategico a proprio favore distaccandosi dal quadro giuridico internazionale che proibisce l’implementazione di nuovi sistemi di difesa missilistica»; hanno «creato gruppi terroristici le cui azioni hanno generato milioni di profughi, e gettato intere regioni nel caos». Putin definisce la “minaccia militare russa” con cui l’Occidente sta costruendo la nuova Guerra Fredda, un «business redditizio da utilizzare per pompare denaro fresco nei bilanci della difesa, espandere la Nato fino ai nostri confini». Il leader russo è categorico: Mosca «non ha intenzione di attaccare nessuno»; pensarlo è «sciocco e irrealistico. I paesi membri della Nato insieme con gli Stati Uniti hanno una popolazione totale di 600 milioni circa; la Russia solo 146. E’ semplicemente assurdo concepire anche tali pensieri».Poi Putin ironizza sulla «isteria degli Stati Uniti circa una presunta ingerenza russa nelle elezioni presidenziali americane»; e rivolgendosi alla platea, «lo chiedo a voi: qualcuno seriamente pensa che la Russia possa in qualche modo influenzare la scelta del popolo americano? Cos’è l’America? Una Repubblica delle Banane o un grande potenza?». Ma la denuncia più violenta di Putin è contro l’élite tecnocratica che sta scippando il valore della sovranità. Nelle democrazie più avanzate «la maggioranza dei cittadini non ha alcuna reale influenza sul processo politico e sul potere». Le persone avvertono «un divario sempre crescente tra i loro interessi e quelli dell’élite che governa i processi». E quando, attraverso le elezioni o i referendum, i cittadini scelgono in maniera diversa rispetto a quello che l’élite vorrebbe, ecco che essa trasforma la volontà popolare in “anomalia” o immaturità o incapacità di scegliere. E ciò che in maniera sprezzante viene definito populismo, per Putin è «gente comune, cittadini che stanno perdendo fiducia nella classe dirigente».Sembra che le élite non vedano il dissesto profondo nella società e «l‘erosione della classe media, mentre allo stesso tempo, esse impiantano ideologie distruttive per l’identità culturale e nazionale». Putin avverte: «E’ la sovranità la nozione centrale di tutto il sistema delle relazioni internazionali. Il rispetto per essa e il suo consolidamento contribuirà a sottoscrivere la pace e la stabilità sia a livello nazionale e internazionale». Quello di Putin è un monito a chi si diverte a disegnare un nuovi ordini mondiali sulla pelle di nazioni e popoli; un avvertimento agli alchimisti della finanza globale e ai guerrafondai umanitari che alimentano le rivoluzioni colorate, le guerre civili e il terrorismo per generare il caos funzionale ai propri progetti egemonici. Quella di Putin è l’analisi realista della deriva dell’Occidente ed una prospettiva anche per l’Europa: disegnare un sistema multipolare che metta «fine alla divisione del mondo in vincitori e vinti permanenti». L’unica speranza per scongiurare una crisi internazionale senza ritorno.(Giampaolo Rossi, “Putin il realista”, dal blog “L’Anarca” su “Il Giornale” del 2 novembre 2016).«Tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90, c’è stata la possibilità non solo di accelerare il processo di globalizzazione, ma anche di dare ad esso una diversa qualità e renderlo più armonico e sostenibile. Ma alcuni paesi che si vedevano vincitori della Guerra Fredda hanno colto l’occasione per rimodellare l’ordine politico ed economico globale solo per soddisfare i propri interessi». A parlare è il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, di fronte ai 150 rappresentanti di 53 paesi che hanno partecipato alla riunione annuale del Club Valdai, uno dei più prestigiosi spazi internazionali di confronto e analisi tra l’élite economica e culturale russa e quella del resto del mondo. Il discorso di Putin va letto con attenzione perché rappresenta non solo un atto di accusa diretto alle politiche dell’Occidente, ma anche un’analisi realista e in qualche caso ironica di ciò che l’egemonia americana sta imponendo. Questi paesi, ha continuato Putin, «nella loro euforia, hanno sostanzialmente abbandonato dialogo e parità con gli altri attori della vita internazionale, hanno scelto di non migliorare né di creare istituzioni universali, ma di portare il mondo sotto le loro organizzazioni, le loro norme e le loro regole».
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Fabbricò l’allarme-antrace, ora Pence controllerà Trump
«Se vincerà la Clinton, il proseguimento delle guerre imperialistiche è garantito già in partenza. Se invece vincesse Trump, si troverà comunque il modo di farle proseguire, con metodi meno leciti ma comunque molto efficaci. Gli unici che non perdono mai le elezioni, in America, sono quelli del complesso militare-industriale». Parola di Massimo Mazzucco, che averte: «I media occidentali sono talmente ingolfati nel seguire l’altalenante vicenda di Donald Trump, che si sono dimenticati di dare un’occhiata da vicino al suo vicepresidente nominato, cioè Mike Pence». Chi è costui? «E’ stato presentato come un politico sempliciotto e di buone maniere, di solide tradizioni repubblicane, messo accanto a Trump per dare più credibilità al ciuffo selvaggio dell’imprenditore newyorkese». Invece, Pence «è molto di più di un semplice politico conservatore». In realtà è «un “attack dog” di primissimo livello dei neocons, mascherato da perbenista praticante». Ricordate la pagliacciata della fialetta all’antrace agitata all’Onu da Colin Powell per fabbricare prove contro Saddam? Era opera sua, di Mike Pence. L’uomo che ora è stato messo “in marcatura” su Trump, nel caso dovesse battere Hillary.Molti ricorderanno i famosi “attacchi all’antrace” che seguirono di un paio di mesi gli attentati alle Torri Gemelle del 2001, scrive Mazzucco su “Luogo Comune”. In quel periodo, diversi esponenti del partito democratico – soprattutto quelli che chiedevano una indagine parlamentare sull’11 Settembre – ricevettero nei loro uffici delle lettere contenenti una strana polverina bianca, che si rivelò poi essere antrace. Mentre a quei democratici «passava immediatamente la voglia di istituire una commissione parlamentare sull’11 Settembre», il panico si diffondeva in tutta l’America, continua Mazzucco, «poiché nel frattempo erano morte diverse persone a causa dell’antrace». E mentre tutti cercavano di capire da dove potesse essere arrivata quella “polvere maledetta”, «fu proprio Mike Pence a guidare la propaganda mediatica che cercava di far ricadere su Saddam Hussein le colpe per la diffusione dell’antrace». Inizialmente, prosegue Mazzucco, Mike Pence diffuse la falsa notizia che quell’antrace fosse stata “geneticamente modificata” (da qualche Stato estero, si supponeva) per renderla più virulenta e resistente alle cure. Poi invece si scoprì che per combattere l’antrace bastava prendere dei normalissimi antibiotici.Quando l’Fbi scoprì finalmente che l’antrace proveniva da un laboratorio interno degli Stati Uniti (e non da una “nazione straniera”), «fu proprio Mike Pence ad andare su tutte le furie, perché gli veniva a mancare un argomento fondamentale per la futura invasione dell’Iraq». In un gesto di rabbia stizzita, scrive Mazzucco, lo stesso Pence scrisse una lettera aperta all’allora ministro di giustizia, John Ashcroft, chiedendo: «Perché mai l’Fbi sembra aver concluso che l’origine di questi attacchi all’antrace sia interna, quando vi sono indizi importanti che suggeriscono una fonte internazionale per questi materiali?». Naturalmente, anche quegli “indizi importanti” si rivelarono inesistenti, e la fonte dell’antrace fu definitivamente confermata essere un laboratorio degli Stati Uniti. «Nel frattempo però Mike Pence aveva svolto egregiamente il suo compito a favore dei neocons, che avrebbero poi approfittato del terreno da lui preparato per mandare all’Onu Colin Powell ad accusare Saddam Hussein con la famosa fialetta di polvere bianca».Oggi, cioè 15 anni dopo, ecco che Pence ricompare. Dove? Accanto a Trump, all’indomani della sua inattesa vittoria alle primarie repubblicane. «Dopo aver provato in tutti i modi a fermarlo, evidentemente, gli stessi repubblicani devono aver pensato che la soluzione migliore, in caso di una sua elezione alla Casa Bianca, fosse di mettergli accanto un personaggio fidato, come appunto Mike Pence», ragiona Mazzucco. Se quindi Donald Trump dovesse vincere, si apriranno due possibili scenari, molto diversi fra loro, ma con un risultato comunque simile: «Nel primo scenario il buon Donald verrebbe docilmente guidato dal silenzioso Pence a continuare la politica espansionistica degli Stati Uniti, esattamente come il buon George Bush venne docilmente guidato dal silenzioso Dick Cheney all’invasione militare di Afghanistan e Iraq, 15 anni fa. Nel secondo scenario, invece, Trump – se non dovesse per caso “recepire” i buoni consigli di Pence – avrà prima o poi un brutto incidente, che lo toglierà di mezzo definitivamente, o che gli impedirà comunque di continuare a fare il presidente. E così, in un caso come nell’altro, saranno stati nuovamente i neocons a riprendere il controllo dell’America».«Se vincerà la Clinton, il proseguimento delle guerre imperialistiche è garantito già in partenza. Se invece vincesse Trump, si troverà comunque il modo di farle proseguire, con metodi meno leciti ma comunque molto efficaci. Gli unici che non perdono mai le elezioni, in America, sono quelli del complesso militare-industriale». Parola di Massimo Mazzucco, che avverte: «I media occidentali sono talmente ingolfati nel seguire l’altalenante vicenda di Donald Trump, che si sono dimenticati di dare un’occhiata da vicino al suo vicepresidente nominato, cioè Mike Pence». Chi è costui? «E’ stato presentato come un politico sempliciotto e di buone maniere, di solide tradizioni repubblicane, messo accanto a Trump per dare più credibilità al ciuffo selvaggio dell’imprenditore newyorkese». Invece, Pence «è molto di più di un semplice politico conservatore». In realtà è «un “attack dog” di primissimo livello dei neocons, mascherato da perbenista praticante». Ricordate la pagliacciata della fialetta all’antrace agitata all’Onu da Colin Powell per fabbricare prove contro Saddam? Era opera sua, di Mike Pence. L’uomo che ora è stato messo “in marcatura” su Trump, nel caso dovesse battere Hillary.
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Se gli americani si liberano dell’élite mafiosa che li domina
Non siete sorpresi che Hillary e le sue puttane della stampa non abbiano incolpato Putin per il fatto che il direttore dell’Fbi Comey ha riaperto il caso delle e-mail della Clinton? Queste hanno hanno messo in gioco la seconda carta a favore di Hillary. Hanno reso Comey il problema. Secondo il senatore Harry Reid e le puttane, non dobbiamo preoccuparci dei crimini di Hillary. Dopotutto, è solo una donna della politica che si sta creando il nido, come gli uomini in politica hanno fatto per anni. Perché tutti questi misogini continuano a tirarla in mezzo? Le puttane lamentano che il presunto crimine commesso da Comey sia molto più importante. Questo odiatore di donne repubblicano ha violato l’Hatch Act dicendo al Congresso che l’investigazione che aveva dichiarato chiusa è stata riaperta. Un’interpretazione molto strana dell’Hatch Act. Durante un’elezione va bene annunciare che il candidato presidente è innocente, ma non è ok dire che è sotto investigazione.Nel luglio 2016 Comey ha violato l’Hatch Act quando, su ordini del corrotto Attorney General di Obama, ha detto che Hillary era pulita. Facendo così, Comey ha usato il prestigio che può dare l’annuncio federale di fine indagini per la violazione dei protocolli di sicurezza da parte della Clinton per spingerla dal punto di vista elettorale. In effetti, la situazione di Hillary nei sondaggi è basata sul fatto che i sondaggisti danno maggior peso ai suoi supporter. È facile creare un favorito se pesi di più alcuni supporter nelle domande elettorali. Se si guarda alle persone che assistono alle apparizioni pubbliche, è chiaro che la popolazione statunitense preferisce Donald Trump, il quale si oppone alla guerra con la Russia e la Cina. La guerra con le potenze nucleari è una grossa parte di queste elezioni. Il problema di Hillary ha messo in difficoltà l’oligarchia statunitense, di cui la Clinton è serva fedele. Cosa faranno se vince Trump? Farà la fine di Jfk, Bob Kennedy, Martin Luther King, George Wallace? Ai posteri l’ardua sentenza. Arriverà un’inserviente di un hotel all’ultimo istante alla stessa maniera con cui le oligarchie si sono sbarazzate di Dominique Strauss-Kahn?Tutte le femministe d’occidente, progressiste e di sinistra, si erano fatte abbindolare dall’ovvia trappola tesa a Strauss-Kahn. Dopo che a Strauss-Kahn è stato impedito di candidarsi all’elezione presidenziale francese e lo si è messo nelle condizioni di dimettersi da presidente del Fmi, le autorità di New York hanno dovuto far cadere tutte le accuse contro di lui. Washington però ha ottenuto il risultato di mettere il suo vassallo Sarkozy all’Eliseo. Ecco come l’oligarchia fa a pezzi quelli che sospetta non servirebbero i suoi interessi. La corrotta ed autoreferenziale oligarchia fa in modo di avere in pugno i governi ed i media, i centri di pensiero e le maggiori università e, ovviamente grazie alle puttane della stampa, le menti degli statunitensi. Il primo interesse degli oligarchi ora è rimettere in sesto Hillary per la corsa alla presidenza, per cui vediamo se riusciranno ancora una volta ad ingannare la popolazione.Mentre siamo in attesa, preoccupiamoci di un’altra questione importante. Il sindacato criminale della Clinton negli ultimi anni del 20° secolo ha permesso a un pugno di mega-corporations di consolidare tutti i media Usa in poche mani. Questo accentramento di potere dell’oligarchia è stato ottenuto nonostante la legge antitrust. Le fusioni nel campo dei media hanno fatto a pezzi la tradizione di media divisi ed indipendenti. Ma all’un percento cosa interessa la legge federale? Nulla. Il potere dell’un percento lo rende immune alla legge. I crimini di Hillary potrebbero costarle le elezioni, ma non andrà in prigione. Non contenta del controllo del 90% dei media, l’oligarchia vuole ancora maggior concentrazione e maggior controllo. Sembra che ce la faranno, grazie al corrotto governo Usa. La Federal Trade Commission dovrebbe rafforzare la legge antitrust. Invece, l’agenzia federale abitualmente viola l’antitrust permettendo concentrazioni a livello di monopolio di interessi economico-finanziari.A causa del fallimento del governo federale nel rafforzare le proprie stesse leggi, ora abbiamo banche “troppo grandi per fallire”, un monopolio incontrollato in Internet e la distruzione dei media indipendenti. Non molto tempo fa c’era un campo dell’economia conosciuto come antitrust. Dottorandi si sono specializzati in questo campo e hanno scritto dissertazioni sul controllo pubblico dei poteri monopolistici. Suppongo che questa branca dell’economia, come gli Stati Uniti della mia gioventù, non esiste più. Rahul Manchanda spiega che «di nuovo un enorme conglomerato mediatico sta per essere assorbito da un altro enorme conglomerato mediatico, per creare un altro gargantuesco outlet dei media, in un nuovo rafforzamento dell’enorme forza, del denaro, della ricchezza, del potere intimidatorio, delle cospirazioni e del controllo», facendo a pezzi la Costituzione ed il Primo Emendamento.(Paul Craig Roberts, “Il popolo americano può sconfiggere l’oligarchia che lo governa?”, da “Counterpunch” del 2 novembre 2016, post tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte”. Craig Roberts, economista, è stato viceministro del Tesoro con Reagan nonché “editor” del “Wall Street Journal”; il suo libro “How the Economy Was Lost” è disponibile su “Counterpunch” in formato digitale; il suo ultimo libro è “How America Was Lost”).Non siete sorpresi che Hillary e le sue puttane della stampa non abbiano incolpato Putin per il fatto che il direttore dell’Fbi Comey ha riaperto il caso delle e-mail della Clinton? Queste hanno hanno messo in gioco la seconda carta a favore di Hillary. Hanno reso Comey il problema. Secondo il senatore Harry Reid e le puttane, non dobbiamo preoccuparci dei crimini di Hillary. Dopotutto, è solo una donna della politica che si sta creando il nido, come gli uomini in politica hanno fatto per anni. Perché tutti questi misogini continuano a tirarla in mezzo? Le puttane lamentano che il presunto crimine commesso da Comey sia molto più importante. Questo odiatore di donne repubblicano ha violato l’Hatch Act dicendo al Congresso che l’investigazione che aveva dichiarato chiusa è stata riaperta. Un’interpretazione molto strana dell’Hatch Act. Durante un’elezione va bene annunciare che il candidato presidente è innocente, ma non è ok dire che è sotto investigazione.
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Parise: il rimedio è la povertà, un tesoro di conoscenza
Il nostro paese si è abituato a credere di essere (non ad essere) troppo ricco. A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli sprechi livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e così il senso più profondo e storico di “classe”. Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affamati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti dei prezzi. La nostra “ideologia” nazionale, specialmente nel Nord, è fatta di capannoni pieni di gente che si getta sul cibo. La crisi? Dove si vede la crisi? Le botteghe di stracci (abbigliamento) rigurgitano, se la benzina aumentasse fino a mille lire tutti la comprerebbero ugualmente. Si farebbero scioperi per poter pagare la benzina. Tutti i nostri ideali sembrano concentrati nell’acquisto insensato di oggetti e di cibo. Si parla già di accaparrare cibo e vestiti. Questo è oggi la nostra ideologia. E ora veniamo alla povertà. Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è “comunismo”, come credono i miei rozzi obiettori di destra.Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l’automobile, le motociclette, le famose e cretinissime “barche”. Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione.Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà.Il nostro paese compra e basta. Si fida in modo idiota di Carosello (vedi Carosello e poi vai a letto, è la nostra preghiera serale) e non dei propri occhi, della propria mente, del proprio palato, delle proprie mani e del proprio denaro. Il nostra paese è un solo grande mercato di nevrotici tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere nulla, e poi buttano via e poi ricomprano. Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di astratto e di religioso al tempo stesso, un fine, una investitura, come dire: ho denaro, per comprare roba, come sono bravo, come è riuscita la mia vita, questo denaro deve aumentare, deve cascare dal cielo o dalle banche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che danno l’illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. Il nostro paese è pieno di gente tutta contenta di contrarre debiti perché la lira si svaluta e dunque i debiti costeranno meno col passare degli anni.Il nostro paese è un’enorme bottega di stracci non necessari (perché sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. Si mettano bene in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli “etichettati” che etichettano, e che mi scrivono in termini linguistici assolutamente identici, che lo stesso vale per le ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola, ridotta per mancanza di azione ideologica non soltanto a pura fonia, a flatus vocis ma, anche quella, a oggetto di consumo superfluo. I giovani “comprano” ideologia al mercato degli stracci ideologici così come comprano blue jeans al mercato degli stracci sociologici (cioè per obbligo, per dittatura sociale). I ragazzi non conoscono più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l’hanno voluta disprezzare nell’euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro “qualità”, la loro necessità reale, importa la loro diffusione.Ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico e politico (c’è di tutto, vedi l’estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l’élite, come la differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai partiti tradizionali al governo e all’opposizione. L’obbligo mondano impone la boutique ideologica e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del grand marché aux puces ideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob tra questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo. La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona.Per le ideologie vale la stessa regola. Scegliere una ideologia perché è più bella (oltre che più “corretta”, come dice la linguistica del mercato degli stracci linguistici). Anzi, bella perché giusta e giusta perché conosciuta nella sua qualità reale. La divisa dell’Armata Rossa disegnata da Trotzky nel 1917, l’enorme cappotto di lana di pecora grigioverde, spesso come il feltro, con il berretto a punta e la rozza stella di panno rosso cucita a mano in fronte, non soltanto era giusta (allora) e rivoluzionaria e popolare, era anche bella come non lo è stata nessuna divisa militare sovietica. Perché era povera e necessaria. La povertà, infine, si cominci a impararlo, è un segno distintivo infinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella, come i blue jeans con le pezze sul sedere che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene personale, una proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente convinto, salverà il nostro paese».(Goffredo Parise, estratto da “Il rimedio è la povertà”, articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” il 30 giugno 1974, poi incluso nell’antologia “Dobbiamo disobbedire” curata da Silvio Perrella per Adelphi e quindi ripreso da “Globalist” il 28 agosto 2015).Il nostro paese si è abituato a credere di essere (non ad essere) troppo ricco. A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli sprechi livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e così il senso più profondo e storico di “classe”. Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affamati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti dei prezzi. La nostra “ideologia” nazionale, specialmente nel Nord, è fatta di capannoni pieni di gente che si getta sul cibo. La crisi? Dove si vede la crisi? Le botteghe di stracci (abbigliamento) rigurgitano, se la benzina aumentasse fino a mille lire tutti la comprerebbero ugualmente. Si farebbero scioperi per poter pagare la benzina. Tutti i nostri ideali sembrano concentrati nell’acquisto insensato di oggetti e di cibo. Si parla già di accaparrare cibo e vestiti. Questo è oggi la nostra ideologia. E ora veniamo alla povertà. Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è “comunismo”, come credono i miei rozzi obiettori di destra.
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Magaldi: altro che Silvio e Gelli, il burattinaio è Napolitano
«Giorgio Napolitano? Ne penso molto male. Nello stesso anno in cui Berlusconi veniva iscritto alla P2, è stato iniziato alla Ur-Lodge “Three Eyes”, una superloggia internazionale antidemocratica, di cui la P2 non era altro che una succursale subalterna». Così Gioele Magaldi ai microfoni di “Colors Radio”, in una trasmissione dedicata all’approfondimento dell’attualità politica, italiana e internazionale. E il guaio è, aggiunge Magaldi, autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”, che Napolitano è tuttora il grande manovratore della crisi italiana, apertamente a favore del Sì al referendum renziano. «Non mi piace l’idea di un Senato che permane, ma non è più eletto direttamente dal popolo sovrano», premette Magaldi, massone progressista, presidente del Movimento Roosevelt e gran maestro del Grande Oriente Democratico. «C’è qualcosa di grave», dice, nel Senato-fantasma della riforma renziana. Ovvero: «Abituare i cittadini, in modo sublimimale, all’idea che ci possano essere organi istituzionali di un certo peso che non sono eletti direttamente». E’ una legittimazione dell’orribile Europa dei tecnocrati. «Ed è l’idea, spregevole, offerta da un Eugenio Scalfari che, passati i 90 anni, ha gettato la maschera definitivamente, nelle sue pulsioni antidemocratiche».Di recente, il fondatore di “Repubblica” ha infatti rivendicato la convinzione che la democrazia non sia altro che una forma di oligarchia “illuminata”. «Scalfari – continua Magaldi – si inscrive benissimo in quell’ideologia propagata a partire dagli anni 70, di matrice “Three Eyes”, di organizzazione delle società lasciando formalmente esistere la democrazia ma svuotandola di sostanza e dando il vero potere a organi oligarchici e possibilmente anche tecnocratici». Fino a ieri, aggiunge Magaldi, Scalfari avrebbe dissimulato un pensiero del genere, come tuttora fanno i costruttori di questo ordine europeo e globale sostanzialmente non democratico. Ora invece Scalfari “non si tiene più”, parla senza infingimenti e senza veli: «Lo dice in faccia, al popolo: tu non sei sovrano, ed è bene che non sia sovrano. Se però il popolo mantiene la sua ignoranza, poi legittima anche questi cattivi maestri, che immginano di poter dire in modo impudente “viva l’oligarchia, abbasso la democrazia”». Cattivi maestri tra i quali Magaldi annovera con decisione lo stesso Napolitano, che definisce un uomo senza scrupoli, affiliato a una potentissima organizzazione oligarchica internazionale come la “Three Eyes”.Non regge neppure il paragone con un altro super-massone, Carlo Azeglio Ciampi, che – col divorzio di Bankitalia dal Tesoro – compromise il futuro della sovranità nazionale. «Ciampi ha molte gravi responsabilità riguardo al pessimo modo in cui l’Italia è entrata nell’Eurozona e la stessa Eurozona è stata costruita, insieme a questa Europa tecnocratica e antidemocratica», dichiara Magaldi. «Però poi, quando è stato presidente della Repubblica, è stato molto proficuo nel riportare i valori risorgimentali e unitari, e anche nell’arginare certe intemperanze un po’ sgangherate dell’allora presidente del Consiglio Berlusconi». Quindi Ciampi «ha fatto molto male fino all’elezione al Quirinale». Poi, quando diventò presidente «ormai il male era fatto». Però bisogna ammettere che «ha fatto anche qualcosina di buono». Napolitano, invece, no: «Ne penso tutto il male possibile, lo considero un avversario, un antagonista, di cui riconosco semmai la raffinata abilità». Fin dall’inizio della sua lunghissima carriera politica, continua Magaldi, Giorgio Napolitano «si è distinto per spregiudicatezza, cinismo e, francamente, per una sua vocazione autenticamente oligarchica e antidemocratica».Nella prima fase della sua storia «è stato fra i togliattiani filo-stalinisti che criticavano i compagni che protestavano per l’invasione sovietica dell’Ungheria». Poi, quando il vento gli sembrava cambiato, «è stato tra i protagonisti della cosiddetta corrente “migliorista” del Pci che dialogava anche ufficialmente con gli Stati Uniti e col mondo democratico occidentale». Napolitano è stato poi tante altre cose, «ma tutto quello che ha fatto l’ha fatto promuovendo se stesso, quindi con una grande cura del suo interesse e della sua ascesa personale». Non era nella P2, ma nella “Three Eyes” sì, dichiara Magaldi: fu affiliato proprio mentre il Cavaliere entrava nella rete di Gelli, che in Italia suscitò enorme scandalo. Peccato però che la P2 fosse solo la succursale italiana, e minore, della grande superloggia di Kissinger. Naturalmente, l’interessato non ha mai confermato: «Nonostante interrogazioni di parlamentari del Movimento 5 Stelle, non c’è mai stata risposta su questa affiliazione». Eppure, insiste Magaldi, «proprio in quanto rappresentante della “Three Eyes”, Napolitano ha favorito lo scandaloso avvento di Mario Monti al potere, un Monti insignito anche del ruolo di senatore a vita con relativa indennità».Monti? «Dovrebbe un giorno essere chiamato a rispondere dei danni gravissimi, economici e civili, che ha causato al nostro paese». Anche di questo, conclude Magaldi, bisogna ringraziare Napolitano, che «è stato il padre dell’operazione Monti». Poi è stato anche «il padre dell’operazione Enrico Letta», prima di dover «subire in qualche modo l’avvento di Matteo Renzi». E adesso, nonostante si sia dimesso da presidente della Repubblica, «continua a fare il grande burattinaio, il grande manovratore, come ha senpre fatto». Ma attenzione: «Un personaggio così non ha nemmeno bisogno di fare il presidente della Repubblica per avere questo tipo di potere, che gli deriva dalle sue ascendenze massoniche di segno neo-aristocratico». Non c’è da stupirsi, dunque, che resti in cabina di regia: evidentemente è il super-garante di poteri fortissimi, gli stessi peraltro che tifano per la vittoria di Renzi al referendum.«Giorgio Napolitano? Ne penso molto male. Nello stesso anno in cui Berlusconi veniva iscritto alla P2, è stato iniziato alla Ur-Lodge “Three Eyes”, una superloggia internazionale antidemocratica, di cui la P2 non era altro che una succursale subalterna». Così Gioele Magaldi ai microfoni di “Colors Radio”, in una trasmissione dedicata all’approfondimento dell’attualità politica, italiana e internazionale. E il guaio è, aggiunge Magaldi, autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”, che Napolitano è tuttora il grande manovratore della crisi italiana, apertamente a favore del Sì al referendum renziano. «Non mi piace l’idea di un Senato che permane, ma non è più eletto direttamente dal popolo sovrano», premette Magaldi, massone progressista, presidente del Movimento Roosevelt e gran maestro del Grande Oriente Democratico. «C’è qualcosa di grave», dice, nel Senato-fantasma della riforma renziana. Ovvero: «Abituare i cittadini, in modo sublimimale, all’idea che ci possano essere organi istituzionali di un certo peso che non sono eletti direttamente». E’ una legittimazione dell’orribile Europa dei tecnocrati. «Ed è l’idea, spregevole, offerta da un Eugenio Scalfari che, passati i 90 anni, ha gettato la maschera definitivamente, nelle sue pulsioni antidemocratiche».
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Barnard: ma i padroni di Hillary temono la guerra atomica
Può sembrare assurdo, ma il rischio-guerra è minore, oggi, se la Casa Bianca finisce nelle mani del super-falco Hillary Clinton. Motivo: la Terza Guerra Mondiale non conviene ai suoi “padroni”, i signori di Wall Street. Lo sostiene Paolo Barnard, sconcertato per «l’isteria» diffusa secondo cui la Clinton – a differenza di Trump – scatenerebbe un conflitto atomico con la Russia. Errore: «Non va visto il candidato, va visto il paese», cioè gli Stati Uniti d’America, che «sono un impero», ma anche «un impero che sta crollando». Basta dare un’occhiata allo scenario geopolitico: il presidente cinese Xi Jinping che annuncia di riesumare la Via della Seta, «cioè di ricostruire l’Impero cinese dallo Stretto di Malacca fino alle porte della Turchia», e «il girone infernale del Medio Oriente, quel manicomio criminale alla deriva in cui gli Usa letteralmente si sono persi, e che li ha già succhiati dentro a una catastrofe che dissanguerà una Washington anemica fino alla morte di tutta la sua politica estera», e forse «fino a una guerra nucleare». Morale: «Qualsiasi presidente americano, in tutto l’arco che va da Bernie Sanders a Ted Cruz, dovrà affrontare il crollo dell’impero, e questo significa letteralmente che ogni giorno nei prossimi cento anni è il giorno del possibile scoppio della Terza Guerra Mondiale, convenzionale o meno, indipendentemente dal candidato alla Casa Bianca».Il punto non è assolutamente se la Clinton sia più guerrafondaia di Trump, insiste Barnard nel suo blog: «La questione è quale candidato americano assillato dal crollo dell’impero resisterà più tempo prima di una dichiarazione di guerra mondiale». E la risposta fra Trump e Clinton «è senza dubbio la Clinton, perché Hillary almeno pensa», e in più «deve rispondere ai suoi padroni», mentre Trump «non pensa e risponde solo agli sbalzi di serotonina del suo cervello da mucca pazza». Sulla Clinton, ovviamente, nessuna illusione: «Sappiamo con certezza, fin dai tempi della giovane coppia Clinton in Arkansas, chi governa e possiede quella coppia di criminali internazionali. Ne conosciamo nomi cognomi e soprattutto gli interessi, che oggi si sono spostati da quelli delle lobby agricole e immobiliari degli anni ’90, a quelli di Wall Street». E qui, per Barnard, viene il punto cruciale, se si teme la Terza Guerra Mondiale: «L’ultima cosa al mondo che la finanza vuole è una guerra nucleare, semplicemente perché non esiste modello algoritmico, statistico, o tendenza di Borsa che racconti all’uomo con le scarpe da 5.000 dollari a Manhattan o a Francoforte cosa accadrebbe alla finanza in caso di guerra nucleare. Non esiste, non ce l’hanno. E gente che oggi ha in mano assets per oltre 30 volte il Pil mondiale, non rischia il culo su un modello che non conosce».Al contrario, continua Barnard, i super-potenti dell’élite finanziaria «sanno benissimo che bottoni premere, dove investire, che profitti si fanno in caso di guerra convenzionale», ma appunto, «non in caso di guerra atomica». Sicché, «la Clinton dovrà guardarli tutti in faccia prima di schiacciare il bottone rosso e non lo farà mai per prima». Al contrario, continua Barnard, Trump sarebbe completamente solo di fronte a quattro fattori ad altissimo rischio: l’espansionismo Nato alle soglie di Mosca, le nuove mini-atomiche americane, l’esplosivo derby Israele-Iran e il dilagare delle basi militari Usa. Il pericolo è motivato da ragioni drasticamente concrete: «Qualsiasi candidato alla Casa Bianca potrebbe scatenare una Terza Guerra da un giorno all’altro, perché dovrà preservare l’Impero per la sopravvivenza di 350 milioni di americani nel loro stile di vita, che non verrà mai messo in discussione, mai». Lo dimostra il fatto che persino Bernie Sanders appoggia le guerre “utili”, infatti «ha speso parole mielose per “i nostri migliori e valorosi americani”, cioè le truppe Usa in guerra, e mai ha pronunciato una singola parola per lo smantellamento totale della finanza speculativa».L’espansionismo Nato, ricorda Barnard, nasce ben prima di Trump e Clinton: fu Ronald Reagan che, «con la faccia come il culo», tradì le promesse fatte a Gorbaciov negli anni ’80 di non espandere la Nato di un metro a Est. «Oggi la Nato è letteralmente arrivata al confine con la Russia, e “deve” farlo, sempre per il solito motivo, cioè il controllo delle risorse materiali e finanziarie» del maggior numero possibile di nazioni, «e dei flussi di energia nell’interesse dell’Impero al crollo». Attenzione: Trump «non si oppone all’espansionismo, dice solo che lo devono pagare gli altri». In effetti, «non ha mai messo in programma il ritiro Nato a ovest della Polonia». Così, «la scintilla finale con Mosca rimarrà tale e quale, pronta a scoppiare, con Donald o con Hillary o con chiunque altro». E la donna «non è affatto peggio», sostiene Barnard. Sviluppi di crisi potrebbero avere tempi brevissimi, con l’impiego di armi micidiali come le mini-atomiche B-61 Model 12 per le quali Obama ha speso 1.000 miliardi di dollari. «Escluso che la Clinton possa prendere per prima una decisione atomica per i motivi detti sopra», cioè la necessità di consultare prima i suoi “padroni” di Wall Street, «la facilità dell’uso di una testata “mini” capace ad esempio di distruggere selettivamente un’area grande come 4 quartieri di Milano, si addice molto di più a un rantolo cerebrale di Trump se, poniamo, vi fosse un attentato Isis a Filadelfia con 100 morti».In assoluto, però, secondo Barnard il maggior pericolo di guerra atomica, il più realistico, «non risiede in una consolle di un bunker di Washington, ma a Tel Aviv». Norman Finkelstein definì Israele «uno Stato psicotico». Per Barnard, «i sionisti sono non solo dei criminali internazionali di comprovata devastante letalità, ma sono anche letteralmente dei pazzi». Finora, «l’unico fattore che ha impedito a Israele di usare l’atomica sull’Iran è stata la mano del “padrone” a Washington». Ora, Trump «vuole il disingaggio degli Stati Uniti soprattutto dal rapporto Iran-Usa-Israele, e l’ha detto: per prima cosa ripudierà l’accordo Obama-Rouhani sul nucleare». Questo, per Barnard, significa solo una cosa: che «verrà tolta la “sicura” dalla pistola dei pazzi genocidi sionisti», lasciando mano libera a Tel Aviv per «far partire le testate contro l’Iran», scatenando la guerra atomica. «Qui – insiste Barnard – dobbiamo scongiurare Dio di far vincere la Clinton, che invece la mano sugli psicopatici eredi di Theodor Herzl la terrà eccome».Quanto all’espansionsimo imperiale post-Urss inaugurato con Colin Powell, la “Lillypad expansion”, cioè l’espansione a foglia di ninfea delle basi Nato, se ieri era un’opzione oggi è un “obbligo assoluto” per puntellare l’impero declinante, «pena appunto la sua morte», cominciando con l’accerchiare la Via della Seta cinese in piena costruzione. «E stanno succedendo entrambe le cose contemporaneamente», con Pechino che «ha già piazzato 46 miliardi di dollari in Pakistan protetti da oltre 10.000 soldati con la mira al Golfo Persico», e intanto «sta costruendo piste di decollo per bombardieri in tutti i distretti del Sud-Est Asiatico che controlla», mentre gli Usa «stanno circondando i cinesi» com la “Lillypad expansion” «mirando proprio agli Stretti di Malacca da cui passa la gran parte dell’energia di cui necessita Pechino». Washington «semina basi e flotte, con l’aiuto dell’Australia, come ha recentemente rivelato il grande John Pilger». Dunque: «Avete voi sentito Trump parlare di un piano sensato per la distensione con la Cina?». Soprattutto: sarebbe capace, Trump, «di pensare a una cosa immensa come un piano di distensione fra potenze?». La Clinton, almeno, «non reagirà a una crisi dei missili nel Pacifico con lo sguardo demente sotto alla parrucca di un Trump».Può sembrare assurdo, ma il rischio-guerra è minore, oggi, se la Casa Bianca finisce nelle mani del super-falco Hillary Clinton. Motivo: la Terza Guerra Mondiale non conviene ai suoi “padroni”, i signori di Wall Street. Lo sostiene Paolo Barnard, sconcertato per «l’isteria» diffusa secondo cui la Clinton – a differenza di Trump – scatenerebbe un conflitto atomico con la Russia. Errore: «Non va visto il candidato, va visto il paese», cioè gli Stati Uniti d’America, che «sono un impero», ma anche «un impero che sta crollando». Basta dare un’occhiata allo scenario geopolitico: il presidente cinese Xi Jinping che annuncia di riesumare la Via della Seta, «cioè di ricostruire l’Impero cinese dallo Stretto di Malacca fino alle porte della Turchia», e «il girone infernale del Medio Oriente, quel manicomio criminale alla deriva in cui gli Usa letteralmente si sono persi, e che li ha già succhiati dentro a una catastrofe che dissanguerà una Washington anemica fino alla morte di tutta la sua politica estera», e forse «fino a una guerra nucleare». Morale: «Qualsiasi presidente americano, in tutto l’arco che va da Bernie Sanders a Ted Cruz, dovrà affrontare il crollo dell’impero, e questo significa letteralmente che ogni giorno nei prossimi cento anni è il giorno del possibile scoppio della Terza Guerra Mondiale, convenzionale o meno, indipendentemente dal candidato alla Casa Bianca».
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Crisi e guerra, la grande paura. E l’Fbi azzoppa la Clinton
Non è strano che, a una settimana dal voto, l’Fbi riapra le indagini sullo staff di Hillary Clinton, terremotando inevitabilmente i sondaggi, già in fibrillazione? Non è strano che il direttore della prestigiosa polizia federale osi un gesto simile, alla vigilia dell’election day, come se non ne temesse le conseguenze? Forse non è così strano, se si rileggono – oggi, a qualche mese di distanza – alcune ricostruzioni provenienti dall’Italia: Trump non è (solo) la “bomba a mano” incontrollabile descritta dai media mainstream, ma è anche e soprattutto una “scommessa coperta”, un Cavallo di Troia abilmente lanciato nel campo repubblicano alla stessa élite super-massonica “progressista” che, nel campo opposto, aveva appoggiato il socialista Bernie Sanders. Trump doveva servire a fermare Jeb Bush, Sanders a ostacolare l’ascesa della Clinton. Oggi questo ruolo è stato ereditato dallo stesso Trump, ma il copione non cambia. E il “pericolo” non è Hillary, ma i poteri fortissimi che l’hanno scelta come esecutrice del loro volere, così come scelsero personaggi “neocon” come Victoria Nuland, introdotta nel team di Obama con l’obiettivo di destabilizzare la Russia attraverso la sfida alle frontiere, cominciando dal golpe in Ucraina travestito da rivoluzione.L’escalation a Kiev fu decisa in risposta alla decisione di Putin di schierarsi in difesa della Siria: un cambio di rotta radicale, dopo che il Cremlino aveva assistito passivamente all’ultima puntata della “guerra infinita”, la demolizione della Libia. Dietro le quinte, a Washington, a fare la prima mossa sono sempre loro, gli uomini del Pnac, quelli del “nuovo secolo americano”, protagonisti delle guerre di Bush innescate dall’11 Settembre. E’ il famigerato super-vertice globalizzatore, finanziario e militare, “l’Impero”. Non tollera l’idea che gli Stati Uniti possano perdere i propri immensi privilegi, che sorreggono il tenore di vita (e i clamorosi profitti dell’élite), e per questo è pronto a tutto – anche una Terza Guerra Mondiale, nucleare? Ne è convinto l’ex viceministro di Reagan, Paul Craig Roberts, secondo cui i grandi media – sotto Obama – hanno coperto una sostanziale “dittatura” instauratasi alla Casa Bianca, dove il presidente non è il che il terminale, sempre più opaco, di micidiali gruppi di interesse, completamente irresponsabili e ormai anche in preda al panico, ossessionati dalla paura di perdere il loro immenso potere. Recenti sondaggi, dice Marcello Foa, rivelano che il 70% degli elettori statunitensi non credono più ai grandi media, dai network televisivi al “New York Times”, tutti schierati con la Clinton e ridotti a mero strumento di propaganda dell’establishment, di cui Trump è visto come antagonista.«Illusionismo, puro gioco delle parti», sostiene Fausto Carotenuto, analista internazionale, ai microfoni di “Border Nights”: «Si scontrano due gruppi di potere, sempre gli stessi: uno è definito conservatore, quello che appoggia la Clinton, e l’altro si definisce progressista ma è ancora più ipocrita del primo». Super-massoneria occulta: quella che Gioele Magaldi, progressista, ha messo in piazza tra le pagine del libro “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere). Un altro esponente della cultura massonica italiana, Gianfranco Carpeoro, autore del recentissimo saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Uno Editori), avverte: «La novità è che il vertice di quel potere è spaccato, come dimostra l’appoggio dato a un candidato come Sanders». Grandi defezioni, nelle alte sfere, avrebbero propiziato la stessa candidatura Trump. Diserzioni così preoccupanti, secondo Carpeoro, da spingere “l’ala destra” del super-potere a ricorrere in modo sistematico anche alla strategia della tensione, come si deduce dal moltiplicarsi di sanguinosi attentati in Europa, organizzati da quella che Carpeoro chiama “sovragestione”, ovvero: elementi di vertice che si avvalgono di settori dei servizi segreti, che all’occorenza reclutano kamikaze jihadisti.Il vertice della piramide è diviso? Lo dimostra il testa a testa fra Hillary e Trump. E una delle massime eminenze grigie del super-potere massonico, Zbigniew Brezinzki, qualche settimana fa aveva avvertito: ora basta con la guerra fredda, è tempo di sedersi attorno a un tavolo con Putin e coi cinesi, perché questa escalation porta solo al rischio di una catastrofe. Attenzione: Brzezinski è stato uno dei massimi architetti della globalizzazione “imperiale”. Il pericolo di un collasso è concreto, sostiene Giulietto Chiesa: «I padroni universali sanno quello che sta succedendo, e più o meno – tra di loro – se lo dicono». Chiesa cita dichiarazioni recenti, molto inquietanti: da Rockefeller, secondo cui «la Terza Guerra Mondiale è inevitabile: dovremmo metterci d’accordo coi russi, ma temo che non ce la faremo», a Rotschild, che avverte: «Sta per terminare il più grande esperimento finanziario mai realizzato nella storia», la finanza monetarista svincolata dall’economia reale, «e adesso stiamo entrando in acque inesplorate». E Larry Summers, ex segretario al Tesoro, aveva profetizzato: la crescita del Pil mondiale si fermerà attorno al 2005. «Ci stanno dicendo che si sta avvicinando una catastrofe, la fine di questo capitalismo finanziario. Non c’è da stupirsi, quindi, dei preparativi di guerra cui stiamo assistendo».Tra i nuovi “catastrofisti” si iscrive anche il finanziere Carlo De Benedetti, che al “Corriere della Sera” dichiara: «Sta arrivando una crisi gigantesca, che metterà in forse tutta la democrazia nel mondo». Giulietto Chiesa è pessimista: «Tutti quelli che pensano che non succederà niente, perché alla fine ci si metterà d’accordo, si sbagliano. Non sono “i cattivi” che vogliono la guerra, è la situazione che non è sanabile: siamo governati da imbecilli, in un mondo totalmente diviso tra ricchi e poveri come mai nella storia dell’umanità». Lo stesso Carpeoro, nei mesi scorsi, è tornato più volte sul tema: «Il nuovo ordine mondiale è fatalmente incompiuto, provano sempre a realizzarlo ma non ci riescono mai fino in fondo, perché litigano tra loro». Una rissa pericolosa, che può anche esplodere – sotto forma di terrorismo e bombe, domani anche atomiche? Difficile credere che tutto sia appeso, davvero, al solo parrucchino di Trump: non può essere un caso che un super-potente come James Comey, capo dell’Fbi, scenda in campo – a due passi dal voto – per tentare di sbarrare la strada della Casa Bianca ai “padroni” di Hillary Clinton, i “signori della guerra”. Zero fair-play, dicono i commentatori mainstream: la campagna più brutta della storia delle elezioni Usa. Forse anche la più drammatica, cruciale, pericolosa.Non è strano che, a una settimana dal voto, l’Fbi riapra le indagini sullo staff di Hillary Clinton, terremotando inevitabilmente i sondaggi, già in fibrillazione? Non è strano che il direttore della prestigiosa polizia federale osi un gesto simile, alla vigilia dell’election day, come se non ne temesse le conseguenze? Forse non è poi così sorprendente, se si rileggono – oggi, a qualche mese di distanza – alcune ricostruzioni provenienti dall’Italia: Trump non è (solo) la “bomba a mano” incontrollabile descritta dai media mainstream, ma è anche e soprattutto una “scommessa coperta”, un Cavallo di Troia abilmente lanciato nel campo repubblicano alla stessa élite super-massonica “progressista” che, nel campo opposto, aveva appoggiato il socialista Bernie Sanders. Trump doveva servire a fermare Jeb Bush, Sanders a ostacolare l’ascesa della Clinton. Oggi questo ruolo è stato ereditato dallo stesso Trump, ma il copione non cambia. E il “pericolo” non è Hillary, ma i poteri fortissimi che l’hanno scelta come esecutrice del loro volere, così come scelsero personaggi “neocon” come Victoria Nuland, introdotta nel team di Obama con l’obiettivo di destabilizzare la Russia attraverso la sfida alle frontiere, cominciando dal golpe in Ucraina travestito da rivoluzione.
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Mediocrità e ipocrisia nell’Italia di Renzi alla Casa Bianca
Mi è capitata fra le mani una foto dei cosiddetti “italiani eccellenti” portati da Matteo Renzi la scorsa settimana alla Casa Bianca. Costoro, secondo la scelta del nostro primo ministro, dovrebbero rappresentare il meglio dell’Italia. Roberto Benigni: un traditore del cinema a doppia mandata. Prima volta traditore, perché ha rubato l’idea di “La vita è bella” ad un suo collega, il regista rumeno Radu Mihaileanu. Mihaileanu aveva mandato a Benigni la sceneggiatura del suo film, “Train de vie”, chiedendogli di fare il protagonista. Benigni finse di non essere interessato, solo per correre di nascosto a scrivere il suo film, “La vita è bella”, con il quale avrebbe vinto l’Oscar. Le trame dei due film sono diverse, ma l’idea di ambientare un film comico sullo sfondo dell’Olocausto è identica. Seconda volta traditore, perchè mentre il film di Mihaileanu finisce – giustamente – con il protagonista dietro al filo spinato di Auschwitz, quello di Benigni finisce in modo antistorico, con un happy end del tutto improbabile che strizza l’occhio ai poteri forti di Hollywood: quando mai un ragazzino esce vivo da una Auschwitz liberata dagli americani, solo per incontrare la sua mamma che lo aspetta sorridente sotto un albero?Nemmeno negli spot del Mulino Bianco succedono queste cose. Ma, lo sappiamo tutti, pur di vincere un Oscar c’è anche chi è disposto a stravolgere il senso della Storia. Beatrice Vio: lo sport paraolimpico è una triste invenzione dei tempi del politically correct: da una parte il mondo delle persone normali, che si ripuliscono dai sensi di colpa verso gli handicappati inventando delle Olimpiadi fatte su misura per loro. Dall’altra questi handicappati, vittime designate di questa catarsi collettiva, nella quale si finge di esaltarsi per imprese sportive che sono tali solo nei parametri del nostro relativismo sociale. Le paraolimpiadi sono il festival dell’ipocrisia collettiva, e i loro eroi non sono che il trofeo sociale di questa ipocrisia. Giusy Nicolini: il sindaco di Lampedusa è un esempio innegabile di altruismo, generosità e profondo senso civico. Ma Giusy Nicolini è soltanto la sottile foglia di fico che nasconde, proprio grazie alla sua generosità, una tragedia infinita sia dal punto di vista umano che da quello politico. La tragedia di un sistema – la cosiddetta civiltà occidentale – che da una parte porta guerre d’invasione in tutto il mondo, e dall’altra è assolutamente incapace di gestire i risultati catastrofici che queste guerre vengono a creare.Di Paolo Sorrentino so poco (“E ci sarà un motivo”, direbbero Aldo Giovanni e Giacomo). So solo che ha fatto un film mediocre, con il quale è riuscito inspiegabilmente a vincere un Oscar. Forse gli americani hanno creduto di trovarsi di fronte ad un nuovo “La dolce vita”, ma sta di fatto che nessun critico italiano, per quanto venduto possa essere, è riuscito a gridare al capolavoro. Sorrentino è il classico emblema della mediocrità elevata ad eccellenza per semplice mancanza di talenti reali. Raffaele Cantone: il famoso magistrato incaricato da Renzi di combattere corruzione, mafia e clientelismo nel nostro paese. Finge di beccare qualcuno ogni tanto, spara sentenze feroci (ma innocue) contro i corrotti, mentre in realtà si presta volentieri a fare da emblema di un’Italia che finge di combattere i propri mali, quando questi stessi mali vengono alimentati da scelte politiche decisamente ambigue, come ad esempio i continui condoni per gli evasori fiscali.Giorgio Armani: “Re Giorgio” è sicuramente un’eccellenza di valore assoluto. Ma eccellenza di che cosa, se non dell’effimero? Che cosa rappresenta l’alta moda, in un mondo di 6 miliardi di persone nel quale cinque e mezzo di loro fanno la fame, se non il trionfo dell’élite a discapito di tutti gli altri? Celebrare un uomo che ha costruito un impero basato sull’apparenza invece che sulla sostanza significa in fondo celebrare l’effimero al posto del reale, l’inutile al posto dell’utile, la stupidità al posto dell’intelligenza. Con questa squadra di persone (e pochi altri) il nostro premier ha pensato bene di andare a rappresentare l’Italia alla Casa Bianca. Qualcuno potrebbe domandarsi, a questo punto, perché non abbia scelto di portare invece un tornitore della Breda in cassa integrazione, un agricoltore del Salento che lavora sottocosto, o un disoccupato del Lodigiano costretto a dormire in macchina con tutta la famiglia perché non riesce più a pagare il mutuo della sua casa. Ma questo sarebbe stato troppo, perché si rischiava che di colpo la dura realtà di oggi facesse irruzione nel mondo da cartolina del nostro amatissimo Matteo Renzi.(Massimo Mazzucco, “Foto di gruppo alla Casa Bianca”, dal blog “Luogo Comune” del 24 ottobre 2016).Mi è capitata fra le mani una foto dei cosiddetti “italiani eccellenti” portati da Matteo Renzi la scorsa settimana alla Casa Bianca. Costoro, secondo la scelta del nostro primo ministro, dovrebbero rappresentare il meglio dell’Italia. Roberto Benigni: un traditore del cinema a doppia mandata. Prima volta traditore, perché ha rubato l’idea di “La vita è bella” ad un suo collega, il regista rumeno Radu Mihaileanu. Mihaileanu aveva mandato a Benigni la sceneggiatura del suo film, “Train de vie”, chiedendogli di fare il protagonista. Benigni finse di non essere interessato, solo per correre di nascosto a scrivere il suo film, “La vita è bella”, con il quale avrebbe vinto l’Oscar. Le trame dei due film sono diverse, ma l’idea di ambientare un film comico sullo sfondo dell’Olocausto è identica. Seconda volta traditore, perchè mentre il film di Mihaileanu finisce – giustamente – con il protagonista dietro al filo spinato di Auschwitz, quello di Benigni finisce in modo antistorico, con un happy end del tutto improbabile che strizza l’occhio ai poteri forti di Hollywood: quando mai un ragazzino esce vivo da una Auschwitz liberata dagli americani, solo per incontrare la sua mamma che lo aspetta sorridente sotto un albero?
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Se gli americani ora scoprono chi è davvero Hillary Clinton
Vuoi vedere che Trump ce la fa? «Se Hillary perderà il merito sarà ovviamente di Trump, ma la colpa principale sarà sua e del suo inqualificabile passato», scrive Marcello Foa, che non ha mai dato per spacciato il candidato repubblicano, nemmeno quando la maggior parte dei sondaggi – ampiamente manipolati, secondo Wikileaks, e diffusi con la massima risonanza dalla grancassa dei media mainstream – attribuiva a Hillary un vantaggio abissale. Sondaggi in ogni caso di dubbia affidabilità: «Pronosticare un risultato su scala nazionale consultando 1.300 persone non è convincente, tanto più dopo il fiasco del Brexit e di altre elezioni». Foa ha seguito dal vivo due campagne presidenziali – nel 2004 e nel 2008 – scoprendo «l’America profonda, quella che di solito decide le presidenziali», dove oggi un candidato come Trump potrebbe essere «molto più popolare di quanto l’establishment, di cui i grandi media sono la voce, sia disposto ad ammettere». Ora persino i sondaggi mainstream ammettono il “crollo” della Clinton, su cui si abbatte anche il nuovo “emailgate” con la riapertura dell’inchiesta da parte dell’Fbi sui messaggi di posta elettronica cancellati da Hillary.«Attenzione, si profila uno scenario imprevedibile fino a poche ore fa: il sorpasso di Trump su Hillary nell’ultima settimana della campagna elettorale», scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”. «L’emailgate è devastante per l’immagine della Clinton, perché alimenta il sospetto che non sia affidabile, che abbia qualcosa da nascondere, che sia una mentitrice seriale». Ovvero: «Rafforza la diffidenza nei confronti della sua persona, che è stato il suo principale handicap in questi mesi». I contorni della vicenda sono da film: l’Fbi ha trovato le email di Hillary indagando su Anthony Weiner, ex politico emergente del partito democratico ed ex marito della sua assistente personale, la giovane e fidatissima Huma Abedin, il quale «è stato denunciato per molestie nei confronti di ragazzine minorenni, a cui inviava sue foto in costume adamitico». Osserva Foa: «Forse è il karma che colpisce i Clinton: pensavano di aver fatto fuori Trump pubblicando gli audio dei suoi commenti sulle donne e ora proprio uno scandalo sessuale rischia di rovinare la carriera dell’ex first-lady».Ma anche senza il colpo di coda dell’emailgate, aggiunge Foa, Hillary sarebbe stata in difficoltà. Motivo: ormai «la maggior parte degli americani diffida dei cosiddetti media mainstream (grandi tv e grandi giornali) e molti di loro preferiscono informarsi su siti di informazione che sono letteralmente esplosi in quei mesi come “Breitbart”, “Drudge Report”, “Infowars”, quasi tutti filorepubblicani e gli unici ad aver dato conto regolarmente dell’altro enorme scandalo ignorato dai grandi organi di informazione: quello di Wikileaks con la pubblicazione di migliaia di email del capo della campagna democratica, John Podesta, e di altri collaboratori, che sono stati hackerati». Dalla lettura di quelle email «emerge il doppio linguaggio dell’ex first lady su temi fondamentali con evidenti contraddizioni tra quanto promette agli elettori e quel che dice a prete chiuse alle lobby più influenti». Ed emergono «gli “inciuci” con una stampa servile e quella che appare come una corruzione implicita, multimilionaria, tramite la sua Fondazione anche con governi stranieri», come Qatar e Arabia Saudita (Isis e Fondazione Clinton, stessi sponsor). Emerge insomma «il vero volto del mondo della Clinton e, in genere, del potere di Washington, che provoca disgusto e rabbia negli americani».Vuoi vedere che Trump ce la fa? «Se Hillary perderà il merito sarà ovviamente di Trump, ma la colpa principale sarà sua e del suo inqualificabile passato», scrive Marcello Foa, che non ha mai dato per spacciato il candidato repubblicano, nemmeno quando la maggior parte dei sondaggi – ampiamente manipolati, secondo Wikileaks, e diffusi con la massima risonanza dalla grancassa dei media mainstream – attribuiva a Hillary un vantaggio abissale. Sondaggi in ogni caso di dubbia affidabilità: «Pronosticare un risultato su scala nazionale consultando 1.300 persone non è convincente, tanto più dopo il fiasco del Brexit e di altre elezioni». Foa ha seguito dal vivo due campagne presidenziali – nel 2004 e nel 2008 – scoprendo «l’America profonda, quella che di solito decide le presidenziali», dove oggi un candidato come Trump potrebbe essere «molto più popolare di quanto l’establishment, di cui i grandi media sono la voce, sia disposto ad ammettere». Ora persino i sondaggi mainstream ammettono il “crollo” della Clinton, su cui si abbatte anche il nuovo “emailgate” con la riapertura dell’inchiesta da parte dell’Fbi sui messaggi di posta elettronica cancellati da Hillary.