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Al popolo i profitti dei colossi economici: imparate da Putin
Siamo messi così male, oggi, da essere costretti ad applaudire i “dittatori” delle super-economie emergenti, Pechino e Mosca. Che fanno? Qualcosa di elementare e rivoluzionario, secondo Paolo Barnard: pretendono che i colossi economici finanzino lo Stato, dando modo al governo di sostenere il welfare, la crescita diffusa del benessere. «Io vedo che fra Eurozona, Partito Democratico Usa, e Ppps (le Public Private Partnerships) in Africa, Asia, Sud America, la democrazia che iniziammo a conoscere con Montesquieu nel diciottesimo secolo è diventata oggi una pustola che puzza da far vomitare». Infatti, «per trovare leader capaci ancora di atti che vagamente si avvicinano a qualcosa di democratico bisogna leggere i decreti legge dei “dittatori” delle moderne potenze, come Cina e Russia. Ma vi rendete conto?». Forse, aggiunge Barnard nel suo blog, «sarà perché la democrazia in Usa è nata da un tizio come James Madison, che riteneva che mai, ma veramente mai, il popolo avrebbe dovuto aver voce». O perché la democrazia in Europa «è stata dirottata da uno come Friedrich Von Hayek, che diceva che il welfare, e il voto, erano strumenti che andavano usati solo “per tenere le classi inferiori calme affinché non aggredissero fisicamente le élite meritevoli del comando”».Qualcuno, continua Barnard, si è mai reso conto che «la democrazia moderna è nata da gente vomitevole al 90%? (escludiamo uno come Calamandrei e pochi altri)». Barnard cita Konrad Adenauer, cancelliere tedesco della ricostruzione nel dopoguerra: lo definisce «partner degli autori della dittatura Ue di oggi come Schuman, Monnet e De Gaulle», il leader francese “macchiato” dal feroce post-colonialismo in Algeria. Barnard non assolve nemmeno John Fitzgerald Kennedy, in quanto «entusiasta sostenitore dei National Security States in America Latina che significarono, documenti declassificati alla mano, Auschwitz-Birkenau parlati in spagnolo per milioni di latinamericani», sottoposti al “trattamento” degli squadroni della morte. Altiero Spinelli, padre del federalismo democratico europeo? «Un rutto ideologico», che con la sinistra parlava di “Europa delle utopie” ma con la destra “fregava” gli operai della Fiat, con il Pci che «approvava i 100 miliardi di lire regalati agli Agnelli per aprire catene di montaggio a Mosca», destinate a «togliere il lavoro ai meridionali italiani». Per non parlare di Giorgio Napolitano, che “faceva il compagno” con gli italiani, ma alla Fondazione Rockefeller a Bellagio «prometteva profitti da sogno alle multinazionali americane».Conclude Barnard: infatti vedete tutti, oggi, in che razza di democrazie ci troviamo, «dove i referendum (Grecia 2015, Irlanda 2008 e 2009, Italia 2016) contano come peti di una capra». Al contrario, aggiunge, «le mosse per l’interesse pubblico più clamorose dalla storia contemporanea» le stanno facendo personaggi che la tradizione democratica non sanno neppure dove stia di casa, «ma le stanno facendo». Vladimir Putin, per esempio: oggi «ha fatto un passo che Gentiloni, la Merkel, la May, e neppure la Le Pen, avrebbero il coraggio di fare». Ovvero: «Ha semplicemente ordinato ai giganti pubblici russi come Alrosa, Gazprom, Rosneft, Aeroflot, di sborsare almeno la metà dei loro profitti agli investitori». Tradotto: «Putin dice ai super-manager statali di non fare i furbi e di distribuire i loro profitti come dice lui, senza trucchetti e tranelli. Vi sembrerà una cosa strampalata, ma chiedetevi quale percentuale di profitti i giganti statali italiani ridistribuirono allo Stato e ai cittadini investitori dagli anni ’60 a oggi e vi spaventerete. Oggi l’Eni incassa puliti 68,1 miliardi e passa allo Stato di Roma, di fatto l’azionista di maggioranza, meno di 900 milioni».No, dice Putin ai giganti russi: «Adesso cacciate i soldi per il governo e alla grande, poi anche agli investitori privati ma dopo, e il suo governo si aspetta d’incassare una bella cifra da 2,1 miliardi di dollari nel 2017 e poi a crescere, così da rimpolpare un po’ le casse dello Stato e conseguentemente la spesa pubblica». Già Gazprom e Rosneft hanno iniziato a storcere il naso, ma sanno che con Putin non si scherza. «Non sono certo un fan di Vladimir – assicura Barnard – ma immaginate se lo Stato italiano avesse mai imposto questa ridistribuzione a tutto il vecchio e ricchissimo comparto dell’Iri, Eni, Enel, invece di lasciare miliardi ai boiardi di Stato». Nel frattempo, conclude Barnard, «Xi-Jinping sega le gambe all’uomo più ricco della Cina, tal Yao Zhenhua, padrone del gigante assicurativo privato Baoneng, perché incassava troppo sulle spalle dei cittadini. E mentre vedo Putin bastonare i suoi giganti, vedo da noi dei flaccidi piselli, pentastellati inclusi, che certe mosse d’interesse di Stato un pelo drastiche neppure le pensano». Proprio vero: «Se ci tocca di ammirare i “dittatori” oggi, pensate dove è arrivata la democrazia in Occidente».Siamo messi così male, oggi, da essere costretti ad applaudire i “dittatori” delle super-economie emergenti, Pechino e Mosca. Che fanno? Qualcosa di elementare e rivoluzionario, secondo Paolo Barnard: pretendono che i colossi economici finanzino lo Stato, dando modo al governo di sostenere il welfare, la crescita diffusa del benessere. «Io vedo che fra Eurozona, Partito Democratico Usa, e Ppps (le Public Private Partnerships) in Africa, Asia, Sud America, la democrazia che iniziammo a conoscere con Montesquieu nel diciottesimo secolo è diventata oggi una pustola che puzza da far vomitare». Infatti, «per trovare leader capaci ancora di atti che vagamente si avvicinano a qualcosa di democratico bisogna leggere i decreti legge dei “dittatori” delle moderne potenze, come Cina e Russia. Ma vi rendete conto?». Forse, aggiunge Barnard nel suo blog, «sarà perché la democrazia in Usa è nata da un tizio come James Madison, che riteneva che mai, ma veramente mai, il popolo avrebbe dovuto aver voce». O perché la democrazia in Europa «è stata dirottata da uno come Friedrich Von Hayek, che diceva che il welfare, e il voto, erano strumenti che andavano usati solo “per tenere le classi inferiori calme affinché non aggredissero fisicamente le élite meritevoli del comando”».
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Carpeoro: ucciso il socialismo, era l’antidoto all’orrore Ue
Hanno ucciso Olof Palme, il migliore dei leader, per assassinare il socialismo in Europa, intimidire e poi togliere di mezzo personaggi come Schmidt e Mitterrand (e volendo, lo stesso Craxi). Obiettivo: far stravincere l’oligarchia finanziaria e mettere in piedi l’attuale obbrobrio chiamato Unione Europea. Faceva paura, il premier svedese? Eccome: acerrimo avversario di ogni totalitarismo, in Svezia aveva varato un’economia mista, con quote di controllo allo Stato, nelle aziende, e quote di partecipazione assegnate ai lavoratori. Pragmatismo, coraggio. E soprattutto idee: «E’ di quelle che ha paura, il potere. Per questo ha trasformato la parola “ideologia” in una specie di insulto. Ma l’ideologia è il futuro, il progetto. E senza idee, non puoi fare nessun progetto». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo e romanziere, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, intervenuto in un recente convegno a Roma. L’occasione per una riflessione anche storica sull’eredità del socialismo: se la nostra società occidentale è ridotta così, alla solitudine dell’homo homini lupus, è perché è stato scientificamente, chirurgicamente asportato il virus benefico del socialismo. Anche con il terrorismo, e non da oggi.Alla tragedia del leader socialdemocratico svedese, ucciso a Stoccolma nel 1986 da un killer mai identificato, Carpeoro ha dedicato lunghe pagine del suo lavoro sui legami occulti tra massoneria, servizi segreti e terroristi (il sistema della “sovragestione”). Ed è tornato sul tema a margine del simposio “Le forme della democrazia”, promosso dal Movimento Roosevelt, fondato da Gioele Magaldi. Cos’è stato, il socialismo? Cos’è oggi, e cosa potrebbe essere domani? «Non è stato un pensiero statico, ha avuto un’evoluzione storica, politica», e ora è stato letteralmente rimosso. «Da dov’era partito, il socialismo? Da molto lontano», esordisce Carpeoro: da un periodo di grande riflessione spirituale. «Senza scomodare i Rosacroce», già nel ‘600 si trovano svariate opere proto-socialiste: “Utopia” di Tommaso Moro, “La città del sole” di Tommaso Campanella, “La nuova Atlantide” di Francesco Bacone. Fino ad arrivare a opere meno conosciute, come quelle di Johann Valentin Andreae, presunto autore dei manifesti rosacrociani dell’epoca, che chiude la sua esistenza scrivendo “Christianopolis”, dove racconta il naufragio in un’isola (Caphar Salama) che viene governata in maniera socialista.«Perché la chiamo socialista? Perché una serie di capisaldi di queste opere caratterizzeranno la fase che Marx, con intento quasi spregiatorio, chiamerà “socialismo utopistico”». Ma la parola “utopia”, ricorda Carpeoro, non esisteva nemmeno, prima di Tommaso Moro. «L’ha inventata lui. E’ un neologismo di origine greca, significa “non luogo”. Lo stesso Marx, dunque, citando il “socialismo utopistico”, si richiama a Tommaso Moro». E come nasce, il socialismo utopistico? Ha varie declinazioni: è anarchica quella di Pierre-Joseph Proudhon, quasi mistica quella di Henri de Saint-Simon. Ci sono interpretazioni più pragmatiche, e c’è una declinazione, «forse la più illuminata», che è quella di Auguste Blanqui. «Ma in tutte queste declinazioni ci sono i capisaldi di quello che, secondo gli utopisti del ‘600, doveva essere lo Stato perfetto, la comunità perfetta, con l’abolizione della proprietà privata». In sostanza, «si cominciava a riconoscere il diritto delle persone a vivere secondo dignità e aspettative». Perché questi diritti vengano finalmente riconosciuti in modo istituzionale ci vorrà Eleanor Roosevelt, con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo alle Nazioni Unite nel 1948. «Ma queste idee erano state in qualche modo anticipate già quattro secoli prima». Giustizia e libertà. Tradotto: una società che riconosca il giusto a ognuno, dando a ciascuno la possibilità di scegliere. «Sembra una cosa semplice, no? Eppure, noi ancora non l’abbiamo creata, una società così».Nella sua storia, aggiunge Carpeoro, il movimento socialista si è continuamente frammentato. Lo dimostra la stessa storia del Psi italiano, fondato a Genova nel 1892 da Filippo Turati, «che sarà forse il socialista più coerente», fedele all’impostazione iniziale del progetto ottocentesco, rivoluzionario. Obiettivo: la “guerra” alla società classista del sistema capitalistico, che sottomette e sfrutta contadini e operai. Due mosse: prima la rivoluzione, per abbattere il sistema padronale, e poi l’abolizione delle classi sociali. Come? “Socializzando” i mezzi di produzione, l’economia, le industrie, e distribuendo le terre ai contadini. Poi irrompe Marx, che «istituzionalizza questa sorta di diagnosi», e pensa a come realizzare il disegno rivoluzionario e la fase successiva. «Marx chiama tutto questo “socialismo scientifico”, da contrapporre a quello che lui, disprezzandolo un po’, chiamava “socialismo utopistico”». Ma l’obiettivo, aggiunge Carpeoro, non era forse arrivare comunque all’utopia? «L’eliminazione delle classi cos’è, se non la realizzazione di “Utopia”, della “Nuova Atlantide”, della “Città del Sole”?». In ogni caso, poteva il “fiume” socialista restare interamente ancorato a questo schema? No, ovviamente. E così cominciano le divisioni.«La prima scissione, nel mondo socialista, è quella degli anarchici», ricorda Carpeoro. «Per loro non esiste la fase intermedia, si annulla tutto: nella loro visione, la dissoluzione dello Stato capitalistico è una fase contestuale all’impulso rivoluzionario». Poco dopo, vanno per la loro strada anche i comunisti: «Hanno una visione schematica, per la quale bisogna arrivare con quei passaggi, alla soluzione», che è sempre rivoluzionaria. Rimane il nucleo socialista, che – in Italia come in Europa – si divide a sua volta: nascono i “riformisti”, che restano anti-capitalisti e combattono per la giustizia sociale, ma rinunciano alla rivoluzione come mezzo per ottenerla. Poi ci sono quelli che, successivamente, si chiameranno “socialdemocratici”, come Leonida Bissolati, «i quali aboliscono anche il passaggio finale, l’abbattimento del capitalismo», e quando poi si radicheranno anche nel Pci prenderanno il nome di “miglioristi”. Secondo loro è irrealistica la rinuncia al sistema liberale. Semmai, il capitalismo va corretto con continue migliorie, per guarirne le distorsioni. Nell’800 c’era stato anche il filone dei “socialisti libertari”, che «declineranno il socialismo esclusivamente all’interno dei diritti civili e delle libertà, senza più occuparsi di strategie di governo».Il socialismo libertario, spiega Carperoro, era ciò che era rimasto di un’ulteriore scissione, quella di Mazzini: litigando con Garibaldi, l’ideologo del Risorgimento si era portato via «quel nucleo che poi diventerà l’area laica», repubblicani e Partito d’Azione). Ma, superata la tragedia della Prima Guerra Mondiale – intervisti, neutralisti – e poi il blackout planetario del nazifascismo, nel dopoguerra «dagli anni ‘70 in poi, l’unica direttiva che lentamente si afferma, nel socialismo, è quella socialdemocratica», alimentata anche dalla guerra fredda: nel fatidico 1956 il leader sovietico Khrushev alimenta grandi speranze con la denuncia dei crimini di Stalin, ma nello stesso anno non riesce a evitare la sanguinosa repressione della rivolta popolare scoppiata in Unghieria, replicata nel ‘68 con il soffocamento della “Primavera di Praga”. «In realtà – prosegue Carpeoro – si avvia quella che nel ‘70 si chiamerà “terza via”, cioè la possibilità di trovare una composizione della società, correggendone le deviazioni, verso una maggiore giustizia sociale: cosa che la socialdemocrazia europea considerava assolutamente irrinunciabile».E questa linea, particolarmente efficace perché moderata nelle forme quanto incisiva nei contenuti, «trova un eroe assolutamente straordinario», anche se è «un personaggio di cui non parla mai nessuno». Straordinario «da tutti i punti di vista (anche dal mio, perché era massone come me)», ammette Carpeoro, parlando di Olof Palme. «E’ stato uno dei personaggi più fulgidi del ‘900. Vi invito a leggere i suoi scritti, e soprattutto a rimetterlo sulle bandiere». Il leader svedese, intanto, «è la prima vittima di una congiura contro il socialismo». Attenzione: «Nell’arco di vent’anni, i grandi leader socialisti europei vengono tutti cancellati, in circostanze ambigue. Olof Palme viene ucciso mentre è presidente del Consiglio, in Svezia. E non è che ne sia parlato molto in Europa. Ancora oggi si parla di Che Guevara, non di Olof Palme. Ma è un eroe». E viene ucciso da killer rispetto ai quali «emergono connessioni con ambienti dell’estrema destra e anche, purtroppo, della massoneria: in un telegramma piuttosto equivoco, alla vigilia dell’attentato, Licio Gelli scrive a un parlamentare americano, Philip Guarino, che nel giro di pochi giorni “la palma svedese” sarebbe “caduta”, come la Svezia pullulasse di palme».Lo stesso Craxi, ricorda Carperoro, vinse lo storico congresso del Psi al Midas, da cui nacque la sua leadership, «con un programma che al 50% era quello di Olof Palme, che era il padre nobile di tutti questi socialisti europei». Poi ovviamente «ognuno è libero di considerare i seguaci degni o non degni, ma resta il fatto che Palme aveva dato un programma socialista all’Europa». Dopo il drammatico “avvertimento” rappresentato dall’omicidio di Stoccolma, nessuno dei seguaci di Palme gli sopravviverà – politicamente, quantomeno. «Craxi, in circostanze che non riesco a considerare nitide (e con tutti i suoi errori, certo) viene comunque rimosso dalla vita politica italiana. Poi viene rimosso Mitterrand, in Francia. E viene rimosso Schmidt in Germania, con uno scandaletto. E pensate che, dopo tutte queste concatenazioni nel giro di pochi anni, poi la si faccia casualmente, l’Europa unita, nel modo in cui è stata fatta?». Per Carpeoro, c’è poco da cianciare di complottismo: «Sono stati eliminati i vertici di un movimento politico che aveva un capofila importante».Palme, già attivissimo come leader del suo partito, ha poi svolto due mandati come presidente del Consiglio, in Svezia, «e il secondo l’ha fatto coram populo». Disse: «Io non sono contro il capitalismo, voglio solo tagliargli le unghie ogni tanto». E’ questo il ruolo del socialismo, sottolinea Carpeoro: «Per questo il socialismo è necessario, è indispensabile a questa società. Anche perché, senza socialismo (come, del resto, senza liberismo) questa società non può camminare. Deve avere due ruote, un polo conservatore e un polo progressista. E possibilmente, questi due poli devono essere talmente di qualità che il fatto che si possano alternare al potere deve dipendere solo dalle condizioni del momento». Il liberismo sfrenato? «Non ha fatto male, all’America, appena è stato introdotto da Reagan. Poi però ci si doveva fermare. Se qualcuno ti progetta un regime oligarchico ultraliberista e senza regole per vent’anni, ti vuoi meravigliare se poi il risultato sono le banche che saltano, i soldi che non viaggiano, l’economia che non gira? E’ una forma di staticità della società, e la società non può essere statica».Di fronte alla drastica possibilità di nazionalizzare le aziende, Olof Palme adottò una soluzione intermedia, ispirata alla teoria dell’economista Rudolf Meidner: una quota ai lavoratori, una quota di controllo allo Stato e una quota al privato. «Non per tutto: solo per le aziende in difficoltà. E ha funzionato, in Svezia. Il problema è che poi Palme l’hanno ammazzato». E in Italia? «Se avessero adottato lo schema Meidner, anche da noi, forse molte aziende in difficoltà sarebbero sopravvissute, e i sacrifici richiesti alle nostre maestranze sarebbero stati vissuti in maniera diversa». Non c’è bisogno di tornare all’antico, all’assistenzialismo dell’Iri, basterebbe la leva dei benefici fiscali, alla portata di uno Stato che possedesse quote di aziende. Perché nonè successo? «Perché noi non abbiamo avuto il coraggio di fare quello che Palme ha osato fare, in Svezia, dal ‘69 in poi». Rimettere mano, oggi, alla “contaminazione” socialista? Assolutamente sì, come stimolo ideologico: «Progetto e ideologia sono la stessa cosa: non puoi fare un progetto se non hai un’ideologia. E l’aver trasformato l’ideologia in un insulto è la riprova che a questo sistema, le cose che hanno idee, fanno paura. Il potere le teme, vuole cose senza idee. Vogliono un encefalogramma piatto come quello di Renzi, dove non ci sono onde».Hanno ucciso Olof Palme, il migliore dei leader, per assassinare il socialismo in Europa, intimidire e poi togliere di mezzo personaggi come Schmidt e Mitterrand (e volendo, lo stesso Craxi). Obiettivo: far stravincere l’oligarchia finanziaria e mettere in piedi l’attuale obbrobrio chiamato Unione Europea. Faceva paura, il premier svedese? Eccome: acerrimo avversario di ogni totalitarismo, in Svezia aveva varato un’economia mista, con quote di controllo allo Stato, nelle aziende, e quote di partecipazione assegnate ai lavoratori. Pragmatismo, coraggio. E soprattutto idee: «E’ di quelle che ha paura, il potere. Per questo ha trasformato la parola “ideologia” in una specie di insulto. Ma l’ideologia è il futuro, il progetto. E senza idee, non puoi fare nessun progetto». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo e romanziere, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, intervenuto in un recente convegno a Roma. L’occasione per una riflessione anche storica sull’eredità del socialismo: se la nostra società occidentale è ridotta così, alla solitudine dell’homo homini lupus, è perché è stato scientificamente, chirurgicamente asportato il virus benefico del socialismo. Anche con il terrorismo, e non da oggi.
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Harry Potter all’Eliseo: partiti (e cittadini) non servono più
Nei salotti mainstream campeggia la figura del nuovo Harry Potter francese sbucato dal nulla, il maghetto dei miracoli elettorali scaturito come un sortilegio con un’unica missione, sbarrare la strada dell’Eliseo a Marine Le Pen per tamponare la falla apertasi nell’euro-sistema dopo la defezione della Gran Bretagna. Umoristi e politologi si cimentano in suggestivi paragoni tra Macron e Renzi, l’uno “senza partito” e l’altro con al seguito il riottoso Pd, come se in Europa i partiti dell’establishment avessero prodotto un leader degno di tale nome, negli ultimi trent’anni. Partiti – tutti – fanatizzati (fronte destro) o infiltrati (fronte sinistro) dall’unico vero potere rimasto in campo, quello – non elettivo, non democratico, non responsabile – del Big Business, multinazionali finanziarizzate, cupole bancarie, retrobottega supermassonici internazionali alle prese, dagli anni ‘80, con le ininterrotte alchimie globaliste, fondate su rivoluzioni invisibili ma inarrestabili: lavoro e consumi, stili di vita, nuove tecnologie e colossali speculazioni, manipolazioni mediatiche e terremoti geopolitici regolarmente pilotati, fino all’abominio (indicibile) dell’auto-terrorismo funzionale alla “guerra infinita” con la sua filiera dell’orrore, dai super-armamenti al subdolo super-spionaggio di massa inflitto agli ignari cittadini, tra email e smartphone.E’ la fotografia – inquietante – che ormai scattano, sul fronte web, gli analisti più critici e pessimisti, allarmati da quello che appare uno scenario quotidiano di guerra, alimentato da crisi continue (economiche, finanziarie, climatiche, demografiche) e devastazioni sempre più dirompenti, di cui l’esodo biblico dei migranti sembra solo la vetta di un iceberg che persino gli osservatori meglio documentati faticano a misurare per intero, data la sua imponderabile vastità, in continua evoluzione. Un terremoto costante, senza più argini da parte di alcuna istituzione: il diritto internazionale sembra un residuato archeologico, smarrito nel feroce caos quotidiano, tra proiezioni, statistiche e “fake news” televisive, dove nessuno sembra in grado allungare davvero lo sguardo nemmeno sul semestre seguente, nell’unica certezza che il potere – quello dei veri decisori – sia lontanissimo, irraggiungibile e neppure coeso, ma dilaniato al suo interno da scontri durissimi. Guerre segrete senza quartiere, di cui al pubblico, qualche volta, può arrivare soltanto l’eco. Nonostante questo, si recita – ancora – lo spettacolo delle elezioni, la democrazia rappresentativa, che sa ancora generare fenomeni di auto-ipnosi fino alla tifoseria, dalla Brexit al referendum italiano, dal voto per la Casa Bianca a quello per la presidenza francese.I soliti esperti si affrettano a dichiarare chiusa la partita, in Francia, con la scontata vittoria di Macron, mentre altri osservatori – come il direttore di “Limes”, Lucio Caracciolo – preferiscono la prudenza: messi insieme, i due candidati antisistema (Le Pen e Mélenchon) sono il “primo partito” francese, e non è detto che i grandi sconfitti del primo turno riescano a far convergere i loro voti sul “maghetto” dei Rothschild. Che cosa poi riuscirebbe davvero a fare la Le Pen, se eletta, non è dato immaginarlo. Se non altro, il suo Front National è un super-partito a tutto tondo, tradizionale, fatto di sezioni e votazioni congressuali. Un “luogo della democrazia” dove il consenso cresce per gradi, confrontando opzioni e programmi. Cioè esattamente quello che è andato scomparendo altrove, dall’ectoplasma post-politico del Pd renziano fino all’estremo esperimento “apartitico” di Macron, che celebra l’estinzione definitiva dell’entità-partito come ponte, teorico e pratico, tra il cittadino e l’istituzione. Sembra il compimento del Vangelo di Lewis Powell, 1971: svuotare la democrazia per demolire la sinistra dei diritti sociali, da cui l’azione della Trilaterale e i cantori della “crisi della democrazia”. Un piano inclinato, inesorabile: la Guerra del Golfo, e l’11 Settembre, il Medio Oriente trasformato in inferno per profughi. Fino alla follia della guerra con la Russia, subita da un’Europa letteralmente frastornata, messa in croce dall’Eurozona.Rassegnatevi: i partiti non servono, non serviranno più. E’ il messaggio che proviene dal mezzo successo francese di Macron. Mettetevi l’anima in pace: è finita per sempre l’epoca delle assemblee, dei delegati. E’ già nella spazzatura della storia, insieme ai sindacati. E in Italia, la presunta alternativa in campo – il Movimento 5 Stelle – è guidato da un leader che licenzia chiunque non gli piaccia. Non è mai stato celebrato un solo congresso. Le periodiche votazioni, che pure avvengono, si svolgono online. E chi partecipa può scegliere solo in base a un menù predefinito, a monte, da un vertice-fantasma che nessuno ha eletto. L’avatar Macron è il futuro che ci aspetta? Certamente sì, scommettono i più esasperati, se i cittadini non si decidono a riappropriarsi della loro sovranità essenziale, fondata sulla partecipazione. Gli strumenti di ieri sono tutti caduti, archiviati, rottamati. Per contro, cresce la frustrazione degli esclusi, che sospettano di essere ormai la grande maggioranza. Un vastissimo popolo, ancora immobile. Strattonato dalle crisi a testata multipla – lavoro, sicurezza – e intimidito ogni giorno da notizie spaventose, attentati, previsioni angoscianti. La scomparsa del futuro è ormai spacciata per normalità. Il calcio tiene ancora banco, più che mai. E nelle tabaccherie furoreggia il Superenalotto. C’è chi sostiene che i grandi decisori siano inquieti, che temano la rabbia dei delusi, elettoralmente espressa dai cosiddetti populismi. Ma basta fare un giro su Facebook, su WhatsApp, per scoprire che non ci sono rivoluzioni culturali in vista.Nei salotti mainstream campeggia la figura del nuovo Harry Potter francese sbucato dal nulla, il maghetto dei miracoli elettorali scaturito come un sortilegio con un’unica missione, sbarrare la strada dell’Eliseo a Marine Le Pen per tamponare la falla apertasi nell’euro-sistema dopo la defezione della Gran Bretagna. Umoristi e politologi si cimentano in suggestivi paragoni tra Macron e Renzi, l’uno “senza partito” e l’altro con al seguito il riottoso Pd, come se in Europa i partiti dell’establishment avessero prodotto un leader degno di tale nome, negli ultimi trent’anni. Partiti – tutti – fanatizzati (fronte destro) o infiltrati (fronte sinistro) dall’unico vero potere rimasto in campo, quello – non elettivo, non democratico, non responsabile – del Big Business, multinazionali finanziarizzate, cupole bancarie, retrobottega supermassonici internazionali alle prese, dagli anni ‘80, con le ininterrotte alchimie globaliste, fondate su rivoluzioni invisibili ma inarrestabili: lavoro e consumi, stili di vita, nuove tecnologie e colossali speculazioni, manipolazioni mediatiche e terremoti geopolitici regolarmente pilotati, fino all’abominio (indicibile) dell’auto-terrorismo, funzionale alla “guerra infinita” con la sua filiera dell’orrore, dai super-armamenti al subdolo super-spionaggio di massa inflitto agli ignari cittadini, tra email e smartphone.
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“Élite satanista, mi han coinvolto nel ’sacrificio’ di bambini”
Sacrifici umani – vittime, i bambini – per poi ricattare a vita i partecipanti, membri della super-élite finanziaria internazionale. E’ il contenuto della scioccante video-intervista realizzata dalla giornalista olandese Irma Schiffers per il network indipendente “De Vrije Media Tv”. Nel filmato, pubblicato su YouTube, a vuotare il sacco è un uomo dall’aspetto giovanile, il connazionale Ronald Bernard, esperto in “psicologia della finanza”, settore che si occupa della “persuasione del cliente”. Decisamente scosso, Bernard, quando rievoca l’esperienza che sostiene di aver vissuto: si sarebbe rifiutato, all’ultimo istante, di abusare di minori, durante riti “satanici” organizzati da esponenti, insospettabili, del massimo potere. Gli occhi gli si riempiono di lacrime. «Bambini…», dice, a mezza voce. Sembra sconvolto, al ricordo. «Ti è stato chiesto di farlo?», gli domanda l’intervistatrice. «Sì, ma io non ho potuto». S’interrompe, non riesce quasi più a parlare. Poi si riprende: la sua coscienza, dice, si è come «scongelata», e allora ha detto di no. «Quando si entra così profondamente in queste cerchie – racconta – ti fanno firmare un contratto a vita: non devi divulgare i nomi delle imprese, delle organizzazioni o delle persone. Penso sia per questo che sono ancora in vita», sostiene Bernard, che infatti si guarda bene dal fare nomi.La sua lunghissima intervista, sottotitolata in francese e tradotta in italiano sul blog di Maurizo Blondet, illumina retroscena allucinanti come quelli esplorati dal romanzo “Nel nome di Ishmael”, per il quale l’autore – Giuseppe Genna – ricevette complimenti da Francesco Cossiga, che al telefono gli disse: «Bravo, Genna. Vedo che ha capito come funziona, quel sistema». La trama del romanzo “svela” un’organizzazione segreta, Ishmael, dietro cui si celano i vertici del potere planetario: economia, finanza, politica, militari, servizi segreti. Il loro “metodo”? Assassinare leader scomodi, facendo precedere l’attentato dal sistematico ritrovamento del cadavere di un bambino, a volte anche neonato, orribilmente abusato e “sacrificato”. «La maggior parte di quelle persone – dice oggi l’olandese Bernard – aderisce a una religione speciale», che lui chiama “luciferina”. Nel 2016, fece scalpore – in Svizzera – la sconcertante performance “artistica”, musicale e multimediale, messa in scena per l’inaugurazione del traforo ferroviario del Gottardo: una coreografia spettacolare, con decine di figuranti dall’aspetto sub-umano, ridotti a schiavi, in adorazione di un dio-caprone. Il tutto, sotto lo sguardo impassibile delle massime autorità europee.«Io ero in contatto con questi circoli, queste reti», racconta Bernard alla Schiffers. «Per me non erano che clienti», spiega. «Quindi ho frequentato dei posti chiamati “Chiesa di Satana”», ma solo «come visitatore: un invitato, lasciato in disparte». E quelli? «Facevano le loro “sante messe” con donne nude e alcolici». All’epoca, continua l’olandese, «tutto questo semplicemente mi ha divertito». Niente di serio, insomma. Ma poi, un giorno, Bernard racconta di esser stato «invitato, all’estero, a partecipare a dei sacrifici». E qui l’uomo comincia a crollare: parla di bambini, dichiara di esserne rimasto sconvolto. Fra interruzioni, imbarazzi e commozione, lascia capire di essersi rifiutato di partecipare a qualcosa di abominevole. «Dopo questo, ho cominciato lentamente a crollare». Eppure, dice, quello era il mondo nel quale si era trovato: «Così ho iniziato a rifiutare incarichi professionali: non potevo più eseguirli». Il suo rifiuto, dice, l’ha messo in pericolo: «Questo ha fatto di me una minaccia – per loro, ovviamente. Non riuscivo più a funzionare in modo ottimale, vacillavo, rifiutavo alcuni compiti. Non avevo partecipato…».Lo scopo di quei riti tenebrosi? «E’ di tenere tutti in pugno, col ricatto. Devi poter essere soggetto al ricatto. E lo fanno attraverso i bambini. Questo mi ha sconvolto», scandisce Ronald Bernard, tra le lacrime. «Purtroppo – aggiunge – la verità è che ciò avviene nel mondo intero, e da migliaia di anni». Il finanziere olandese cita la Bibbia e parla di Satana, aggiungendo di aver studiato teologia «per dare un senso a tutto questo», dopo esser stato un “numero uno” in tutt’altro campo, quello della “psicologia delle masse” applicata al business: «Ero capace di manipolare le situazioni a mio vantaggio». L’intervistatrice evoca il Tavistock Institute, il controllo mentale, progetti Cia come l’Mk-Ultra. Bernard annuisce: «Sì, esattamente, ma questo fa parte del mio lavoro». E spiega: «Quando fate transazioni, dovete anche manipolare i media; dovete manipolare molte cose, perché niente può essere lasciato al caso. Tutto è falsato. Ci si abitua a vedere la gente come un gregge di pecore. Usate qualche cane da pastore per mandarle dove volete voi. E francamente, vedo che questo continua dappertutto. La gente non capisce di essere manipolata, è completamente assorbita in un meccanismo di sopravvivenza – e questo è programmato. E scoprite com’è facile, manipolare le masse in una direzione, quando a tirare i fili siete voi».Puro cinismo, nel super-vertice evocato dal “pentito” Bernard: in quei circoli esclusivi, dice, «noi le persone le mastichiamo: sono solo un prodotto, spazzatura». E così tutto il resto: «La natura, il pianeta, tutto può bruciare, tutto per noi può essere distrutto: sono solo parassiti inutili. Servono solo a farci crescere, a farci raggiungere i nostri obiettivi». I super-malvagi, secondo Bernard, agiscono per odio puro, in purezza ascetica e fanatica: odio per il genere umano, la natura, la “creazione”. Devastazioni orrende, a ogni livello – dal “sacrificio” di minori a quello, economico, di interi popoli – compiute come fossero “offerte votive” per la contro-divinità a cui questa oligarchia sarebbe devota. «Sono pochi quelli che non sottovalutano la gravità di tutto questo», insiste Bernard. «Perché questa è una forza annientatrice, che odia l’umanità. Odia la creazione, odia la vita. E farà di tutto per distruggerci completamente. E il loro modo per farlo è dividere l’umanità: “divide et impera” è la loro verità». Bernard denuncia il largo impiego dei servizi segreti, per produrre terrorismo e guerre allo scopo di «creare una quantità di sofferenza e miseria in questo mondo».Traffico di droga, di armi e anche di esseri umani: sono metodi, dice ancora Bernard, attraverso i quali si implementano i fondi neri delle strutture di intelligence incaricate di organizzare “l’inferno in Terra”. Dice: «L’intero mondo che crediamo di conoscere è una illusione». Quello che «ci vien fatto credere», aggiunge, è integralmente falso. Lui sostiene di averlo scoperto grazie al tiopo di lavoro che ha svolto. «Tutto è finanziato», insiste, alludendo per esempio all’Isis. «C’è tutto un mondo invisibile», dice Bernard, che ammette di aver da poco “scoperto” i Protocolli dei Savi di Sion, storico falso documentale, fabbricato per alimentare l’antisemitismo. Un capolavoro di manipolazione, fabbricato in Russia dall’Okhrana, la polizia segreta zarista, e pubblicato nel 1903. Dopo oltre un secolo, Ronald Bernard lo trova interessante: «Se lo studi e lo capisci, è come leggere il giornale della vita quotidiana». Ma, a parte le anticaglie del razzismo europeo pre-hitleriano, il finanziere olandese che denuncia i “riti satanici” dell’élite, col “sacrificio dei bambini”, appare sinceramente scosso e allarmato: «La gente non si difende, non si oppone. Non capisce cos’è davvero la realtà». Ancora, cita il Satana della Bibbia, ormai demistificato dall’esegesi: nell’Antico Testamento, il “satàn” era un ruolo sociale, quello dell’oppositore giudiziale, nel caso di controversie. Questo però non toglie che, ai piani alti del potere, si possa credere che esista davvero, il “principe del male”: cui magari “sacrificare” innocenti?Sacrifici umani – vittime, i bambini – per poi ricattare a vita i partecipanti, membri della super-élite finanziaria internazionale. E’ il contenuto della scioccante video-intervista realizzata dalla giornalista olandese Irma Schiffers per il network indipendente “De Vrije Media Tv”. Nel filmato, pubblicato su YouTube, a vuotare il sacco è un uomo dall’aspetto giovanile, il connazionale Ronald Bernard, esperto in “psicologia della finanza”, settore che si occupa della “persuasione del cliente”. Decisamente scosso, Bernard, quando rievoca l’esperienza che sostiene di aver vissuto: si sarebbe rifiutato, all’ultimo istante, di abusare di minori, durante riti “satanici” organizzati da esponenti, insospettabili, del massimo potere. Gli occhi gli si riempiono di lacrime. «Bambini…», dice, a mezza voce. Sembra sconvolto, al ricordo. «Ti è stato chiesto di farlo?», gli domanda l’intervistatrice. «Sì, ma io non ho potuto». S’interrompe, non riesce quasi più a parlare. Poi si riprende: la sua coscienza, dice, si è come «scongelata», e allora ha detto di no. «Quando si entra così profondamente in queste cerchie – racconta – ti fanno firmare un contratto a vita: non devi divulgare i nomi delle imprese, delle organizzazioni o delle persone. Penso sia per questo che sono ancora in vita», sostiene Bernard, che infatti si guarda bene dal fare nomi.
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Magaldi: 25 aprile, niente da festeggiare. Nemmeno a Parigi
«Come si fa a celebrare il 25 aprile, continuando a restare indifferenti alla macelleria sociale in atto e allo svuotamento della democrazia?». Gioele Magaldi considera «stucchevole retorica» quella che si nasconde in tanta ipocrisia, riproposta in salsa “antifascista” ma senza spendere una parola sul “totalitarismo” di oggi, quello dell’élite tecnocratica e finanziaria che sta spolpando l’Italia e l’Europa. Piuttosto, bisognerebbe creare le condizioni per poter «celebrare la liberazione di oggi e quella di domani», di cui peraltro non ci sono avvisaglie nemmeno nella Francia che ha appena piazzato Emmanuel Macron in “pole position”, in vista del ballottaggio per le presidenziali del 7 maggio. Macron, il canditato dell’élite targato Rothschild? «Farà piangere i francesi: sarà anche peggio di Sarkozy e Hollande, di cui è il perfetto continuatore». Il problema? Sta nel sistema politico transalpino, giunto alla paralisi: partiti che si annullano a vicenda, tutti fermi attorno al 20%, mentre l’unica vera alternativa in campo – Marine Le Pen – fa ancora troppa paura, nonostante i lodevoli sforzi per far dimenticare il passato fascistoide del Front National. Verdetto già scritto, dunque: «Vincerà Macron, gli avversari della Le Pen giocheranno sul velluto. Ed è una pessima notizia, per i francesi».Un vero peccato, aggiunge Magaldi, in collegamento con David Gramiccioli di “Colors Radio”, perché Marine Le Pen «ha compiuto una grande evoluzione, decisamente apprezzabile: il Front National non è più quello di un tempo, si è laicizzato, anche al prezzo del duro scontro con il fondatore Jean-Marie Le Pen, padre di Marine». Magaldi è autore del saggio “Massoni” e presiede il Movimento Roosevelt, soggetto “metapartitico” che ora guarda con interesse a Michele Emiliano, condividendo le critiche al sistema Ue e l’apertura al dialogo con i 5 Stelle. «Io rispetto Marine Le Pen», insiste: «Trovo condivisibili alcune sue idee, altre meno. Certo, non l’avrei votata. Ma meno che mai avrei votato per Macron, canditato accuratamente “fabbricato” lasciare la situazione della Francia esattamente com’è». In questo, ammette Magaldi, bisogna “ringraziare” anche le massonerie transalpine, coalizzate contro la Le Pen «per via di antiche ruggini tra la libera muratoria e la destra nazionalista francese». Ripensamenti, tra i grembiulini? Magaldi lo spera: «Data la sconfitta dei raggruppamenti tradizionali, destra e sinistra, forse si avvicina la possibilità di nuove alchimie. E conto molto sul fatto che parecchi massoni, finora sul fronte conservatore, cambino idea e si schierino con i progressisti». Ma il futuro immediato resta grigio.Per Magaldi, paradossalmente, l’Italia è messa meno peggio: pur nel suo caos, il Belpaese potrebbe partorire idee e soluzioni rompendo vecchi schemi, operazione che in Francia, invece, sembra ancora impossibile. «Dell’enorme frammentazione politica – dice – può stupirsi solo chi non ha seguito il sistematico, scientifico disgregarsi della proposta politica socialista, defintivamente naufragata con l’imprensentabile Hollande». L’attuale candidato socialista, «il povero Benoît Hamon», ha tentato di giocare in conttrotendenza «rispolverando temi da sinistra radicale, istanze sociali avanzate, come del resto aveva fatto lo stesso Hollande, all’epoca». E’ colpa di Hollande, non di Hamon, se il Ps è stato umiliato con appena il 6,3% dei voti. «Hollande – continua Magaldi – si era candidato come campione anti-merkeliano per un diverso paradigma europeo. Poi invece ha tradito il patto col popolo e si è ridotto al ruolo di cagnolino, di pecorone: peggio ancora di Sarkozy, che almeno aveva espresso una sua personalità precisa». E’ così che si è arrivati a Macron, continua Magaldi: il candidato “made in Rotschild” «non regala fremiti, non ha alcun appeal: è stato costruito a tavolino, sapientemente, con grandi finanziamenti».Obiettivo dell’operazione-Macron: portare all’Eliseo una fotocopia dei predecessori, entrambi proni ai voleri del super-potere finanziario europeo. Macron sarebbe un docile continuatore del sedicente neogollista Sarkozy e del finto-socialista Hollande: prolungherebbe la politica di rigore, senza soluzione di continuità. «Ma se il sistema politico francese è così bloccato – aggiunge Magaldi – la responsabilità è anche di Marine Le Pen: se l’alternativa all’euro-sistema dei diktat è lei, alla fine la maggioranza le preferità Macron, come quando gli elettori si coalizzarono e votarono Chirac, turandosi il naso, pur di sbarrare la strada a Jean-Marie Le Pen». Se la signora del Front National non è ancora abbastanza rassicurante per la maggioranza dei francesi, tantomeno – e lo si è visto al primo turno – lo sono gli uomini del Ps: «Per avere un progetto politico vincente e percepito come appetibile – conclude Magaldi – bisogna creare tutt’altra narrazione, lontana anni luce dall’atteggiamento fasullo e fellone dei socialisti francesi». Morale: «Dopo aver avuto Hollande per cinque anni, con Macron il malinteso continuerà: e per i francesi ci sarà ancora più da piangere».«Come si fa a celebrare il 25 aprile, continuando a restare indifferenti alla macelleria sociale in atto e allo svuotamento della democrazia?». Gioele Magaldi considera «stucchevole retorica» quella che si nasconde in tanta ipocrisia, spesso riproposta in salsa “antifascista” ma senza spendere una parola sul “totalitarismo” di oggi, quello dell’élite tecnocratica e finanziaria che sta spolpando l’Italia e l’Europa. Piuttosto, bisognerebbe creare le condizioni per poter «celebrare la liberazione di oggi e quella di domani», di cui peraltro non ci sono avvisaglie nemmeno nella Francia che ha appena piazzato Emmanuel Macron in “pole position”, in vista del ballottaggio per le presidenziali del 7 maggio. Macron, il candidato dell’élite targato Rothschild? «Farà piangere i francesi: sarà anche peggio di Sarkozy e Hollande, di cui è il perfetto continuatore». Il problema? Sta nel sistema politico transalpino, giunto alla paralisi: partiti che si annullano a vicenda, tutti fermi attorno al 20%, mentre l’unica vera alternativa in campo – Marine Le Pen – fa ancora troppa paura, nonostante i lodevoli sforzi per far dimenticare il passato fascistoide del Front National. Verdetto già scritto, dunque: «Vincerà Macron, gli avversari della Le Pen giocheranno sul velluto. Ed è una pessima notizia, per i francesi».
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Marco Bersani: questa élite non tollera più la democrazia
«Solo uno shock trasforma il socialmente impossibile in politicamente inevitabile». Con questo aforisma, il padre del neoliberismo, Milton Friedman, salutò il colpo di stato militare in Cile, attuato dal generale Augusto Pinochet l’11 settembre 1973 per rovesciare il governo socialista di Salvador Allende, democraticamente eletto tre anni prima. «Dei fatti di quegli anni, dal punto di vista della violazione dei diritti umani, conosciamo quasi tutto; ciò che è meno noto è che quel golpe fu la premessa (lo shock, appunto) per la prima sperimentazione sul campo delle teorie economiche liberiste della scuola di Chicago, di cui Friedman era il massimo esponente», ricorda Marco Bersani, convinto che, ormai, «il liberismo non ha più bsogno della democrazia», ormai divenuta «un ostacolo da erodere». Perché risalire a quei fatti per spiegare l’oggi? «Perché quella storia “parla” al nostro presente», scrive Bersani sul sito di “Attac Italia”. «Oggi, nel pieno della crisi economico-finanziaria globale che ha investito direttamente il continente europeo, il proliferare di poteri “tecnici”, con l’obiettivo della piena applicazione delle politiche monetariste volute dalle grandi lobby del capitale finanziario, è palpabile in tutte le scelte imposte ai popoli europei».Questa svolta, continua Marco Bersani, evidenzia «la necessità di una riflessione molto profonda sulla relazione tra politiche liberiste e democrazia, nesso sinora dato per scontato e immodificabile». In questo senso, aggiunge, «sarà utile tenere a mente come l’atto di nascita delle teorie economiche liberiste sia avvenuto esattamente attraverso la feroce distruzione della democrazia, elemento che depone molto più a favore di una relazione di contingenza, piuttosto che di consustanzialità fra le stesse». D’altronde, secondo lo stesso Bersani, di paradossi come questo è piena la storia: «I banchieri creditori furono i primi a salutare la nascita della democrazia parlamentare nei Paesi Bassi durante il Rinascimento, e in Gran Bretagna dopo la rivoluzione del 1688, perché, contrariamente alle epoche precedenti, nelle quali i debiti erano appannaggio di principi e sovrani e divenivano inesigibili con la loro morte, il fatto che i parlamenti potessero contrarre debiti pubblici per conto dello Stato rendeva perennemente esigibili gli accordi e i contratti stipulati».Come scrisse Richard Eherenberg, storico del Rinascimento, «chiunque forniva crediti a un principe sapeva che il rimborso del debito dipendeva solo dalla capacità e dalla volontà del debitore di pagare». Il caso, continua Eherenberg, era molto diverso per le città, che avevano potere quanto i nobili, ma anche per le corporazioni, per le associazioni di individui uniti da interessi comuni. «Secondo una norma generalmente accettata, ogni singolo cittadino era responsabile per i debiti della città, sia con l’esposizione della sua persona che delle sue proprietà». Naturalmente, sottolinea Bersani, la finanza si conforma alla democrazia per poi premere per un sistema oligarchico. “Not with tanks, but with banks”, ovvero: «Ciò che in Cile fu reso possibile dai carri armati, oggi viene realizzato attraverso la finanziarizzazione e la trappola “shock” del debito». Visto che l’enorme massa di denaro accumulata sui mercati finanziari in questi anni «ha stringente necessità di essere reinvestita», e dato che «i terreni di valorizzazione possibili sono quelli relativi alla deregolamentazione del lavoro, alla dismissione del patrimonio, alla privatizzazione dei servizi pubblici», ciò che le lobby finanziarie si propongono è «un processo di espropriazione totale di diritti e beni comuni, che poco si può accompagnare con il mantenimento di modelli di decisionalità basati sulla democrazia».Per la banca d’affari Jp Morgan, «i sistemi politici dei paesi europei del Sud e in particolare le loro Costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l’integrazione». L’attacco alla democrazia, richiamato dalla Jp Morgan nel 2013, secondo Marco Bersani è particolarmente evidente con i trattati di libero commercio (Ttip, Ceta), attraverso i quali si tenta il passaggio definitivo dallo Stato di diritto a quello di mercato, permettendo alle grandi multinazionali di non rispondere – impugnandole davanti a una corte arbitrale internazionale – alle leggi promulgate dai parlamenti nazionali. E questa tendenza «è altrettanto chiara nella progressiva erosione degli spazi democratici». Si manifesta a livello locale, «con sindaci che, da garanti dei diritti di una comunità, ne diventano gli sceriffi addetti al controllo sociale delle fasce di popolazione “indecorose”», ma anche sul piano nazionale, «con l’accentramento dei poteri sui governi, invece che sulle assemblee elettive: era questo il disegno “costituzionale” di Renzi, seppellito da una valanga di “No”». Fenomeno ancor più vistoso a livello europeo, «con il commissariamento di fatto di ogni scelta di politica economica e sociale, attraverso i vincoli finanziari di Maastricht e del Fiscal Compact».Tutto ciò, continua Bersani, produce un paradossale circolo vizioso: «Più la democrazia viene erosa, più aumenta la separatezza tra politica istituzionale e società, producendo una forte disaffezione sociale verso la “casta”, più quest’ultima può continuare a perseguire la strada dell’oligarchia al servizio dei grandi interessi finanziari». Per questo, conclude, oggi ogni lotta per la riappropriazione sociale «deve porsi il doppio obiettivo della “socializzazione della politica” e della “politicizzazione della società”». Ovvero: deve «porre con forza, da una parte, la riappropriazione di ogni spazio di democrazia diretta e dal basso e dall’altra, premere per un salto culturale e di qualità delle lotte dei movimenti sociali, che devono inserire, nelle proprie rivendicazioni “specifiche”, gli aspetti sistemici contro l’economia del debito e per una nuova democrazia reale».«Solo uno shock trasforma il socialmente impossibile in politicamente inevitabile». Con questo aforisma, il padre del neoliberismo, Milton Friedman, salutò il colpo di stato militare in Cile, attuato dal generale Augusto Pinochet l’11 settembre 1973 per rovesciare il governo socialista di Salvador Allende, democraticamente eletto tre anni prima. «Dei fatti di quegli anni, dal punto di vista della violazione dei diritti umani, conosciamo quasi tutto; ciò che è meno noto è che quel golpe fu la premessa (lo shock, appunto) per la prima sperimentazione sul campo delle teorie economiche liberiste della scuola di Chicago, di cui Friedman era il massimo esponente», ricorda Marco Bersani, convinto che, ormai, «il liberismo non ha più bisogno della democrazia», ormai divenuta «un ostacolo da erodere». Perché risalire a quei fatti per spiegare l’oggi? «Perché quella storia “parla” al nostro presente», scrive Bersani sul sito di “Attac Italia”. «Oggi, nel pieno della crisi economico-finanziaria globale che ha investito direttamente il continente europeo, il proliferare di poteri “tecnici”, con l’obiettivo della piena applicazione delle politiche monetariste volute dalle grandi lobby del capitale finanziario, è palpabile in tutte le scelte imposte ai popoli europei».
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Attali, supermassone oligarchico: Macron, una mia creatura
Emmanuel Macron è una mia creatura, rivela. E sottolinea: «Sono molto felice. Il suo primo posto è un risultato insperato fino a poche settimane fa». Autore dell’esternazione: Jacques Attali, uomo-ombra del vero potere europeo, tra i massimi strateghi (sul versante francese) del sistema euro-Ue. Paolo Barnard lo ha definito «il maestro di Massimo D’Alema, che quand’era a Palazzo Chigi si vantò di aver realizzato il record di privatizzazioni, in Europa». Per un ex consigliere di Mitterrand come l’insigne economista Alain Parguez, Attali «è sempre stato un monarchico, travestito da socialista». Frase celebre, a lui attribuita: «Cosa credono, che l’euro l’abbiamo creato per la felicità della plebaglia europea?». A chiudere il cerchio è Gioele Magaldi, che nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014) dichiara che Attali milita nella Ur-Lodge “Three Eyes”, emblema della supermassoneria internazionale reazionaria, incarnata da personalità come quelle di Kissinger e Rockefeller. Nell’appendice di “Massoni”, uno dei quattro “grandi vecchi” che svelano il ruolo di Mario Monti, inviato in Italia nel 2011 per commissariare il paese su ordine dell’oligarchia finanziaria, ricorda da vicino il profilo di Attali, che in quelle pagine si dichiara pentito dell’accelerazione neo-feudale e ultraliberista imposta alla politica europea.Lo stesso Attali, nel 2016, è arrivato a invocare, per l’Europa, un’inversione di rotta in senso keynesiano e roosveltiano: stop al rigore, fine dell’austerity. E adesso annuncia che, se arrivasse all’Eliseo, il suo pulillo Macron (già finanziere dei Rothschild) sarebbe «un grande presidente». Se Emmanuel Macron si è affacciato alla politica ed è diventato prima consigliere dell’Eliseo, poi ministro e adesso probabile presidente della Repubblica, lo deve a Jacques Attali, scrive Stefano Montefiori sul “Corriere della Sera”: «Economista, saggista e romanziere, Attali fu uno degli uomini più vicini a François Mitterrand e ha sempre coltivato un gusto bipartisan che nel 2008 lo portò a collaborare anche con l’allora presidente Nicolas Sarkozy». Per redigere il rapporto “Liberare la crescita”, contnua il “Corriere”, Attali «si avvalse dell’aiuto di un giovane, brillante e sconosciuto prodotto dell’Ena, la scuola dell’élite francese: Emmanuel Macron». E ora, a pochi minuti dall’annuncio dei risultati, il 73enne Attali parla con un certo orgoglio del suo “enfant prodige”. «L’unico pericolo, adesso – dice Attali – è pensare che sia già finita», mentre la partita del ballottaggio «bisognerà giocarla con intelligenza e attenzione alle ragioni dell’altra Francia, quella che esiste e che ha votato per Le Pen».Attali si dichiara «molto colpito dal fatto che abbiano tutti, tranne Mélenchon, fatto dichiarazione di voto per Macron contro Marine Le Pen». E’ la riedizione di una sorta di «fronte repubblicano contro l’estrema destra». Un’alleanza che potrebbe aiutare Macron, qualora eletto il 7 maggio, a trovare una maggioranza in Parlamento, «visto l’allineamento di tanti leader degli altri partiti, da Fillon a destra a Hamon a sinistra». Secondo Attali, «gli elettori di Marine Le Pen sperano nel ritorno a un’epoca che non esiste più, e che non potrà mai più tornare». E’ il globalista, che parla: «Il mondo interconnesso è una realtà irreversibile». Ma, aggiunge l’ex quasi-socialista Attali: «Macron può contribuire a governarlo e non subirlo». Le maggiori qualità di Macron? «Molto competente, serio, intelligente, aperto, capace di ascoltare gli altri e quindi in grado di prendere il meglio da chiunque, che sia di destra o di sinistra». Il rilancio della Francia? «La scuola, in particolare quella materna, e poi le misure per formare e rimettere nel mondo del lavoro i troppi disoccupati che ancora ci sono». Il suo sussidio per i disoccupati «non è assistenzialismo, è formazione seria per renderli in grado di trovare un posto».Centrale, per l’ultra-europeista Attali, «l’idea di puntare sull’Europa a partire dalla difesa comune, che è un progetto ormai pronto a essere varato», nonostante quello che definisce «il disastro rappresentato dalla Brexit», nonostante tutti gli indicatori economici raccontino che il Regno Unito stia letteralmente “volando”, dopo essersi sganciato dall’Ue, sia in termini finanziari che sul piano della crescita dei posti di lavoro. Ma Attali punta ancora e sempre sulla sua creatura, l’Unione Europea, che di fatto ha messo in crisi tutti i paesi che ne fanno parte, tranne la Germania. «Distruggere il polo di potere rappresentato dall’Unione Europea», dice, «andrebbe a vantaggio delle altre sfere di influenza, e per ogni singolo paese europeo sarebbe una catastrofe». Nel frattempo, in attesa del verdetto finale degli elettori, Attali si gode la “pole position” di Macron al primo turno: dopo quello studio economico realizzato insieme, racconta, «sono stato io a presentarlo a François Hollande nel 2010, e quando Hollande è diventato presidente lo ha chiamato come consigliere». Gongola, l’anziano Attali: «Devo riconoscere che provo un certo orgoglio nell’avere capito per primo che Emmanuel era un ragazzo di grandi qualità».Il “coming out” di Attali nei confronti di Macron, uomo dei Rothschild, finisce per sottolineare, ancora una volta, il ruolo probabilmente decisivo, nel “back-office” del potere, svolto dalle 36 Ur-Lodges (logge madri, internazionali e apolidi) di cui parla Magaldi, che ha ripetutamente indicato l’appartenenza di Giorgio Napolitano alla “Three Eyes” (la stessa di Attali) insieme all’attuale ministro dell’economia Pier Carlo Padoan. Della “Three Eyes” farebbero parte anche Mario Draghi, Gianfelice Rocca (Techint) e Giuseppe Recchi (costruzioni), Marta Dassù (Finmeccanica), Enrico Tommaso Cucchiani (banchiere, già a capo di Intesa Sanpaolo) e l’ex ministra renziana Federica Guidi. Altri circuiti della stessa supermassoneria neo-conservatrice sarebbero rappresentati da Ur-Lodges come la “Babel Tower” (Mario Monti), la “Compass Star-Rose” (Fabrizio Saccomanni, Massimo D’Alema, Vittorio Grilli), la “Edmund Burke” (Domenico Siniscalco, Ignazio Visco), la “Atlantis-Aletheia” (Corrado Passera), la “Pan-Europa” (Alfredo Ambrosetti, Emma Marcegaglia”). In Francia, sempre secondo Magaldi, il presidente uscente François Hollande milita in due circuiti supermassonici “progressisti”, la Ur-Lodge “Ferdinand Lassalle” e la “Fraternité Verte”, che però avrebbe deluso, “tradendo” il mandato iniziale (porre fine all’austerity) a causa di minacce e blandizie. Ora è in campo Macron, che è “en marche” insieme ai Rothschild e alla “Three Eyes” del suo mentore Attali.Emmanuel Macron è una mia creatura, rivela. E sottolinea: «Sono molto felice. Il suo primo posto è un risultato insperato fino a poche settimane fa». Autore dell’esternazione: Jacques Attali, uomo-ombra del vero potere europeo, tra i massimi strateghi (sul versante francese) del sistema euro-Ue. Paolo Barnard lo ha definito «il maestro di Massimo D’Alema, che quand’era a Palazzo Chigi si vantò di aver realizzato il record di privatizzazioni, in Europa». Per un ex consigliere di Mitterrand come l’insigne economista Alain Parguez, Attali «è sempre stato un monarchico, travestito da socialista». Frase celebre, a lui attribuita: «Cosa credono, che l’euro l’abbiamo creato per la felicità della plebaglia europea?». A chiudere il cerchio è Gioele Magaldi, che nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014) dichiara che Attali milita nella Ur-Lodge “Three Eyes”, emblema della supermassoneria internazionale reazionaria, incarnata da personalità come quelle di Kissinger e Rockefeller. Nell’appendice di “Massoni”, uno dei quattro “grandi vecchi” che svelano il ruolo di Mario Monti, inviato in Italia nel 2011 per commissariare il paese su ordine dell’oligarchia finanziaria, ricorda da vicino il profilo di Attali. In quelle pagine, “Frater Rosenkrantz” si dichiara pentito dell’accelerazione neo-feudale e ultraliberista imposta alla politica europea.
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L’oligarca Rothschild o la Le Pen? Vinceranno paura e odio
Il risultato del primo turno delle presidenziali francesi regala al candidato di plastica Emmanuel Macron, l’uomo dei Rothschild, le apparenti maggiori possibilità di vittoria per il secondo appuntamento alle urne, quello del 7 maggio, quando dovrà vedersela con Marine Le Pen. I quattro candidati più votati (Macron, Le Pen, Fillon, Mélenchon) si sono spartiti l’80 per cento dei voti, collocandosi ciascuno poco sopra o poco sotto il 20 per cento. Con un dato di partenza così basso, il meccanismo del ballottaggio non potrà mai a giocarsi sul consenso per sé, ma sul dissenso verso l’altro candidato. Non vincerà il più amato e apprezzato, perderà il più odiato e temuto. Entrambi i candidati sono in grado di attirare su di sé le principali forme di dissenso già sperimentate in questi anni nel discorso pubblico dei paesi occidentali. Ognuna di queste forme ha i suoi intellettuali organici, i suoi media di riferimento, i suoi argomenti dominanti. Prendiamo Emmanuel Macron. È un prodotto sfornato direttamente dalle officine dell’élite atlantista come un avatar telegenico che deve dare un volto elettoralmente fungibile agli interessi della grande finanza, di cui è espressione immediata.Una volta consumato oltre ogni dire l’impresentabile presidente Hollande, l’élite filo-Nato e filo-Ue ha equipaggiato in fretta e furia il giovane Emmanuel con tutto il corredo retorico del “nuovo” e del “dinamico” (il suo partito istantaneo si chiama “En Marche!”, ossia “In Cammino!”), senza poterlo tuttavia riparare completamente dalla verità che lo riguarda né dalla repulsione di chi conosce questa verità: Macron è l’ennesimo fantoccio neoliberista, un continuatore delle politiche neocolonialiste che hanno fatto della Francia uno dei maggiori perturbatori della pace negli ultimi anni, un distruttore dei diritti del lavoro. Ha dalla sua parte le grandi Tv e i grandi giornali dell’oligarchia francese, che sono organici al suo mondo di provenienza, ma questo elemento di forza – pur potentissimo – sconta il fatto che la corrente principale dei media è sempre più invisa a decine di milioni di persone, che si informano su altri canali e hanno altri intellettuali di riferimento.Dal canto suo, Marine Le Pen non è certo una candidata artificiale e il suo Front National non è un partito finto, bensì una forza popolare radicata da decenni, durante i quali ha assunto un profilo staccato dalle caratteristiche fasciste impresse dal suo fondatore, e padre di Marine, Jean-Marie Le Pen, ormai espulso dal partito. Ma le dinamiche elettorali hanno inerzie e resistenze molto lunghe, che riguardano l’identità e la psicologia di grandi masse di elettori. Saranno in tanti a continuare a votare in base a pregiudiziali destra-sinistra: la lunga storia xenofoba del partito a guida Le Pen farà turare ancora milioni di nasi, cui non basterà il suo profilo sociale, il suo radicamento nei quartieri operai, i suoi progetti di ripresa della sovranità rispetto alle tecnocrazie europoidi, perché temeranno le sue ricette più dure in tema di immigrazione e di sicurezza pubblica. Marine Le Pen ha una certa presa popolare attraverso i media fuori dal mainstream, ma non le sarà risparmiata alcuna forma di manipolazione e “spin” mediatico da parte di un sistema disposto a vendere cara la pelle, con uno schieramento impressionante di politici già in lotta per far vincere Macron.La cosa può anche non funzionare. Gli esempi recenti non mancano. Di fronte al Brexit e all’ascesa di Donald Trump la linea di difesa aggressivissima del “kombinat” politico-mediatico non ha retto nelle urne, dove i risultati sono stati quelli opposti al suo volere. Tanto che sono dovuti scattare dei “piani B”: sia a Londra che a Washington sono riusciti, sì, a normalizzare le scelte dei governi nati dai terremoti elettorali, ma con grande fatica e incertezza, in uno scenario di crisi sistemica meno manovrabile dall’élite: se sei un guerrafondaio neoconservatore russofobo e sei riuscito a castrare le velleità di The Donald, beh, la cosa ti va lo stesso di lusso, date le circostanze, ma alla Casa Bianca preferivi comunque avere qualcun altro. Anche in Italia, con il referendum costituzionale del 4 dicembre, il risultato è stato opposto a quello voluto dai padroni del vapore, al punto che Matteo Renzi è stato ridimensionato, con un governo che intanto galleggia senza progetto. Tuttavia, nelle forme in cui avviene l’espressione della volontà popolare, conta parecchio il tipo di sistema elettorale. Il ballottaggio francese ha caratteristiche importantissime che influiscono sulle possibilità reali di vittoria. E vincere implica trasformare un 20 per cento in un 51 per cento in appena quindici giorni.Se con piccole variazioni percentuali Macron non avesse raggiunto il ballottaggio e lo avesse conquistato qualcun altro, avremmo misurato l’avversione a quell’altro candidato con altri criteri. Ad esempio, come si sarebbero evolute le posizioni anti-Ue e anti-Nato del candidato della sinistra, Mélenchon, di fronte alle analoghe posizioni della Le Pen? Sarebbe stata un’altra dinamica, o no? E se al ballottaggio fosse giunto il gollista Fillon, che voleva ripristinare un dialogo amichevole con la Russia spazzando le sanzioni, come sarebbe cambiata la geografia elettorale? E se Marine Le Pen non fosse giunta al ballottaggio, come avrebbero votato i suoi elettori? Avrebbe prevalso un euroscettico o un atlantista sfegatato Dato il sistema del ballottaggio, Macron prende il via comunque da favorito, perché una parte massiccia delle personalità e delle formazioni sociali che pure non lo ha votato teme di più Le Pen e si mobiliterà in tal senso. Ora non si tratta tanto dello schieramento – davvero scontato – dell’élite, ma anche delle associazioni nei quartieri, dei sindacati a livello locale, di tutta una miriade di organizzazioni con radici popolari.Certo, è un mondo che stavolta ha dato al candidato socialista Benoît Hamon soltanto un miserrimo 6 per cento dei voti, ma è anche un mondo che ha una lunga storia dove dire ‘non’ a Le Pen è stata sempre una pregiudiziale inflessibile, quartiere per quartiere, villaggio per villaggio. Buona parte degli elettori di sinistra di Mélenchon condivide molti più punti programmatici sociali con la presidente del Fronte Nazionale che con il rampollo della finanza predatoria. Ma per Marine Le Pen conquistare quei voti significa dover demolire un “di più” di sfiducia verso il portato storico e ideologico che lei rappresenta. È prevedibile che farà allora di tutto per presentarsi come l’Alternativa possibile, cercando di erodere il Fronte che già si è costituito contro di lei, pescando tanto a sinistra, quanto fra gli euroscettici che pure hanno votato il moderato Fillon. In mezzo al risultato colpisce la disfatta totale dei socialisti francesi, che ripete quella dei socialisti olandesi di marzo. La sinistra socialdemocratica europea è in rotta, e le sue residue bandiere le consegna a difendere un bidone della banca Rothschild.(Pino Cabras, “#Macron, #LePen, chi perderà di più?”, da “Megachip” del 24 aprile 2017).Il risultato del primo turno delle presidenziali francesi regala al candidato di plastica Emmanuel Macron, l’uomo dei Rothschild, le apparenti maggiori possibilità di vittoria per il secondo appuntamento alle urne, quello del 7 maggio, quando dovrà vedersela con Marine Le Pen. I quattro candidati più votati (Macron, Le Pen, Fillon, Mélenchon) si sono spartiti l’80 per cento dei voti, collocandosi ciascuno poco sopra o poco sotto il 20 per cento. Con un dato di partenza così basso, il meccanismo del ballottaggio non potrà mai a giocarsi sul consenso per sé, ma sul dissenso verso l’altro candidato. Non vincerà il più amato e apprezzato, perderà il più odiato e temuto. Entrambi i candidati sono in grado di attirare su di sé le principali forme di dissenso già sperimentate in questi anni nel discorso pubblico dei paesi occidentali. Ognuna di queste forme ha i suoi intellettuali organici, i suoi media di riferimento, i suoi argomenti dominanti. Prendiamo Emmanuel Macron. È un prodotto sfornato direttamente dalle officine dell’élite atlantista come un avatar telegenico che deve dare un volto elettoralmente fungibile agli interessi della grande finanza, di cui è espressione immediata.
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Bonnal: è un lager digitale. Vale tutto, tranne pensare
«Siamo tutti contenti di perdere il nostro tempo nella rete, di pescare qua e là dei pesci d’oro e delle informazioni, di perdere il tempo che avremmo potuto impiegare coltivando il nostro vero giardino. Ma come nel paese dei balocchi di Pinocchio, c’è un prezzo da pagare. Infatti si vive avvolti nella tela del ragno». Secondo Nicolas Bonnal, la Terra è ormai diventata una sorta di “campo di concentramento elettronico” monitorato su web. Lo scrittore francese cita la Bibbia, il libro di Giobbe: «L’empio si è costruito una casa simile alla tela di un ragno». Accusa: non ci sono più contadini, sono stati intrappolati dai trattati internazionali come il Gatt. «È Carl Schmitt a constatare come il guerrigliero o il resistente perdano tutto il potere dal momento che non è più terrestre ma tecnodipendente». Una resistenza è ancora possibile? «I progressi del totalitarismo elettronico attuale si basano sul web, che rafforza il potere mefitico dei veri cospiratori», accusa Bonnal, in un post su “Defensa” tradotto da “Come Don Chisciotte”. I cospiratori? «Sono le amministrazioni delle democrazie impopolari, le banche, i servizi segreti, la polizia parallela (non quella destinata a proteggervi), oggi diventati onnipresenti».Un analista indipendente come Michael Snyder ricorda che la polizia statunitense ha fermato dei cittadini di ritorno da un breve viaggio in Canada per controllare il contenuto, dopo averlo confiscato, del loro cellulare. «Questa polizia detiene tutti i doveri, tranne quello di poteggervi», scrive Bonnal. «È la polizia messa in piazza all’indomani degli attentati. Domandatevi innanzitutto a chi giova il terrorismo. Aboliscono il cash per ostacolare il terrorismo, e accusano i russi di hackerare le elezioni, avendo così una buona scusa per annullarle davvero». Il progresso tecnologico, continua Bonnal citando Guy Debord, ha permesso la creazione di un “presente informativo permanente” che annega tutta la verità «nell’idiota liquidità visiva». E’ un presente nel quale «la moda stessa, l’abbigliamento o la musica, si è fermata», perché «vuole dimenticare il passato e non sembra credere più in un avvenire». Questo “eterno presente” lo si ottiene «dall’incessante passaggio circolare dell’informazione, il ripetersi in un qualsiasi momento delle stesse inezie, annunciate appassionatamente come si trattasse di notizie importanti; mentre raramente passano, e per brevi momenti, le notizie veramente importanti, che riguardano ciò che cambia realmente».Autodistruzione programma del mondo? «Il problema è che, prima di autodistruggersi, questa macchina mondiale distruggerà noi: come lo scorpione di Orson Welles». Secondo Bonnal, «l’attuale Stato mondiale è ebbro della propria potenza e trasforma la Terra in un campo di concentramento elettronico: ovunque l’abolizione del cash, in Giappone per i suoi Giochi olimpici, a Taiwan, in India e in Europa. Controllo dell’oro e del denaro, controllo del vostro pensiero, censura dell’informazione grazie ai servili canali della disinformazione; tutto diventa possibile, per questo Stato Profondo che è anche uno Stato di superficie, uno Stato dello spettacolo (il presidente turco ha visitato i massoni, i rifugiati di Calais, i resistenti siriani, gli amici del Bilderberg) e una società di facciata. E il pubblico, come nella favola di Platone, se la gode». Anche le fondazioni di Bill Gates festeggiano, come scrive Lucien Cerise: «L’iniziativa comune di un Bill Gates e di un Rockefeller di creare sull’isola norvegese Svalbard una sorta di bunker “arca di Noè” contenente tutti i grani e le sementi del mondo è piuttosto inquietante. Perché lo fanno, cosa stanno combinando? Domande retoriche, il progetto è molto chiaro: si tratta di cominciare a privatizzare tutta la biosfera, cosa che permetterà di controllarla integralmente dopo averla distrutta. Siamo al cuore di Gestell e dell’ingegneria cibernetica, che condivide lo stesso orizzonte: l’automatizzazione completa del globo terrestre»Siamo arrivati ai televisori coreani Samsung «che rivelano i vostri pensieri e i vostri sussurri». Non li comprerete? «Ma “loro” potranno sempre inviare questa neopolizia, questa polizia parallela per controllare il vostro oro, il vostro giardino, il vostro consumo di acqua». Per Debord, la mondializzazione è stata facilitata dalla «pericolosa espansione tecnologica», che è sempre stata al servizio del potere. Lo conferma Paul Virilio. Oggi, “governo” è essenzialmente “controllo”: «La parola viene da rotula, che indica il rotolo, il cilindro in latino», scrive Bonnal. «È stato introdotto in Inghilterra dai terribili normanni conquistatori di Guglielmo. E serve, questo controllo a redigere il “Domesday book”, che calcola la ricchezza di questi poveri anglosassoni gallina per gallina, uovo per uovo». Il problema, per Bonnal è che «ci connettiamo, per lamentarci, invece di organizzarci nelle piazze: e il web, come vi suggerisce il suo nome, ci intrappola più facilmente nella rete. L’informatica ci blocca in casa invece di farci uscire». Poi, ovviamente, «ci sono cretini che scorrazzano per strada sopportando i quaranta gradi (li ho visti a Madrid) per correre dietro a un Pokémon».Non dimentichiamoci, aggiunge Bonnal, che i campioni della mondializzazione si considerano i pensatori globali. Neo-aristocratici, oligarchi. «Esagero? Pensate a come vi tratta il fisco. Pensate a come la polizia elettorale tratta il 96% dei francesi che non vogliono più il socialismo e cerca il proprio candidato con l’aiuto di un motore di ricerca. Guardate come vi tratta la polizia stradale. Pensate come la banca o l’aeroporto vi trattano. Guardate come vi trattano in Germania (in prigione) se siete contrari all’educazione della teoria gender per il vostro bambino. Pensate a come il tribunale vi tratterà se siete europei qui, americani laggiù». Questa civilizzazione, continua Bonnal, «è come il volo terrificante della GermanWings: è guidata da folli suicidi, non si può scendere in corsa e allora si schianterà in volo». Il giovane ribelle Étienne La Boétie, filosofo del ‘500, aveva le idee chiare: «Povera gente insensata, vi lasciate portar via sotto gli occhi tutti i vostri migliori guadagni, permettete che saccheggino i vostri campi, rubino nelle vostre case spogliandole dei vecchi mobili paterni! Vivete in condizione da non poter più vantare di possedere una cosa che sia vostra; e vi sembrerebbe addirittura di ricevere un gran favore se vi si lasciasse la metà dei vostri beni, delle vostre famiglie, delle vostre vite».Mentre noi «lavoriamo per pagare le imposte ai nostri super-Stati, profondi e superficiali», continua Bonnal, «abbiamo dimezzato il numero dei nostri bambini». E attenzione: «E’ la democrazia ad aver realizzato questo miracolo: il numero delle nascite si è dimezzata nella Germania dell’est postcomunisma e nella Spagna postfranchista. Fu Orson Welles a dichiarare in un’intervista che la Spagna tradizionale era stata distrutta dalla democrazia». Alexis de Tocqueville l’aveva chiamato «un potere immenso e tutelare», un potere «assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite». Somiglierebbe all’autorità paterna, se solo avesse lo scopo di «preparare gli uomini alla virilità», e invece «cerca di fissarli irrevocabilmente all’infanzia: ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi». Un potere che «lavora volentieri al loro benessere, ma vuole esserne l’unico agente e regolatore». Provvede alla loro sicurezza e ai loro bisogni, facilita i loro piaceri, «tratta i loro principali affari, dirige le loro industrie, regola le loro successioni, divide le loro eredità». A quel punto, «non potrebbe allora togliergli interamente la fatica di pensare e la pena di vivere? Così ogni giorno esso rende meno necessario e più raro l’uso del libero arbitrio, restringe l’azione della volontà e toglie a poco a poco a ogni cittadino perfino l’uso di se stesso».«Siamo tutti contenti di perdere il nostro tempo nella rete, di pescare qua e là dei pesci d’oro e delle informazioni, di perdere il tempo che avremmo potuto impiegare coltivando il nostro vero giardino. Ma come nel paese dei balocchi di Pinocchio, c’è un prezzo da pagare. Infatti si vive avvolti nella tela del ragno». Secondo Nicolas Bonnal, la Terra è ormai diventata una sorta di “campo di concentramento elettronico” monitorato su web. Lo scrittore francese cita la Bibbia, il libro di Giobbe: «L’empio si è costruito una casa simile alla tela di un ragno». Accusa: non ci sono più contadini, sono stati intrappolati dai trattati internazionali come il Gatt. «È Carl Schmitt a constatare come il guerrigliero o il resistente perdano tutto il potere dal momento che non è più terrestre ma tecnodipendente». Una resistenza è ancora possibile? «I progressi del totalitarismo elettronico attuale si basano sul web, che rafforza il potere mefitico dei veri cospiratori», accusa Bonnal, in un post su “Defensa” tradotto da “Come Don Chisciotte”. I cospiratori? «Sono le amministrazioni delle democrazie impopolari, le banche, i servizi segreti, la polizia parallela (non quella destinata a proteggervi), oggi diventati onnipresenti».
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Addio Merkel, euro e Nato: il voto francese cambia il mondo
La Francia al bivio: Atlantico o Eurasia. «Se il 2017 ha tutte le caratteristiche per essere definito “l’anno della frattura”, lo spartiacque tra il vecchio ordine mondiale “liberale” a guida angloamericana e l’avvento di un nuovo assetto internazionale, ebbene, c’è un appuntamento più decisivo degli altri, quello capace di dispiegare tutto il potenziale rivoluzionario dell’anno in corso: le presidenziali francesi». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, il voto transalpino (primo turno, 23 aprile) è «l’appuntamento chiave del 2017, capace di innescare e/o accelerare dinamiche che travalicano i confini dell’Esagono per abbracciare l’intero scacchiere mondiale». Motivo: «Il malessere sociale e le drammatiche condizioni in cui versa l’economia della Francia, pienamente ascrivibile tra i paesi dell’europeriferia, hanno sgretolato il sistema politico transalpino, aprendo lo scenario di un inedito ballottaggio tra populisti di destra e populisti di sinistra: Marine Le Pen contro Jean-Luc Mélenchon». Secondo Dezzani, la sconfitta dei candidati europeisti accelererà la dissoluzione della moneta unica e dell’Unione Europea, compromettendo irreparabilmente l’intera architettura euro-atlantica edificata negli ultimi 70 anni: «Lo speculare rafforzamento della Russia dopo la vittoria di Marine Le Pen e l’ingrossarsi del blocco euroasiatico rischiano di portare il sistema internazionale al carico di rottura».In un’analisi pubblicata sul suo blog, Dezzani colloca le presidenziali francesi in una più ampia cornice geopolitica: «Solo chi nascondesse la testa sotto terra, potrebbe infatti affermare che l’imminente voto sia scollegato dalle rinnovate tensioni tra Nato e Russia e dai venti di guerra nella Corea del Nord». La Francia ripropone il medesimo schema politico che travaglia l’intera Europa: i partiti tradizionali, «legati a doppio filo all’establishment euro-atlantico», riusciranno o meno a respingere l’assalto “populista”, cioè l’avanzata di quei movimenti che predicano ricette economiche e una politica estera diametralmente opposta a quella dell’oligarchia al potere? «La risposta è quasi certamente “no”», sostiene Dezzani. «Di fronte all’eurocrisi scoppiata nel lontano 2009 e progressivamente incancrenitasi avendo mancato l’obiettivo di fondo (strappare il Tesoro Unico europeo e gli Stati Uniti d’Europa)», la Francia «è scivolata giorno dopo giorno verso l’euro-periferia, mostrando l’illusorietà del “motore franco-tedesco”». A collocare il paese «più vicino al Mediterraneo che al Reno» è ormai, «la galoppante crescita del debito pubblico francese, che dall’introduzione dell’euro è passato dal 60% al 97% del Pil», insieme ad altri indicatori sfavorevoli: «Gli alti deficit in funzione anti-ciclica, il cronico disavanzo della bilancia commerciale e la disoccupazione record (quella ufficiale si attesta attorno al 10% della forza lavoro)».Tra Parigi e Berlino, sottolinea Dezzani, c’è ancora una «parità formale», che attualmente scongiura quelle politiche di austerità imposte al resto dell’europeriferia: misure di austerity che potrebbero «innescare esplosive rivolte in una società come quella francese, abituata a ricevere generose prestazioni dallo Stato». Questo però «non impedisce che qualche “riforma strutturale” sia somministrata anche alla Francia: il “Job Act” gallico, la legge El Khomri, provoca reazioni impensabili in Italia, mobilitando sindacati e lavoratori per settimane e paralizzando diversi settori strategici dell’economia». L’assaggio di neoliberismo, il crescere incessante della disoccupazione e la parallela caduta verticale del presidente François Hollande in termini di popolarità, continua Dezzani, sono accompagnati dall’esplosione del terrorismo “islamista” che, avviato nel gennaio 2015 con la strage di Charlie Hebdo, semina morti fino alla strage di Nizza dello scorso luglio: «E’ la classica strategia della tensione utile a “sedare” un’opinione pubblica sul piede di guerra, a causa dell’impoverimento generalizzato e dei tagli allo Stato sociale».La strategia della tensione, però, secondo Dezzani ha fallito: doveva «compattare i francesi attorno al capo di Stato», quell’Hollande che – dopo aver ripeuto che «la France est en guerre» – è il primo presidente, dall’avvento della Quinta Repubblica, a scegliere di “abdicare”, rinunciando a correre per un secondo mandato: «L’obiettivo è quello di arrestare l’avanzata dei “populisti”, relegando il quinquennio di Hollande ad una triste parentesi, e puntando su volti nuovi». Ma ormai, aggiunge Dezzani, la ribellione dell’elettorato è troppo impetuosa per essere incanalata: «Il “filo-russo” François Fillon conquista la candidatura del centro-destra battendo l’esponente dell’establishment, Alain Juppé. Segue quindi una feroce campagna mediatica-giudiziaria per stroncare la corsa di Fillon verso l’Eliseo e lanciare verso il ballottaggio del 7 maggio il centrista e “outisider” Emmanuel Macron, ex-banchiere Rothschild: il calcolo politico si basa sulla convinzione che tutti i voti moderati si coaguleranno attorno all’europeista e filo-atlantico Macron, sancendo così la sconfitta della populista e filo-russa Marine Le Pen».Nella Francia del 2017, però, come nel resto dell’Occidente, i voti “moderati” sono ormai merce rara: «Il malessere diffuso, tre milioni di disoccupati (che salgono a sei considerando i lavoratori iscritti ad un corso di ricollocamento), l’insofferenza generalizzata verso la cricca di privilegiati che ruota attorno all’Eliseo e ai salotti buoni di Parigi, spinge l’elettorato sulle ali estreme dello schieramento politico: la candidatura del centrista Emmanuel Macron, presentato dalla maggior parte dei sondaggi e dei media compiacenti come il presidente in pectore, rischia di sgonfiarsi addirittura al primo turno, schiantandosi contro lo scoglio dell’elettorato». Ferma restando la possibile vittoria di Marine Le Pen, crescono infatti le probabilità che lo sfidante al ballottaggio del 7 maggio non sia l’ex-banchiere di Rothischild, ma il “populista rosso” Jean-Luc Mélenchon: storico esponente dell’ala sinistra del Partito socialista, fondatore del movimento “France insoumise” (la Francia ribelle). «Abile oratore e figura piuttosto carismatica, Mélenchon è la declinazione “giacobina” di Marine Le Pen». Tanti i tratti i comune: tra questi, «l’avversione all’ortodossia finanziaria di Bruxelles, l’intenzione di manovre fiscali espansive in forte deficit, il rifiuto dei dogmi liberisti e l’apertura al protezionismo».In politica estera, Le Pen e Mélenchon condividono anche «l’intenzione di traghettare la Francia fuori dalla Nato», che dimostra «la volontà di riconciliarsi con Mosca superando le varie discrepanze, in primis sulla Siria». Dezzani scommette che sarà Marine Le Pen a uscire vincitrice dal ballottaggio del 7 maggio, sospinta da diversi fattori: la voglia di cancellare la disastrosa presidenza Hollande, la crisi migratoria, l’emergenza-sicurezza nelle città e il vento nazionalista, sempre più forte a livello europeo. «Nelle attuali condizioni in cui versa l’Unione Europea – ragiona Dezzani – è però chiaro che, se dalle urne del 23 aprile dovesse emergere una sfida tra forze anti-sistema di sinistra e di destra, Bruxelles incasserebbe il colpo di grazia anche senza conoscere il verdetto finale delle presidenziali francesi». Si tratta pur sempre di «istituzioni europee così lacerate da assistere inermi alla ribellione degli Stati alla politica migratoria comune, alla puntuale disapplicazione di norme fino a poco tempo fa presentate come ineludibili (Fiscal Compact e bail-in), al tramonto di qualsiasi ulteriore integrazione necessaria a garantire la sopravvivenza dell’euro (in primis la garanzia unica sui depositi)».L’affermazione dei “populisti” Le Pen e Mélenchon al primo turno, continua Dezzani, «sancirebbe la rottura definitiva del motore franco-tedesco da tempo in panne». Rottura che, «aprendo una drammatica faglia nel cuore dell’Europa, porterebbe al collasso finale le già pericolanti istituzioni di Bruxelles». Al che, la dissoluzione dell’Unione Europea e il simultaneo ricollocamento di Parigi su posizioni filo-russe «sarebbero un vero terremoto geopolitico, scuotendo alle fondamenta l’intera architettura politico-militare consolidatasi in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale: le istituzioni di Bruxelles, sinonimo di Ue ma anche di Nato, sono infatti lo strumento con cui l’impero angloamericano ha prima blindato, e poi allargato, la testa di ponte sul continente euroasiatico, conquistata con due guerre mondiali». Scopo strategico del blocco Ue-Nato, infatti, «è attrarre verso l’Atlantico il maggior numero possibile di potenze europee», impedendo «il sorgere di qualsiasi alleanza tra la Russia e l’Europa occidentale». Il terremoto sovranista francese, quindi, stravolgerebbe «la settantennale strategia dell’establishment atlantico sul Vecchio Continente, incentratala sulla cooperazione franco-tedesca con la benedizione di Londra e Washington, e sul progressivo ampliamento verso est delle organizzazioni “transatlantiche”».Si materializzerebbe così il peggior scenario possibile per gli strateghi angloamericani, tratteggiato da Zbigniew Brzezinski nel suo libro “La Grande Scacchiera”, del 1997: vedremmo all’opera «una Francia nazionalista che, oppressa dall’egemonia della Germania schierata su posizioni filo-atlantiche, parte alla riconquista del primato continentale alleandosi con la Russia e riconoscendo a quest’ultima una legittima zona d’influenza nell’Est europeo». Sarebbe, in sostanza, «un patto franco-russo», progettato «per ridimensionare la Germania» e ridimensionare l’egemonia Usa sull’Europa. «Il quadro – aggiunge Dezzani – si farebbe ancora più drammatico per gli strateghi angloamericani se la Francia “nazionalista” non si saldasse soltanto alla Russia, ma al blocco euro-asiatico, che comprende anche la Cina e l’Iran e si irrobustisce giorno dopo giorno: la Francia, anziché lavorare per la caduta di Assad e il puntellamento del regime filo-saudita in Yemen, passerebbe così ad una condizione di neutralità o larvata ostilità nei confronti degli alleati regionali di Washington e Londra, compromettendo ulteriormente l’opera angloamericana di “contenimento” delle potenze euro-asiatiche».Gli Usa a quel punto, «espulsi dalla massa continentale anche grazie alla cooperazione francese, perderebbero automaticamente lo status di superpotenza mondiale». Per Dezzani, stiamo assistendo al manifestarsi di «una doppia minaccia mortale per l’impero angloamericano: il saldarsi della coalizione tra Russia, Cina e Iran, unito al nascere di un’intesa franco-russa». Si tratta di «quattro potenze distinte, unite dalla comune volontà di archiviare l’egemonia degli Usa e dell’oligarchia atlantica, per ridisegnare l’assetto mondiale». Meglio si spiega, quindi, «il clima di elevata tensione internazionale, caratterizzato dal precipitare delle relazioni russo-americane e dai concomitanti venti di guerra in Corea». La posta in gioco, insiste Dezzani, «supera i confini dell’Esagono». La probabile vittoria di Marine Le Pen «è in grado di compromettere ulteriormente la presa angloamericana sull’Europa, a beneficio di Mosca e delle altre potenze continentali». Attenzione: questo scenario «lascia supporre un ulteriore aumento della tensione in vista del ballottaggio del 7 maggio e negli immediati mesi successivi al voto: più la Ue si sfalda e il blocco euroasiatico si ingrossa, maggiori sono i rischi che il sistema internazionale raggiunga il carico i rottura, imprimendo agli eventi quella drammatica svolta che si sarebbe evitata soltanto se Donald Trump avesse mantenuto le promesse neo-isolazioniste della campagna elettorale».La Francia al bivio: Atlantico o Eurasia. «Se il 2017 ha tutte le caratteristiche per essere definito “l’anno della frattura”, lo spartiacque tra il vecchio ordine mondiale “liberale” a guida angloamericana e l’avvento di un nuovo assetto internazionale, ebbene, c’è un appuntamento più decisivo degli altri, quello capace di dispiegare tutto il potenziale rivoluzionario dell’anno in corso: le presidenziali francesi». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, il voto transalpino (primo turno, 23 aprile) è «l’appuntamento chiave del 2017, capace di innescare e/o accelerare dinamiche che travalicano i confini dell’Esagono per abbracciare l’intero scacchiere mondiale». Motivo: «Il malessere sociale e le drammatiche condizioni in cui versa l’economia della Francia, pienamente ascrivibile tra i paesi dell’europeriferia, hanno sgretolato il sistema politico transalpino, aprendo lo scenario di un inedito ballottaggio tra populisti di destra e populisti di sinistra: Marine Le Pen contro Jean-Luc Mélenchon». Secondo Dezzani, la sconfitta dei candidati europeisti accelererà la dissoluzione della moneta unica e dell’Unione Europea, compromettendo irreparabilmente l’intera architettura euro-atlantica edificata negli ultimi 70 anni: «Lo speculare rafforzamento della Russia dopo la vittoria di Marine Le Pen e l’ingrossarsi del blocco euroasiatico rischiano di portare il sistema internazionale al carico di rottura».
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Chomsky: ho paura, questa élite vuole ricorrere all’atomica
Donald Trump sa di non avere nessuna speranza di premiare i milioni di elettori che avevano creduto in lui. Per questo gioca l’ultima carta e indossa i panni dello sceriffo: per distrarre il pubblico, bombardando il mondo. Ma il gioco è pericoloso: tra una provocazione e l’altra, con il solito corredo di notizie false come le responsabilità di Assad sull’uso dei gas contro la popolazione siriana, la Russia stavolta potrebbe reagire. Mosca potrebbe sparare per prima i suoi missili a testata atomica contro l’America, prima che sia troppo tardi. Mai, nella sua storia, l’umanità ha corso un pericolo così grande. Lo afferma Noam Chomsky in un’intervista concessa al “Manifesto”, nella quale esprime la massima preoccupazione per i giorni che stiamo vivendo. La sua tesi: l’élite è semplicemente “impazzita”. E il terrore di perdere il potere può spingerla verso la catastrofe nucleare. Gli oligarchi sanno di non avere più alcuna possibilità di recuperare il consenso perduto, come dimostra il fallimento della loro ultima creazione illusionistica, Donald Trump. E allora premono sulla guerra: la vogliono davvero, come unica soluzione per mantenere il controllo totale sull’umanità.Ad aggravare il quadro, aggiunge Chomsky, intervistato da Patricia Lombroso, sarebbe la rottura dello storico equilibrio missilistico tra Usa e Russia, provocata dal colossale programma di riarmo nucleare varato anni fa da Barack Obama. Secondo il grande intellettuale americano, oggi la dotazione balistica degli Stati Uniti sarebbe superiore rispetto a quella di Mosca. E i russi, che sanno di essere minacciati, potrebbero decidere di sferrare per primi un attacco nucleare preventivo, prima che la loro deterrenza venga definitivamente cancellata dall’ipotetica supremazia atomica statunitense. Uno scenario da apocalisse, confermato da un altro acuto analista indipendente come Paul Craig Roberts, secondo cui i russi – che a suo parere non dispongono affatto di un arsenale inferiore a quello americano – potrebbero comunque scegliere di colpire per primi, dato che gli Usa e la Nato li stanno letteralmente assediando, in modo sempre più subdolo, ormai anche alle frontiere della Federazione Russa, sul Baltico e nell’Europa orientale.Altri osservatori, come il francese Thierry Meyssan, sono meno pessimisti: tendono a pensare che Trump stia essenzialmente “facendo teatro”. Per Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’eventuale bluff muscolare di Trump avrebbe lo scopo di illudere (e tacitare, a suon di commesse miliardarie) l’apparato militare-industriale che fa capo al potentissimo clan dei Bush. Lo stesso Carpeoro, tuttavia, non si nasconde la pericolosità del potere oligarchico mondiale ormai pronto a tutto, come dimostra l’auto-terrorismo targato Isis. Sullo sfondo, la situazione allarmante del pianeta: «Gli oligarchi sanno che le risorse terrestri si stanno esaurendo, a cominciare dalle fonti energetiche, e ciascun gruppo sgomita per prepararsi a imporre il suo Piano-B». Lo stesso Giulietto Chiesa teme gli effetti della doppia crisi in atto: la pericolosità di un’America in declino, arginata da Russia e Cina, in un mondo che non sa come affrontare né l’esplosione demografica, né l’incombente catastrofe climatica, che secondo l’Onu sta già innescando esodi mai visti prima, nella storia. Tante angolazioni diverse, molte analisi e una sinistra caratteristica comune: l’assenza di soluzioni, in vista.Nella sua visione, Chomsky si concentra sulla politica estera Usa: «Le aggressioni unilaterali da parte degli Stati Uniti in Siria e in Afghanistan – afferma – sono state preparate a tavolino da questa nuova amministrazione, incurante del crimine commesso, che viola tutte le norme del diritto internazionale». Obiettivo: nient’altro che «uno show rivolto all’opinione pubblica in attesa della promessa “America First”». Dietro la propaganda di Trump, Noam Chomsky vede un «progetto selvaggio di smantellamento, passo dopo passo, dell’intera legislazione federale istituita 70 anni fa per proteggere l’intera popolazione americana dalla logica dei profitti immediati e dalla massima concentrazione del potere». Operazione abilmente nascosta dallo “sceriffo” Trump, che prova a rassicurare gli americani «con questo messaggio diretto: i brillanti risultati conseguiti dai nostri uomini del Pentagono nelle ultime otto settimane sono superiori a quanto conseguito durante gli ultimi otto anni dalla presidenza Obama». E ancora: «Siamo in grado di effettuare operazioni coraggiose. Insomma, ecco il nuovo sceriffo che dimostra di essere l’uomo forte che voi volete. E che ha dato mano libera a chi voleva intraprendere le cosiddette azioni coraggiose. Come quella di sganciare la superbomba in Afghanistan senza aver neppure idea quale territorio abbiamo distrutto, né di quanti civili abbiamo ucciso».Paradossalmente – ma non è una novità – negli Stati Uniti «l’applauso è stato univoco e totale anche da parte dei democratici, visto che in Siria il nuovo sceriffo Trump ha inviato un messaggio alla comunità internazionale per dimostrare che l’America è ancora una superpotenza che sa reagire con la nuova forza dell’“America First”». Passo dopo passo, continua Chomsky, «dietro le quinte viene approvata una legislazione che toglie ogni speranza alla popolazione americana nel rivendicare i benefici di protezione sociale ed economica istituiti 70 anni fa». Per l’insigne linguista, «è questa l’organizzazione di potere più pericolosa nella storia del mondo». Una “cupola” che, «per continuare ad avere più profitti e sempre più potere, è capace anche di usare l’arma nucleare. Sino alla distruzione dell’umanità». Secondo Chomsky, grazie al riarmo nucleare finanziato in silenzio da Obama, oggi «l’arsenale atomico statunitense ha raggiunto un livello da strategia atomica avanzata e radicale, tale da poter annientare la deterrenza dell’arsenale atomico russo». E dato che Mosca non ne è certo all’oscuro, «con l’intensificarsi della tensione diretta, specialmente nei paesi baltici ai confini della Russia», tutto questo «determina il rischio di un confronto nucleare diretto con la Russia».Se così stanno le cose, secondo Chomsky, si sono «assottigliati i margini per la sicurezza mondiale» e ci stiamo pericolosamente avvicinando a una catastrofe nucleare provocata dalla “mutual destruction”, la distruzione reciproca. Si è infatti «messa in moto una situazione in base alla quale la Russia, con l’intensificarsi delle provocazioni degli Stati Uniti, possa decidere di sferrare un “preemptive strike”», un colpo preventivo nucleare, «nella speranza di sopravvivere, dal momento in cui non ha più la capacità di un arsenale deterrente». Per Chomsky, «ci troviamo in una situazione gravissima e pericolosa», dove «il rischio è dato dalle reazioni imprevedibili di Trump», sempre più debole sul piano della politica interna, e quindi preoccupatissimo. «Un Trump che, se non sarà in grado di mantenere le promesse di cambio fatte alla “working class” a cui si è riferito in campagna elettorale (e che sarà la prima vittima della sua presidenza), prima o poi seguirà un dilagare di accuse di terrorismo islamico verso gli immigrati per giustificare misure repressive eccezionali e nuovi bandi. Prefabbricando prove di un attacco all’America, tanto da giustificare il ricorso all’arma nucleare». I missili in Siria e la superbomba Moab sganciata in Afghanistan? «Sono l’esemplificazione dell’America di Trump pronta a ritorsioni militari che superano ogni più perversa immaginazione. Un disegno politico che è prassi storica, per questo paese, sin dai tempi della Guerra Fredda».Donald Trump sa di non avere nessuna speranza di premiare i milioni di elettori che avevano creduto in lui. Per questo gioca l’ultima carta e indossa i panni dello sceriffo: per distrarre il pubblico, bombardando il mondo. Ma il gioco è pericoloso: tra una provocazione e l’altra, con il solito corredo di notizie false come le responsabilità di Assad sull’uso dei gas contro la popolazione siriana, la Russia stavolta potrebbe reagire. Mosca potrebbe sparare per prima i suoi missili a testata atomica contro l’America, prima che sia troppo tardi. Mai, nella sua storia, l’umanità ha corso un pericolo così grande. Lo afferma Noam Chomsky in un’intervista concessa al “Manifesto”, nella quale esprime la massima preoccupazione per i giorni che stiamo vivendo. La sua tesi: l’élite è semplicemente “impazzita”. E il terrore di perdere il potere può spingerla verso la catastrofe nucleare. Gli oligarchi sanno di non avere più alcuna possibilità di recuperare il consenso perduto, come dimostra il fallimento della loro ultima creazione illusionistica, Donald Trump. E allora premono sulla guerra: la vogliono davvero, come unica soluzione per mantenere il controllo totale sull’umanità.
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Il killer di Olof Palme? Chiamatelo Isis, la mano è la stessa
«Probabilmente l’assassino di Olof Palme è ancora in vita, e nel delitto potrebbero essere coinvolti la polizia o qualche esponente dell’esercito». Lo afferma il noto criminologo Leif Gustav Willy Persson, che ha sempre dubitato della colpevolezza di Christer Pettersson, un criminale di strada inizialmente fermato, ma che apparentemente non aveva motivi per uccidere il premier socialdemocratico svedese, il primo leader europeo a essere assassinato nell’Europa democratica (il secondo sarà il serbo Zoran Dijndic, nel 2003). Un caso tuttora irrisolto, pieno di ombre: comprese quelle che si allungano sulla strana morte dello scrittore Stieg Larsson, colto da malore dopo aver consegnato alla polizia un imponente dossier sui legami tra presunti killer e servizi segreti. «Informa il nostro amico che la palma svedese verrà abbattuta», scrisse dal Sudamerica un certo Licio Gelli, in un messaggio indirizzato a Philip Guarino, esponente repubblicano Usa vicinissimo a George Bush senior e stretto collaboratore di Michael Ledeen, «storico e giornalista le cui vicende sono torbidamente intrecciate con l’intelligence americana», scrive l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che denuncia il ruolo degli 007 nella strategia della tensione. Una regia occulta, da cui oggi proverrebbero gli attentati in Europa firmati Isis.Tre giorni dopo quello strano messaggio di Gelli sulle “palme” svedesi in procinto di essere “abbattute”, alle 23,21 del 28 febbraio 1986, Olof Palme venne ucciso da un sicario in una strada centrale di Stoccolma, non lontano dalla stazione. Palme era il leader del partito socialdemocratico, ed era in pima linea nella lotta contro l’apartheid e i regimi autoritari in Sud America. Venne freddato con due colpi di pistola. «Ma soprattutto – aggiunge il newsmagazine “BergamoPost” – l’episodio avvenne lontano dalle telecamere, e senza che il politico fosse seguito dalla scorta, motivo per il quale l’attentatore non fu mai trovato». Un caso che ricorda, da vicino, l’omicidio di Jfk a Dallas. Sempre il “BergamoPost” ha scovato un indizio curioso: l’ultimo a vedere Palme vivo fu un giovane italiano di origini pugliesi, Nicola, che all’epoca aveva 22 anni. Oggi vive nell’hinterland della capitale svedese e ha lavorato nella ristorazione proprio a Stoccolma. La sua testimonianza è stata utilizzata dalla polizia nei giorni successivi, e ha raccontato brevemente l’accaduto anche al giornale online bergamasco. «Ho incrociato i Palme qualche minuto prima dell’omicidio, Olof e la moglie Lisbeth. Dietro la coppia camminava un uomo: ovviamente non sono riuscito a dargli una connotazione, altrimenti sarei stato molto più utile».Quando si è reso conto dell’omicidio, Nicola? «Ho sentito gli spari in lontananza, poi ho realizzato che poteva essere Palme e mi sono girato, ho guardato per un po’ e poi mi sono rimesso in cammino». L’indagine, ricorda “BergamoPost”, è stata fra le più costose della storia e, con oltre 700mila pagine di documenti accumulati, è la più ampia in tutto il mondo. La polizia interrogò il giovane italiano solo un paio di volte: «La prima alcuni giorni dopo, la seconda l’anno seguente, quando – racconta – mi fecero osservare alcuni sospetti, dei quali non riconobbi nessuno». La ricostruzione degli eventi, resa pubblica nel corso delle indagini, indica come Nicola avesse incrociato la coppia all’altezza del numero 56 di Sveavägen, la stessa via in cui, all’incrocio successivo con Tunnelgatan (dai 2 ai 3 minuti a piedi), Palme venne ucciso e la moglie ferita lievemente. Nicola vide anche, dieci metri più avanti, un uomo con una grossa giacca blu, mentre seguiva con passo spedito la coppia. Dal report della polizia, l’italiano dichiara di aver pensato che si trattasse di una guardia del corpo in borghese, ma che sembrava anche troppo anziano per essere tale. La maggior parte dei testimoni che videro l’attentatore lo descrissero come una persona fra i 35 e i 40 anni. E il primo sospettato, Christer Pettersson, ne aveva 39.Ma dov’erano le guardie del corpo? «All’epoca, in Svezia non vi erano seri timori di agguati nei confronti di personaggi politici di spicco, e la sicurezza veniva impiegata per lo più in occasione di eventi pubblici», continua “Bergamo Post”. Olof Palme, la moglie Lisbeth, il figlio e la fidanzata di quest’ultimo trascorsero la serata al cinema Grand (sempre su Sveavägen) prima di ritornare a casa. «Mårten Palme, il figlio del primo ministro, riconobbe un uomo all’uscita del cinema, la cui figura poi venne prima associata a Pettersson, poi, in un recente sviluppo, all’agente segreto sudafricano Eugene De Kock, che sarebbe stato individuato dalle telecamere della Svt il giorno dopo all’aeroporto di Stoccolma, particolare che ha ipotizzato un coinvolgimento del Sudafrica nell’uccisione». Ma l’uomo ha negato di essere mai stato in Svezia. All’epoca dell’omicidio, De Kock aveva 37 anni. La sequenza di sangue è nota: il primo ministro e la sua famiglia arrivarono all’incrocio con Tunnelgatan quando l’attentatore si parò di fronte a Palme e lasciò partire due colpi di pistola verso il primo ministro (di cui uno fatale, al petto) e uno che colpì di striscio la moglie. Poi rimase qualche secondo ad assistere alla scena, tanto da essere riconosciuto da Lisbeth Palme (e dal figlio, che lo aveva visto di fronte al cinema prima di tornare a casa con la fidanzata), la cui testimonianza portò dapprima in carcere Pettersson.«Lo stesso Pettersson, che in passato era stato condannato per omicidio ed era coinvolto in piccole attività criminali, venne poi scarcerato per mancanza di indizi», aggiunge il giornale online. «Altre quattro persone si trovavano entro una ventina di metri, molto più vicine rispetto a Nicola, ma non riuscirono a identificare l’aggressore, di cui si persero le tracce una volta che egli svoltò sulla scalinata che sovrasta Tunnelgatan». Un caso non ancora risolto, dopo 31 anni. L’arma del delitto non è mai stata trovata, ma si tratta probabilmente di una 357 Magnum. Sigge Cedergren, un malavitoso che temeva Christer Pettersson, dichiarò di aver smarrito quel tipo di pistola e che il principale sospettato sapeva dove era nascosta. Nel 2006, continua “Bergamo Post”, venne ritrovata un’arma simile sul fondo di un lago nella Svezia centrale, ma era troppo arrugginita per poter permettere qualsiasi tipo di ricostruzione. La stessa scena del crimine fu inquinata dai numerosi passanti e curiosi che assistettero all’arrivo dell’ambulanza, e poi da chi lasciò fiori e ricordi di vario genere sul marciapiede. Le indagini sul Dna vennero introdotte solo a partire dagli anni ‘90 e non era possibile, all’epoca, poterle utilizzare.Christer Pettersson, a sua volta, «è morto nel 2004 in seguito a ferite al cranio mai chiarite». Pochi mesi prima, «si era rivolto a Mårten Palme, dicendo di volerlo incontrare per parlare della morte del padre». Sfortunatamente, «l’incontro non avvenne mai, e la morte di Pettersson mise fine a qualsiasi speranza». Strano, no? L’ex principale sospettato contatta il figlio della vittima ma, prima di portergli parlare, viene ucciso da “ferite al cranio mai chiarite”. Qualcuno sta dunque lavorando nell’ombra, ancora, per impedire che emerga la verità sul caso Palme? Ne è convinto l’avvocato Carpeoro, massone, che denuncia apertamente il ruolo criminale di una parte della massoneria internazionale, al centro di torbidi intrecci e depistaggi come quelli che tuttora inquinano le indagini sul terrorismo finto-islamico che colpisce a Parigi, Londra, Nizza, Bruxelles e Berlino. L’accusa: l’élite mondialista “reazionaria” si avvale di settori dei servizi segreti per fabbricare una nuova strategia della tensione, impiegando manovalanza presentata oggi come islamista. Obiettivo: seminare il caos, la paura, perché nulla cambi e il sistema resti com’è, fondato sul dominio della finanza a spese della democrazia.Olof Palme? Un uomo-simbolo: «Era il padre spirituale del welfare europeo, il sistema di diritti estesi su cui la sinistra moderata e riformista ha costruito il benessere dell’Europa nel dopoguerra: cioè quel sistema contro cui si batte, strenuamente, l’Unione Europea del rigore e dell’austerity». E se non bastano la super-tassazione e l’euro, i tagli alla spesa e il pareggio di bilancio, a “spegnere la luce” sulla democrazia «può intervenire anche il terrorismo». Allora impegnato nel movimento socialista europeo, Carpeoro assistette personalmente a congressi del partito svedese di Palme: era il politico che, più di ogni altro – per capacità, coraggio e autorevolezza – avrebbe impresso un’impronta “sociale” alla politica europea, sbarrando la strada, sul nascere, alla presente Ue degli orrori finanziari. «Un uomo come Palme rappresentava un pericolo mortale, per questa élite: andava tolto di mezzo».Nel suo libro, pubblicato da “Revoluzione”, Carpeoro sostiene che il pericolo è più che mai vicino: e denuncia il ruolo, in molti retroscena oscuri, del politologo Michael Ledeen, «uomo Cia, esponente nella super-massoneria reazionaria nonché del B’nai B’rith, la massoneria israeliana prossima al Mossad». Secondo Carpeoro, lo stesso Ledeen – definito “vicino” a Philip Guarino all’epoca del messaggio di Gelli alla vigilia dell’omicidio Palme – sarebbe un esponente-chiave della “sovragestione” politica dell’Italia, affidata a potenti apparati. Carpeoro dichiara che Ledeen avrebbe “sovragestito” «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e, contemporaneamente, il grillino Di Maio». Secondo questa tesi, lo stesso potere occulto manovra – da decenni – per condizionare, a nostra insaputa, il corso degli eventi. L’obiettivo sarebbe sempre lo stesso: sabotare la democrazia, di cui in Europa un leader come Olof Palme sarebbe stato un autentico campione, a danno delle lobby che oggi hanno in mano il bilancio degli Stati, per via bancaria, fino al paradosso della Bce che rappresenta l’unico, vero governo dell’Unione Europea, al riparo da qualsiasi “rischio” democratico.«Probabilmente l’assassino di Olof Palme è ancora in vita, e nel delitto potrebbero essere coinvolti la polizia o qualche esponente dell’esercito». Lo afferma il noto criminologo Leif Gustav Willy Persson, che ha sempre dubitato della colpevolezza di Christer Pettersson, un criminale di strada inizialmente fermato, ma che apparentemente non aveva motivi per uccidere il premier socialdemocratico svedese, il primo leader europeo a essere assassinato nell’Europa democratica (il secondo sarà il serbo Zoran Dijndic, nel 2003). Un caso tuttora irrisolto, pieno di ombre: comprese quelle che si allungano sulla strana morte dello scrittore Stieg Larsson, colto da malore dopo aver consegnato alla polizia un imponente dossier sui legami tra presunti killer e servizi segreti. «Informa il nostro amico che la palma svedese verrà abbattuta», scrisse dal Sudamerica un certo Licio Gelli, in un messaggio indirizzato a Philip Guarino, esponente repubblicano Usa vicinissimo a George Bush senior e stretto collaboratore di Michael Ledeen, «storico e giornalista le cui vicende sono torbidamente intrecciate con l’intelligence americana», scrive l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che denuncia il ruolo degli 007 nella strategia della tensione. Una regia occulta, da cui oggi proverrebbero gli attentati in Europa firmati Isis.