Archivio del Tag ‘élite’
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Fioramonti, guru 5 Stelle, tra Rothschild, Soros e Rockefeller
Caro Di Maio, sei sicuro di sapere con chi te ne vai a spasso, a Londra? E voi, grillini militanti e simpatizzati, avete idea di chi sia, davvero, il vostro nuovo guru in materia di economia? Sembra di leggere “Alice nel paese delle meraviglie”, e invece è la pagina Facebook di Nicolas Micheletti, economista sovranista con ufficio in Svizzera, oggi tra i sostenitori della “Lista del Popolo” di Ingroia & Chiesa. Fioramonti, chi è costui? I veri uomini del grande potere, secondo Paolo Barnard, sbucano sempre dal nulla: o meglio, hanno alle spalle anni di carriera in istituzioni finanziarie di vertice, ma restano a lungo nell’ombra, al riparo dai riflettori. Da lì lavorano sodo, in modo formidabile e spesso con un unico obiettivo: mettere in ginocchio gli Stati, imponendo il rigore neoliberista che impoverisce il 99% arricchendo solo l’élite. Come? Con il solito sistema: tagliare la spesa pubblica e alzare le tasse. Ne è un esempio l’Italia uscita con le ossa rotte dalla “cura” Monti, secondo la dottrina dell’avanzo di bilancio: lo Stato che incamera più soldi, dai contribuenti, di quanti ne spenda per i cittadini (sotto forma di deficit postivo). E in piena crisi, col paese allo stremo proprio a causa dell’austerity, chi vanno a pescare i 5 Stelle? Lorenzo Fioramonti, autorevole esponente della scuola più dogmatica, quella del super-rigore.«Ho cercato per giorni di capire da dove cavolo fosse spuntato fuori il punto programmatico del M5S di tagliare il rapporto debito/Pil del 40% in 10 anni», scrive Micheletti sulla sua pagina Facebook: «Ho chiesto in giro, ovunque». Amputare la spesa pubblica del 4% ogni anno? Secondo gli economisti keynesiani è l’autostrada per l’inferno, spacciata per “comportamento virtuoso”: da una parte lo Stato con “i conti in ordine”, dall’altra aziende che licenziano e chiudono, e famiglie alla canna del gas dopo aver bruciato i risparmi di una vita. Uno schema monotono: il teorema “teologico” neoliberista. «I grillini dicono sempre che il programma è tutto scelto dagli attivisti, ma io non ho trovato da nessuna parte alcuna prova (e so cercare bene le info)», scrive Micheletti. «Non sembra essere esistita alcuna votazione al riguardo di questo punto del programma: è chiaramente un punto preso e messo lì dall’alto», quindi «non molto nello stile democratico di cui parlano tanto». Poi, la scoperta: l’obiettivo del massimo rigore ammazza-Italia «l’ha messo lì Fioramonti». Ebbene sì: «Tra tutti gli economisti italiani che il Movimento 5 Stelle poteva scegliere, ha scelto proprio lui». Ma chi è, il professor Fioramonti? Micheletti lo definisce «un simpatico personaggio con un passato molto interessante», in una geografia punteggiata da nomi che tutti conoscono, dalla casata Rothschild a George Soros.Ordinario di economia politica a Pretoria, Sudafrica, Fioramonti insegna «in una università il cui capo è Wiseman Nkuhlu, chairman dei Rothschild» (e il cognome Nkulu, ironizza Micheletti, «è pertinente alla nostra situazione politica»). Noto per gli studi sull’innovazione della governance e per la critica al Pil, da sostituire con altri indicatori di salute, Fioramonti è presidente, nonché unico professore, del progetto Jean Monnet, con specializzazione in studi sull’Ue, in Africa (brutto nome, Monnet: sinonimo di rigore europeo imposto ideologicamente dai padrini storici dell’attuale oligarchia, nemica della democrazia sociale e del benessere diffuso). Non solo: la prefazione dei libri di Fioramonti, continua Micheletti, è a cura di Enrico Giovannini, esponente del Club di Roma e dell’Aspen Institute, due santuari dell’élite finanziaria mondialista. Libri, peraltro, «recensiti dalla London School (Evelyn Rothschild)». In più, aggiunge ancora Micheletti, Fioramonti scrive articoli per la “Open Democracy” di Soros. «E per far felici anche gli immigrazionisti, ha una cattedra in “Integrazione regionale, Migrazione e libera circolazione delle persone”». Chi manca? Rockefeller. «Per chiudere in bellezza», chiosa Micheletti, il buon Fioramonti «ha lavorato anche per la Fondazione Rockefeller. Insomma, un personaggio libero e indipendente da ogni vincolo e intrallazzo con il potere».Caro Di Maio, sei sicuro di sapere con chi te ne vai a spasso, a Londra? E voi, grillini militanti e simpatizzati, avete idea di chi sia, davvero, il vostro nuovo guru in materia di economia? Sembra di leggere “Alice nel paese delle meraviglie”, e invece è la pagina Facebook di Nicolas Micheletti, attivista sovranista vicino a Paolo Barnard. Fioramonti, chi è costui? I veri uomini del grande potere, secondo Barnard, sbucano sempre dal nulla: o meglio, hanno alle spalle anni di carriera in istituzioni finanziarie di vertice, ma restano a lungo nell’ombra, al riparo dai riflettori. Da lì lavorano sodo, in modo formidabile e spesso con un unico obiettivo: mettere in ginocchio gli Stati, imponendo il rigore neoliberista che impoverisce il 99% arricchendo solo l’élite. Come? Con il solito sistema: tagliare la spesa pubblica e alzare le tasse. Ne è un esempio l’Italia uscita con le ossa rotte dalla “cura” Monti, secondo la dottrina dell’avanzo di bilancio: lo Stato che incamera più soldi, dai contribuenti, di quanti ne spenda per i cittadini (sotto forma di deficit postivo). E in piena crisi, col paese allo stremo proprio a causa dell’austerity, chi vanno a pescare i 5 Stelle? Lorenzo Fioramonti, autorevole esponente della scuola più dogmatica, quella del super-rigore.
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Stregoni e partiti all’opera: rassegnarsi a questa agonia Ue
«Finito il tempo degli anestesisti, è ormai arrivato quello degli stregoni». L’esito degli “anestesisti”, scrive Leonardo Mazzei, fa registrare un contestuale avvicinamento delle posizioni di tutte le diverse forze politiche in campo, sulla “questione delle questioni”, cioè «la gabbia dell’euro e dell’Unione Europea».Ovvero: «Tutti a criticare l’Europa così com’è, ma tutti a vendere nel mercato elettorale l’unica soluzione totalmente impossibile, cioè quella della “ridiscussione”, “riforma”, “revisione” dei trattati che è del tutto irrealizzabile, altro non fosse che per la necessità di un voto unanime di 27 paesi con i loro diversi (e spesso contrapposti) interessi in campo». Da qui la conclusione: le elezioni 2018 passeranno e l’euro resterà, dato che nessuno gli torcerà un capello. Ora, «tutte le persone informate dei fatti sanno che, senza affrontare il nodo europeo, non può esserci spazio alcuno: non solo per combattere la disoccupazione e uscire davvero dalla crisi, ma neppure per misure parziali volte quantomeno ad alleviare le sofferenze sociali che la crisi ha portato con sé. Ne consegue che tutti i programmi elettorali, per lo più basati su promesse e obiettivi mirabolanti, sono quanto di più falso la storia elettorale italiana abbia mai registrato fino ad oggi». L’azione degli “anestesisti del sistema” è riuscita: «Il che, dopo 10 anni di crisi tutt’altro che risolta, dopo 5 anni della più indecente delle legislature, è sinceramente sconfortante».E ora? Dopo gli “anestesisti”, scrive Mazzei su “Antimperialista”, avranno successo anche gli “stregoni”? Sono quelli che «lavorano alle future alchimie parlamentari e governative affinché nulla cambi in questo disgraziato paese». Se così non fosse, «non ci proporrebbero ancora il volto di pesce lesso Gentiloni: un volto conservatore come pochi, tanto nella mimica quanto in quel cognome aristocratico che porta». La generale omologazione al credo eurista, però, ancora non basta a disegnare una maggioranza in grado di reggersi in piedi. «O meglio, questa omologazione, proprio perché rende possibili diverse soluzioni variamente gradite a lorsignori, sembra non determinare ancora una chiara gerarchia nelle loro preferenze». Eppure, continua Mazzei, questa gerarchia esiste: «I dominanti son sempre previdenti, e – almeno quando possono permetterselo – oltre al piano A cercano sempre di avere un piano B». Da qui una certa apparente confusione, che adesso inizia però a diradarsi. Il piano A è rimasto quello che avevano pensato in autunno, le cosiddette “larghe intese”, «formula alquanto vaga che voleva nascondere quel patto Renzi-Berlusconi che ha consentito la forzatura del Rosatellum». Questo piano ha oggi però una variante, quella che prevede a Palazzo Chigi un “terzo uomo”: non più il ritorno del Bomba, «ma un personaggio più grigio e addomesticabile: se non Gentiloni, magari Padoan».Ecco a cosa è servita la pressione su Renzi: a fargli accettare il passo indietro sulla presidenza del Consiglio, sostiene Mazzei. «Certo, se il Pd dovesse recuperare rispetto ai sondaggi il fiorentino rispolvererebbe all’istante le sue ambizioni. Ma non pare proprio che sia questa l’aria che tira». C’è però un piano B, quello del “governo del presidente” evocato da D’Alema. «A seconda dei risultati, il piano B potrà essere una scelta o una necessità». Una scelta, qualora i numeri del piano A risultassero troppo risicati. Una necessità, se quei numeri proprio non vi fossero. «La differenza tra questi due piani è ovvia: il primo esclude i Cinque Stelle, il secondo li ricomprende». Nel primo caso, al M5S verrebbe assegnato «il classico ruolo dell’opposizione di Sua Maestà», mentre nel secondo «quello di ruota di scorta governativa delle più collaudate forze sistemiche». La prima soluzione, assicura Mazzei, è quella per cui lavorano gli “stregoni” dell’informazione. La seconda è una possibile necessità «non più esclusa per principio dall’oligarchia, ma solo considerata un po’ meno vantaggiosa della prima».Se oggi Renzi sta tornando buono per il mainstream, argomenta l’analista, è perché un Pd in caduta libera finirebbe per determinare nei collegi uninominali una polarizzazione M5S-destra, assai più che Pd-destra. «Con il risultato, ben colto dai sondaggisti, di danneggiare non solo il partito di Renzi al centro-nord, ma pure la destra al sud e nelle isole». Ecco allora il duro lavoro degli “stregoni della comunicazione” per riportare su le quotazioni del Bomba. «In cambio Renzi, ha dovuto platealmente dismettere il suo refrain preferito, quello del vincitore delle primarie come unico candidato alla guida del governo da parte del Pd. Oggi per Palazzo Chigi gli va bene un Pd-purchessia, domani accetterà forse anche un non-Pd-purchessia pur di non tornare nell’anonimato della sua Rignano». Certo, quello degli “stregoni” è un lavoro duro, «specie con questi chiari di luna». Lavoro che «sarebbe quasi impossibile, se solo vi fosse un’alternativa politica credibile. Ma questa non c’è. C’è anzi la sua negazione fatta persona nel volto neodemocristiano di Luigi Di Maio». Italia senza speranze: mala tempora currunt, sintetizza Mazzei.«Finito il tempo degli anestesisti, è ormai arrivato quello degli stregoni». L’esito degli “anestesisti”, scrive Leonardo Mazzei, fa registrare un contestuale avvicinamento delle posizioni di tutte le diverse forze politiche in campo, sulla “questione delle questioni”, cioè «la gabbia dell’euro e dell’Unione Europea».Ovvero: «Tutti a criticare l’Europa così com’è, ma tutti a vendere nel mercato elettorale l’unica soluzione totalmente impossibile, cioè quella della “ridiscussione”, “riforma”, “revisione” dei trattati che è del tutto irrealizzabile, altro non fosse che per la necessità di un voto unanime di 27 paesi con i loro diversi (e spesso contrapposti) interessi in campo». Da qui la conclusione: le elezioni 2018 passeranno e l’euro resterà, dato che nessuno gli torcerà un capello. Ora, «tutte le persone informate dei fatti sanno che, senza affrontare il nodo europeo, non può esserci spazio alcuno: non solo per combattere la disoccupazione e uscire davvero dalla crisi, ma neppure per misure parziali volte quantomeno ad alleviare le sofferenze sociali che la crisi ha portato con sé. Ne consegue che tutti i programmi elettorali, per lo più basati su promesse e obiettivi mirabolanti, sono quanto di più falso la storia elettorale italiana abbia mai registrato fino ad oggi». L’azione degli “anestesisti del sistema” è riuscita: «Il che, dopo 10 anni di crisi tutt’altro che risolta, dopo 5 anni della più indecente delle legislature, è sinceramente sconfortante».
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“Repubblica” in declino? Però ha vinto: ha spento la sinistra
Volano stracci tra Eugenio Scalfari e Carlo De Benedetti, che forse vorrebbe liberarsi del giornale-partito nato nel 1976 «per traghettare la sinistra dall’ideologia sovietico-marxista a quella atlantico-liberale». Non è strano che saltino i nervi, scrive Federico Dezzani nella sua “breve storia, non ortodossa”, del secondo quotidiano italiano: “Repubblica” è scesa a poco più di 200.000 copie, contro le oltre 400.000 di appena sette anni fa, quando Ezio Mauro la schierò frontalmente nella battaglia contro Berlusconi. «Il crepuscolo della Seconda Repubblica avanza minaccioso e non è certo casuale che sia accompagnato dalla crisi del quotidiano che, senza dubbio, ha dominato questo periodo della storia italiana», scrive Dezzani nel suo blog. Nato «per affiancare “L’Unità”», quotidiano del Pci, «e sensibilizzare Botteghe Oscure sulle tematiche “liberali”», il giornale «cavalca nei primi anni ‘80 il caso P2, poi assiste l’assalto giudiziario che nel 1992-93 demolisce la Prima Repubblica», quindi «assume la funzione di mentore della sinistra post-comunista, traghettandola nella metamorfosi Pci-Pds-Ds-Pd», e infine «detta l’agenda al governo se la sinistra vince le elezioni», oppure «guida l’opposizione antiberlusconiana, se la sinistra le perde».
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E bravo Di Maio, l’aspirante massone che spara sui massoni
Bella faccia di bronzo, Luigi Di Maio: spara contro la massoneria dopo aver bussato, ripetutamente, alle porte più esclusive dei peggiori club supermassonici internazionali, quelli reazionari dell’ultra-destra finanziaria. Lo afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere) che svela la geografia segreta del super-potere massonico mondiale. La frase “incriminata”, di Di Maio l’ha pronunciata in televisione, davanti alle telecamere de “La7”: «Chi urla odio razziale, chi usa espressioni omofobe, chi è iscritto alla massoneria, chi nella propria vita ha portato azioni indecenti non si può candidare col Movimento 5 Stelle». Immediata la replica di Stefano Bisi, leader del Grande Oriente d’Italia: «Mi sono chiesto innanzitutto come un politico che aspira a diventare il futuro presidente del Consiglio, e quindi a rappresentare democraticamente tutti gli italiani senza barriere precostituite, possa usare in maniera irresponsabile e violenta certe affermazioni gratuite». Disse Voltaire: «Disapprovo ciò che dici, ma difenderò sino alla morte il tuo diritto di dirlo». L’esatto contrario della “dottrina Di Maio”, che ricorda le infauste leggi fasciste che nel 1925 portarono alla persecuzione dei massoni. Ma peggio: magari Di Maio fosse solo fuori strada. E’ anche clamorosamente ipocrita, dice Magaldi, perché il primo a voler entrare in massoneria è proprio lui.«L’ipocrisia e la doppiezza di Luigi Di Maio si fanno addirittura iperboliche, perché il giovanotto ha bussato al gotha delle aristocrazie massoniche neoaristocratiche, non di quelle progressiste», scrive Magaldi su “Grande Oriente Democratico”. Il leader grillino «per poco non è stato preso a pernacchie», in quei salotti di Londra e di Washington, «ma la vicenda ha un carattere tristemente esemplare, perché illustra efficacemente il modus operandi del personaggio in questione e di certa massonofobia militante la quale, privatamente, anela proprio a ciò che in pubblico demonizza e discrimina». E poi c’è un diffuso meccanismo, aggiunge Magaldi, che «induce determinati soggetti politici a scagliarsi contro i massoni che si presentino ufficialmente come tali, senza paludamenti», per poi invece «accogliere a braccia aperte chi conservi un profilo massonico accuratamente segretato». Attenzione: la sortita anti-massonica di Di Maio non è stata casale, ma premeditata: «In quelle parole del candidato premier pentastellato c’è molta ambiguità e ambivalenza». Ovvero: «C’è un messaggio polivalente, rivolto a diversi interlocutori nazionali e internazionali». Un intervento «odioso e ipocrita, apparentemente massonofobico», rivolto – in codice – a soggetti ai quali Di Maio di sta probabilmente ancora rivolgendo. Morale: «Il Movimento 5 Stelle merita un leader migliore».«Una volta che sarà stato celebrato l’ingannevole rito elettorale del 4 marzo, Luigi Di Maio non solo non avrà vinto le elezioni, ma avrà dimostrato di essere stato la peggiore scelta possibile, come “frontman”», scrive Magaldi sul blog del Movimento Roosevelt. Il giorno dopo le elezioni, quindi, «sarà bene che l’intero Movimento 5 Stelle – garante e padre fondatore Beppe Grillo in testa – ripensi alcune modalità comunicative e strutturali dell’avventura pentastellata», anche perché «chi si candida a governare una grande nazione democratica e repubblicana come l’Italia non può permettersi il lusso di discriminare pregiudizialmente la partecipazione politica al proprio movimento di categorie di persone – i massoni – tra le fila dei quali si annoverano peraltro i maggiori eroi del Risorgimento e i più autorevoli padri della Costituzione del 1948». Più in generale, l’asserita interdizione ai liberi muratori («evidentemente a quelli che non fanno mistero di essere tali») di partecipare alla vita politica del M5S e/o di essere candidati tra le sua fila, «non solo viola il testo costituzionale italiano e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ma favorisce semmai l’infiltrazione tra i pentastellati di massoni segreti e coperti, cui nessuno potrà contestare l’appartenenza latomistica ed escluderli da liste elettorali, proprio in quanto segreti e coperti».Perciò, conclude Magaldi, «lunga vita e in bocca al lupo ai tanti ottimi candidati sinceramente democratici e progressisti delle liste M5S (in primis a Pino Cabras, giornalista e intellettuale di grande pregio e spessore), ma qualcuno si prenda la briga di sottoporre Luigi Di Maio a un corso accelerato di etica costituzionale e di principi democratici, liberali e libertari, sottraendolo alle pessime figure e alla sicura débâcle cui lo condurrà la sua insipiente, pretestuosa e insincera massonofobia». Dalle parole di Di Maio, secondo Magaldi, emerge «un abisso di ipocrisia». Intanto, sparando contro “i massoni” come categoria, attenta ai diritti costituzionali degli aderenti alla massoneria. «E sarebbe lo stesso se costui avesse usato parole discriminatorie e liberticide contro altre categorie socio-antropologiche: cattolici, ebrei, musulmani, simpatizzanti di tale o talaltra dottrina filosofica, religiosa o sapienziale, inquadrati o meno in associazioni, come la massoneria, perfettamente legali, legittime e costituzionali, e anzi all’origine della nascita stessa delle Costituzioni democratiche moderne e contemporanee». Ma, appunto, il leader grillino non è neppure sincero: «Non si può trascurare il fatto che Luigi Di Maio (al pari di Matteo Renzi, che lo ha preceduto in termini quasi identici), da mesi, stia cercando di trovare a Londra e a Washington qualcuno che gli apra le porte di templi massonici prestigiosi».Bella faccia di bronzo, Luigi Di Maio: spara contro la massoneria dopo aver bussato, ripetutamente, alle porte più esclusive dei peggiori club supermassonici internazionali, quelli reazionari dell’ultra-destra finanziaria. Lo afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere) che svela la geografia segreta del super-potere massonico mondiale. La frase “incriminata”, Di Maio l’ha pronunciata in televisione, davanti alle telecamere de “La7”: «Chi urla odio razziale, chi usa espressioni omofobe, chi è iscritto alla massoneria, chi nella propria vita ha portato azioni indecenti non si può candidare col Movimento 5 Stelle». Immediata la replica di Stefano Bisi, leader del Grande Oriente d’Italia: «Mi sono chiesto innanzitutto come un politico che aspira a diventare il futuro presidente del Consiglio, e quindi a rappresentare democraticamente tutti gli italiani senza barriere precostituite, possa usare in maniera irresponsabile e violenta certe affermazioni gratuite». Disse Voltaire: «Disapprovo ciò che dici, ma difenderò sino alla morte il tuo diritto di dirlo». L’esatto contrario della “dottrina Di Maio”, che ricorda le infauste leggi fasciste che nel 1925 portarono alla persecuzione dei massoni. Ma peggio: magari Di Maio fosse solo fuori strada. E’ anche clamorosamente ipocrita, dice Magaldi, perché il primo a voler entrare nei grandi circuiti delle superlogge è proprio lui.
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Cresce il Pil? Male: il 90% della popolazione ci rimette soldi
Ogni tanto trapela qualche dato reale sullo stato di salute del paese, tra le varie notizie di propaganda che dipingono un’Italia irreale, in cui vengono spacciati per “crescita” un aumento quasi impercettibile del Pil, peraltro solo stimato, e una diminuzione lievissima del tasso di disoccupazione, che è attualmente alle stelle, perlopiù legata a fattori stagionali. Come già l’Ocse, segnala l’economista Ilaria Bifarini, autrice del “Diario di una bocconiana redenta”, è ora l’Istat a puntare il dito contro il livello di disuguaglianza crescente all’interno della società italiana: «Mentre una fascia ristretta della popolazione diventa sempre più ricca, la schiacciante maggioranza si impoverisce. In un solo anno, dal 2015 al 2016, la percentuale di italiani a rischio povertà o esclusione sociale è passata dal 28,7% al 30%». Il trend non è solo nazionale: «Rispecchia una tendenza globale in atto già da decenni ed è strettamente collegato alla modello “di sviluppo” neoliberista e alla finanziarizzazione dell’economia ad esso connessa». Infatti, se osserviamo i valori relativi al reddito medio del 99% della popolazione più povera e dell’1% più ricco, «osserviamo come i primi siano cresciuti fortemente a partire dal dopoguerra fino agli anni ‘70, contro un ritmo più moderato del secondo gruppo. Improvvisamente il trend si inverte, inizia il rallentamento della ricchezza del 99% più povero (cioè la stragrande maggioranza della popolazione del mondo, cioè noi) a fronte di un’impennata del reddito dell’1% più ricco».Cosa accade in questi anni? Di certo, scrive Bifarini nel suo blog, non è casuale che proprio il 1973, anno della crisi petrolifera e della conseguente stagnazione, segni la data di morte del keynesismo e il trionfo indiscusso della dottrina neoliberista. «L’economia reale lascia il passo alla finanza, che diventa sempre più predatoria e totalizzante», mentre l’apertura al commercio mondiale globalizzato «diventa sempre più completa e priva di protezioni statali». Infine, «l’inflazione e il debito pubblico diventano i nemici giurati, mentre l’austerity il nuovo culto». L’indice di Gini, che misura il livello di disuguaglianza all’interno di una popolazione, «cresce su scala globale, come riflesso di un modello economico fallimentare e infondato applicato a livello universale». In uno studio effettuato sul caso degli Stati Uniti, addirittura, «è stato stimato che una crescita del 2% del Pil comporta una decrescita del reddito del 90% della popolazione». Per Ilaria Bifarini, «siamo dunque di fronte a un modello economico di crescita antisociale, in cui all’aumento del reddito globale corrisponde un impoverimento della quasi totalità della popolazione, ad eccezione di una ristretta fascia di élite che si fa sempre più esclusiva». Basti pensare che nel 2012 «metà della ricchezza mondiale era concentrata in soli 64 individui». E oggi «la stessa ricchezza è detenuta da un manipolo limitatissimo di otto persone».D’altronde, sottolinea l’analista, le proiezioni dell’Ocse sul lungo periodo parlano chiaro: «Saremo sempre più poveri e più diseguali, tanto che da qui a una quarantina d’anni il tasso di disuguaglianza aumenterà del 40%». La correlazione con il modello economico neoliberista, e in particolare con il “mantra” dell’austerity, «è talmente evidente che persino il Fondo Monetario Internazionale, l’istituzione icona delle politiche neoliberiste, in un suo studio (“Neoliberalism Oversold”, del 2016) ha dovuto riconoscere la fallacia di questa politica». È stato calcolato che, in media, «un consolidamento del debito pari all’1% del Pil aumenta dello 0,6% il livello di disoccupazione di lungo termine e fa crescere dell’1,5% in cinque anni il tasso di disuguaglianza». Secondo gli economisti del Fondo Monetario, infatti, «le politiche di austerity non solo comportano costi per il welfare, ma danneggiano anche la domanda, aggravando così il problema della disoccupazione, in un circolo vizioso che aumenta la disuguaglianza, nonché la corruzione a essa correlata». Per cui, «non è difficile comprendere come l’élite di privilegiati eserciti un potere sempre maggiore su una fascia sempre più alta della popolazione a rischio povertà, disposta ad accettare le logiche clientelari per sopravvivere». Eppure, nonostante l’evidenza, «gli organismi economici sovranazionali che governano il mondo continuano ad applicare le stesse rovinose politiche economiche, che risultano altamente efficaci e redditizie per quell’1% della popolazione».Ogni tanto trapela qualche dato reale sullo stato di salute del paese, tra le varie notizie di propaganda che dipingono un’Italia irreale, in cui vengono spacciati per “crescita” un aumento quasi impercettibile del Pil, peraltro solo stimato, e una diminuzione lievissima del tasso di disoccupazione, che è attualmente alle stelle, perlopiù legata a fattori stagionali. Come già l’Ocse, segnala l’economista Ilaria Bifarini, autrice del “Diario di una bocconiana redenta”, è ora l’Istat a puntare il dito contro il livello di disuguaglianza crescente all’interno della società italiana: «Mentre una fascia ristretta della popolazione diventa sempre più ricca, la schiacciante maggioranza si impoverisce. In un solo anno, dal 2015 al 2016, la percentuale di italiani a rischio povertà o esclusione sociale è passata dal 28,7% al 30%». Il trend non è solo nazionale: «Rispecchia una tendenza globale in atto già da decenni ed è strettamente collegato alla modello “di sviluppo” neoliberista e alla finanziarizzazione dell’economia ad esso connessa». Infatti, se osserviamo i valori relativi al reddito medio del 99% della popolazione più povera e dell’1% più ricco, «osserviamo come i primi siano cresciuti fortemente a partire dal dopoguerra fino agli anni ‘70, contro un ritmo più moderato del secondo gruppo. Improvvisamente il trend si inverte, inizia il rallentamento della ricchezza del 99% più povero (cioè la stragrande maggioranza della popolazione del mondo, cioè noi) a fronte di un’impennata del reddito dell’1% più ricco».
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L’Italia è malata di cancro, per colpa della vera mafia: l’Ue
«Non mi ero scordato della profezia Montanelli sull’Italia che avrebbe dovuto immunizzarsi da Berlusconi», dice Paolo Barnard, che oggi propone di “immunizzarsi” dai 5 Stelle (votandoli) che il giornalista considera un’autentità calamità nazionale per inadeguatezza e impreparazione, inaudita suddistanza al padre-padrone Grillo e al vertice del “partito-azienda” incarnato dalla struttura dei Casaleggio. L’anziano Montanelli, irritato per la “discesa in campo” del Cavaliere nel ‘94? «L’impianto teorico dell’immunizzazione era giustissimo», ma il direttore del “Giornale” sbagliò bersaglio: «Il motivo per cui l’Italia non s’immunizzò da Berlusconi fu che Berlusconi è stato, delle due, una cura per l’Italia. Montanelli – che fu socialmente miope come una talpa incappucciata quando credette che l’Italia ‘bene’ l’avrebbe seguito fuori dal “Giornale” – fu trascinato dalla bestiale ondata Travaglio-Vajont la cui narrativa era che il Cavaliere rappresentava la porno-Nutella della mafia a Palazzo Chigi, cioè il peggio mai conosciuto dall’Italia di Calamandrei». Per Barnard, il tragico errore di quel postulato montanelliano «fu nella sua totale incomprensione di cosa sia una vera mafia e di cosa sarebbe stato il peggio mai conosciuto dall’Italia».«La vera mafia, cioè una cupola non eletta e mirante a spolpare vivo senza pietà il popolo italiano, non stava affatto a Palermo, ma a Bruxelles», scrive Barnard nel suo blog. «La mafia di Palermo, dai tempi di Garibaldi in poi, mai ebbe (e mai avrà) il potere di ridurre quello che era il settimo più ricco paese del pianeta a un maiale (Piigs) d’Europa». Un “maiale” «ridicolizzato dal mondo, bastonato e rapinato dalla Germania, e tutto ciò in meno di 11 anni». Insiste, Barnard: «Bruxelles con la sua vera mafia c’è riuscita, ha avuto questo potere». Quanto alla politica italiana, «chi era di casa a Palermo era Berlusconi», mentre «chi era di casa a Bruxelles erano Amato, Ciampi, Padoa Schioppa, Visco, D’Alema», fino ai “salvifici” tecnocrati come Vittorio Grilli e Pier Carlo Padoan. «E guardatevi intorno come ci hanno ridotti. Goldman Sachs nel suo Global Outlook 2017 boccia nell’imbarazzo una sola nazione europea: l’Italia delle riforme dei sopraccitati criminali collusi, oggi ultima in Ue sotto la Spagna e la Grecia come proiezioni di crescita». Il peggio mai conosciuto dall’Italia? «Fu di fatto, e per 16 anni filati, contrastato (almeno un minimo) solo da Silvio Berlusconi, «che per questo fu deposto nel golpe finanziario del novembre 2011 (Trichet-Monti-Napolitano)», che Barnard per primo denunciò «con grafici e prove» in televisione, a “Matrix” (“Canale 5”) e poi a “L’Ultima Parola” e “La Gabbia” (La7).Una «criminale opera di distrazione di massa, divenuta distruzione», secondo Barnard è stata condotta da «speculatori come Travaglio, Luttazzi, Biagi, Santoro, la Guzzanti, Gomez e il codazzo poi nato, anche con Mediobanca e De Benedetti», Quella violenta propaganda contro Berlusconi impedì (e oggi impedisce) a tre quarti del paese di pervenire all’orribile verità. Montanelli? «Ci chiese d’immunizzarci dal sudore, cosa inutile e impossibile, mentre un melanoma micidiale stava invadendo la pelle di tutta l’Italia col Trattato di Maastricht». Giunti a questo punto, cioè alla farsa conclamata delle elezioni 2018 (promesse-fotocopia e nessun accenno alle vere cause Ue della crisi), Barnard ribadisce che voterà proprio per i detestati grillini, che a suo dire «rappresentano una tripla voragine». Ovvero: «L’allucinante speculazione della CasaleggioForProfit su 60 milioni di noi», nonché «la più intimidatoria cultura dell’omertà-terrore in un partito, dal fascismo a oggi», e infine «la mortale impreparazione di chiunque lì dentro a governare un paese quasi morto fra Usa, Cina ed Emergenti». Il Movimento 5 Stelle? «Davvero è come la peste», scrive Barnard. Per cui, conclude, «dobbiamo “ammalarci di loro”, e sperare nella immunizzazione per sempre dal peggior partito italiano dai giorni di Calamandrei».«Non mi ero scordato della profezia Montanelli sull’Italia che avrebbe dovuto immunizzarsi da Berlusconi», dice Paolo Barnard, che oggi propone di “immunizzarsi” dai 5 Stelle (votandoli) che il giornalista considera un’autentità calamità nazionale per inadeguatezza e impreparazione, inaudita sudditanza al padre-padrone Grillo e al vertice del “partito-azienda” incarnato dalla struttura dei Casaleggio. L’anziano Montanelli, irritato per la “discesa in campo” del Cavaliere nel ‘94? «L’impianto teorico dell’immunizzazione era giustissimo», ma il direttore del “Giornale” sbagliò bersaglio: «Il motivo per cui l’Italia non s’immunizzò da Berlusconi fu che Berlusconi è stato, delle due, una cura per l’Italia. Montanelli – che fu socialmente miope come una talpa incappucciata quando credette che l’Italia ‘bene’ l’avrebbe seguito fuori dal “Giornale” – fu trascinato dalla bestiale ondata Travaglio-Vajont la cui narrativa era che il Cavaliere rappresentava la porno-Nutella della mafia a Palazzo Chigi, cioè il peggio mai conosciuto dall’Italia di Calamandrei». Per Barnard, il tragico errore di quel postulato montanelliano «fu nella sua totale incomprensione di cosa sia una vera mafia e di cosa sarebbe stato il peggio mai conosciuto dall’Italia».
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Non c’è posto per tutti, il sistema è progettato per escludere
Un famoso sociologo americano fece il ragionamento della nave da crociera. Dice: mettiamo che sia una grande nave, con a bordo 100 crocieristi. Ma chi ha fabbricato la nave l’ha progettata in modo che ci fossero solo 50 sedie sdraio. A quel punto, è assolutamente automatico che 50 crocieristi prendono il sole seduti e 50 no. E’ irrilevante, il modo in cui si crea la divisione tra le due classi: se sia la forza, se sia l’autorità, se sia l’autorevolezza, se siano i soldi pagati. Si creano due classi, cioè una prima gerarchia: 50 hanno la sedia sdraio e 50 non ce l’hanno. Il problema è che, i 50 che non ce l’hanno, la prima cosa che pensano è: come fottere la sedia sdraio a chi ce l’ha. E allora succede che questa gerarchia, chi le sedie le ha, decide di dividerla: e 20 li convince, con una serie di concessioni (magari cedendo loro le sdraio per un determinato giorno alla settimana) a diventare custodi delle sedie sdraio di quelli che ce l’hanno. Quindi si creano tre classi: quelli che hanno la sedia sdraio, quelli che custodiscono la sdraio per quelli che ce l’hanno, e quelli che la sedia continuano a non averla. Nel frattempo, qualche sedia sdraio si rompe, quindi variano anche le dimensioni quantitative tra quelli che hanno la sedia sdraio e quelli che non ce l’hanno.Apparentemente, quelli che ce l’hanno diventano la maggioranza, rispetto a quelli che non ce l’hanno, ma invece poi diventano minoranza: le sedie si rompono, il numero di quelli che non ce l’hanno rimane invariato e il numero di quelli che ce l”hanno diminuisce – anzi, qualcuno viene degradato a non averla. Questo avviene soprattutto per la famosa crisi delle sedie sdraio: se c’è la crisi, quelli che hanno la sdraio diminuiscono e quelli che non ce l’hanno aumentano. I custodi delle sedie sdraio a loro volta si dividono, tra quelli che decidono di usare lo spirito e quelli che decidono di usare la spada. Nascono i sacerdoti e i cavalieri, per difendere i possessori di sedie straio: la classe sacerdotale e la classe militare hanno stessa funzione (custodire le sedie sdraio) ma usano strumenti diversi, la religione o la guerra. A questo punto, nella classe di quelli che non hanno la sedia sdraio, invitabilmente, qualcuno – magari degradato perché prima la sedia l’aveva, magari perché ha strumenti intellettuali in più – decide di racimolare materiale presente sulla nave per costruire delle nuove sedie sdraio.Ma quelli che la sedia sdraio ce l’hanno si sono ormai abituati ad avere un certo spazio attorno a sé, a godersi in esclusiva i servizi del bar. E allora cosa fanno? Attivano i custodi delle sedie sdraio – in particolare i militari – per impedire che si costruiscano nuove sedie sdraio. A questo punto il sistema, che prima aveva delle aparture, fabbrica solo delle chiusure, perché quelli che hanno la sedia sdraio decidono di non rinunciare a niente di quello che hanno, in termini di spazio, di servizi, di agevolazioni. Non vogliono cedere nulla, nonostante il fatto che altri potrebbero avere una sedia sdraio senza rubargli la loro. Ecco, questo della crociera è lo schema della società dei consumi: è uno schema che mostra, nitidamente, il degrado della società dei consumi – la sua degenerazione, perché teoricamente la società dei consumi potrebbe anche funzionare un po’ meglio, ma è inesorabilmente destinata a questo tipo di degenerazione. Vie d’uscita? Una sola: non fare le crociere.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, su YouTube il 28 gennaio 2018).Vengo anch’io? No, tu no. Ma perché? «Perché no», è la non-risposta più famosa della canzone italiana, resa immortale dal grande Enzo Jannacci. Il concetto? Ferocemente chiarissimo: qualcuno non vuole che, a bordo, ci sia posto per tutti. Il posto ci sarebbe, beninteso, ma il sistema non lo prevede: chi si è accaparrato le migliori poltrone non le molla. E anzi, arruola guardiani per farsele difendere. «E’ lo schema del degrado inevitabile della società dei consumi», spiega Gianfranco Carpeoro, citando un caso di scuola della sociologia made in Usa: la parabola della nave da crociera. «Mettiamo che sia una grande nave: i crocieristi a bordo sono 100, ma chi ha fabbricato la nave l’ha progettata in modo che ci fossero solo 50 sedie sdraio». A quel punto, è assolutamente automatico che 50 crocieristi prendano il sole seduti e 50 no. «E’ irrilevante, il modo in cui si crea la divisione tra le due classi: se sia la forza, se sia l’autorità, se sia l’autorevolezza, se siano i soldi pagati. Si creano due classi, cioè una prima gerarchia: 50 hanno la sedia sdraio e 50 non ce l’hanno». Ovviamente, chi è rimasto senza sedia, la prima cosa a cui pensa è: come rubarla a chi la sdraio ce l’ha. E allora scatta la manipolazione: in cambio di qualche concessione (l’uso temporaneo della loro sdraio) i 50 possessori convincono 20 non-possessori a diventare custodi di quelle benedette sedie sdraio.
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La sfida dell’eresia, dai Catari al mondo del pensiero unico
“Airesis”: scelta, contraria al dogma. A cosa servono, gli eretici? Spesso, a far fare passi da gigante, al mondo. La nonviolenza di Gandhi di fronte alla brutalità coloniale inglese. L’eroica tenacia di Nelson Mandela, ai lavori forzati per aver denunciato il delirio sociale di un paese africano per soli bianchi. Può vincere, l’eresia? Forse alla distanza, aprendo una crepa innanzitutto culturale, per poi scavare nella coscienza di ciascuno. Sul piano politico, invece, generalmente gli eretici vengono sconfitti, e il più delle volte ci rimettono la pelle. Martin Luther King sognava un’America fraterna, senza più discriminazioni razziali. Yitzhak Rabin osò immaginare un Medio Oriente libero dall’odio e dall’orrore. Sacco e Vanzetti? Fritti sulla sedia elettrica per aver lottato contro un sistema ingiusto. Thomas Sankara voleva un’Africa nuova, sollevata dal giogo finanziario del debito occidentale. Sono caduti tutti, ma oggi siedono in un pantheon intoccabile: in un certo senso, sono ancora qui. Non è possibile cancellare l’immagine del giovane Cassius Clay che getta nel fiume Hudson la medaglia olimpica conquistata a Roma, dopo esser stato respinto – perché “negro” – da un ristorante di New York. Il dissidente compie sempre qualche gesto simbolico, che costringe l’umanità a pensare. A ragione o a torto, l’eretico rischia in prima persona. Si ribella a un dogma imposto, cioè al non-pensiero di un mondo senza libertà.In questa Italia frastornata da una campagna elettorale stanca e mediocre, condizionata dal dogmatismo neoliberista del pensiero unico imposto da Bruxelles, serpeggia la tentazione di una sorta di diserzione di massa, mentre cresce – silenziosamente – una minoranza sempre meno sparuta di cittadini che si fanno domande, si documentano in proprio e si riuniscono, consultando esperti, nel fondato sospetto che qualsiasi versione ufficiale – dai vaccini alla geopolitica fino alla storiografia, passando per l’esegesi biblica dottrinaria – sia sempre inattendibile, incompleta, reticente. E’ un panorama, questo, nel quale fioriscono iniziative impensabili, fino a dieci anni fa: come la lusinghiera campagna di crowdfunding per finanziare, dal basso, il documentario “Bogre”, girato da Fredo Valla tra Bulgaria, Italia, Catalogna e soprattutto Occitania. Un viaggio affascinante, che ripercorre le remote geografie della più importante eresia del medioevo, cioè il Cristianesimo “dualistico” interpretato dai bogomili nei Balcani e poi dai càtari, i “bulgari” travolti dalla Crociata Albigese nella contea di Tolosa, per poi essere annientati da settant’anni di spietate persecuzioni ad opera dell’Inquisizione. Una tragedia che causò la rovina socio-economica della terra dei Trovatori, che alla fine del 1100 era tra le regioni europee più prospere e avanzate, più libere e tolleranti.Fu un trauma, per lo sviluppo armonico dell’Europa: lo sostiene una scrittrice a sua volta “eretica” come Simone Weil, secondo cui proprio la brutale repressione dell’eresia càtara – gli assedi e le stragi, il terrore scatenato dagli inquisitori – alimentò nel continente la generale rassegnazione al culto della forza, alla guerra come esito inevitabile di qualsiasi conflitto, fino al supremo orrore dell’abominio nazista. Chi è l’eretico? E’ uno che si alza in piedi e dice, semplicemente: non sono d’accordo. E spiega il perché. Chi lo ascolta, sa che sta rischiando il carcere, magari la vita. Il coraggio dell’eretico ricorda a tutti, inevitabilmente, che le versioni dei fatti sono sempre almeno due, mai una sola. Se invece l’ideologia è unica, per di più non proposta pacificamente ma imposta in modo dogmatico (cioè con l’esplicito divieto di metterne in discussione i fondamenti) allora l’umanità è in pericolo, si disumanizza, si divide in buoni e cattivi. Sotto il governo di Raimondo VI, conte di Tolosa, sul finire del 1100 poteva capitare di assistere, nelle chiese, ad avvincenti dispute teologiche tra parroci cattolici e predicatori càtari, di fronte alla platea dei fedeli: oggi, nel 2018, è praticamente impossibile che alla televisione abbia accesso qualche vero “eretico”, radicalmente critico nei confronti del sistema socio-economico che ci viene presentato come l’unico possibile.Quella del Catarismo è una storia spesso denegata, che le burocrazie religiose tendono a sminuire, come fosse un fantasma scomodo. Lo è: ma per il potere in generale e non solo per la Roma di allora, se è vero che l’Inquisizione inaugurò la prima vera forma di terrorismo totalitario, ostacolato – per reazione – dalla rivolta armata dei cavalieri “Faidits”, i primi guerriglieri della storia europea. Uno schema che poi non ha fatto che ripetersi, in modo tragicamente sistematico. Vaticano medievale e càtari? Ruoli e maschere di quasi mille anni fa. Più che la casacca indossata, in fondo può contare un gesto destinato a rimanere vivo: come l’immensa pietà per gli sconfitti, che risuona tra i versi cavallereschi della Canzone della Crociata, scritti da cattolici. E l’ultimo “perfetto” càtaro d’Occitania, Guilhelm Belibàsta, a un passo dalla morte sul rogo arrivò a perdonare (e a tentare di convertire) l’uomo che l’aveva tradito, consegnandolo ai carnefici. E questa l’umanità che il film “Bogre” cercherà di riesumare, dopo otto secoli di oblio, tra le pieghe di vicende solo in apparenza lontane da noi. L’eresia è una domanda, che costringe a interrogarsi. E’ il contrario dell’odio, che teme le domande e ama le guerre, vietando ai soldati di pensare. Rileggere l’avventura dei càtari può servire a scoprire di cos’è stata capace, l’umanità, prima di arrendersi al comodo letargo delle verità imposte.(E’ possibile aderire alla campagna di crowdfunding del documentario “Bogre” attraverso la piattaforma “Produzioni dal basso”; in cambio, si potrà ricevere il film in anteprima).“Airesis”: scelta, contraria al dogma. A cosa servono, gli eretici? Spesso, a far fare passi da gigante, al mondo. La nonviolenza di Gandhi di fronte alla brutalità coloniale inglese. L’eroica tenacia di Nelson Mandela, ai lavori forzati per aver denunciato il delirio sociale di un paese africano per soli bianchi. Può vincere, l’eresia? Forse alla distanza, aprendo una crepa innanzitutto culturale, per poi scavare nella coscienza di ciascuno. Sul piano politico, invece, generalmente gli eretici vengono sconfitti, e il più delle volte ci rimettono la pelle. Martin Luther King sognava un’America fraterna, senza più discriminazioni razziali. Yitzhak Rabin osò immaginare un Medio Oriente libero dall’odio e dall’orrore. Sacco e Vanzetti? Fritti sulla sedia elettrica per aver lottato contro un sistema ingiusto. Thomas Sankara voleva un’Africa nuova, sollevata dal giogo finanziario del debito occidentale. Sono caduti tutti, ma oggi siedono in un pantheon intoccabile: in un certo senso, sono ancora qui. Non è possibile cancellare l’immagine del giovane Cassius Clay che getta nel fiume Hudson la medaglia olimpica conquistata a Roma, dopo esser stato respinto – perché “negro” – da un ristorante di New York. Il dissidente compie sempre qualche gesto simbolico, che costringe l’umanità a pensare. A ragione o a torto, l’eretico rischia in prima persona. Si ribella a un dogma imposto, cioè al non-pensiero di un mondo senza libertà.
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Ma la bufera sulle logge non sfiora la massoneria che conta
«Aboliamo la massoneria», titola “L’Espresso”, di fronte all’offensiva della commissione antimafia guidata da Rosy Bindi, dopo la denuncia di una trentina di massoni calabresi “dissidenti”, usciti allo scoperto in seguito a un’indagine su riciclaggio e narcotraffico. «Un’inchiesta politica e giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 mette sotto scacco il mondo degli incappucciati», scrive il settimanale di De Benedetti. « E la commissione antimafia vuole i nomi degli affiliati: era ora, ma non basta». Il reportage di Gianfrancesco Turano, che documenta l’attività investigativa allora in corso, risale a una anno fa e fotografa alla perfezione il clamore suscitato dalla Bindi, a mezzo stampa: «C’è da sperare che venga rieletta: in politica farebbe comunque meno danni che all’università, dove tornerebbe a insegnare», commenta sarcastico il massone Gianfranco Carpeoro, saggista, già a capo dell’autodisciolta Gran Loggia Serenissima di Piazza del Gesù. Carpeoro (al secolo Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso) è uno spietato giudice dei grembiulini nazionali: «Quella italiana è la peggior situazione massonica al mondo: quando va bene, entrare in una loggia oggi significa perdere il proprio tempo». Ancora più caustico un altro massone progressista, Gioele Magaldi, che contesta l’ipocrisia del sistema politico-mediatico: «Se la prendono sempre con le logge provinciali, fingendo di non sapere che i massimi vertici dello Stato militano nelle Ur-Lodges sovranazionali che hanno imposto all’Italia la tragedia dell’austerity».«Ci vogliono mettere il triangolo rosso come ai tempi delle persecuzioni naziste», protesta il gran maestro del Goi, Stefano Bisi, a capo di 23.000 affiliati distribuiti in oltre 800 logge. Sull’“Espresso”, Turano sostiene che le nuove indagini «hanno stretto i liberi muratori in una morsa politico-giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 (marzo 1981) quando Licio Gelli, il “venerabile” per eccellenza, gestiva un potere occulto, alternativo allo Stato democratico, raccogliendo un’oligarchia di deputati, ministri, generali, imprenditori e criminali che si erano sottratti alle leggi della Repubblica». Il giornale cita lo storico Aldo Mola, secondo cui la P2 non era affatto una loggia coperta, ma una cellula speciale regolarmente affiliata al Goi, con tre caratteristiche. «Primo: l’iniziazione non avveniva in loggia. Secondo: non c’era diritto di visita, ossia altri fratelli non potevano visitare la loggia. Terzo: non c’era obbligo di riunioni. Infatti la P2 non si è mai riunita». La loggia di Gelli, afferma Mola, era una replica della loggia Propaganda, costituita nel 1877 «come vetrina e fiore all’occhiello del Goi, tanto che i fratelli erano dispensati dal pagare le quote». Peraltro, si trattava di “capitazioni” ridicole: «Il cantante Claudio Villa versava 2 mila lire all’anno e lo scrittore Roberto Gervaso 60 mila. Erano somme piccole anche negli anni Settanta».Finisce lì, l’analisi sulla P2 offerta dall’“Espresso”. Secondo Gioele Magadi, presidente del Movimento Roosevelt e autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) la P2 non era altro che il braccio operativo della superloggia sovranazionale “Three Eyes”, fondata da Kissinger e Rockefeller, “mente” storica della supermassoneria globalista neo-reazionaria, che avrebbe affiliato – tra gli altri – Giorgio Napolitano. Un circuito potentissimo, quello delle Ur-Lodges di ispirazione neo-aristocratica, che terrebbe insieme politici e tecnocrati, da Monti a Draghi passando per D’Alema e per il governatore Visco di Bankitalia, inclusi tutti i recenti ministri dell’economia (da Siniscalco a Grilli, da Saccomanni a Padoan), ridotti a cinghie di trasmissione dei diktat neoliberisti del super-potere globalista, quello delle crisi finanziarie e della disoccupazione di massa. Lo stesso Carpeoro, che nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Revoluzione) svela i retroscena ben poco islamici degli attentati europei firmati Isis (chiamando in causa settori dell’intelligence Nato), sostiene che la P2 di Gelli serviva a “coprire” il vero ponte di comando del potere: «Si tratta della loggia P1, mai scoperta ufficialmente, responsabile della “sovragestione” che ha eterodiretto in Italia la strategia della tensione e poi la crisi degli ultimi anni».Fatevi qualche domanda, insiste Carpeoro: «Non è strano che nessun giornale, nemmeno per sbaglio, abbia mai evocato la P1?». La lettera P, come scrive lo stesso Mola, sta per “propaganda”: doveva essere una vetrina di iscritti prestigiosi, destinati a dare lustro al Grande Oriente. «E allora che senso ha, poi, fare la P2 e tenerla nascosta?». In proposito, Carpeoro ha le idee chiare: «Un tempo, ogni anno, la massoneria apriva le porte delle logge alla cittadinanza, ricordando i massoni illustri che avevano fatto qualcosa di meritevole per la loro città». Dal canto suo, Magaldi contesta il farisaismo della politica italiana: «Questo è uno Stato nato dalla massoneria risorgimentale», e non solo: era notoriamente massone Meuccio Ruini, capo della commissione per la Costituente, così come il giurista Pietro Calamandrei, uomo simbolo dell’antifascismo e della rinascita democratica del paese. Era massone – trentatreesimo grado del Rito Scozzese – lo stesso Giacomo Matteotti, martire antifascista, come ricorda Carpeoro nel saggio “Il compasso, il fascio e la mitra” (Uno Editori), che documenta lo strano “inciucio” tra massoneria e Vaticano all’origine del regime di Mussolini – col placet del sovrano Vittorio Emanuele III, che in cambio avrebbe intascato una maxi-tangente petrolifera dalla Sinclair Oil della famiglia Rockefeller.Grandi poteri, non beghe di cortile: il reportage dell’“Espresso” cita solo di striscio il drammatico caso Mps, che ha coinvolto il Goi nelle recenti inchieste. «Politica e giornali hanno attaccato il gran maestro Stefano Bisi – protesta Magaldi – guardandosi bene dal citare Anna Maria Tarantola e Mario Draghi, cioè i due tecnocrati allora ai vertici di Bankitalia che avrebbero dovuto vigilare sulle azioni del Montepaschi». Peggio: sul caso incombe la strana morte di David Rossi, alto funzionario della banca senese, precipitato da una finestra. Un suicidio da più parti ritenuto inverosimile, che secondo Carpeoro (intervistato da Fabio Frabetti di “Border Nights”) lascia pensare a una guerra inframassonica senza esclusione di colpi, tutta interna all’ala destra della supermassoneria internazionale oligarchica: «Da una parte il gruppo di Draghi, e dall’altra i suoi antagonisti, che probabilmente vogliono metterlo in difficoltà – con la tempesta su Mps – per poi arrivare a sostituirlo». Carpeoro e Magaldi, massoni entrambi (il primo uscito dal circuito delle logge, il secondo fondatore del Grande Oriente Democratico, che punta a creare una massoneria trasparente) sono tra i pochissimi a spiegare, in modo convincente, un mondo di cui sui giornali continua a non esservi traccia.Lo stesso libro “Massoni” (sottotitolo, “La scoperta delle Ur-Lodges”), dopo infinite ristampe che ne hanno fatto un bestseller italiano è stato recensito soltanto dal “Fatto Quotidiano”, nel silenzio assordante della grande stampa mainstream, quella che poi si scatena sulle inchieste che coinvolgono le periferie massoniche provinciali. «Come tutte le associazioni umane, anche la massoneria si degrada se smarrisce lo scopo iniziale e si riduce a essere una struttura, che poi diventa inevitabilmente appetibile per il potere», sintetizza Carpeoro: «L’architetto Christopher Wren, capo della massoneria inglese incaricato di ricostruire Londra dopo l’incendio che la distrusse nel 1666, riprogettò tutti i maggiori edifici tranne uno, il tempio massonico. Il 1717 è ufficialmente la data di nascita della massoneria moderna, ma in realtà segna l’inizio della sua morte». Magaldi non concorda appieno: «Dobbiamo a quella massoneria la Rivoluzione Francese, la Rivoluzione Americana e persino la Rivoluzione d’Ottobre che abbattè lo zarismo. Lo Stato laico, la democrazia elettiva: valori che oggi diamo per scontati, ma che nascono dalla libera muratoria del ‘700».Per questo, sostiene Magaldi, è assolutamente disonesto sparare sulla massoneria tout-court. E lo dice uno che l’ha messa in croce, per iscritto, la supermassoneria oligarchica “contro-iniziatica” che ha letteralmente inquinato l’Occidente, sabotandone il percorso democratico. Nel suo libro, Magaldi ascrive alle Ur-Lodges reazionarie il colpo di Stato del massone Pinochet in Cile (contro il massone Allende) e il doppio omicidio di Bob Kennedy e del massone Martin Luther King, nonché i tentativi di golpe nell’Italia del dopoguerra, orchestrati con la collaborazione della P2 di Gelli su mandato della “Three Eyes”. Capolavoro europeo dell’offensiva neo-oligarchica, l’omicidio del premier svedese Olof Palme, assassinato nel 1986 alla vigilia della sua probabile elezione all’Onu, come segretario generale. «Socialista democratico – sottolinea Carpeoro – Palme era un trentatreesimo grado del Rito Scozzese». Poco prima del delitto, Gelli inviò un telegramma negli Usa per avvertire che «la palma svedese» sarebbe stata abbattutta. «Il telegramma – scrive Carpeoro – era destinato a Philip Guarino, parlamentare allora vicino al politologo Michael Ledeen, massone e membro del B’nai B’rit sionista, negli anni ‘80 vicino a Craxi e poi a Di Pietro, quindi a Renzi ma al tempo stesso anche a Di Maio e Grillo».«Se Olof Palme fosse rimasto in campo, mai e poi mai avremmo visto nascere questo obbrobrio di Unione Europea», scommette Carpeoro, intenzionato – con Magaldi e il Movimento Roosevelt – a promuovere un convegno, a Milano, proprio sulla figura del leader svedese, «l’uomo che creò il miglior welfare europeo e scongiurò la disoccupazione impegnando direttamente lo Stato nelle imprese in crisi: la sua missione dichiarata era “tagliare le unghie al capitalismo”, contenerlo e limitarne l’egemonia». Non poteva non sapere, Olof Palme, che all’inzio degli anni ‘80 l’intera comunità delle potentissime Ur-Lodges, comprese quelle di ispirazione progressista, aveva firmato lo storico patto “United Freemasons for Globalization”, che diede il via alla mondializzazione definitiva dell’economia, archiviando decenni di diritti e conquiste democratiche. Era scomoda, la “palma svedese”: andava “abbattuta”. Per mano di fratelli massoni? «Nella ritualistica, l’iniziazione del maestro rievoca l’uccisione del mitico architetto Hiram Abif, assassinato proprio da due confratelli», sottolinea Carpeoro. «Lo stesso organizzatore del delitto Matteotti, il massone Filippo Naldi, fece in modo – con estrema perfidia – che fossero massoni i killer del leader socialista, massone anche lui».Analisi e retroscena, spiegazioni, ragionamenti in controluce che permettono di rileggere la storia da un’altra angolazione. Nulla che si possa rintracciare, tuttora, nella stampa mainstream. «Di certo Gelli, a poco più di un anno dalla sua morte, sembra avere seminato anche troppo bene», si limita a scrivere Turano sull’“Espresso”. «Come alla fine dell’Ottocento, è tornato di moda il motto del garibaldino e deputato Felice Cavallotti: “Non tutti i massoni sono delinquenti, ma tutti i delinquenti sono massoni”». Garibaldi, passato alla storia (spesso agiografica) come “l’eroe dei due mondi”, fu il primo gran maestro del Grande Oriente d’Italia. Un altro massone, Cavour, fu il “cervello” del Risorgimento: se non fosse morto prematuramente, sostiene Carpeoro, non avremmo vissuto in modo così drammatico l’Unità d’Italia, con il Sud martizizzato dal militarismo di La Marmora e Cialdini e l’esodo di milioni di migranti. Massoni “delinquenti”? «Erano massoni anche Gandhi, Papa Giovanni XXIII e Nelson Mandela», protesta Magaldi. Problema: la storia ufficiale non ne fa cenno. Risultato: per il potere, il miglior massone resta il massone occulto, segreto. E per la gran parte dell’opinione pubblica italiana, la massoneria resta un mondo opaco e borderline, tra le indagini antimafia e il fantasma di Gelli. Anche per questo, grazie al silenzio dei media, la massoneria mondiale – quella vera – continuerà a stabilire a tavolino cosa deciderà il prossimo G20, che politica farà la Bce, come agirà Macron in Francia e cosa dichiarerà il Fondo Monetario Internazionale sulle pensioni italiane, a prescindere dalle prossime elezioni.«Aboliamo la massoneria», titola “L’Espresso”, di fronte all’offensiva della commissione antimafia guidata da Rosy Bindi, dopo la denuncia di una trentina di massoni calabresi “dissidenti”, usciti allo scoperto in seguito a un’indagine su riciclaggio e narcotraffico. «Un’inchiesta politica e giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 mette sotto scacco il mondo degli incappucciati», scrive il settimanale di De Benedetti. « E la commissione antimafia vuole i nomi degli affiliati: era ora, ma non basta». Il reportage di Gianfrancesco Turano, che documenta l’attività investigativa allora in corso, risale a una anno fa e fotografa alla perfezione il clamore suscitato dalla Bindi, a mezzo stampa: «C’è da sperare che venga rieletta: in politica farebbe comunque meno danni che all’università, dove tornerebbe a insegnare», commenta sarcastico il massone Gianfranco Carpeoro, saggista, già a capo dell’autodisciolta Gran Loggia Serenissima di Piazza del Gesù. Carpeoro (al secolo Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso) è uno spietato giudice dei grembiulini nazionali: «Quella italiana è la peggior situazione massonica al mondo: quando va bene, entrare in una loggia oggi significa perdere il proprio tempo». Ancora più caustico un altro massone progressista, Gioele Magaldi, che contesta l’ipocrisia del sistema politico-mediatico: «Se la prendono sempre con le logge provinciali, fingendo di non sapere che i massimi vertici dello Stato militano nelle Ur-Lodges sovranazionali che hanno imposto all’Italia la tragedia dell’austerity».
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Il fiuto di nonno Berlusconi: una farsa che prepara l’inciucio
In una serie di esternazioni che hanno inaugurato la campagna elettorale del centrodestra, Silvio Berlusconi ha esibito il suo fiuto di animale politico. In primo luogo, da qualche settimana batte il tasto sul fatto che le prossime elezioni si configurano come uno scontro frontale fra centrodestra e M5S, ignorando il Pd, e più in generale la sinistra, liquidati come relitti del passato. È una visione che rispecchia l’insegnamento delle elezioni americane, che hanno visto il trionfo di Trump – un populista di destra – contro un Partito Democratico che si è suicidato sbarrando con ogni mezzo la strada all’unico candidato – il populista di sinistra Bernie Sanders – che avrebbe potuto battere Trump. Berlusconi snobba il Pd perché ha capito che la sinistra tradizionale, una volta convertitasi da alternativa a “ruota di scorta” delle politiche liberiste, ha perso appeal nei confronti delle classi popolari, mentre fatica a competere con la destra per la conquista delle classi medio-alte. Teme invece il M5S, non solo perché vola nei sondaggi, ma anche e soprattutto perché, ad onta dei passi indietro compiuti sui punti più radicali del programma originario, e della progressiva “normalizzazione” della sua immagine da forza antisistema a forza di governo, appare tuttora in grado di attrarre il voto di protesta di milioni di elettori incazzati nei confronti delle élite che ne ignorano bisogni e interessi.Nel corso dell’ospitata nella trasmissione di Barbara D’Urso, l’intramontabile Silvio ha spiegato – con la consueta franchezza – qual è la posta in gioco. Ha detto cioè che scende in campo contro i grillini, come aveva fatto contro i comunisti negli anni Novanta, perché oggi il pericolo è ancora maggiore. E dal suo punto di vista ha ragione: non perché i grillini siano sovversivi, ma perché la massa inferocita che ribolle negli strati più bassi della società (e che spera di trovare espressione votando M5S) è fatta di persone «che portano invidia e odio verso chi è ricco», di incompetenti che non capiscono la complessità dei problemi su cui sono chiamati a esprimersi (la democrazia sembra essere oggi più indigesta che mai, anche se è stata ridotta ai minimi termini da decenni di guerra di classe dall’alto) e che esprimono leader «ai quali si dovrebbe domandare cosa hanno fatto prima di fare politica e se sono laureati». Infine enuncia un programma che, nel migliore stile trumpista, mette insieme veri regali ai ricchi (la “flat tax”) e finti regali (che, vedi Trump, verranno immediatamente smentiti dopo l’eventuale vittoria) ai poveri (aumenti delle pensioni minime, reddito di dignità, ecc.). Insomma: qui, come ormai quasi ovunque in Occidente, si scontrano due populismi nati sulle rovine delle forze politiche tradizionali, di sinistra come di destra.Due populismi che negli Stati Uniti, come ha scritto Nancy Fraser seguendo la lezione di Gramsci in un lungo articolo su “American Affairs”, incarnano gli interessi di due blocchi sociali contrapposti che lottano per l’egemonia. Con la differenza che, nel caso italiano, non si confrontano un Donald Trump e un Bernie Sanders ma, da un lato una vecchia volpe (anche lui un tycoon reazionario al pari di Trump, ma che la lunga esperienza ha reso meno rozzo nell’uso di espressioni razziste e sessuofobe, mentre ne ha affinato la verve comunicativa), dall’altro lato un progetto abortito di populismo progressivo che (diversamente da “Podemos” e Mélenchon) non ha la minima chance di aggregare un blocco sociale capace di andare oltre qualche effimero successo elettorale. Ma l’astuzia berlusconiana si rivela anche nel suo enfatizzare il “pericolo” grillino per preparare il terreno – nel più che probabile caso che nessuno ottenga la maggioranza assoluta – a una “grosse koalition” in salsa italiana (sarà per caso che Renzi sostiene a sua volta che la vera sfida è fra Pd e M5S?). Una soluzione che gli consentirebbe di svincolarsi della imbarazzante alleanza con Salvini, il quale è la vera controfigura italiana di Trump, almeno per quanto riguarda la scorrettezza politica e le velleità antiglobaliste e antieuropeiste. Perché il populismo di Berlusconi è soprattutto una tecnica elettorale, ma il nostro non coltiva alcuna intenzione di sfidare i diktat dell’Europa a trazione tedesca.(Carlo Formenti, “Il fiuto politico dell’intramontabile Silvio”, da “Micromega” del 15 gennaio 2018).In una serie di esternazioni che hanno inaugurato la campagna elettorale del centrodestra, Silvio Berlusconi ha esibito il suo fiuto di animale politico. In primo luogo, da qualche settimana batte il tasto sul fatto che le prossime elezioni si configurano come uno scontro frontale fra centrodestra e M5S, ignorando il Pd, e più in generale la sinistra, liquidati come relitti del passato. È una visione che rispecchia l’insegnamento delle elezioni americane, che hanno visto il trionfo di Trump – un populista di destra – contro un Partito Democratico che si è suicidato sbarrando con ogni mezzo la strada all’unico candidato – il populista di sinistra Bernie Sanders – che avrebbe potuto battere Trump. Berlusconi snobba il Pd perché ha capito che la sinistra tradizionale, una volta convertitasi da alternativa a “ruota di scorta” delle politiche liberiste, ha perso appeal nei confronti delle classi popolari, mentre fatica a competere con la destra per la conquista delle classi medio-alte. Teme invece il M5S, non solo perché vola nei sondaggi, ma anche e soprattutto perché, ad onta dei passi indietro compiuti sui punti più radicali del programma originario, e della progressiva “normalizzazione” della sua immagine da forza antisistema a forza di governo, appare tuttora in grado di attrarre il voto di protesta di milioni di elettori incazzati nei confronti delle élite che ne ignorano bisogni e interessi.
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Povera Europa, plaude alle “lezioni” del suo killer: la Merkel
Nell’immane declino europeo non si capisce cosa sia più sinistro, le “lezioni” di un’insegnante di cui tutti faremo a memo (Angela Merkel) o il tappeto rosso che la stampa le stende ai piedi, nel momento in cui l’oligarca di Berlino, donna simbolo delle sofferenze imposte dalla crisi, si mette a bacchettare Donald Trump dal forum di Davos, santuario continentale della globalizzazione più feroce. «Noi crediamo che l’isolazionismo non ci faccia andare avanti», dice la Merkel: «Il protezionismo non è la risposta giusta, dobbiamo cooperare». Il tipo di “cooperazione” di cui è capace il regime finanziario incarnato dalla Merkel lo si è visto in Grecia, con le famiglie sul lastrico e gli ospedali senza più medicine per curare i bambini. Tutto il Sud Europa ha visto crollare il suo tenore di vita, in una spirale sistematicamente devastante: guerra teologica al debito pubblico, e quindi tagli ai salari e alle pensioni, precarizzazione del lavoro, esplosione della tassazione, licenziamenti, aziende fallite a decine di migliaia, disoccupazione alle stelle, crollo del mercato immobiliare, erosione dei risparmi. Il fantasma della povertà minaccia l’Europa: nella sola Italia, dove la crisi indotta dal rigore tedesco è costata 450 miliardi di euro in appena tre anni, sono oltre 10 milioni le persone che secondo Eurostat faticano a consumare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a pagare l’affitto e a riscaldare a sufficienza la casa.Una vera festa, la spettacolare crisi italiana, per l’industria tedesca che ha fatto shopping a prezzi di saldo accaparrandosi quote rilevanti dell’eccellenza del “made in Italy”, altro classico esempio di “cooperazione” ordoliberista di stampo teutonico. «La Germania è un problema cronico e fisiologico per l’Europa», sostiene Paolo Barnard, «proprio a causa del suo tipo di economia sbilanciato verso l’export». Il che significa compressione dei salari in patria (gli scandalosi mini-job da 450 euro mensili) e aggressività competitiva verso i paesi confinanti, trattati come colonie a cui rubare fatturato e sottrarre la miglior forza lavoro di formazione universitaria avanzata, dando vita al flagello della “fuga dei cervelli”. «I personaggi come la “sorella” Angela Merkel, esponente della Ur-Lodge reazionaria Golden Eurasia, sono i veri nemici dell’Europa unita, i veri e irriducibili antieuropeisti», sostiene Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere) che svela i retroscena supermassonici del vero potere neoliberista. «Quelli che vengono spacciati per statisti sono in realtà pedine di interessi esclusivamente privati, che traggono i massimi profitti proprio dalla distruzione dell’unità europea: assistiamo infatti a una spietata concorrenza fra Stati, di cui il neo-mercantilismo tedesco è l’espressione più tristemente significativa».Sempre la Germania, racconta l’economista Nino Galloni (vicepresidente del Movimento Roosevelt presieduto da Magaldi) ottenne – dalla Francia di Mitterrand, in cambio della rinuncia al marco – il via libera per la deindustrializzazione progressiva dell’Italia, cioè del massimo antagonista del sistema manifatturiero tedesco. E’ questa la motivazione di fondo – squisitamente industriale e concorrenziale – dietro alle politiche di austerity dell’Ue a trazione tedesca, che hanno tentato ininterrottamente di demolire il sistema economico italiano. E’ il Belpaese il vero bersaglio degli eurocrati tedeschi come Angela Merkel, ai piedi dei quali si sono genuflessi i vari Letta, Renzi e Gentiloni, dopo il “ko tecnico” procurato a Monti e Napolitano, commissari italiani del super-potere che tiene in scacco l’Europa utilizzando Berlino come cane da guardia. Per questo, le affermazioni della cancelleria a Davos suonano sincere quanto le parole del killer al funerale della propria vittima: «Nel mondo c’è tr6oppo egoismo nazionale», scandisce la professoressa. «Fin dai tempi dell’Impero Romano e della Grande Muraglia sappiamo che limitarci a rinchiuderci non aiuta». Viste dalla Grecia ridotta alla fame, queste parole – in una ipotetica, seconda Norimberga – assicurerebbero ad Angela Merkel una fucilazione di prima classe, con tutti gli onori che spettano ai grandi traditori.Nell’immane declino europeo non si capisce cosa sia più sinistro, le “lezioni” di un’insegnante di cui tutti faremmo a meno (Angela Merkel) o il tappeto rosso che la stampa le stende ai piedi, nel momento in cui l’oligarca di Berlino, donna simbolo delle sofferenze imposte dalla crisi, si mette a bacchettare Donald Trump dal forum di Davos, santuario continentale della globalizzazione più feroce. «Noi crediamo che l’isolazionismo non ci faccia andare avanti», dice la Merkel: «Il protezionismo non è la risposta giusta, dobbiamo cooperare». Il tipo di “cooperazione” di cui è capace il regime finanziario incarnato dalla Merkel lo si è visto in Grecia, con le famiglie sul lastrico e gli ospedali senza più medicine per curare i bambini. Tutto il Sud Europa ha assistito al crollo epocale del suo tenore di vita, in una spirale sistematicamente devastante: guerra “teologica” al debito pubblico, e quindi tagli ai salari e alle pensioni, precarizzazione del lavoro, esplosione della tassazione, licenziamenti, aziende fallite a decine di migliaia, disoccupazione alle stelle, crollo del mercato immobiliare, erosione dei risparmi. Il fantasma della povertà minaccia l’Europa: nella sola Italia, dove la crisi indotta dal rigore tedesco è costata 450 miliardi di euro in appena tre anni, sono oltre 10 milioni le persone che secondo Eurostat faticano a consumare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a pagare l’affitto e a riscaldare a sufficienza la casa.
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Macron: ho paura, i francesi voterebbero per uscire dall’Ue
In un’intervista shock, Macron ammette che la Francia voterebbe per l’uscita dalla Ue, se si tenesse un referendum. In un’intervista alla “Bbc”, il capo dell’Eliseo afferma a sorpresa che un equivalente francese della Brexit avrebbe «probabilmente» condotto allo stesso esito: l’uscita dall’Unione Europea. «La dichiarazione del leader francese suona particolarmente insolita in un momento in cui gli alfieri dell’establishment cercano di rassicurare che c’è “ripresa” e che i “populisti” sono in ritirata», scrive Henry Tougha su “Voci dall’Estero”. «Ma suona insolita anche per la spiegazione esatta e puntuale del problema: l’ipotetico voto per l’uscita dalla Ue sarebbe l’espressione delle classi medie e delle classi lavoratrici che si oppongono a una globalizzazione fatta contro di loro». Quando lo scorso anno Marine Le Pen perse le elezioni presidenziali francesi, ed Emmanuel Macron vinse con ciò che sembrò una valanga di voti, l’establishment tirò un sospiro di sollievo, «non solo perché la celebre euroscettica populista era stata battuta, ma anche perché sembrò che il vento fosse cambiato», scrive “Zero Hedge”. Perciò, dopo un 2016 tumultuoso, il 2017 iniziò con un bel colpo a favore degli eurocrati non-eletti di Bruxelles. «Dopotutto la gente si era espressa e aveva detto di volere più Europa (e più euro), non meno». E invece non è vero, dice oggi Macron: i problemi restano, e anche i francesi “scapperebbero” da Bruxelles.Il presidente francese, scrive “Zero Hedge” in un post ripreso da “Voci dall’Estero”, ha scioccato tutti in Europa quando ha ammesso che gli elettori francesi voterebbero per uscire dalla Ue se in Francia si tenesse un referendum del tipo “dentro o fuori” sull’appartenenza al blocco di paesi guidati da Bruxelles. «Non sorprende che nessun altro paese Ue abbia messo a rischio la propria appartenenza al blocco tramite un voto pubblico, dopo che la Gran Bretagna ha sorpreso gli altri paesi membri con un voto per l’uscita nel 2016, a dispetto di tutti i sondaggi che mostravano come un esito del genere fosse praticamente impossibile». Durante un’intervista con il giornalista Andrew Marr della “Bbc”, Emmanuel Macron ha ammesso che potrebbe perdere un eventuale referendum francese sull’appartenenza alla Ue. Interpellato sul voto della Brexit, il presidente ha candidamente detto a Marr: «Non sono io a dover giudicare o commentare le decisioni del vostro popolo». Ma, ha aggiunto, «la mia interpretazione è che ci siano molti sconfitti della globalizzazione che hanno improvvisamente deciso che quest’ultima non fa più per loro». Quindi, se la Francia avesse indetto lo stesso referendum, avrebbe avuto lo stesso risultato? «Sì, probabilmente», ha ammesso Macron. «Sì, in un contesto simile».Certo, ha precisato Macron, «abbiamo un contesto molto diverso, in Francia». Ma attenzione: Londra ha divorziato dall’Ue pur non avendo il capestro finanziario dell’euro, né gli stessi vincoli di bilancio della Francia. Quindi, confessa Macron, «avrei dovuto combattere molto duramente per averla vinta», la battaglia per mantenere la Francia nel perimetro di Bruxelles. Spiegazione: «La mia idea è che le classi medie, le classi lavoratrici e i più anziani hanno deciso che ciò che è successo negli ultimi decenni non è andato a loro favore, e che gli aggiustamenti fatti all’interno della Ue non erano a loro favore». Ancora: «Penso che l’organizzazione della Ue sia andata troppo oltre con la libertà ma senza coesione, con la libertà dei mercati ma senza regole». Frasi pesantissime, pronunciate da un ex banchiere del gruppo Rothschild nonché pupillo della supermassoneria eurocratica più reazionaria, incarnata da Jacques Attali. Libertà d’azione illimitata solo per i capitali finanziari, e “carcere duro” per la finanza pubblica, costretta al suicidio dei tagli che hanno messo in ginocchio l’economia reale, le aziende, le società. Macron, l’uomo dell’élite, avverte che il pericolo – per loro, gli oligarchi – è tutt’altro che sparito dai radar: i boss che contano (da Parigi a Berlino, da Francoforte a Bruxelles) hanno paura che ai cittadini venga permesso di votare, per scegliere se restare ancora in questa Europa o se scappare verso la perduta sovranità.In un’intervista shock, Macron ammette che la Francia voterebbe per l’uscita dalla Ue, se si tenesse un referendum. In un’intervista alla “Bbc”, il capo dell’Eliseo afferma a sorpresa che un equivalente francese della Brexit avrebbe «probabilmente» condotto allo stesso esito: l’uscita dall’Unione Europea. «La dichiarazione del leader francese suona particolarmente insolita in un momento in cui gli alfieri dell’establishment cercano di rassicurare che c’è “ripresa” e che i “populisti” sono in ritirata», scrive Henry Tougha su “Voci dall’Estero”. «Ma suona insolita anche per la spiegazione esatta e puntuale del problema: l’ipotetico voto per l’uscita dalla Ue sarebbe l’espressione delle classi medie e delle classi lavoratrici che si oppongono a una globalizzazione fatta contro di loro». Quando lo scorso anno Marine Le Pen perse le elezioni presidenziali francesi, ed Emmanuel Macron vinse con ciò che sembrò una valanga di voti, l’establishment tirò un sospiro di sollievo, «non solo perché la celebre euroscettica populista era stata battuta, ma anche perché sembrò che il vento fosse cambiato», scrive “Zero Hedge”. Perciò, dopo un 2016 tumultuoso, il 2017 iniziò con un bel colpo a favore degli eurocrati non-eletti di Bruxelles. «Dopotutto la gente si era espressa e aveva detto di volere più Europa (e più euro), non meno». E invece non è vero, dice oggi Macron: i problemi restano, e anche i francesi “scapperebbero” da Bruxelles.