Archivio del Tag ‘élite’
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Il “fratello” Romano Prodi, globalizzatore in grembiulino
Caro, vecchio Romano Prodi? Macchè: «Non è certo quel pacioccone bonaccione, quel bravo curato e padre di famiglia che è stato presentato all’immaginario collettivo degli italiani». Nonostante il piglio bonario, il professore bolognese «è un personaggio molto tagliente, molto abile, anche molto attento al proprio “particulare”». Un soggetto a tutto tondo, da raccontare: il Prodi “segreto” sarà tra gli argomenti del secondo volume di “Massoni”, che Gioele Magaldi sta per stare alle stampe. Con una sorpresa: «Prodi è anche lui parte di una rete massonica sovranazionale». Presidente dell’Iri e grande privatizzatore, poi capo del governo, presidente della Commissione Europea, advisor della Goldman Sachs. E, nel frattempo, anche massone: «Tra coloro che hanno contribuito in senso pessimo, per l’Italia e per l’Europa, agli svolgimenti politico-economici nell’era della globalizzazione, cioè nel post-1992, c’è il “fratello” Romano Prodi», il cattolico democristiano che nel 1978 evocò il nome “Gradoli” – per indicare il luogo della prigione di Moro – raccontando di averlo ricevuto nell’ambito di una seduta spiritica. Prodi supermassone? Ebbene sì: parola di Gioele Magaldi. Che, per il secondo volume della serie, potrebbe avvalersi del contributo di una superstar della massoneria mondiale, come il controverso George Soros.Nel “primo round” delle sue clamorose rivelazioni – silenziate dal mainstrem in modo tombale – Magaldi ha scontato una critica ricorrente: non aver documentato le sue affermazioni, spesso esplosive, al punto da ridisegnare la mappa del vero potere, mettendo in relazione personaggi come Monti, Draghi e Napolitano con il mondo internazionale delle 36 Ur-Lodges che rappresentano il supremo vertice delle grandi decisioni. In realtà, Magaldi è stato chiaro dal principio: «Ogni mia affermazione è documentabile, dispongo di 6.000 pagine di dossier. Sono pronto a esibirle, se qualcuno contesterà quanto ho scritto». Ma gli interessati, naturalmente, si sono ben guardati dal fiatare: molto meglio la congiura del silenzio. E ora, dopo “La scoperta delle Ur-Lodges”, si avvicina la pubblicazione del sequel, “Globalizzazione e massoneria”, con retroscena sulla svolta oligarchica che ha svuotato le democrazie occidentali, imponendo politiche di rigore (e oggi anche terrorismo targato Isis) affidate a docili esecutori: come lo stesso Prodi, la cui vera identità – secondo Magaldi – è sfuggita alla maggior parte degli italiani. Un uomo di potere, in grembiulino. L’elettorato di sinistra lo ricorda con nostalgia? Sbaglia: il primo a metterlo in croce, quand’era a capo della Commissione Ue, fu Paolo Barnard su “Report”, che presentò il ritratto di un cinico tecnocrate, schierato con i peggiori oligarchi.Prodi è stato l’unico a battere Berlusconi, due volte su due? Vero, ammette Magaldi, parlando a “Colors Radio”: all’inizio, «quel grande carrozzone che è stato l’Ulivo individuò in modo perfetto, in Prodi, il suo leader». E Berlusconi, «grazie ai buoni uffici della Lega di Bossi, fu defenestrato, nel ‘94». Poi l’interregno di Lamberto Dini e quindi l’arrivo di Prodi nel ‘96. Con che esito? «L’effetto del governo Prodi è stato così ottimo, traghettandoci così bene in Europa, che nel 2001 Berlusconi ha rivinto». Poi c’è stata la seconda vittoria prodiana del 2006, di stretta misura, presto naufragata tra il Pd veltroniano, Bertinotti e Mastella, fino a rimettere Berlusconi al potere nel 2008. Certo, «Berlusconi si è rovinato con le sue mani: non è stato all’altezza della situazione». Ma a pesare, nel fallimento di Prodi, «sono state le pessime azioni di governo, da parte di Prodi e di tutti coloro che l’hanno accompagnato: il centrosinistra italiano, con Prodi e gli altri, non ha saputo produrre una politica lungimirante per questo paese». In altre parole, per Magaldi, «Prodi non ha saputo interpretare il post-1992 in un senso utile a costruire benessere, non dico uguale ma almeno di poco inferiore a quello della Prima Repubblica».Al pari del centrodestra di Berlusconi, il centrosinistra «ha fatto scempio dell’interesse del popolo italiano», piegandosi all’élite eurocratica. E quindi, «che benemerenza c’è nel fatto che Prodi si sia alternato a Berlusconi, battendolo?». In pratica, «sono due facce della stessa medaglia: centrodestra e centrosinistra si sono alternati senza nessuna vera differenza nella gestione di un paese che dipendeva da linee progettate altrove: costoro hanno soltanto fatto da esecutori, secondo una commedia dell’arte per cui, magari, apparentemente, mettevano ingredienti diversi, ma la sostanza rimaneva la medesima». Linee progettate altrove: nei santuari dell’oligarchia finanziaria, industriale, militare, che – partendo dai circuiti esclusivi delle superlogge internazionali – dirama vere e proprie direttive, declinate attraverso think-tank e organismi paramassonici (Trilaterale, Bilderberg, World Bank, Fmi) per poi scendere, a cascata, fino ai governi nazionali, ai leader come D’Alema, Prodi, Renzi. A volte, poi, l’élite supermassonica “commissaria” direttamente un paese: è accaduto con il “fratello” Monti, «che rappresenta quanto di peggio può offrire la rete massonica sovranazionale in senso neo-aristocratico».«Ho più rispetto e stima per un Mario Draghi, che reputo più pericoloso», dice Magaldi. «Monti è un massone che è stato vittima della propria tracotanza, della propria retorica manipolatoria. E appena ha avuto l’occasione di passare dal “back-office” al “front-office”, ha fallito miseramente per eccesso di narcisismo, avendo creduto lui stesso alla retorica che i media italiani avevano creato attorno alla sua figura e alle meraviglie presunte del suo governo». Per Magaldi, Mario Monti è comunque «un grande sconfitto, in questo tentativo di devastazione industriale, economica e sociale dell’Italia: ci ha provato, ha fatto dei danni, ma poi è stato preso a calci nel sedere dall’elettorato». Dopo di lui, è arrivato Enrico Letta, che secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, è un “paramassone”, in realtà in quota all’Opus Dei. «Non ne sentiamo la mancanza», assicura Magaldi. «Nessun rimpianto: se c’è una cosa buona che ha fatto Renzi, a parte la legge sulle unioni civili, è stata quella di aver mandato a casa Enrico Letta e il suo soporifero governo, che peraltro riprendeva e ricalcava pienamente le politiche di Monti». Quanto alle tentazioni massoniche dell’ex premier, Magaldi si è già espresso più volte: «Renzi ha ripetutamente bussato alle porte della supermassoneria reazionaria, attraverso il Council on Foreign Relations, ma non gli è stato aperto». A differenza del “fratello” Romano Prodi, che invece – secondo Magaldi – siede da lunghi anni nel salotto buono della super-massoneria di potere.Caro, vecchio Romano Prodi? Macchè: «Non è certo quel pacioccone bonaccione, quel bravo curato e padre di famiglia che è stato presentato all’immaginario collettivo degli italiani». Nonostante il piglio bonario, il professore bolognese «è un personaggio molto tagliente, molto abile, anche molto attento al proprio “particulare”». Un soggetto a tutto tondo, da raccontare: il Prodi “segreto” sarà tra gli argomenti del secondo volume di “Massoni”, che Gioele Magaldi sta per stare alle stampe. Con una sorpresa, tra le tante: «Prodi è anche lui parte di una rete massonica sovranazionale». Presidente dell’Iri e grande privatizzatore, poi capo del governo, presidente della Commissione Europea, advisor della Goldman Sachs. E, nel frattempo, anche massone: «Tra coloro che hanno contribuito in senso pessimo, per l’Italia e per l’Europa, agli svolgimenti politico-economici nell’era della globalizzazione, cioè nel post-1992, c’è il “fratello” Romano Prodi», il cattolico democristiano che nel 1978 evocò il nome “Gradoli” – per indicare il luogo della prigione di Moro – raccontando di averlo “ricevuto” nell’ambito di una seduta spiritica. Prodi supermassone? Ebbene sì: parola di Gioele Magaldi. Che, per il secondo volume della serie, potrebbe avvalersi del contributo di una superstar della massoneria mondiale, come il controverso George Soros.
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Foa: perdiamo tutti, se la nostra democrazia non conta più
Viviamo in uno strano mondo, in cui un genitore insegna ai propri figli quelli che considera valori sani e inviolabili: il rispetto della Costituzione, della democrazia come espressione della sovranità. Gli spiega che quando avrà 18 anni potrà votare, scegliere il partito che più lo rappresenta. Gli racconta che in Parlamento si approvano le leggi e gli spiega cos’è un paese. A scuola, questo bambino studia i confini e la storia, coltiva un’identità e scopre le proprie radici familiari e nazionali. Cose normalissime. Un tempo. Già, perché quando compirà 18 anni si accorgerà improvvisamente che quella realtà e quei valori, costati milioni di vite ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, non valgono più e se proverà a rivendicarli verrà trattato come un eretico, anzi come un pericoloso populista. Non capirà più nulla o forse capirà fin troppo bene cosa significano il conformismo, le pressioni sociali, l’omologazione. Quel mondo, purtroppo, non è ipotetico ma sempre più reale, un mondo in cui principi elementari, anzi fondamentali, come democrazia e sovranità popolare sono considerati scomodi o vengono ridotti a feticci sull’altare della mondializzazione.E questo dovrebbe farci riflettere. Perché le differenze culturali, identitarie e politiche non devono più valere? Perché tutti i popoli devono assomigliarsi? Perché la famiglia tradizionale non va più bene e deve essere svuotata di significato? Ci rendiamo conto che la società che si delinea assomiglia sempre di più nella sua forma più ludica a quella descritta da Huxley nel romanzo “Mondo nuovo” e a quella più opprimente del citatissimo “1984” di Orwell? Io credo profondamente nella democrazia, mi scorre nelle vene e non riesco a reprimere l’impulso di parlare, di non tacere. E’ il dovere morale non di fare una rivoluzione ma di difendere quei valori e di contestare l’ineluttabilità della globalizzazione, soprattutto della sua omologazione, che si manifesta anche attraverso il continuo trasferimento di poteri a organismi sovranazionali, talvolta totalmente privi di qualunque legittimità popolare (Ocse, Nato, Oms, eccetera), talaltra diluiti in Parlamenti o altre forme di governance, poco efficaci, di rappresentanza, ridotti ad alibi morali, com’è stato fino ad oggi il Parlamento Europeo.Chiarisco subito che non si tratta di tornare a società autarchiche e dunque ottusamente protezionistiche, come lascia intendere certo pensiero mainstream; bensì di impostare una nuova forma di convivenza internazionale, in cui l’interesse e i poteri nazionali tornino ad avere il loro peso naturale e in cui i trattati internazionali non siano più calati dall’alto ma siano frutto di negoziazioni tra paesi sovrani e con pari diritti. Non si tratta di fermare il mondo, né di bloccare i commerci, ma di tenere conto anche di interessi che non siano solo quelli sovranazionali, nella convinzione che le democrazie siano ancora oggi il miglior sistema politico e che debba essere preservato, come peraltro lo Stato di diritto (altro valore che i globalisti tendono a disconoscere e a sostituire con forme molto strane di giustizia privata, quali gli arbitrati internazionali senza possibilità di ricorso, contemplati nel Ttip).Ecco perché le forme di protesta politica emerse recentemente in diversi paesi occidentali vanno salutate con favore. Testimoniano la capacità di resistenza di una parte importante della popolazione, l’attaccamento, talvolta istintivo, a quei valori e comunque a un sistema socioeconomico che negli ultimi 70 anni ha permesso un benessere senza precedenti e basato sull’ascensore sociale. La sfida, per chi ha il coraggio di definirsi sovranista, non è ovviamente di assecondare qualunque forma di protesta ma di contribuire alla nascita e allo sviluppo di movimenti culturali, civici e politici in grado di far maturare una risposta solida, concreta, credibile ai globalisti. E di denunciare ogni forma di insidia come quelle di chi prende a pretesto le fake news e le post-verità per imporre una censura alle opinioni scomode e spegnere sul nascere il contagio più pericoloso, quello delle idee. Non farlo significa rassegnarsi a società in cui sarà facilissimo privare ogni cittadino dei suoi diritti elementari e anche delle sue ricchezze personali. Un mondo che continuerà a dirsi democratico, perché la forma verrà rispettata, per trasformarsi nel suo esatto contrario. A voi quel mondo piace davvero?(Marcello Foa, “A voi questo mondo piace davvero? Le ottime ragioni dei sovranisti”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 1° giugno 2017; intervento anticipato a Milano in un convegno su sovranità e globalizzazione organizzato dalla rivista “Logos” e moderato dal giornalista Gianluca Savoini, con oratori del calibro di Ted Malloch – diplomatico e fedelissimo di Trump, in predicato di diventare ambasciatore Usa a Bruxelles – nonché Giulio Tremonti, il politologo Giuseppe Valditara e Thomas Williams, responsabile di “Breitbart Italia”).Viviamo in uno strano mondo, in cui un genitore insegna ai propri figli quelli che considera valori sani e inviolabili: il rispetto della Costituzione, della democrazia come espressione della sovranità. Gli spiega che quando avrà 18 anni potrà votare, scegliere il partito che più lo rappresenta. Gli racconta che in Parlamento si approvano le leggi e gli spiega cos’è un paese. A scuola, questo bambino studia i confini e la storia, coltiva un’identità e scopre le proprie radici familiari e nazionali. Cose normalissime. Un tempo. Già, perché quando compirà 18 anni si accorgerà improvvisamente che quella realtà e quei valori, costati milioni di vite ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, non valgono più e se proverà a rivendicarli verrà trattato come un eretico, anzi come un pericoloso populista. Non capirà più nulla o forse capirà fin troppo bene cosa significano il conformismo, le pressioni sociali, l’omologazione. Quel mondo, purtroppo, non è ipotetico ma sempre più reale, un mondo in cui principi elementari, anzi fondamentali, come democrazia e sovranità popolare sono considerati scomodi o vengono ridotti a feticci sull’altare della mondializzazione.
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E Gentiloni in silenzio vara il Ceta, cavallo di Troia del Ttip
Vi accapigliate sul decreto-mostro della Lorenzin sui 12 vaccini? E intanto Gentiloni, in silenzio, fa approvare il Ceta, cioè il Ttip che rientra dalla finestra, senza nemmeno una conferenza stampa. Il governo ha infatti approvato il disegno di legge per la ratifica l’attuazione dell’accordo commerciale Ue-Canada. Il Ttip includeva anche tra gli Usa, ma si teme che il Ceta euro-canadese ne sia il semplice battistrada. Il cardine è lo stesso: gli Stati non potranno più opporsi al business con iniziative di tutela della salute e del lavoro, sotto pena di sanzioni comminate da un potente tribunale internazionale, privato, al servizio delle multinazionali. Il Ceta è stato firmato lo scorso 30 ottobre a Bruxelles e ratificato dal Parlamento Europeo a febbraio, ora toccherà al Parlamento italiano. Lo ha stabilito il Consiglio dei ministri, riunitosi il 24 maggio «in fretta e furia e senza neanche un minuto di preavviso», scrive Guido Rossi su “L’Intellettuale Dissidente”. «Non è stata convocata neanche l’ombra di una conferenza stampa». Strano, no? «Neanche il più ridicolo e scarso dei media (provare per credere? Fatevi un giro su Google) ha dato questa notizia di epocale importanza». Perché dunque è meglio «farlo passare in sordina», questo accordo potenzialmente epocale voluto dai poteri forti del pianeta?Sulla carta, il trattato promette ovviamente grandi sviluppi del trading euro-canadese, con agevolazioni sul libero scambio delle merci tra le due sponde dell’Atlantico. Ma, gratta gratta, si legge che l’Italia potrebbe beneficiarne in termini di maggiori esportazioni verso il Canada «per circa 7,3 miliardi di dollari canadesi». Appena sette miliardi? «Per avere un’idea – scrive Rossi – l’Imu che noi italiani abbiamo pagato sui nostri immobili, nel solo 2016, è costata 10 miliardi di euro; circa la stessa cifra è stata spesa dal governo Renzi per pagare i famigerati “80 euro”. Il governo Gentiloni ha recentemente “salvato” il sistema bancario creando con estrema facilità un fondo da 20 miliardi di euro». Sicché, «questo accordo, economicamente, non vale la carta su cui è stampato». Ma il punto è un altro, purtroppo: «A fronte di un così ridicolo guadagno – nemmeno sicuro, considerato che si tratta di stime – stiamo per svendere completamente la nostra nazione». Non è un’esagerazione, spiega Rossi: i nostri governanti lasciano capire che il Ceta aprirebbe le porte alla cessione graduale in mani private dei principali servizi strategici, oggi pubblici.E’ vero, Gentiloni e soci – a parole – assicurano che manterremo comunque «il diritto di legiferare nel settore delle politiche pubbliche, salvaguardando i servizi pubblici (approvvigionamento idrico, sanità, servizi sociali, istruzione) e dando la facoltà agli Stati membri di decidere quali servizi desiderano mantenere universali e pubblici e se sovvenzionarli o privatizzarli in futuro». Peccato – obietta Rossi – che la cosa, «oltre a suonare palesemente come una “escusatio non petita”, è oltremodo falsa». E’ vero che il testo del Ceta “riconosce” agli Stati membri il diritto di prendere autonome decisioni su materie come la sanità, «ma in maniera altrettanto precisa descrive il funzionamento del “dispute settlement”, ossia di un arbitrato internazionale cui una “parte” (che può essere uno Stato ma anche un’azienda che opera sul suo territorio) può fare ricorso in caso sia in disaccordo con decisioni prese da altre parti». Tradotto: un’altra nazione – o peggio, una semplice società, spesso multinazionale – può impugnare una decisione di uno Stato anche quando adottata “nel diritto di legiferare nel settore delle politiche pubbliche”, qualora questa vada a “discriminare” il business dell’azienda.Il funzionamento di questo “tribunale privato” fa diretto richiamo al Dss, identico strumento previsto dall’Organizzazione Mondiale del commercio, il Wto. Quest’ultimo, continua Rossi, prevede la selezione di un “panel” di giudici, composto da esperti provenienti solitamente dal mondo della consulenza privata (quello delle multinazionali) o da atenei altrettanto privati. Il “panel” redige un rapporto contenente la propria opinione circa l’esistenza o meno di un’infrazione alle regole del Wto. Non ha la forza legale di una vera e propria sentenza, eppure la procedura di appello ha una durata massima prevista in 90 giorni, e dopo l’approvazione è definitiva. Sintetizzando: il Wto (cui l’Europa e l’Italia hanno aderito da più di vent’anni, nel 1995) ha fini prettamente economici e finanziari; gli Stati, si dice, sono ancora sovrani, eppure i principi che regolano gli scambi internazionali sono al di sopra delle leggi, nazionali e internazionali. E in caso di controversie, le parti (non gli Stati in realtà, quanto le società multinazionali “discriminate”) possono rivolgersi al Wto e chiedere se sia giusto o meno non applicare il suo regolamento. «Il Wto, privato e – sicuramente – imparzialissimo, emette la sentenza, che, per carità, non ha forza legale vera e propria (non essendo un vero tribunale), però è ad ogni modo inappellabile e definitiva. Democraticamente. E quel che è previsto per il Wto vale per il Ceta».Solo gli Stati Uniti, precisa ancora Rossi, sono stati coinvolti dal tribunale del Wto in più di 95 casi contro società private: e di questi processi gli Usa, in qualità di nazione, ne hanno persi 38 e vinti appena 9. Gli altri o sono stati risolti tramite negoziazioni preliminari oppure sono ancora in dibattimento. In circa 20 casi il “panel” non è mai stato nemmeno formato, e la maggior parte dei processi persi riguardava livelli di standard ambientale, misure di sicurezza, tasse e agricoltura. «Lo Stato italiano, al contrario di quanto dice il governo Gentiloni – scrive Rossi – non può decidere autonomamente alcunché, prima di tutto perché fa parte dell’Unione Europea e ha siglato accordi comunitari come il Patto di Stabilità e il Fiscal Compact, oltre a far parte di un’unione monetaria, quindi di partenza non ha alcun potere decisionale in termini di politiche monetarie, fiscali, economiche e sociali». E inoltre, anche se godesse di una simile sovranità, «comunque rischierebbe di trovarsi contro cause miliardarie – private – e di perderle, con tanti saluti al “potere politico”. Ed ecco che la nostra Carta costituzionale si trasforma in carta igienica».Quanto alle “potenzialità” di esportazione, secondo Rossi il relativo successo del nuovo “made in Italy” all’estero dipende solo dalla crisi: si punta all’export «semplicemente perché gli italiani non hanno più una lira: i consumi domestici sono drasticamente calati, grazie a politiche iniziate da Mario Monti che in una celebre intervista ammise di “distruggere la domanda interna”». Così, le imprese (quelle che ancora non hanno chiuso) si sono “arrangiante” puntando ancor più sui mercati forestieri. «Solo pochi giorni fa l’Istat ha registrato nei suoi dati la “morte” della classe media italiana». Nel frattempo, «visto che le merci di qualità come quelle nostrane non ce le possiamo permettere», nei nostri negozi «arrivano tonnellate di merci a basso costo ma di pessima qualità», con controlli «scarsi o addirittura nulli, poiché già siamo in un’unione di libero scambio, l’Unione Europea, che stiamo per estendere al Canada». Inutile sottolineare che simili politiche «danneggiano direttamente le nostre imprese, dunque il lavoro e in generale il benessere del nostro popolo», conclude Rossi. «Tutto questo per – forse – sette miseri miliardi. Neanche i 30 denari di Giuda».Vi accapigliate sul decreto-mostro della Lorenzin sui 12 vaccini? E intanto Gentiloni, in silenzio, fa approvare il Ceta, cioè il Ttip che rientra dalla finestra, senza nemmeno una conferenza stampa. Il governo ha infatti approvato il disegno di legge per la ratifica l’attuazione dell’accordo commerciale Ue-Canada. Il Ttip includeva anche gli Usa, ma si teme che il Ceta euro-canadese ne sia il semplice battistrada. Il cardine è lo stesso: gli Stati non potranno più opporsi al business con iniziative di tutela della salute e del lavoro, sotto pena di sanzioni comminate da un potente tribunale internazionale, privato, al servizio delle multinazionali. Il Ceta è stato firmato lo scorso 30 ottobre a Bruxelles e ratificato dal Parlamento Europeo a febbraio, ora toccherà al Parlamento italiano. Lo ha stabilito il Consiglio dei ministri, riunitosi il 24 maggio «in fretta e furia e senza neanche un minuto di preavviso», scrive Guido Rossi su “L’Intellettuale Dissidente”. «Non è stata convocata neanche l’ombra di una conferenza stampa». Strano, no? «Neanche il più ridicolo e scarso dei media (provare per credere? Fatevi un giro su Google) ha dato questa notizia di epocale importanza». Perché dunque è meglio «farlo passare in sordina», questo accordo potenzialmente epocale voluto dai poteri forti del pianeta?
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Carpeoro e il segreto dei Romita: nel ‘46 vinse la monarchia
Come volevasi dimostrare: Londra torna a essere bersaglio di “fuoco amico”, cioè terrorismo “false flag” targato Isis, a riprova della guerra di potere in corso tra le oligarchie internazionali, che ora usano Theresa May in funzione anti-Merkel. Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, teme che questo “sciame” di attentati-kamikaze possa anche preparare una strage ancora più devastante: «E’ una possibilità, fa parte di un certo schema». L’aveva già detto: la Gran Bretagna è sotto tiro, da quando ha imboccato il divorzio da Bruxelles. Dalla Brexit in poi, nel Regno Unito starebbero emergendo spinte progressiste, anche a livello supermassonico: questo mette in tensione la “sovragestione” a guida Cia, custode occulta dello status quo e preoccupata del possibile nuovo corso di Londra, se dovesse smarcarsi dal “partito della guerra” che ha fabbricato l’Isis. Niente è come sembra, e non da oggi: la stessa Italia repubblicana è stata “fabbricata” con un artificio, una colossale manipolazione come quella del referendum costituzionale del 2 giugno 1946. «E’ vera la “leggenda” che avesse vinto la monarchia», dichiara Carpeoro, che fa un nome: quello del più volte ministro Pierluigi Romita, «sempre eletto in virtù del ruolo di suo padre, Giuseppe Romita, che era guardasigilli all’epoca di quel referedum».In diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro racconta: «Il socialdemocratico Pierluigi Romita, mio grande amico, fece il ministro molte volte e gli sempre venne garantita l’elezione da tutti i partiti». Era il pegno per custodire il “segreto” della storica manipolazione a cui il padre avrebbe presiduto. Pierluigi Romita «è stato un politico inaffondabile: e non aggiungo altro». Ulteriori rivelazioni sulla storia italiana del ‘900 sono in arrivo con il libro che Carpeoro sta per pubblicare sui clamorosi retroscena della caduta di Mussolini: la deposizione del 25 luglio 1943 sarebbe stata in realtà concordata con lo stesso “duce” per propiziare un’uscita meno traumatica dell’Italia dal secondo conflitto mondiale. Ma intervennero elementi (non ancora di pubblico dominio, nella storiografia) che fecero precipitare la situazione: l’invasione dell’Italia da parte delle truppe naziste sarebbe stata provocata da un complotto tra esponenti massonici e diplomazia vaticana, che sabotarono il piano iniziale di auto-siluramento “morbido” del regime fascista, aprendo la strada alla fucilazione di Ciano e alla tragedia dell’occupazione e della guerra civile.Perché il potere del primissimo dopoguerra preferì far vincere la repubblica piuttosto che la monarchia? Intanto perché il sovrano era troppo popolare, afferma Carpeoro: «Umberto II era ritenuto pericoloso, come raccoglitore di consensi, da parte di certi ambienti sia comunisti che democristiani». E poi, soprattutto: «Diventare repubblica è stato uno dei modi per poter trattare diversamente le condizioni di guerra, per De Gasperi, sul tavolo in cui si sono puniti quelli che avevano perso: assumere un assetto democratico ha consentito all’Italia una trattativa diversa, sul tavolo dei perdenti – la Germania ha dovuto pagare con lo smembramento: ci sono stati dei prezzi da pagare». Poi era inevitabile che elementi fascisti venissero traghettati nella nuova repubblica italiana: «Mussolini aveva praticamente creato lo Stato, inteso come struttura burocratica e amministrativa nazionale. Aveva creato l’Inps, l’Inail, l’Iri, la sanità pubblica. Le alte dirigenze non potevano certo essere sostituite traumaticamente: la prima legge repubblicana infatti fu quella della continuità amministrativa, per garantire il funzionamento della macchina statale». Molti, poi cambiarono bandiera: «Montanelli, Malaparte, Giorgio Bocca, Dario Fo erano repubblichini e diventarono di colpo, misteriosamente, partigiani o personalità della sinistra». Era fatale che parte del vecchio milieu confluisse nel nuovo regime. «Non mi meraviglia né mi scandalizza», chiosa Carpeoro, «ma non credo che abbiamo sempre scelto il meglio: potevamo calibrare di più le scelte tra cosa conservare e cosa archiviare».Come volevasi dimostrare: Londra torna a essere bersaglio di “fuoco amico”, cioè terrorismo “false flag” targato Isis, a riprova della guerra di potere in corso tra le oligarchie internazionali, che ora usano Theresa May in funzione anti-Merkel. Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, teme che questo “sciame” di attentati-kamikaze possa anche preparare una strage ancora più devastante: «E’ una possibilità, fa parte di un certo schema». L’aveva già detto: la Gran Bretagna è sotto tiro, da quando ha imboccato il divorzio da Bruxelles. Dalla Brexit in poi, nel Regno Unito starebbero emergendo spinte progressiste, anche a livello supermassonico: questo mette in tensione la “sovragestione” a guida Cia, custode occulta dello status quo e preoccupata del possibile nuovo corso di Londra, se dovesse smarcarsi dal “partito della guerra” che ha fabbricato l’Isis. Niente è come sembra, e non da oggi: la stessa Italia repubblicana è stata “fabbricata” con un artificio, una colossale manipolazione come quella del referendum costituzionale del 2 giugno 1946. «E’ vera la “leggenda” che avesse vinto la monarchia», dichiara Carpeoro, che fa un nome: quello del più volte ministro Pier Luigi Romita, «sempre eletto in virtù del ruolo di suo padre, Giuseppe Romita, che era guardasigilli all’epoca di quel referedum».
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Usa, élite criminale depravata: è in ogni film di Kubrick
L’Armageddon si sta avvicinando e vale la pena citare Lincon che affermava che «la fine degli Stati Uniti non potrà che avvenire mediante suicidio». Per lo scrittore francese Nicolas Bonnal, «né i neocon né Trump nascono dal nulla. Abbiamo a che fare con un paese di pazzi che adora le armi e massacra per puro divertimento. Bisonti, russi e cinesi sono avvertiti. In America, il genocidio indiano fu uno sport, come la caccia di schiavi che Dickens descrisse inorridito nelle sue cronache americane». Tutti conoscono il “dottor Stranamore” e magari hanno visto film come “Eyes Wide Shut”, di Stanley Kubrick, regista su cui Bonnal ha scritto un libro, facendo notare che «una costante, generalmente trascurata, presente in tutta la sua opera: una critica radicale, sarcastica e costante delle élites». Nel film “Il bacio dell’assassino”, siamo di fronte a un personaggio, il proprietario, che ha pulsioni sessuali incontrollate e tendenze omicidie: verrà ucciso. In “Spartacus”, abbiamo a che fare con la depravazione dell’élite romana. «Attori britannici contro attori americani, come rivelava umoristicamente Michel Ciment. Lo scrittore comunista Howard Fast aveva pensato, per questo soggetto, alle élites statunitensi maccartiste del suo tempo».In “Lolita”, continua Bonnal in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, siamo di fronte a un asso del travestimento chiamato Quilty: come “quilt”, il materasso, che potrebbe designare anche la colpevolezza, secondo un gioco di parole dello stesso Nabokov. Ebbene, Quilty violenta madre e figlia prima di subire la concorrenza dal docente europeo yéyé che sposa la madre e violenta la figlia. Nel film “Il dottor Stranamore”, prosegue Bonnal, abbiamo una sintesi della cultura statunitense basata sull’omicidio di massa e sull’ossessione sessuale. «Von Neumann inspira il dottor Stranamore, Curtis Le May il generale Turgidson (turgido) sul quale il suo amico Raico ci ha detto tutto. L’assassino di massa è rappresentato da un certo Jack Ripper, d’ispirazione londinese per così dire – si sa che era un intoccabile chirurgo in là con gli anni. Il film di Kubrick pone sullo stesso piano la liberazione sessuale (anni di play-boy) e l’adorazione nucleare. Le Barbie che oggi spopolano sui canali statunitensi gioiscono annunciando le esplosioni». Poi ecco “2001, Odissea nello spazio”, «una storia di cospirazione», dove «i responsabili della Nasa celano informazioni ai loro rivali russi e nascondono la scoperta del monolite grazie alle voci su una presunta epidemia (un attacco batteriologico? Chimico?)».Alla fine si scopre che il computer aveva la possibilità di distruggere l’equipaggio: «Ne sapeva più dell’equipaggio stesso». Ridley Scott se ne ricorda in “Alien”, dove «l’equipaggio è sacrificabile, come il popolo di oggi sotto la guida di Wall Street e di Bruxelles. Ed è pure ibernato». Sorvolando sui film successivi di Kubrick, Bonnal arriva a “Eyes Wide Shut”, «che ben rappresenta le inclinazioni degli anni di Clinton: ossessione sessuale (per Clinton come per Trump e le sue modelle), speculazione finanziaria, corrispondenza con gli Illuminati (scoperta da Texe Marrs), culto per le società segrete e soprattutto gusto per i sacrifici umani». Per il film, annota Bonnal, il regista si è ispirato a “Doppio sogno” di Schnitzler: «L’impero austroungarico, al tramonto, diede inizio alla Prima Guerra Mondiale – e ci ha lasciato Hitler in regalo». Osserva Bonnal: «In Kubrick le élites inglesi (“Barry Lyndon”, “Arancia meccanica” dove si serve dei teppisti per controllare le masse) o francesi (“Orizzonti di gloria”) non valgono di più. Ci sono, per citare Clint Eastwood, quelli che scavano e quelli che hanno la pistola. Adesso c’è chi ha i soldi e chi lavora. Chi lavora rischia di morire presto per permettere all’élite ecologista statunitense, che trova questa terra troppo popolata, di respirare».E cos’è “Donald”? Avic ne ha fatto un attore, Philippe Grasset, un uomo di reality. «Donald è presente anche nel thriller comico “Zoolander” (un top model che ha subito il lavaggio del cervello deve assassinare il presidente malese) e in “Celebrity” di Woody Allen», il quale «ha precisato che Trump era un eccellente uomo di spettacolo». Questo, chiosa Bonnal, dovrebbe rassicurarci «se crediamo, come Thierry Meyssan, che Donald non sia cambiato e che minacci la guerra solo per rassicurare i media neocon, in America e a Parigi». Tornando invece a Kubrick, «si dice abbia filmato le false immagini dell’allunaggio (lui avrebbe certamente fatto di meglio), che ha dovuto lasciare l’America, e che forse sarebbe stato assassinato, 666 giorni prima il primo gennaio 2001». Bonnal non chiude il suo libro con quest’argomento perché «la stupidità arriva presto alla conclusione, diceva Flaubert», ma insiste su un punto: «Da Lincoln e la sua folle guerra da un milione di morti (la schiavitù fu abolita ovunque e senza massacri), le élites statunitensi hanno perso il senno». Per Bonnal queste oligarchie «amano il detonatore, l’innesco, l’acceleratore, hanno il grilletto facile». Dopo, diceva il colonnello Kurz in “Apocalypse now”, «passano entusiasti agli aiuti umanitari».L’Armageddon si sta avvicinando e vale la pena citare Lincon che affermava che «la fine degli Stati Uniti non potrà che avvenire mediante suicidio». Per lo scrittore francese Nicolas Bonnal, «né i neocon né Trump nascono dal nulla. Abbiamo a che fare con un paese di pazzi che adora le armi e massacra per puro divertimento. Bisonti, russi e cinesi sono avvertiti. In America, il genocidio indiano fu uno sport, come la caccia di schiavi che Dickens descrisse inorridito nelle sue cronache americane». Tutti conoscono il “dottor Stranamore” e magari hanno visto film come “Eyes Wide Shut”, di Stanley Kubrick, regista su cui Bonnal ha scritto un libro, facendo notare che «una costante, generalmente trascurata, presente in tutta la sua opera: una critica radicale, sarcastica e costante delle élites». Nel film “Il bacio dell’assassino”, siamo di fronte a un personaggio, il proprietario, che ha pulsioni sessuali incontrollate e tendenze omicidie: verrà ucciso. In “Spartacus”, abbiamo a che fare con la depravazione dell’élite romana. «Attori britannici contro attori americani, come rivelava umoristicamente Michel Ciment. Lo scrittore comunista Howard Fast aveva pensato, per questo soggetto, alle élites statunitensi maccartiste del suo tempo».
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Foa: anche la Merkel nel complotto per abbattere Trump
Per capire il significato più autentico della rottura che si è consumata a Taormina tra Trump e gli alleati europei occorre individuare la chiave di lettura. E quella più appropriata si trova, ancora una volta, nell’articolo di uno degli ex consiglieri di Obama Charles A. Kupchan, pubblicato lo scorso mese di febbraio. Sembrava l’ennesimo editoriale tanto interessante quanto destinato a un rapido oblio e invece indicava la linea che l’establishment globalista avrebbe seguito per estromettere Trump. E cosa c’entra l’Europa? Penseranno molti di voi. C’entra, c’entra. I passaggi salienti erano due. Questi: «Mentre gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali sono scosse dalle forze populiste, gli effetti moderatori dei contrappesi istituzionali saranno di importanza cruciale. Il sistema legislativo, i tribunali, i media, l’opinione pubblica e l’attivismo – rappresentano tutti un freno all’autorità esecutiva e devono essere pienamente adoperati». Ora, pensate a cosa sta succedendo negli Stati Uniti: a condurre la campagna contro Trump sul Russiagate sono i media, i parlamentari e, in divenire, i tribunali. E pensate a quante manifestazioni ci sono state, su temi cari alla sinistra negli Usa ma anche in Europa.Pensate alle marce pro-immigrati come quelle svoltesi a Londra o a Milano: rientrano non solo in una certa linea di pensiero (e fin qui niente di sorprendente) ma anche – e forse soprattutto – in un movimentismo teso a contrastare le cosiddette forze populiste. L’Europa, però, veniva indicata da Kupchan come nuovo perno del potere globalista. La frase cruciale è questa: «Stati Uniti e la Gran Bretagna saranno, almeno temporaneamente, latitanti quando si tratta di difendere l’ordine liberale internazionale, l’Europa continentale dovrà difendere la posizione. Nel momento in cui la coesione interna dell’Unione europea è messa alla prova dallo stesso populismo che occorre sconfiggere, non è buon momento per chiederle di colmare il vuoto lasciato dal disimpegno anglo-americano. Ma almeno per ora, la leadership europea è la migliore speranza per l’internazionalismo liberale». Riflettete: quante volte in passato i leader europei hanno osato contestare pubblicamente un presidente degli Stati Uniti durante un vertice del G7 o in altri consessi ufficiali?Probabilmente bisogna risalire al 2003 quanto Schroeder e Chirac si opposero, con saggezza, alla guerra in Irak. Per il resto o i contrasti non emergevano in conferenza stampa o più frequentemente, gli alleati europei si allineavano ai desiderata di Washington, talvolta anche contro il proprio interesse geostrategico. Non è strano che un cancelliere prudentissimo come la Merkel trovi improvvisamente il coraggio per dire: “Impossibile ormai fidarsi degli Usa”? Ne converrete: non è da lei. Il sospetto è che tanto ardire sia calcolato e strumentale: ovvero che vada a rafforzare la tesi – o dovremmo dire gli auspici – di Kupchan. Quelle dichiarazioni rafforzano l’establishment anti-Trump, che può dire ai notabili di Washington: visto? Perdiamo anche l’Europa. In realtà non va intesa come una rottura ma come una parentesi politica, perché lo stesso Kupchan parlava di una latitanza angloamericana “temporanea”; dunque il tempo di far fuori Trump. Quando negli Usa loro riconquisteranno la Casa Bianca, l’Unione europea tornerà ad essere consenziente e l’audace Merkel di nuovo pragmaticamente mansueta.(Marcello Foa, “Anche l’Europa nel piano per far cadere Trump, ecco perché la Merkel è cpsì audace”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 28 maggio 2017).Per capire il significato più autentico della rottura che si è consumata a Taormina tra Trump e gli alleati europei occorre individuare la chiave di lettura. E quella più appropriata si trova, ancora una volta, nell’articolo di uno degli ex consiglieri di Obama Charles A. Kupchan, pubblicato lo scorso mese di febbraio. Sembrava l’ennesimo editoriale tanto interessante quanto destinato a un rapido oblio e invece indicava la linea che l’establishment globalista avrebbe seguito per estromettere Trump. E cosa c’entra l’Europa? Penseranno molti di voi. C’entra, c’entra. I passaggi salienti erano due. Questi: «Mentre gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali sono scosse dalle forze populiste, gli effetti moderatori dei contrappesi istituzionali saranno di importanza cruciale. Il sistema legislativo, i tribunali, i media, l’opinione pubblica e l’attivismo – rappresentano tutti un freno all’autorità esecutiva e devono essere pienamente adoperati». Ora, pensate a cosa sta succedendo negli Stati Uniti: a condurre la campagna contro Trump sul Russiagate sono i media, i parlamentari e, in divenire, i tribunali. E pensate a quante manifestazioni ci sono state, su temi cari alla sinistra negli Usa ma anche in Europa.
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La povertà è il più grosso business inventato dai ricchi
La pubblicazione dei dati Eurostat sull’aumento della povertà e del rischio-povertà in Europa ha suscitato sui media il solito dibattito, viziato in partenza dal rappresentare l’impoverimento come un “problema”, come un effetto indesiderato delle politiche di rigore. «In realtà il bombardamento sociale del rigore finanziario non è sostanzialmente diverso dai bombardamenti militari, nei quali l’obbiettivo dichiarato è un pretesto non soltanto per il consumismo delle bombe (tanto paga il contribuente), ma anche per fare il maggior numero possibile di “danni collaterali”, cioè di vittime civili». Lo scriveva “Comidad” nel 2012, ma sembra scritto oggi. «Anche il rigore è un business, e il “danno collaterale” della maggiore povertà apre a sua volta nuove frontiere al business». In questi anni, aggiunge il blog, è risultato sempre più evidente il nesso consequenziale tra l’aumento della povertà e la finanziarizzazione dei rapporti sociali: «La povertà diventa un business finanziario, costringendo i poveri all’indebitamento crescente». Lo confermano annunci come quello del governo tedesco, che si vantà di aver raggiunto il pareggio di bilancio con un anno di anticipo. Ma la Germania «ha potuto finanziare il suo debito pubblico a tasso zero, poiché, contestualmente, sono stati i paesi del Sud dell’Europa non solo a pagare tassi di interesse più alti, ma anche a indebitarsi maggiormente».Dopo il funesto 2011, in cui il mainstream ha ripetuto in modo martellante il “mantra del debito”, visto come problema e colpa sociale, «si è poi scoperto che il governo Monti non soltanto non ha ridotto il debito pubblico, ma lo ha aumentato», annota “Comidad”, in un post ripreso dal blog “La Crepa nel Muro”. «Il cosiddetto spread si è rivelato così una tassa sulla povertà, un’elemosina dei poveri nei confronti dei ricchi». E intanto ha fatto passi da gigante «l’addestramento dei poveri all’uso degli strumenti finanziari». Lo stesso governo Monti rilanciò la Social Card di tremontiana memoria: viste le cifre in ballo per quella carta prepagata, il vantaggio per le famiglie è apparso subito «pressoché inesistente». Semmai a incassare sarebbe stato il gestore finanziario, BancoPosta. Lo scopo della Social Card, in realtà, era quello di «allargare il target dei servizi finanziari», tanto per cambiare sul modello degli Usa, dove «anche lì in via sperimentale, la Social Security Card si è diffusa a macchia d’olio», arrivando nel 2013 a dieci milioni di utenti.«I paesi anglosassoni stanno dimostrando che i poveri costituiscono un target inesauribile per l’offerta di servizi finanziari», sottolinea “Comidad”. «Non soltanto la carta di credito viene oggi concessa anche ai disoccupati, ma questi sono anche fatti oggetto di un vero e proprio allettamento per dotarsi di questo “servizio” finanziario. Il fatto è comprensibile, se si considera che disoccupati e precari possono essere ridotti ad un livello assoluto di dipendenza da questi strumenti finanziari; cosa che non sarebbe possibile nei confronti di chi disponesse di fonti regolari di reddito». Se i prestiti ai poveri fossero ancora in contanti, allora i rischi di insolvenza «sarebbero mortali per un business del genere». Ma oggi c’è il denaro elettronico, e quindi «le banche non devono compromettere la propria liquidità per concedere carte di credito». I poveri tendono ancora a servirsi soprattutto di contanti, «ma le banche intendono sollevare le masse da questa condizione primitiva, attraverso quello che chiamano un programma di “inclusione finanziaria”».Aggiunge “Comidad”: «Il suono nobile e commovente della parola “inclusione” serve a nascondere il fatto che si tratta di un programma a basso rischio d’impresa per lo sfruttamento delle possibilità di indebitamento delle masse più povere». Il blog ricorda che già nel 2007 il governo britannico elaborò un piano di inclusione finanziaria «per salvare le masse di “unbanked” dal loro misero destino e per metterle a disposizione dell’amorevole offerta di servizi bancari». Lo stesso governo britannico «ha ritenuto di porre una deroga ai limiti della sua “spending review” pur di stanziare dei fondi per questo piano umanitario». Anche la Banca d’Italia «ha impostato un piano analogo, in attuazione delle indicazioni del G-20 a riguardo». A quanto pare, continua “Comidad”, «il denaro elettronico ha un club di supporter piuttosto nutrito». La Banca Mondiale, nella sua veste di agenzia specializzata dell’Onu, rappresenta l’avanguardia in questo progetto di “soccorso mondiale agli unbanked”. Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale sino al 2011, ha profuso più di tutti il suo personale impegno nella “financial inclusion”.«Zoellick costituisce il prototipo del perfetto “bombanchiere”: proviene da Goldman Sachs e, nel periodo in cui ha fatto parte dell’amministrazione Bush, è stato uno dei promotori più zelanti dell’aggressione all’Iraq. Zoellick è anche un ospite d’onore, pressoché fisso, del Consiglio Atlantico della Nato». Le banche hanno ormai una pessima reputazione e, spesso, persino una pessima stampa. «Ma le denunce possono rimanere sul vago, mentre, come si dice, il diavolo si annida nei dettagli. C’è qualche prestigioso commentatore che auspica addirittura un passaggio completo al denaro elettronico, con l’abbandono definitivo del contante; ciò in nome della lotta all’evasione fiscale, come se l’elettronica fosse intrinsecamente onesta, e fosse in grado solo di “tracciare” e non potesse anche sviare». Per “Comidad”, l’unico risultato certo dell’adozione integrale del denaro elettronico «sarebbe invece quello di rendere definitiva la “financial inclusion”, cioè di non porre più limiti alle possibilità per le banche di impoverire e sfruttare i popoli».La pubblicazione dei dati Eurostat sull’aumento della povertà e del rischio-povertà in Europa ha suscitato sui media il solito dibattito, viziato in partenza dal rappresentare l’impoverimento come un “problema”, come un effetto indesiderato delle politiche di rigore. «In realtà il bombardamento sociale del rigore finanziario non è sostanzialmente diverso dai bombardamenti militari, nei quali l’obbiettivo dichiarato è un pretesto non soltanto per il consumismo delle bombe (tanto paga il contribuente), ma anche per fare il maggior numero possibile di “danni collaterali”, cioè di vittime civili». Lo scriveva “Comidad” nel 2012, ma sembra scritto oggi. «Anche il rigore è un business, e il “danno collaterale” della maggiore povertà apre a sua volta nuove frontiere al business». In questi anni, aggiunge il blog, è risultato sempre più evidente il nesso consequenziale tra l’aumento della povertà e la finanziarizzazione dei rapporti sociali: «La povertà diventa un business finanziario, costringendo i poveri all’indebitamento crescente». Lo confermano annunci come quello del governo tedesco, che si vantà di aver raggiunto il pareggio di bilancio con un anno di anticipo. Ma la Germania «ha potuto finanziare il suo debito pubblico a tasso zero, poiché, contestualmente, sono stati i paesi del Sud dell’Europa non solo a pagare tassi di interesse più alti, ma anche a indebitarsi maggiormente».
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Il partito che non c’è: quello che direbbe tutta la verità
«Io non sono contro il capitalismo, voglio solo tagliargli un po’ le unghie». Lo disse Olof Palme, grande leader socialdemocratico europeo, assassinato nel 1986 a Stoccolma mentre era premier della civilissima Svezia, dove aveva imposto l’ingresso diretto dello Stato nell’economia per salvare industrie traballanti, assegnando addirittura ai lavoratori una quota azionaria. «Chi ha ucciso Palme voleva “uccidere” il socialismo in Europa: il leader svedese andava abbattuto per poter poi mettere in piedi un obbrobrio come l’attuale Eurozona», sostiene Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che collega l’omicidio Palme (tuttora senza colpevoli) a un telegramma con il quale Licio Gelli annunciò l’imminente “caduta” della “palma svedese” al parlamentare statunitense Philip Guarino, allora braccio destro del politologo supermassone Michael Ledeen, onnipresente nella politica italiana, tanto che – sempre secondo Carpeoro – affiancò «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio». Carpeoro aderisce al Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi, già maestro venerabile di una loggia romana del Grande Oriente d’Italia e poi Gran Maestro del Grande Oriente Democratico. Magaldi – sceso in campo a colpi di denunce contro gli abusi di certa massoneria internazionale neoaristocratica e in difesa e promozione della secolare tradizione progressista della libera muratoria – oggi invoca la nascita del “partito che non c’è”.«Chiedetevi come mai ci ritroviamo a domandarci, ogni volta, dov’è finita la politica seria, e perché è scomparsa», ripeteva anni fa Paolo Barnard, ricostruendo – nel saggio “Il più grande crimine” – la genesi dell’Eurozona in chiave economico-finanziaria ma soprattutto criminologica. L’accusa: una élite feudale pre-moderna e pre-democratica, travolta per due secoli dai progressivi successi della democrazia industriale, si sta semplicemente riprendendo tutto: in Europa ha rifondato una sorta di Sacro Romano Impero dove comandano politici non-eletti, a loro volta manovrati da una oligarchia finanziaria che ha imposto una moneta “privatizzata”, l’euro, con l’unico scopo di impoverire le popolazioni, trasferendo ricchezza dal basso verso l’alto. I politici che potevano opporsi sono stati eliminati (come Olof Palme) o più semplicemente “comprati”, cooptati, perché tradissero il loro mandato, il loro elettorato, i loro sindacati di riferimento. Applicarono alla lettera lo storico memorandum di Lewis Powell, adottato dalla Commissione Trilaterale per abbattere la sinistra sociale dei diritti, usando come clava il dogma del neoliberismo: il welfare deve finire, il potere deve tornare in mani neo-feudali come quelle che pilotano l’ordoliberismo germanico.Nel suo libro uscito nel 2014, “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Magaldi (che cita spesso Barnard) completa il quadro: i “campioni” dell’attuale élite, dalla Merkel a Draghi, sono tutti supermassoni affiliati a 36 Ur-Lodges internazionali. «Non sono veri massoni», precisa Carpeoro, «visto che hanno tradito i principi progressisti della massoneria». Magaldi preferisce chiamarli contro-iniziati. Ma ricorda che proprio alla libera muratoria si devono le istituzioni-cardine della modernità: democrazia, elezioni, Stato laico, suffragio universale. Il dono della Rivoluzione Francese, ispirata proprio da massoni. «Solo che poi siamo arrivati a Monti, a Napolitano. Anche Renzi ha bussato a quei circoli, ma non gli hanno aperto. In alternativa ci sarebbero i 5 Stelle, ma non hanno ancora spiegato cosa farebbero, una volta al governo». Sicché, torna in campo la suggestione del “partito che non c’è”, ma sarebbe tanto utile se ci fosse. Un partito che, ad esempio, avesse come frontman un economista di primissimo piano come Nino Galloni, allievo del professor Federico Caffè (come lo stesso Draghi, che però si laureò con una tesi sull’insostenibilità di una moneta unica europea). Galloni ha le idee chiarissime: sbattere la porta in faccia all’Ue, se non accetta di rivedere tutti i trattati-capestro, da Maastricht in poi. Un sogno? Certo, per ora sì: è il sogno del “partito che non c’è”.Negli anni ‘80, quando Olof Palme era ancora vivo, una corrente (non populista) scosse l’Europa: quella del movimento ambientalista, che poi crebbe velocemente “grazie” al disastro nucleare di Chernobyl. Nemmeno i Verdi della prima ora intendevano abbattere il capitalismo, ma solo “tagliargli le unghie”, precisamente quelle più “velenose”, in nome della salute di cittadini e lavoratori. Fu una piccola rivoluzione, anche culturale: prima di degradarsi, il movimento costrinse i paesi europei a dotarsi di legislazioni più “verdi”, più attente alla tutela dell’ambiente. Ma a prendere il sopravvento, in Italia, fu il ciclone Tangentopoli, che solo oggi – dopo oltre vent’anni – si vede cosa ha prodotto: da quella colossale “distrazione di massa” venne fuori il nuovo conio dell’Unione Europea, quella che ha ridotto la Grecia a paese del terzo mondo e ha privato l’Italia del 25% della sua produzione industriale, facendo ricomparire ovunque lo spettro della povertà. E i ruggenti 5 Stelle? Molti si sono stupiti del loro silenzio tombale sul decreto-monstre della ministra Lorenzin sui 12 vaccini obbligatori. Non Carpeoro: «L’unica speranza sta nella base dei 5 Stelle, che è fatta di persone pulite. Vedremo se avranno la forza di prevalere sugli attuali vertici, che sono collusi con il potere».Chiedetevi perché non ci sono più i politici di una volta, insiste Barnard. «Un minuto dopo l’istituzione dell’euro – aggiunge Carpeoro – lo stesso Craxi “profetizzò” che sarebbe stato l’inizio della fine, per l’Italia. Con lui, se lo potevano sognare di fare quel tasso di cambio, rispetto alla lira». Galloni, all’epoca, era in trincea: era stato chiamato nientemeno che da Giulio Andreotti, per tentare di limitare i danni attraverso una “guerra” da condurre al coperto, nel palazzo. «Telefonò l’allora cancelliere Kohl – ricorda – per chiedere che fossi rimosso: lottavo, per cercare di impedire la deindustrializzazione dell’Italia». Ma il piano era partito, inesorabilmente, ed era potentissimo. Banche, grande industria, think-tanks, lobby euro-atlantiche, élite franco-tedesche con frotte di politici, tecnocrati ed economisti di complemento. Morti e feriti, alla distanza: rigore, austerity, Monti e Napolitano, la Fornero. Barnard accusa anche D’Alema, uomo-record nelle privatizzazioni, come il suo alleato Romano Prodi, advisor della Goldman Sachs, e personaggi del calibro di Tommaso Padoa Schioppa e dello stesso Carlo Azeglio Ciampi, l’uomo che chiuse il “bancomat” statale di Bankitalia prima ancora dell’avvento dell’euro, costringendo il paese a dipendere, di colpo, dal credito della finanza privata internazionale, trasformando il debito pubblico in un dramma.Gioele Magaldi segnala che, dal fronte progressista di quella stessa élite neo-massonica, provengono anche segnali di risveglio. Carpeoro “legge” l’inquietudine dell’élite “terrorista” che ora colpisce Londra e Manchester, temendo che il Regno Unito post-Brexit possa smarcarsi dal vertice neocon ultraliberista. Ma se qualcuno ha palpitato per le elezioni francesi, sognando una vittoria “sovranista” di Marine Le Pen, si è dovuto arrendere all’evidenza del supermassone Macron, protetto dal supermassone reazionario Jacques Attali (storico sodale di D’Alema, secondo Barnard). Quanto all’Italia, «rido per non piangere», chiosa Magaldi, tra gli inchini di Gentiloni ai potenti del G7: «I nostri partiti cianciano di legge elettorale “alla tedesca” per ingessare in eterno il sistema con un bell’abbraccio tra Renzi e Berlusconi, che pare piaccia anche a Grillo, dato che porrebbe di fronte alla comoda prospettiva di una nuova stagione di opposizione da “duro e puro”».Tutto ciò, senza una sola parola – da parte di nessuno – su come uscire dalla trappola di questa Ue. Servirebbe, appunto, il “partito che non c’è”. Quelli che ci sono, infatti, servono solo a lasciare l’Italia in letargo, in mezzo alle sue “irrisolvibili” tragedie economiche, che il mainstream si guarda bene dall’approfondire: Barnard (cofondatore di “Report”) è trattato come un appestato, e il libro di Magaldi (decine di migliaia di copie vendute) non ha avuto sinora spazi in tv. Il mainstream preferisce registrare gli slogan di Salvini, fotografare l’anziano Silvio che allatta agnellini, filmare l’ectoplasma di Renzi che si riprende l’ectoplasma del Pd. Il mainstream riesce a stare ancora ad ascoltare persino la controfigura di Bersani che straparla di sinistra dimenticando l’altro Bersani, quello vero, che militarizzò il Parlamento per far votare il pareggio di bilancio imposto dall’élite per tramite dei suoi commissari, Monti e Napolitano. Forse, il “partito che non c’è” è quello degli italiani, che ancora stazionano davanti al televisore godendosi questo spettacolo, mentre altrove i veri capi – gli unici – decidono, ancora e sempre, sulla testa di tutti.«Io non sono contro il capitalismo, voglio solo tagliargli un po’ le unghie». Lo disse Olof Palme, grande leader socialdemocratico europeo, assassinato nel 1986 a Stoccolma mentre era premier della civilissima Svezia, dove aveva imposto l’ingresso diretto dello Stato nell’economia per salvare industrie traballanti, assegnando addirittura ai lavoratori una quota azionaria. «Chi ha ucciso Palme voleva “uccidere” il socialismo in Europa: il leader svedese andava abbattuto per poter poi mettere in piedi un obbrobrio come l’attuale Eurozona», sostiene Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che collega l’omicidio Palme (tuttora senza colpevoli) a un telegramma con il quale Licio Gelli annunciò l’imminente “caduta” della “palma svedese” al parlamentare statunitense Philip Guarino, allora braccio destro del politologo supermassone Michael Ledeen, onnipresente nella politica italiana, tanto che – sempre secondo Carpeoro – affiancò «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio». Carpeoro aderisce al Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi, già maestro venerabile di una loggia romana del Grande Oriente d’Italia e poi Gran Maestro del Grande Oriente Democratico. Magaldi – sceso in campo a colpi di denunce contro gli abusi di certa massoneria internazionale neoaristocratica e in difesa e promozione della secolare tradizione progressista della libera muratoria – oggi invoca la nascita del “partito che non c’è”.
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Un Macron italiano: i poteri forti vogliono sostituire Renzi
Girano voci, riprese da giornali come il “Foglio”, su chi potrebbe essere il Macron italiano in un prossimo futuro. I nomi più gettonati sono tre: lo scontatissimo Mario Draghi, il ministro dell’interno Marco Minniti e l’editore Urbano Cairo. «Dire Macron – sottolinea Aldo Giannuli – significa dire una cosa: un nuovo partito “liquido” (anzi gassoso) che si presenti come “né di destra né di sinistra”, ma “della nazione”, raccolto intorno ad un personaggio con simpatie trasversali e che si presenti in rottura delle tradizioni politiche precedenti». Di solito, aggiunge il politologo dell’ateneo milanese, «questi discorsi preparano un partito di destra», sostanzialmente «tutto interno al sistema neoliberista», non nuovo ma «solo ben truccato». Ma chi potrebbe interpretare questo ruolo? E con quali probabilità di successo? Soprattutto: che impatto ha già, sul sistema, il semplice fatto che se ne parli? Per Giannuli, in pole position è saldamente il supremo tecnocrate della Bce, che Gioele Magaldi (nel libro “Massoni”, del 2014) presenta come autorevole leader della supermassoneria internazionale reazionaria, espressione dell’élite neo-feudale che, con l’ideologia del rigore, ha azzerato gli storici diritti sociali conquistati negli anni ‘70.Minniti? «Sembra solo una boutade», scrive Giannuli nel suo blog. «Anche se Macron non era esattamente vergine di impegno politico, essendo stato più volte ministro, Minniti è una vecchia stella del varietà che calca le scene da un quarto di secolo: a spacciarlo per nuovo non riuscirebbe nemmeno Paolo Rossi in preda al brandy». E poi il ministro dell’interno «non ha nemmeno “le phisique du role”: dote essenziale di questi nuovi politici è di essere giovani e bellocci». La vera novità sarebbe invece Cairo, che non è giovanissimo ma «ha un esercito mediatico dietro le spalle, una immagine di successo». Inoltre «non si è mai compromesso né a destra né a sinistra (o meglio: né con Berlusconi né con Renzi) e potrebbe andar bene per tutte le stagioni». Ma sia Draghi che Cairo, aggiunge Giannuli, non è detto che ci stiano: il primo potrebbe puntare verso il Fmi o altro incarico finanziario di livello mondiale, il secondo «potrebbe avere la tentazione di essere un nuovo Murdoch e consolidare a livello europeo il suo ruolo di grande tycoon: e fare il presidente del Consiglio in Italia, con i tempi che arrivano, non è che sia una prospettiva così eccitante».Possibilità di successo della manovra? «Intanto dobbiamo vedere quanto dura la popolarità del Macron originale, cosa della quale è lecito dubitare», continua Giannuli. «Ma poi, sono anni che dura questa infatuazione esterofila degli italiani che di volta in volta hanno cercato il Blair italiano, il Sarkozy italiano, lo Zapatero italiano, persino lo Tsipras italiano (e qualcuno ci ha addirittura intestato la sua lista elettorale), ma la cosa non ha mai prodotto particolari risultati, proprio per il carattere artificiale ed effimero del tentativo». Copione che non cambierà nemmeno stavolta: probabilmente sforneranno «un prodotto vendibile fra gli elettori italioti», la platea del “Partito della Nazione” già ventilato da Renzi. Piuttosto, Giannuli si concentra sul motivo di queste voci insistenti: può significare che «i poteri forti e le centrali di sistema non si fidino più di Renzi e diano per spacciato Berlusconi che, con i suoi 80 suonati, non ha più prospettive neanche di medio periodo». Si cerca «qualcosa di apparentemente nuovo, che rompa anche con l’ombra delle tradizionali famiglie politiche», considerando che «i partiti della Seconda Repubblica furono pallide imitazioni di quelli della Prima».La vera novità, ragiona Giannuli, «è la liquidazione dei partiti come forme di partecipazione organizzata stabilmente sul territorio, sostituiti dal ruolo di personalità apparentemente carismatiche». Ma oggi nessuno degli aspiranti a questo ruolo sarebbe pronto per le prossime elezioni, per cui «la prossima legislatura sarà solo un intermezzo per permettere la costituzione dei nuovi soggetti e sgombrare il terreno da quelli attuali». Tutto questo, conclude Giannuli, «ha come suo avversario dichiarato il M5S (il “populismo” italiano)». Ma la manovra di riassetto dei poteri forti «probabilmente si avventerà prima di tutto sulla Lega, la cui presenza è di forte disturbo ad una operazione del genere». In altre parole, queste «sono le doglie del parto della Terza Repubblica». E nessuno (a parte Salvini con i suoi slogan) si prenota per l’unica vera battaglia utile: affrontare di petto la distorsione dell’assetto Ue, con Bruxelles che impone agli Stati i suoi diktat, suggeriti dall’élite finanziaria. Lo stesso Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, sta pensando a un nuovo soggetto politico, il Partito Democratico Progressista, guidato da un economista come Nino Galloni. «La prima cosa da fare? Eliminare il pareggio di bilancio dalla Costituzione, andare a Bruxelles e dire, a muso duro: o riscriviamo i trattati europei, o l’Italia abbandona l’Ue».Girano voci, riprese da giornali come il “Foglio”, su chi potrebbe essere il Macron italiano in un prossimo futuro. I nomi più gettonati sono tre: lo scontatissimo Mario Draghi, il ministro dell’interno Marco Minniti e l’editore Urbano Cairo. «Dire Macron – sottolinea Aldo Giannuli – significa dire una cosa: un nuovo partito “liquido” (anzi gassoso) che si presenti come “né di destra né di sinistra”, ma “della nazione”, raccolto intorno ad un personaggio con simpatie trasversali e che si presenti in rottura delle tradizioni politiche precedenti». Di solito, aggiunge il politologo dell’ateneo milanese, «questi discorsi preparano un partito di destra», sostanzialmente «tutto interno al sistema neoliberista», non nuovo ma «solo ben truccato». Ma chi potrebbe interpretare questo ruolo? E con quali probabilità di successo? Soprattutto: che impatto ha già, sul sistema, il semplice fatto che se ne parli? Per Giannuli, in pole position è saldamente il supremo tecnocrate della Bce, che Gioele Magaldi (nel libro “Massoni”, del 2014) presenta come autorevole leader della supermassoneria internazionale reazionaria, espressione dell’élite neo-feudale che, con l’ideologia del rigore, ha azzerato gli storici diritti sociali conquistati negli anni ‘70.
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Magaldi: piango, per questa miserabile politica italiana
Legge elettorale col sistema tedesco? C’è un’invasione di personaggi e culture politiche tedesche: l’Italia sembra tornata a prima della Seconda Guerra Mondiale, quando l’influenza tedesca è stata sinistramente egemone. Oggi, al posto del truculento argomentare di Hitler abbiamo questa apparente pacioccona, questa ragazzotta tedesca ormai invecchiata, che però mette insieme il cinismo di alcuni ambienti dell’ex Germania Est con il peggio delle tendenze imperialiste di lungo corso della Germania, che precedono anche Hitler e la stagione del nazismo. Dopo aver mutuato l’austerità e avere introiettato tutte le “frescacce” che ci sono state propinate, in termini di dottrine economiche disutili per il popolo italiano e per l’Europa, utili solo per una Germania fattasi tramite di poteri sovranazionali, adesso ci viene proposta anche una legge elettorale simile a quella tedesca, proporzionale, con sbarramento al 5%. Quindi non sarebbe un proporzionale vero, che fotografi le articolazioni politiche come fu nella nostra Prima Repubblica, con partiti dignitosissimi con una storia culturale e ideologica importante, magari sotto il 5% ma che fecero cose anche egregie.No, viene proposto questo perché, evidentemente, è un sistema che – come qualcuno ha già detto – in Germania ha prodotto “grosse coalizioni” quasi sempre, mettendo in difficoltà il singolo partito o una colazione netta di governo. Dunque non produce vere alternanze, ingessa il sistema politico e forse è proprio questo il punto: qualcuno pensa che questo ingessamento sia necessario per neutralizzare il Movimento 5 Stelle. D’altra parte, si osserva che lo stesso Grillo, insieme a qualcuno dei pentastellati, potrebbe auspicare questo sistema, perché favorirebbe il nuovo abbraccio tra Berlusconi, Renzi e tutti quanti. Ma stanno già tremando, i “tutti quanti”: perché i vari Alfano e gli pseudo-progressisti di D’Alema, Bersani e Speranza sanno che non arrivano al 5% e quindi dovrebbero trovare prima un modo di ricevere una qualche elemosina dai rispettivi partiti di cui sono satelliti. Grillo sarebbe favorevole perché così, da quell’abbraccio, lui prenderebbe il via, poi, per una stagione in cui trionferebbe, dopo aver visto l’ennesima coalizione degli “impuri” e dei “corrotti”.Io piango, su questa miseria. Piango e rido insieme, come avrebbe detto Giordano Bruno: non saprei se divertirmi o disgustarmi, perché questo è un altro atto di una stagione veramente miserabile della politica italiana, che non ragiona in termini di regole del gioco lungimiranti per tutti, per il bene comune, ma fa calcoli di bottega, di corto respiro. Quindi credo che sia sempre più necessaria l’entrata in campo del “partito che non c’è”, di cui si parlerà il 10 giugno con tanti amici, a partire da quelli di “Pandora.Tv” e Giulietto Chiesa. Parlo del Partito Democratico Progressista. Anche perché, intanto, siamo ancora e sempre alle prese con una serie di saltimbanchi della politica italiana, che anche in questa occasione della legge elettorale non hanno mancato di evidenziare la propria mediocrità e la propria pochezza. Io vedrei con favore, in teoria, qualunque governo che fosse una soluzione di continuità rispetto al recente passato, che ha visto centrodestra, centrosinistra e “grossa coalizione” governare, tutti, male. Discorso di metodo, fatto anche per Roma: nella capitale, centrodestra e centrosinistra avevano mal governato e quindi era giusto dire “avanti la Raggi”. Più saggio e lungimirante sarebbe stato che il gruppo Raggi mettesse al primo posto il benessere di Roma, accettando la nostra proposta di collaborare con Nino Galloni e altre figure del Movimento Roosevelt. Risultato? Il “nuovo che avanza” non governa meglio del “vecchio” che sta là a gufare.E se Roma non è ben governata, il rischio c’è anche per l’Italia, sebbene in uno scenario che non mi sembra imminente: perché questa legge elettorale con lo sbarramento al 5%, che magari ha anche l’appoggio mefistofelico di Grillo e di alcuni pentastellati, non è fatta per far vincere, ora, il Movimento 5 Stelle; è per farlo vincere non domani, ma dopodomani. Però il punto è: su quale programma il Movimento 5 Stelle vuole governare l’Italia? Io ancora non l’ho capito. Forse non è pronto. Da un lato non lo sarà mai, se non si dà una ristrutturazione ideologica. E dall’altro potrebbe esserlo molto presto, se non si pone più soltanto il problema di raccogliere il consenso, ma anche di governare, sia le città che il paese. E non vale l’esempio della Appendino che governerebbe bene Torino, perché quella città si governa bene da sé: è amministrata abbastanza bene da molti anni, a prescindere da chi siede sulla poltrona di primo cittadino. Intendiamoci: ad oggi, il Movimento 5 Stelle ha tutto il diritto di chiedere per sé il governo del paese, per dimostrare di poter fare meglio degli altri, ma non si è ancora strutturato con un programma adeguato allo scopo. Per questo immagino sia ormai davvero inevitabile pensare al “partito che non c’è”.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a David Gramiccioli il 29 maggio 2017 nella diretta radiofonica “Massoneria on Air” su “Colors Radio”. Non è la prima volta che Magaldi accenna all’ipotetico Partito Democratico Progressista, che imposterebbe una politica di completa rottura col passato, partendo da un punto fondamentale: dire “no” a questa Ue, al Fiscal Compact, al pareggio di bilancio nella Costituzione).Legge elettorale col sistema tedesco? C’è un’invasione di personaggi e culture politiche tedesche: l’Italia sembra tornata a prima della Seconda Guerra Mondiale, quando l’influenza tedesca è stata sinistramente egemone. Oggi, al posto del truculento argomentare di Hitler abbiamo questa apparente pacioccona, questa ragazzotta tedesca ormai invecchiata, che però mette insieme il cinismo di alcuni ambienti dell’ex Germania Est con il peggio delle tendenze imperialiste di lungo corso della Germania, che precedono anche Hitler e la stagione del nazismo. Dopo aver mutuato l’austerità e avere introiettato tutte le “frescacce” che ci sono state propinate, in termini di dottrine economiche disutili per il popolo italiano e per l’Europa, utili solo per una Germania fattasi tramite di poteri sovranazionali, adesso ci viene proposta anche una legge elettorale simile a quella tedesca, proporzionale, con sbarramento al 5%. Quindi non sarebbe un proporzionale vero, che fotografi le articolazioni politiche come fu nella nostra Prima Repubblica, con partiti dignitosissimi con una storia culturale e ideologica importante, magari sotto il 5% ma che fecero cose anche egregie.
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La libertà ai tempi del morbillo, i diktat di un’élite screditata
Cosa c’entra la questione vaccini con la crisi dell’Alitalia? Niente. O forse molto. Dipende dalla capacità di leggere nessi forse nemmeno tanto nascosti. Da ormai due anni è in atto una forsennata campagna di allarmismo terroristico nei confronti dell’opinione pubblica basata sulla necessità di incrementare le vaccinazioni di massa, giudicate in leggera flessione statistica. Non questo o quel vaccino in particolare: ma tutti, sempre, per qualunque problema. Si è partiti con articoli e interviste allarmanti sulle epidemie prossime venture (inesistenti picchi di meningite e pandemie di morbillo), si è continuato con lettere intimidatorie delle Asl a casa dei genitori riluttanti, si arriva al capitolo finale, con una legge in incubazione che vieterà l’ingresso a scuola ai non vaccinati e, quindi, obbligherà di fatto, l’intera popolazione giovanile ad adempiere al diktat. Ok, ma l’Alitalia? Ci arriviamo. Il fatto che molte famiglie abbiano scelto in questi anni di non vaccinare i figli e si ostinino a difendere la loro scelta, nonostante il dispiegamento di questa feroce campagna (senza precedenti), è solo un’altra manifestazione di quella diffusa “sfiducia nelle élite”, che è un dato costante e caratteristico di questa epoca.Una volta, il camice bianco, lo scienziato, il “dottore” (figura archetipale della Conoscenza oscura e salvifica), con il solo carisma della funzione e del titolo di studio, esercitavano un’indiscussa egemonia sul popolino, che ne riconosceva acriticamente l’autorità specialistica. Idem per le altre figure preposte alla direzione della società: il politico-amministratore, il banchiere, il dirigente di polizia, il giudice. Mettere in discussione ruoli e competenze delle élite era possibile solo per ristrettissime minoranze critiche, perché la stragrande maggioranza della popolazione non aveva gli strumenti culturali per dissentire dai “gruppi dirigenti”, dai loro linguaggi specialistici, dalle loro ingiunzioni spesso inspiegabili. Chi stava “in basso” era più o meno rassegnato a delegare ai piani superiori la gestione delle grandi questioni che oggi collochiamo nella dimensione etica e bio-politica. Oggi non è più così. Una larga fetta di popolazione, generalmente i settori un po’ più dinamici e informati, nutre un sospetto e uno scetticismo critico “a priori” sulle competenze e sui moventi di ogni gruppo dirigente. È un fenomeno trasversale e secondo alcuni questa sorda e ostile sfiducia di massa, che corre lungo l’asse verticale “basso-alto” della società, è l’essenza di quello che viene definito “populismo”.Una recente inchiesta statistica lamenta il fatto che molti genitori sono andati in questi anni a cercarsi sul web informazioni sui vaccini, finendo vittime di quelle che, i curatori delle inchieste, definiscono costernati come le “solite bufale”. Senza entrare nel merito di una faccenda medico-scientifica assai complessa, pare un atteggiamento saggio quello di muoversi autonomamente e acquisire informazioni. Perché si dovrebbero delegare acriticamente la salute propria o dei figli ad un medico di base o, peggio, alle burocrazie sanitarie? Perché ci si dovrebbe rassegnare all’idea che sia il presidente della Regione – non di rado mediocrissimo funzionario di partito – a decidere le delicatissime strategie di salute pubblica? Non è forse più saggio esercitare un giudizio critico “a priori” rispetto all’affidarsi (sempre “a priori”) a quella classe medica che ogni tanto – in autorevoli suoi segmenti – viene investita da inchieste giudiziarie (non bufale, ma atti delle Procure) mentre esercita sperimentazioni di massa sui pazienti del Servizio Sanitario pubblico per conto di Big Pharma? È a costoro che si dovrebbe consegnare integralmente il delicato tema politico della salute?Tra l’altro l’impressione è che spesso i medici, massa proletarizzata di lavoratori della sanità pubblica, non facciano che ribadire i contenuti delle circolari ministeriali che gli arrivano sulla scrivania. Non hanno le competenze proprie dell’immunologo o dell’epidemiologo, non adottano nemmeno il protocollo minimo richiesto da qualsiasi somministrazione medica: conoscenza preventiva della storia del paziente e osservazione successiva e prolungata nel tempo degli effetti del farmaco somministrato (tutte pratiche incompatibili con il “vaccinificio industriale”). È in tale quadro che il cittadino cerca autonomamente informazioni dove e come può, essendo sostanzialmente vietato da un clima isterico (decisamente antiscientifico) ogni serio e rigoroso dibattito pubblico in materia. E qui si apre l’altro grande nodo di questi tempi: l’uso del web e la questione di chi gestisce l’infosfera ingovernabile della “pubblica opinione”, che tanto inquieta le élite globali. Esisteva un tempo una verità ufficiale capace di imporsi nel discorso pubblico, a cui tutti gli operatori del settore umilmente concorrevano. Tale monopolio del discorso pubblico (di cosa si parla e come se ne parla) pare ormai decisamente incrinato. Si mettano l’anima in pace scienziati, politicanti e giornalisti. I buoi sono usciti e sempre meno gente aderirà ciecamente al pastone mainstream che viene propinato ogni sera nei telegiornali o nei compunti editoriali antipopulisti.E l’Alitalia? Cosa ha a che fare l’Alitalia con la questione vaccini? Il nesso tra i due contesti – vaccini e vertenze – va cercato sul medesimo terreno minato, quello del consenso e della fiducia nei “dirigenti-specialisti”. Nell’ultimo referendum in cui i lavoratori del gruppo hanno votato in massa contro l’ipotesi di accordo, in ballo c’era proprio un “pacchetto” di misure confezionato ad arte da tutti i “professionisti” della gestione delle crisi, convocati attorno a un tavolo in cui, come in una sceneggiatura, tutti i ruoli erano noti e definiti: gli amministratori del gruppo, gli investitori internazionali, i consulenti delle banche creditrici, i saggi politici intervenuti con sollecitudine per la salvezza della ex compagnia di bandiera, i sindacalisti buoni e responsabili. Oltre alla supposta autorevolezza di queste figure, incombeva anche qui il clima terroristico che era alimentato abilmente dai mezzi di comunicazione: «O votate Sì o domattina siete disoccupati». Un ben curioso esercizio di dialettica democratica. Si è detto ai dipendenti di Alitalia: «Ci dispiace, ragazzi; dobbiamo sforbiciare salari, tutele e occupazione, ma che volete mai, dovete conservare pazienza e fiducia, gli specialisti siamo noi, vorreste forse rivendicare il diritto alla gestione di una compagnia aerea? Dateci il vostro consenso, perché è attraverso quello che vi salveremo».Il no di massa dei lavoratori è stato definitivo e fulminante: un’epidemia di dissenso. Qual è il segno politico di tale pronunciamento? Uno solo: «Non ci fidiamo più. Vogliamo vedere il gioco. Non ci fate più paura. Vediamo di cosa siete capaci». Una sfida lanciata dal basso che ha sparigliato i soliti vecchi giochi, generando un panico confuso tra consiglieri di amministrazione, sottogoverno, sindacalismo di Stato, editorialisti: una manica di cialtroni che alla prova dei fatti, sbugiardati e sfiduciati, mostrano tutta la loro pochezza, l’assenza di strategie e di ogni visione che non sia spolpare, spezzettare e svendere la memoria industriale di questo paese. Torniamo ai vaccini. Se dovesse passare una legge sulle vaccinazioni coatte, che succederà di fronte a migliaia di genitori che rivendicheranno il diritto di decidere, comunque, della salute dei propri figli?Che succederà se sfideranno le autorità scolastiche, portando i loro ragazzi a scuola per adempiere a quello che, almeno fino ad oggi, in Italia, è un obbligo di legge? Finirà che deciderà il Tar del Lazio. Come è “normale” che sia in un paese patetico come questo, in cui ai piani alti della società, mentre si esibisce la protervia modernizzatrice, serpeggia una ottocentesca paura del “popolo” – sempre evocato, omaggiato, blandito, ma sotto sotto temuto per le sue imprevedibili reazioni. Le élite italiane sono oggi così deboli, prive di autorità e di egemonia, che ormai l’azione di governo si esercita solo attraverso il comando amministrativo, la decretazione d’urgenza a cui segue, di solito, l’ammucchiata bi-partisan. Sul piano sociale, questa debolezza si manifesta in tante vertenze sindacali o territoriali: tra i Palazzi del potere e le comunità (critiche o rancorose) spesso c’è solo una sfilza di celerini. Niente altro in mezzo. Nessun potere può reggere a lungo su una base di consenso così fragile: un po’ di truppe in camice bianco (i chierici delle varie corporazioni di regime), un po’ di truppe in divisa blu, e in mezzo uno sparuto drappello in giacca e cravatta che twitta moniti e minacce, isolato e intimorito.Una nota finale sulla questione delle libertà. Il sistema tardo-liberale fa di questa parola la sua fonte di legittimazione e la sua bandiera: si va in Afghanistan a liberare le donne in burqa, si svende il patrimonio pubblico per liberalizzare l’economia, si ridisegna tutto il quadro dei diritti individuali per allargare la libertà della persona. Ma se c’è un opzione o un diritto collettivo che cozza con gli imperativi del mercato (vedi la libertà di scelta terapeutica) la reazione del sistema è feroce come un missile Hellfire che piomba su una festa di matrimonio a Kandahar: la retorica pubblica sulle libertà, viene sostituita dalla riemersione delle vecchie care parole d’ordine della società disciplinare – proibire, censurare, espellere, ingabbiare, controllare. Le retoriche del politicamente corretto, del contrasto al populismo, delle isterie securitarie, si sostituiscono in un battibaleno alle ciance sulla libertà e i diritti. Se hai abbastanza soldi puoi farti fare un figlio con maternità surrogata da una disgraziata in Romania: ma se il pupo si vaccina o no (ciò che attiene alle grandi scelte di salute pubblica e business) questo lo decideranno loro.(Giovanni Iozzoli, “La libertà ai tempi del morbillo”, da “Carmilla Online” del 20 maggio 2017).Cosa c’entra la questione vaccini con la crisi dell’Alitalia? Niente. O forse molto. Dipende dalla capacità di leggere nessi forse nemmeno tanto nascosti. Da ormai due anni è in atto una forsennata campagna di allarmismo terroristico nei confronti dell’opinione pubblica basata sulla necessità di incrementare le vaccinazioni di massa, giudicate in leggera flessione statistica. Non questo o quel vaccino in particolare: ma tutti, sempre, per qualunque problema. Si è partiti con articoli e interviste allarmanti sulle epidemie prossime venture (inesistenti picchi di meningite e pandemie di morbillo), si è continuato con lettere intimidatorie delle Asl a casa dei genitori riluttanti, si arriva al capitolo finale, con una legge in incubazione che vieterà l’ingresso a scuola ai non vaccinati e, quindi, obbligherà di fatto, l’intera popolazione giovanile ad adempiere al diktat. Ok, ma l’Alitalia? Ci arriviamo. Il fatto che molte famiglie abbiano scelto in questi anni di non vaccinare i figli e si ostinino a difendere la loro scelta, nonostante il dispiegamento di questa feroce campagna (senza precedenti), è solo un’altra manifestazione di quella diffusa “sfiducia nelle élite”, che è un dato costante e caratteristico di questa epoca.
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“Londra colpita perché vuole smarcarsi dal peggior potere”
Inghilterra nel mirino, e non a caso: dopo lo strappo della Brexit, Londra ha scelto di non stare più dalla parte dell’élite maggiormente reazionaria, neoliberista sul piano economico e neo-feudale a livello politico, ben rappresentata da creazioni-mostro come l’attuale Unione Europea. “Logico”, sotto questo profilo, che la Gran Bretagna sia finita sotto attacco: prima l’attentato-kamikaze di Londra e ora quello di Manchester, la cui “firma” (non certo islamica ma esoterico-massonica) sta proprio nella sua data, 22 maggio. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, scrittore e simbologo, autore del libro “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016. «I mandanti di questo neoterrorismo artificiale sono sempre gli stessi, con modalità operative che ormai si ripetono in modo regolare»: una manovalanza di matrice jihadista in realtà “coltivata” da settori dei servizi segreti, per eseguire attentati puntualmente “firmati”, in codice, come per dire: sì, siamo stati noi. «Io la chiamo sovragestione», precisa Carpeoro, alludendo a un vertice mondiale occulto, composto da superlogge reazionarie e poteri finanziari. «Stanno cercando di fabbricare una nuova classe dirigente planetaria, ma evidentemente l’Inghilterra non si è ancora allineata: per questo viene colpita».Secondo Carpeoro, in diretta streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, c’è da aspettarsi clamorose sorprese, dal Regno Unito che si è sganciato da Bruxelles: «L’Inghilterra, che è la patria storica della massoneria (che vi ha piena cittadinanza istituzionale), sta vivendo uno scontro sempre più acceso nell’establishment, dove – anche a livello massonico – emergono spinte di carattere progressista e addirittura socialista». In più, aggiunge Carpeoro, si accumulano le tensioni in vista delle elezioni per rafforzare il divorzio da Bruxelles, senza contare le pulsioni separatiste come quella della Scozia. In altre parole, l’Inghilterra è in pieno fermento e non è ancora chiaro come si ridislocherà sul piano geopolitico: è questo, insiste Carpeoro, a inquietare gli strateghi occulti della “sovragestione”, gli stessi che hanno “fabbricato” l’Isis e vorrebbero puntare tutto sul business della guerra, dopo aver trasformato il Medio Oriente in un inferno senza vie d’uscita. Londra vorrebbe smarcarsi? Gli attentati-kamikaze sono un avvertimento, «rivolto nel caso di Manchester soprattutto ai giovani, cioè al futuro della nazione: un monito esplicito ai suoi governanti».Il problema, aggiunge Carpeoro, è che non ci sono vere soluzioni in vista: «Lo scontro in Europa è tra chi vorrebbe mantenere l’impresentabile l’Ue così com’è, in perenne crisi, e chi invece vorrebbe smantellare l’Unione per tornare agli Stati nazionali. Non è ancora in campo un credibile progetto di riforma politica, sociale ed economica dell’Europa». Forse qualcosa si sta muovendo, in questo senso, proprio in Inghilterra: rimarrà nella storia lo choc per la separazione dall’oligarchia di Bruxelles. Nebbia fitta invece in Italia, paese che infatti è stato finora risparmiato dal terrorismo finto-islamico. E questo per varie ragioni, spiega sempre Carpeoro: «I nostri servizi segreti hanno disposto una rete di protezione efficiente, tale da rendere complicata l’attuazione di attentati in Italia, paese che – peraltro – grazie alla leadership politica del passato, ha sviluppato rapporti non conflittuali con il mondo arabo». Ma vale anche la geopolitica recente: «L’Italia non si è ancora impegnata, in modo diretto, militare, nelle aree dell’Isis». Forse però l’ultima ragione è la più importante: «A livello internazionale, l’Italia conta zero», sottolinea Carpeoro, che aggiunge: «Al posto di Gentiloni, ripetutamente umiliato al G7 di Taormina, io avrei sciolto il vertice e rimandato a casa Trump, la Merkel e Theresa May».Quanto alla “cabala” del numero 22, nessun mistero: lo stesso giorno (marzo 2016) i soliti “terroristi islamici” colpirono Bruxelles sia nella metropolitana che all’aeroporto, «secondo un preciso schema simbolico, “come in cielo, così in terra”, ben noto al mondo esoterico». Il cosiddetto “codice segreto” legato al numero 22, aggiunge Carpeoro, discende dall’archeologia dei Sumeri e dalla successione dei loro re. «Un sistema numerico da cui poi il mondo iniziatico ha tratto un codice per costruire, scrivere, dipingere, fare musica». Anche quella di Manchester – 22 maggio, ore 22 – è dunque una “firma” estremamente precisa, rivolta a chi può “leggerla” nel modo corretto. A partire dalla stessa Theresa May, che infatti avverte: «Ci aspettiamo altri attentati». Come dire: gli attentatori – i loro mandanti occulti – non credano di averci intimidito. «Dall’Inghilterra mi aspetto di tutto», conferma Carpeoro: «Quel paese sta cambiando i suoi assetti e non ha ancora deciso con chi schierarsi, nel grande gioco mondiale del potere, di cui questo neoterrorismo non è che uno degli strumenti, il più feroce».Inghilterra nel mirino, e non a caso: dopo lo strappo della Brexit, Londra ha scelto di non stare più dalla parte dell’élite maggiormente reazionaria, neoliberista sul piano economico e neo-feudale a livello politico, ben rappresentata da creazioni-mostro come l’attuale Unione Europea. “Logico”, sotto questo profilo, che la Gran Bretagna sia finita sotto attacco: prima l’attentato-kamikaze di Londra e ora quello di Manchester, la cui “firma” (non certo islamica ma esoterico-massonica) sta proprio nella sua data, 22 maggio. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, scrittore e simbologo, autore del libro “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016. «I mandanti di questo neoterrorismo artificiale sono sempre gli stessi, con modalità operative che ormai si ripetono in modo regolare»: una manovalanza di matrice jihadista in realtà “coltivata” da settori dei servizi segreti, per eseguire attentati puntualmente “firmati”, in codice, come per dire: sì, siamo stati noi. «Io la chiamo sovragestione», precisa Carpeoro, alludendo a un vertice mondiale occulto, composto da superlogge reazionarie e poteri finanziari. «Stanno cercando di fabbricare una nuova classe dirigente planetaria, ma evidentemente l’Inghilterra non si è ancora allineata: per questo viene colpita».