Archivio del Tag ‘élite’
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Parigi e Londra: chi ha pagato per avere Macron all’Eliseo
Secondo le rivelazioni del “Journal du dimanche” del 2 dicembre, tra marzo 2016 e maggio 2017 la metà dei finanziamenti di En Marche è arrivata da appena 913 donazioni. Il contributo del Regno Unito alla campagna presidenziale di Emmanuel Macron sarebbe superiore a quello delle dieci maggiori città francesi della provincia. Si tratta di un gruppo di sostenitori che, quando si tratta di aiutarsi tra amici, non fa economie. Il “Journal du dimanche”, che ha indagato sui conti de “La République en Marche” (Lrem), il 2 dicembre ha rivelato che l’epopea presidenziale di Emmanuel Macron è stata finanziata per metà da… al massimo 913 persone. Questo “club dei mille” ha donato non meno di 6,3 milioni di euro a En Marche nel periodo tra la sua formazione nel marzo 2016 e maggio 2017, il che rappresenta il 48% delle donazioni totali. Questa cifra impressionante è ad esempio superiore alla somma di tutte le donazioni fatte a candidati “minori”, come Nicolas Dupont-Aignan, Jean Lassalle, Philippe Poutou, François Asselineau, Nathalie Arthaud, Jacques Cheminade. Una cifra in grado di pilotare apertamente una candidatura per le elezioni presidenziali.In un sondaggio pubblicato lo scorso aprile, “Marianne” ha mostrato come, per lanciare la nomina dell’enarca, i collaboratori di Emmanuel Macron si siano finanziati principalmente tramite delle cene di raccolta fondi organizzate con esponenti dell’alta finanza. Alla fine del 2016, il 69% delle donazioni risultavano pervenute con questa modalità. En Marche poteva persino contare su un prezioso club di “400 contributori di oltre 5.000 euro”. L’inchiesta del “Jdd” conferma che questo circolo si è leggermente allargato nei primi sei mesi del 2017, ma non troppo. La cifra riportata, 913, corrisponde infatti al numero di donazioni superiori a 5.000 euro, ma non al numero di donatori, dato che il massimo ammontare è di 7.500 euro a persona all’anno. È infatti abbastanza probabile che molti dei ricchi mecenati dell’ex-Ispettore delle Finanze abbiano scelto di fare due donazioni, una nel 2016 e una nel 2017. Il famoso “club dei mille” è più probabilmente una più ristretta cerchia di circa 450 donatori.La geografia di queste donazioni rivela un altro squilibrio. Ne emerge il ritratto di un candidato ampiamente sostenuto nella regione parigina (il 56% del totale) e… nelle roccaforti della finanza all’estero, molto più che in provincia. Preoccupante, dal momento che in buona parte della “Francia periferica” si sta sollevando la protesta del movimento dei Gilet Gialli. Si viene in tal modo a sapere che le donazioni dalla Svizzera (95.000 euro) hanno portato più soldi a En Marche rispetto a quelle provenienti da Marsiglia (78.364 euro), la seconda città più grande della Francia! Con solo 18 benefattori ma con donazioni per 105.000 euro, i libanesi hanno fortemente contribuito all’emergere del macronismo, più dei 250.000 abitanti di Bordeaux e dei 230.000 abitanti di Lille insieme! Dopo Parigi, la seconda città più “macronizzata” non è altro che… Londra. Con 800.000 euro di donazioni, il Regno Unito ha contribuito più di tutte le dieci maggiori città francesi della provincia.Questa informazione dà un altro significato alla parziale rimozione della “exit tax” [imposta sugli utili in conto capitale per chi delocalizza], annunciata in gran pompa da Emmanuel Macron alla rivista americana “Forbes” lo scorso maggio. Nel tentativo di liberarsi della sua etichetta di “candidato dei ricchi”, l’ex banchiere avrebbe peraltro costretto i suoi collaboratori a mentire. Nel maggio 2017, il team di En Marche assicurava a “Libération” che la proporzione di donazioni di oltre 5.000 euro sulla raccolta totale fosse di “un terzo”. In realtà è la metà, come documenta oggi l’inchiesta del “Jdd”. Ciò diviene particolarmente interessante se raffrontato allo studio dell’Istituto delle politiche pubbliche pubblicato lo scorso ottobre, dal quale si evince che i grandi vincitori della politica fiscale di Emmanuel Macron sono… gli ultra-ricchi. L’1% più ricco ha visto i propri redditi aumentare del 6%, laddove le famiglie meno abbienti hanno perso l’1% del loro potere d’acquisto.(Étienne Girard, “La campagna presidenziale di Macron è stata finanziata per metà da un gruppo di neanche mille persone”, da “Marianne.net” del 2 dicembre 2018; articolo tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).Secondo le rivelazioni del “Journal du dimanche” del 2 dicembre, tra marzo 2016 e maggio 2017 la metà dei finanziamenti di En Marche è arrivata da appena 913 donazioni. Il contributo del Regno Unito alla campagna presidenziale di Emmanuel Macron sarebbe superiore a quello delle dieci maggiori città francesi della provincia. Si tratta di un gruppo di sostenitori che, quando si tratta di aiutarsi tra amici, non fa economie. Il “Journal du dimanche”, che ha indagato sui conti de “La République en Marche” (Lrem), il 2 dicembre ha rivelato che l’epopea presidenziale di Emmanuel Macron è stata finanziata per metà da… al massimo 913 persone. Questo “club dei mille” ha donato non meno di 6,3 milioni di euro a En Marche nel periodo tra la sua formazione nel marzo 2016 e maggio 2017, il che rappresenta il 48% delle donazioni totali. Questa cifra impressionante è ad esempio superiore alla somma di tutte le donazioni fatte a candidati “minori”, come Nicolas Dupont-Aignan, Jean Lassalle, Philippe Poutou, François Asselineau, Nathalie Arthaud, Jacques Cheminade. Una cifra in grado di pilotare apertamente una candidatura per le elezioni presidenziali.
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Magaldi a Di Battista: cialtrone, il vero golpista è Maduro
«Ma che cialtrone, Alessandro Di Battista: anziché andarsene a spasso con la famiglia in Centramerica, pagato dal “Fatto Quotidiano” e dalla Mondadori, avrebbe fatto a meglio a studiarla, la storia dell’America Latina». E’ durissimo, Gioele Magaldi, con il battitore libero del Movimento 5 Stelle, pronunciatosi in difesa del presidente venezuelano Nicolas Maduro, che ora deve vedersela con il leader dell’opposizione, Juan Guaidò, autoproclamatosi addirittura “presidente ad interim” il 23 gennaio, nel corso di una manifestazione antigovernativa. Crisi profondissima: da una parte l’Ue è schierata con gli Usa, che assediano accanitamente il Venezuela dai tempi del “ribelle” socialista Hugo Chavez, mentre con Maduro si posizionano Russia e Cina, cioè i paesi che hanno aiutato il governo del Venezuela a sopravvivere, acquistando il petrolio di cui il paese sudamericano è ricchissimo. In molti hanno gridato al golpe contro Maduro? Sbagliano, sostiene il presidente del Movimento Roosevelt: secondo Magaldi, il vero golpista è proprio Maduro, ancora al potere solo perché protetto dalla polizia e dall’esercito. Una commedia degli equivoci, dice Magaldi, che assicura che Guaidò, «massone progressista», è di fede liberal-socialista, mentre Maduro – massone anche lui – si è rivelato «un contro-iniziato, deciso a restare al potere con qualsiasi mezzo».Autore del saggio “Massoni”, che illumina i retroscena dell’élite mondiale, Magaldi interviene su YouTube, in web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”, per fornire il suo punto di vista: non è vero che Maduro rappresenti “il popolo” venezuelano e Guaidò la punta di lancia del golpe “americano” contro la repubblica “bolivariana” di Chavez. E’ vero anzi che Maduro «è la bruttissima copia di Chavez, che aveva molte luci accanto a qualche ombra». Quando tentò di cambiare la Costituzione, un referendum lo fermò. Maduro invece non ha esitato a ricorrere alla repressione più dura, mettendo in carcere anche magistrati che avevano osato contrastarlo. Ma l’aspetto peggiore, sottolinea Magaldi, è che l’autocrazia di Maduro non ha alcuna legittimità per un motivo semplicissimo: aveva escluso dalle elezioni “Voluntad Popular”, il partito di Guaidò. Maduro è succeduto a Chavez nel 2013, divenendo rapidamente impopolare: 43 i morti nel solo 2014 per la repressione delle proteste, innescate dalla grave crisi economica. A gennaio del 2016, l’opposizione aveva ottenuto la maggioranza in Parlamento: la Corte Suprema però ha annullato l’esito del voto. Nel 2017 sono quindi scattate le manifestazioni per chiedere le dimissioni di Maduro, con un nuovo bilancio di sangue: 125 morti in quattro mesi di proteste.Nel tentativo di arginare la crisi, Maduro ha deciso di creare una Assemblea Costituente, incaricata appunto di redigere una nuova Costituzione. Per l’opposizione, si tratta di una manovra per conservare il potere. Così, il partito di Guaidò ha boicottato le elezioni del luglio 2017 per la Costituente e poi anche quelle del maggio 2018, in cui Maduro è stato rieletto – senza avversari – per un secondo mandato presidenziale. Ora, nei panni di presidente del Parlamento, Guaidò si è addirittura autoproclamato presidente ad interim del Venezuela. E’ stato immediatamente riconosciuto dagli Usa e da diversi paesi latino-americani, mentre Maduro mantiene il sostegno di paesi sudamericani come il Messico, Cuba e la Bolivia. Guaidò ha anche tentato un’apertura verso i militari, incrollabili sostenitori di Maduro. La situazione è confusa e la crisi si annuncia tutt’altro che breve e indolore, ammette Magaldi, che però non transige su un punto: è da cialtroni negare l’evidenza, come fa Di Battista, e cioè non voler vedere che l’opposizione sta solo cercando, con ogni mezzo e a carissimo prezzo, di ripristinare la democrazia in Venezuela, brutalmente soppressa dal regime di Maduro.«Ma che cialtrone, Alessandro Di Battista: anziché andarsene a spasso con la famiglia in Centramerica, pagato dal “Fatto Quotidiano” e dalla Mondadori, avrebbe fatto a meglio a studiarla, la storia dell’America Latina». E’ durissimo, Gioele Magaldi, con il battitore libero del Movimento 5 Stelle, pronunciatosi in difesa del presidente venezuelano Nicolas Maduro, che ora deve vedersela con il leader dell’opposizione, Juan Guaidò, autoproclamatosi addirittura “presidente ad interim” il 23 gennaio, nel corso di una manifestazione antigovernativa. Crisi profondissima: da una parte l’Ue è schierata con gli Usa, che assediano accanitamente il Venezuela dai tempi del “ribelle” socialista Hugo Chavez, mentre con Maduro si posizionano Russia e Cina, cioè i paesi che hanno aiutato il governo del Venezuela a sopravvivere, acquistando il petrolio di cui il paese sudamericano è ricchissimo. In molti hanno gridato al golpe contro Maduro? Sbagliano, sostiene il presidente del Movimento Roosevelt: secondo Magaldi, il vero golpista è proprio Maduro, ancora al potere solo perché protetto dalla polizia e dall’esercito. Una commedia degli equivoci, dice Magaldi, che assicura che Guaidò, «massone progressista», è di fede liberal-socialista, mentre Maduro – massone anche lui – si è rivelato «un contro-iniziato, deciso a restare al potere con qualsiasi mezzo».
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India, reddito universale in arrivo. L’Italia può sognarselo
In India sta partendo un esperimento di reddito universale da far impallidire il nostro misero reddito di cittadinanza: succede nello Stato himalayano del Sikkim. Si tratta della seconda più piccola entità statale della federazione indiana, al confine con la Cina. Nel Sikkim, all’avanguardia socialmente, tutti i 610.577 abitanti riceveranno un reddito-base universale, come riportato dal “Washington Post”. «Al posto di un insieme anche piuttosto confuso di contributi sociali, tutti riceveranno una somma di denaro», scrive Guido da Landriano su “Scenari Economici”. In questo, modo nessuno dovrà più preoccuparsi dei propri bisogni di base: saranno “stipendiati” tutti, indipendentemente dal reddito. Il Sikkim è un paese avanzato, per molti aspetti: «Con un tasso di alfabetizzazione del 98%, da diversi anni ha bandito completamente le borse di plastica: di recente è diventato il primo paese “biologico” al mondo, avendo messo al bando anche pesticidi e concimi chimici». Il piccolo Sikkim, aggiunge “Scenari Economici”, ha anche un tasso di povertà piuttosto basso, «soprattutto se comparato con il resto dell’India, in quanto solo l’8% della popolazione è in uno stato di indigenza, contro il 30% dell’India e il 10% dell’Italia».Il Sikkim ha un’economia basata sul un turismo di élite e sulla vendita dell’energia derivante dalle risorse idriche di cui dispone, alimentate dai ghiacciai dell’Himalaya. Lo Stato inolte garantisce la casa a tutti i cittadini, a cui ora darà anche un reddito. «La finalità della decisione è quella di accorciare il gap economico fra i cittadini, con la speranza che, almeno localmente, non segua il trend mondiale che vede i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri», spiega Guido da Landriano. “Scenari Economici” fa notare che esistono altri esperimenti in corso, nel mondo, sul reddito universale o reddito di cittadinanza: a Stockton, in California, tutti cittadini senza lavoro hanno ricevuto 630 dollari per 18 mesi. «Solo che nel Sikkim a ricevere il denaro saranno tutti i cittadini, indipendentemente dal fatto che ricevano un reddito o meno». Proprio la difficoltà nel dedurre l’identità degli aventi diritto ha invece paralizzato il governo italiano, a cui l’Unione Europea ha peraltro accorciato ulteriormente la “coperta” disponibile per soccorrere le fasce sociali più deboli.«A questo punto, viste le affermazioni dei politici italiani – chiosa “Scenari Economici” – ci sarà da attendere un boom di vendite della catena “Divani & Divani”, perché tutti i cittadini cesseranno di lavorare». Aggiunge, Guido da Landriano: «Tutti, poveri e ricchi, smetteranno di lavorare perché avranno un reddito minimo». C’è da sperare che, su quei divani, «si trasferiscano un po’ di deputati di Forza Italia e del Pd che, purtroppo, infestano il dibattito politico italiano». Se la cosiddetta opposizione spara a man salva sui provvedimenti sociali dell’esecutivo Conte, va però ricordato che gli stessi gialloverdi – dopo aver promesso un vero reddito di cittadinanza, nel “contratto di governo” – non hanno osato resistere al diktat neoliberista dell’Ue, votato al rigore più suicida: prima hanno proposto nel Def 2019 un timidissimo deficit al 2,4% (inferiore al tetto del 3% fissato arbitrariamente da Maastricht) e poi hanno rinunciato pure a quello, ripiegando sull’umiliante 2,04%. Tradotto: l’Italia non può fare come il Sikkim. Anche perché l’India è un paese sovrano, dotato di propria moneta: non deve rispondere a nessuna Ue, né tantomeno pagare per avere il denaro che le serve.In India sta partendo un esperimento di reddito universale da far impallidire il nostro misero reddito di cittadinanza: succede nello Stato himalayano del Sikkim. Si tratta della seconda più piccola entità statale della federazione indiana, al confine con la Cina. Nel Sikkim, all’avanguardia socialmente, tutti i 610.577 abitanti riceveranno un reddito-base universale, come riportato dal “Washington Post”. «Al posto di un insieme anche piuttosto confuso di contributi sociali, tutti riceveranno una somma di denaro», scrive Guido da Landriano su “Scenari Economici”. In questo, modo nessuno dovrà più preoccuparsi dei propri bisogni di base: saranno “stipendiati” tutti, indipendentemente dal reddito. Il Sikkim è un paese avanzato, per molti aspetti: «Con un tasso di alfabetizzazione del 98%, da diversi anni ha bandito completamente le borse di plastica: di recente è diventato il primo paese “biologico” al mondo, avendo messo al bando anche pesticidi e concimi chimici». Il piccolo Sikkim, aggiunge “Scenari Economici”, ha anche un tasso di povertà piuttosto basso, «soprattutto se comparato con il resto dell’India, in quanto solo l’8% della popolazione è in uno stato di indigenza, contro il 30% dell’India e il 10% dell’Italia».
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Sapelli: solo gli Usa ci salvano dalla catastrofe euro-tedesca
Si avvicina una recessione di lungo periodo. Viene da lontano, certamente: in primis dalla Cina, che rimane solo una bomba demografica anziché produttiva. Ma viene anche da vicino: dall’Europa, che si sta dilacerando politicamente in una disgregazione sociale inedita per via della deflazione secolare che la mancanza di investimenti ha prodotto proprio a partire dalla Germania e dalle nazioni del Nord, dalla Lega Anseatica e dalla marca svedese, con i venti freddi di una gelata che sembra non aprirsi mai alla primavera. Lo scrive, sul “Sussidiario”, lo storico dell’economia Giulio Sapelli, attento osservatore dell’attualità. «Occorre alzare le dighe degli investimenti produttivi con l’azione delle imprese pubbliche e private», sostiene. «Occorre cambiare profondamente la politica economica europea». Bruxelles invece – impegnata nello scontro con Londra dopo la Brexit – non coglie l’urgenza di questo cambiamento di rotta. «Per comprendere la gravità di questa regressione culturale dobbiamo ritornare con la mente a un contesto non solo economico ma anche internazionale che un tempo era profondamente diverso da quello odierno, perché non aveva irrigidito i sistemi di cambio tra le monete e le regole commerciali e del debito pubblico, in quella gabbia d’acciaio che è oggi l’Eurozona».Sapelli ricorda il novembre del 1975, quando a Rambouillet, sotto l’attenta regia di Valéry Giscard d’Estaing, si celebrò il primo G6, ossia la riunione di capi di Stato e di governo di Francia, Germania Ovest e Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone e Italia. «Erano anni difficili, seguiti alla Guerra del Kippur dell’agosto 1973 con la crisi petrolifera e l’aumento del prezzo del greggio di ben quattro volte in sei mesi, e soprattutto con l’avvento di quella che allora si chiamava “stagflazione”, ossia una stagnazione con inflazione, tutto il contrario di quel che accade oggi». Giscard si accordò con Helmut Schmidt, «il più grande cancelliere tedesco dopo la Seconda Guerra Mondiale», per coordinare le maggiori cinque potenze dell’Occidente, più i nipponici. «La preoccupazione era immensa. I “trent’anni gloriosi” di crescita ininterrotta europea e mondiale, seguiti al 1945, pareva dovessero terminare. E questo colse tutti di sorpresa». Ma attenzione: furono proprio gli Stati Uniti, ricorda Sapelli, a imporre la partecipazione dell’Italia alla riunione di Rambouillet. «Solo la perseveranza di Aldo Moro, allora presidente del Consiglio, e del ministro degli esteri Mariano Rumor, consentirono all’Italia di partecipare a quel summit», aggirando l’Eliseo.«Quel vertice fu decisivo per il nostro paese – scrive Sapelli – perché da allora nessuno osò più escluderci dalle riunioni delle potenze mondiali in cui si decideva l’avvenire del mondo». Da quella riunione «scaturirono degli obiettivi profondamente diversi da quelli di oggi», cioè obiettivi «fondati su un impegno di cooperazione, tutti incentrati sull’economia reale: investimenti per ridurre la disoccupazione, controllo delle quantità monetarie eccedenti i target concordemente fissati dalle banche centrali per contenere l’inflazione, controllo, eliminazione e determinazione dei livelli di consumo energetico per far fronte all’aumento dei prezzi». Oggi, tutto è cambiato. Innanzitutto, come si è visto nel G7 svoltosi in Giappone, «il problema non è più l’inflazione, ma la deflazione che produce una stagnazione che può essere secolare». Ecco perché il pemier Shinzo Abe propone una politica di “deficit spending”, «rifiutando di aumentare le tasse nel suo paese», per contrastare non l’inflazione ma la terribile deflazione che condanna il Sol Levante, da un trentennio, alla non-crescita.E poi, continua Sapelli, è cambiato anche il contesto europeo: «L’equilibrio di potenza nel Vecchio Continente è stato completamente rovesciato a favore della Germania riunificata, che cresce grazie al surplus commerciale immenso che essa realizza imponendo a tutte le altre nazioni, attraverso le regole dei trattati europei, un regime di bassi salari e quindi di bassi costi dei beni intermedi che importa, così da realizzare i magnifici surplus di esportazione». Quarantotto anni dopo Rambouillet, osserva Sapelli, gli Usa sono ora in ritirata dall’Europa. «Ma hanno tuttavia ancora un disegno imperiale mondiale, anche se le divisioni profonde nel gruppo di comando delle disgregate élite nordamericane non lo rendono visibile come si dovrebbe, come tutto il mondo meriterebbe». Sapelli si attende dagli Stati Uniti «ciò che gli Usa ci diedero quarant’anni or sono, ossia la non esclusione dall’equilibrio di potenza mondiale fondato sull’alleanza transatlantica e quindi dai flussi del commercio mondiale». Ed è proprio questa perseveranza transatlantica, secondo Sapelli, la migliore risposta all’avvento della Brexit. «Di questo sono pochissimi in Italia ad avere contezza, a cominciare dagli imprenditori». Eppure, «comprendere tutto ciò è decisivo, perché solo il legame con gli Usa ci può salvare dal prossimo tsunami mondiale».Secondo l’economista, si addensano infatti le nubi e si alzano le maree di uno tsunami «molto più grande di quello del 2008». La causa? Sta «nella tendenza alla deflazione europea, che minaccia tutta l’economia mondiale e segnala la potenza distruttiva del nazionalismo economico tedesco». Ed evidenzia «l’utopia, altrettanto distruttiva, delle cure monetarie alla crisi». L’eccesso di finanza “perversa” (derivati, collateralizzazione del debito), non si sconfigge «con l’eccesso di emissione di moneta, come fa la Bce». Mario Draghi? «E’ prigioniero della sua formazione neoclassica». La moneta, a suo parere, può curare i mali della recessione imminente. È pur vero che sollecita le “riforme strutturali” dei governi, ma – per Sapelli – qui sta l’inganno: «Le riforme che sollecita favoriscono la crisi». In cosa consistono? «Alte tasse, riduzione dei debiti tout court, senza distinguere tra il debito che fa bene (investimenti pubblici per creare lavoro e quindi domanda interna), pervicace negazione di ogni intervento pubblico nell’economia, laddove non è sperpero parassitario, ma creazione di sana occupazione». In compenso, la Bce – che non muove un dito per gli Stati – annuncia di voler salvare grandi imprese, nei guai a causa delle loro spericolate speculazioni finanziarie.Se queste politiche verranno ancora una volta attuate, conclude Sapelli, non faranno altro che «aumentare l’enorme bolla di liquidità che gonfia le nuvole della tempesta». Sarebbe bello, dice, poter tornare a Rambouillet, «gettandosi alle spalle i tempi della finanza “evoluta” perché speculativa e devastante, e dell’Europa fondata sulla deflazione che non condivide sovranità ma la sottrae, in una guerra infinita tra le potenze continentali». È ora di tornare all’età della ragione, scandisce Sapelli: sarebbe la miglior risposta alla Brexit. A farci paura, aggiunge, dev’essere «la non consapevolezza della tragedia imminente», e non invece «il ritorno della storia al suo posto», ossia la fuoriuscita del Regno Unito «da un’Europa a cui quell’impero non ha mai guardato se non con preoccupazione per le potenze via via dominanti che potevano nei secoli minacciare il suo potere mondiale: la Spagna, la Francia e infine, ieri come oggi, la Germania». Aggiunge Sapelli: «Solo la pressione Usa protesa alla sconfitta dell’Urss costrinse il Regno Unito ad abbandonare l’Efta nel 1976 e a entrare con una clausola opzionale fondata sulla non adozione dell’euro all’Europa Unita. Ora l’Urss è crollata e la bomba atomica inglese non serve più in funzione antisovietica». La storia riprende il suo corso, «nonostante la gabbia artificiale e drammaticamente catastrofica della politica istituzionale e della politica economica europea».Si avvicina una recessione di lungo periodo. Viene da lontano, certamente: in primis dalla Cina, che rimane solo una bomba demografica anziché produttiva. Ma viene anche da vicino: dall’Europa, che si sta dilacerando politicamente in una disgregazione sociale inedita per via della deflazione secolare che la mancanza di investimenti ha prodotto proprio a partire dalla Germania e dalle nazioni del Nord, dalla Lega Anseatica e dalla marca svedese, con i venti freddi di una gelata che sembra non aprirsi mai alla primavera. Lo scrive, sul “Sussidiario”, lo storico dell’economia Giulio Sapelli, attento osservatore dell’attualità. «Occorre alzare le dighe degli investimenti produttivi con l’azione delle imprese pubbliche e private», sostiene. «Occorre cambiare profondamente la politica economica europea». Bruxelles invece – impegnata nello scontro con Londra dopo la Brexit – non coglie l’urgenza di questo cambiamento di rotta. «Per comprendere la gravità di questa regressione culturale dobbiamo ritornare con la mente a un contesto non solo economico ma anche internazionale che un tempo era profondamente diverso da quello odierno, perché non aveva irrigidito i sistemi di cambio tra le monete e le regole commerciali e del debito pubblico, in quella gabbia d’acciaio che è oggi l’Eurozona».
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La scuola sacrifica la storia? Sforna cittadini senza memoria
Uno degli effetti più dannosi e inavvertiti della riforma Gelmini, voluta e attuata con spietata determinazione dal secondo governo Berlusconi nel 2008, è il depotenziamento dell’insegnamento della storia in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Fino alla riforma Gelmini la storia, secondo il modello del pedagogista Jerome Bruner, veniva insegnata in modo circolare, riprendendola daccapo e in modo completo in ogni ciclo scolastico (elementari, medie, superiori). La ragione era semplice e sensata: man mano che il bambino cresce, aumenta la sua capacità di afferrare la complessità degli eventi umani e la ripetizione consente di approfondire progressivamente la conoscenza della disciplina, sedimentandola sempre meglio. Ora invece i bambini italiani incontrano gli eventi storici una sola volta nel loro percorso scolastico di otto anni fra elementari e medie. Se hanno fortuna, nel migliore dei casi hanno a 14 anni nozioni vaghe o elementari dei processi storici; se per sfortuna imbroccano nell’insegnante sbagliato, possono ignorare completamente interi pezzi del passato. Arrivano così spesso alle superiori con un enorme buco nero alle spalle. Pochi di loro sanno che cosa sia la Rivoluzione Francese, la formazione degli Stati assoluti, il Risorgimento o la Seconda Guerra Mondiale. Figuriamoci la storia antica e medioevale.In più, la riforma ha fatto ulteriori “regali” agli studenti delle superiori: ha tolto un’ora alla disciplina nel biennio, aggiungendole però anche la geografia nell’orario ridotto (si tratta di quell’ibrido sconcertante che si chiama “geostoria”); ha rimodulato la distribuzione del programma di storia in modo che, invece di cominciare dalla metà del Trecento, in terza si cominci da Carlo Magno (cinque secoli prima); ha creato classi di 27-30 alunni. Risultato: il Novecento resta per forza fuori dalle scuole italiane, se non trattato di corsa e solo fino ad una sintesi estrema della Seconda Guerra Mondiale; il numero eccessivo di alunni impedisce sia di verificare oralmente la loro conoscenza in modo adeguato sia di proporre qualunque approfondimento; l’insegnamento di questa fondamentale materia si è ridotto a poche nozioni, prive di ogni inquadramento critico o di ogni valenza educativa. Poche informazioni, da mandare a memoria con fastidio e senza comprenderle, dato anche il progressivo e inesorabile scadimento dei manuali scolastici e dato il buco nero di conoscenze alle spalle.Perciò non stupisce che gli studenti italiani non scelgano il tema di storia all’esame di Stato. Soltanto che il ministro, invece di toglierlo dalla prova conclusiva, sancendo così la definitiva marginalità della storia nel curriculum formativo degli studenti italiani, dovrebbe chiedersi perché il tema di storia ha così poco appeal. E se fosse saggio, correrebbe ai ripari. Un’intera generazione di studenti che non conosce la storia se non in modo superficiale, e che ignora tutte le vicende salienti del Novecento, è pronto per qualunque regime che si fondi sull’ignoranza della gente. Che lo abbiano fatto apposta, dopo quello che abbiamo letto nel libro “Massoni” di Gioele Magaldi, può apparire tutt’altro che un’idea stravagante. E’ un pezzo della strategia neoliberista di impoverire e depotenziare la scuola pubblica, fondamentale organo costituzionale, secondo la definizione del padre costituente Piero Calamandrei. Per questo, tornare ad un insegnamento vivo, approfondito, critico della storia è fondamentale. Si tratta di una delle principali proposte del Movimento Roosevelt per una scuola davvero democratica.(Patrizia Scanu, “Senza storia non c’è memoria, salviamo l’insegnamento della storia”, dal blog del Movimento Roosevelt del 20 gennaio 2019).Uno degli effetti più dannosi e inavvertiti della riforma Gelmini, voluta e attuata con spietata determinazione dal secondo governo Berlusconi nel 2008, è il depotenziamento dell’insegnamento della storia in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Fino alla riforma Gelmini la storia, secondo il modello del pedagogista Jerome Bruner, veniva insegnata in modo circolare, riprendendola daccapo e in modo completo in ogni ciclo scolastico (elementari, medie, superiori). La ragione era semplice e sensata: man mano che il bambino cresce, aumenta la sua capacità di afferrare la complessità degli eventi umani e la ripetizione consente di approfondire progressivamente la conoscenza della disciplina, sedimentandola sempre meglio. Ora invece i bambini italiani incontrano gli eventi storici una sola volta nel loro percorso scolastico di otto anni fra elementari e medie. Se hanno fortuna, nel migliore dei casi hanno a 14 anni nozioni vaghe o elementari dei processi storici; se per sfortuna imbroccano nell’insegnante sbagliato, possono ignorare completamente interi pezzi del passato. Arrivano così spesso alle superiori con un enorme buco nero alle spalle. Pochi di loro sanno che cosa sia la Rivoluzione Francese, la formazione degli Stati assoluti, il Risorgimento o la Seconda Guerra Mondiale. Figuriamoci la storia antica e medioevale.
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Odiano il popolo e non vedono che l’Italia non li regge più
Da diversi giorni su “La Repubblica” va in scena il teatrino dell’assurdo: la Casta spiega al popolo perché ha perso e perché hanno vinto i loro nemici. Fanno autocritica perché non accettano critiche, gli unici abilitati a criticarli sono sempre loro stessi. Hanno la presunzione di sapere solo loro come sono andate effettivamente le cose, perfino la loro sconfitta la capiscono solo loro che l’hanno pur causata, almeno in buona parte. La loro autocritica esclude il presupposto di ogni serio bagno di umiltà: ascoltare. Ascoltare gli altri, ascoltare chi ha vinto e chi ha decretato la vittoria dei populisti e dei sovranisti, ascoltare la gente, ascoltare chi già prima del collasso spiegava le ragioni del cambiamento in corso. Macché. Gli altri non esistono, non hanno diritto di parola, sono plebe, o fascisti, reazionari, sovranisti o loro complici. La stessa cosa ha fatto il Pd. Ma tutta questa presunzione – che il loro Papa laico definisce in modo altrettanto presuntuoso come “albagia” (Eugenio Scalfari dixit di Sé stesso, col Sé maiuscolo) per non confonderla con la volgare arroganza – spiega il crollo delle élite molto più di quanto si possa immaginare.Infatti cosa si può rimproverare alle élite, il fatto di esistere e dunque per ciò stesso di tradire la democrazia, cioè l’autogoverno del popolo? Ma no, questo è lo schema puerile, simil-rousseauviano, di chi crede alla favola della democrazia diretta. C’è sempre stato un governo d’élite, non si conoscono paesi e sistemi politici in cui i governati coincidano coi governanti, nemmeno a rotazione, e tutto si decide a colpi di referendum e di plebiscito, persino le manovre economiche si fanno al balcone e poi si firmano in piazza tra bandiere, abbracci e tric-trac. Il problema vero, la malattia del sistema, è che non si sono viste in campo le élite, al plurale, in competizione tra loro, come si addice a una vera democrazia, ma una sola oligarchia, un blocco di potere compatto e uniforme benché ramificato. I teorici delle élite, da Mosca a Pareto, parlavano di circolazione delle èlite, per loro la storia è un cimitero di aristocrazie; sono le minoranze che governano, ma sono minoranze in competizione, che si rinnovano.Da noi invece è avvenuta la stipsi delle élite. O se preferite una metafora meno cacofonica, l’arteriosclerosi delle élite, l’indurimento delle arterie che non consentivano la loro fluida circolazione. Si formano i trombi nel sangue e i tromboni nella società. E fermano il flusso. È lì che la classe dirigente si è chiusa a riccio, diventando solo classe dominante, e casta sovrastante. Non c’è stata circolazione, non c’è stata competizione tra élite divergenti, e non c’è stato filtro selettivo per consentire il ricambio tramite la meritocrazia. Si è bloccato l’ascensore sociale, si è chiuso l’accesso dei capaci e dei meritevoli. Si accedeva alle élite solo per cooptazione, per affiliazione alla cupola elitaria, per conformità di idee, metodi, linguaggi e idolatrie. Ma per avere circolazione, selezione, competizione, devi ammettere che non esista solo un Modello, una via di sviluppo, un solo codice politico, culturale e ideale. Devi accettare le differenze e il vero antagonismo.E invece chi non era conforme a quella precettistica, era messo fuori legge, fuori sistema, si poneva di volta in volta fuori dalla modernità, dalla democrazia, dall’Europa e in certi casi perfino fuori dall’umanità. Poi non si spiegano perché l’odio sia diventato un fatto sociale diffuso. Dopo aver insegnato Odiologia verso chi dissentiva dal loro canone, non potete poi meravigliarvi se la gente ha ricambiato, magari con la rozzezza dovuta a chi è carente di cultura e buone maniere. D’altra parte la buona educazione, dal ’68 in poi, fu cancellata e se non sbaglio da quella storia provenite pure voi. Una società volgare, sboccata, primitiva, nasce proprio da quella “liberazione”, dal mancato nesso tra diritti e doveri, che dal ’68 in poi è diventato il discorso dominante (“il diritto di avere diritti”).Ora, non dico che quel che è accaduto sia solo colpa della casta: anche dalla parte opposta si è fatto poco per far crescere e formare élite adeguate, qualificate e competitive. Però negando ogni cittadinanza alle idee diverse, ai modelli politici e culturali diversi, riducendo tutto a fascismo e paraggi, e soprattutto negando perfino l’esistenza di chi la pensava diversamente perché chi divergeva non poteva avere pensiero, hanno di fatto avallato il loro essere un Blocco Unico e Chiuso, che si autoriproduce. A differenza loro, io per esempio leggo Ezio Mauro e Alessandro Baricco, Michele Serra e Ilvo Diamanti, Eugenio Scalfari e altre loro firme culturali, e ne apprezzo in generale la qualità intellettuale. Li critico, polemizzo. Per loro, invece, chi non la pensa come loro o è una bestia o non esiste. Poi non si sanno spiegare perché alla fine parlano solo tra loro e a Sé stessi, col sé maiuscolo, dimenticando il mondo. Che alla fine fa volentieri a meno di loro, o si rivolta contro di loro.(Marcello Veneziani, “La Casta fa autocritica e si autoassolve”, da “La Verità” del 15 gennaio 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Da diversi giorni su “La Repubblica” va in scena il teatrino dell’assurdo: la Casta spiega al popolo perché ha perso e perché hanno vinto i loro nemici. Fanno autocritica perché non accettano critiche, gli unici abilitati a criticarli sono sempre loro stessi. Hanno la presunzione di sapere solo loro come sono andate effettivamente le cose, perfino la loro sconfitta la capiscono solo loro che l’hanno pur causata, almeno in buona parte. La loro autocritica esclude il presupposto di ogni serio bagno di umiltà: ascoltare. Ascoltare gli altri, ascoltare chi ha vinto e chi ha decretato la vittoria dei populisti e dei sovranisti, ascoltare la gente, ascoltare chi già prima del collasso spiegava le ragioni del cambiamento in corso. Macché. Gli altri non esistono, non hanno diritto di parola, sono plebe, o fascisti, reazionari, sovranisti o loro complici. La stessa cosa ha fatto il Pd. Ma tutta questa presunzione – che il loro Papa laico definisce in modo altrettanto presuntuoso come “albagia” (Eugenio Scalfari dixit di Sé stesso, col Sé maiuscolo) per non confonderla con la volgare arroganza – spiega il crollo delle élite molto più di quanto si possa immaginare.
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Patto franco-tedesco, Magaldi: minacciamoli di lasciare l’Ue
«Il governo gialloverde non fa paura a nessuno, in Europa: abbaia, ma non morde. Ecco perché l’oligarchia europea non ha alcun interesse a farlo cadere, men che meno per instaurare un esecutivo “tecnico” come quello di Monti, oggi improponibile all’elettorato italiano». Secondo Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, l’allarme lanciato da Gianfranco Carpeoro (Cottarelli al posto di Conte, in attesa di Draghi) ha un significato «sottilmente apotropaico», quello cioè di evocare un pericolo – l’ennesimo complotto – proprio allo scopo di scongiurarlo, “bruciandolo”. Per Magaldi, in fondo, la realtà è persino peggiore di quella tratteggiata da Carpeoro: perché «gli spaventapasseri Di Maio e Salvini non hanno nemmeno saputo approfittare della rivolta francese dei Gilet Gialli per pretendere, come avrebbero dovuto, il rispetto delle legittime istanze del governo italiano». Mazziati e cornuti, ma senza ammetterlo: «Bravi ad alzare la voce sui migranti e magari su Battisti, e invece zitti di fronte ai diktat della Commissione Europea», peraltro dominata da due paesi – Germania e Francia – che adesso, con lo scandaloso Trattato di Aquisgrana, «rifilano un ceffone plateale a tutti i cantori, anche italiani, della mitica Unione Europea, finora in realtà mai esistita e mai davvero nata».Chiamiamola Disunione Europea: è una cupola di oligarchi affaristi, impegnati a svuotare le nostre democrazie impoverendo i popoli. Di fronte a questo, «l’Italia dovrebbe minacciare di sospendere la vigenza dei trattati europei». Il dado è tratto, avverte Magaldi: ormai, i gruppi di potere (privatistici) che sostengono la Merkel e Macron hanno gettato la maschera. «Odiano a tal punto la democrazia, da stipulare un accordo smaccatamente egoistico, in danno degli altri paesi europei». Oltre all’incredibile “Consiglio dei ministri congiunto, franco-tedesco”, c’è anche «la barzelletta dei “due sederi” che si alternerebbero al seggio, attualmente solo francese, del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite». Parigi è disposta a cedere il 50% di quella poltrona a Berlino? «Curioso: da Francia e Germania, non una parola sul penoso stato in cui è ridotta l’Onu, ormai incapace di far rispettare i diritti umani nel mondo». Quanto alla Francia, «persino Di Maio, meglio tardi che mai, si è premurato di ricordare l’incredibile atteggiamento predatorio e neo-coloniale che i francesi impongono a 14 paesi africani, quelli da cui provengono molti dei migranti diretti in Italia, su cui poi il signor Macron si permette di fare lo spiritoso».Una denuncia che il presidente del Movimento Roosevelt anticipa in una video-chat su YouTube con Marco Moiso, ribadendola poi nel web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”: l’Italia, semplicemente, non può accettare che una cricca di faccendieri oligopolisti decida – per giunta, parlando a nome del popolo tedesco e di quello francese – di prendere a calci i partner europei per tentare di ipotecare all’infinito il loro potere, finora affidato ai burattini Merkel e Macron. La verità è un’altra: la cancelliera è al tramonto, mentre l’Eliseo è assediato dalla rivolta di strada: 8 francesi su 10 voterebbero contro l’attuale presidente. E in queste condizioni i governi di Francia e Germania pensano di poter dichiarare guerra, impunemente, al resto d’Europa? I fatti potrebbero dar loro ragione, commenta Magaldi con amarezza, solo se il governo italiano continuasse la sua indecorosa manfrina: proclami altisonanti, per poi lasciarsi regolarmente umiliare. Sembra proprio che tutto sia cominciato il 27 maggio 2018, quando Lega e 5 Stelle hanno accettato di subire il “niet” di Mattarella sull’incarico a Paolo Savona come ministro dell’economia.Da lì in poi, gli oligarchi devono aver capito che il nascituro governo gialloverde si sarebbe rassegnato a ingoiare qualsiasi rospo, rinunciando alle grandi promesse della campagna elettorale: reddito di cittadinanza, Flat Tax, rottamazione della legge Fornero sulle pensioni. Per invertire la rotta e bocciare l’Europa del rigore serviva un deficit di almeno il 4%, capace di stimolare l’economia già nel 2019. Ma l’esecutivo Conte non è andato oltre la proposta del 2,4%, restando al di sotto della soglia (artificiosa, ideologica e dannosa) sancita dal famoso 3% di Maastricht. Salvo poi perdere definitivamente la faccia, facendosi limare un altro mezzo punto di deficit, sotto la minaccia della procedura d’infrazione. Risultato: accorciata ulteriormente la coperta, tutte le promesse gialloverdi sono evaporate. L’irrisorio reddito grillino appare condizionato da intricatissimi vincoli burocratici, mentre la riforma delle pensioni (quota 100) è ridotta a puro ecloplasma. E non s’è vista nessuna vera riduzione del carico fiscale. Anche per questo, dice Magaldi, i gialloverdi alzano il volume su questioni secondarie e irrilevanti, come l’arresto di Cesare Battisti, estradato solo perché in Brasile è salito al potere l’imbarazzante Bolsonaro.Un avviso a Salvini: non basta cambiare felpa, tutti i giorni, per nascondere la bancarotta politica del “governo del cambiamento”, che si sta rivelando una colossale presa in giro. «Che bisogno c’è di farlo cadere, un governo così docile? E’ perfetto, per lasciare tutto com’è». Con in più il vantaggio di dare agli italiani, per ora, l’illusione di un’inversione di rotta. «Ma attenzione: le cose possono cambiare in tempi rapidissimi». Se n’è accorto Matteo Renzi, «altro campione di chiacchiere», passato in pochi mesi dal 40% al ruolo di profugo politico. Anche per questo, sottolinea Magaldi, è necessario dare fiato a una nuova prospettiva, quella del “partito che serve all’Italia”, i cui promotori – tra cui Ilaria Bifarini, Nino Galloni e Antonio Maria Rinaldi – torneranno a riunirsi a Roma il 10 febbraio. Orizzonte: costruire un vero Piano-B per uscire dall’autismo dell’Europa degli oligarchi. Se ne parlerà anche a Londra il 30 marzo, in un forum sull’economia europea indetto dal Movimento Roosevelt, al quale parteciperanno personalità come Guido Grossi, già supermanager Bnl.E’ il momento di parlar chiaro, ribadisce Magaldi: oggi, l’Italia ha il dovere di convocare i partner europei – Francia e Germania in testa – per obbligarli a riscrivere le regole dell’Unione. Ovvero: una Costituzione democratica e un governo continentale finalmente eletto dal Parlamento Europeo, espressione diretta degli elettori. E quindi: una politica economica unitaria, la fine dello spread, il sostegno al debito mediante gli eurobond. Addio al Trattato di Maastricht e al suo ignobile 3%. O si disegna un New Deal, come invocato dallo stesso Savona nel suo discorso al Senato, o l’Europa è morta. E se Parigi e Berlino pensano di fare da sole, a maggior ragione: l’Italia le fermi. «Dica chiaramente, il nostro governo, che se la linea è quella del Trattato di Aquisgrana, il nostro paese sospende la vigenza di tutti i trattati europei». In questo modo, aggiunge Magaldi, l’Italia parlerebbe anche a nome degli altri partner Ue, esercitando un ruolo autorevole: «Un governo italiano realmente europeista, che denunciasse come anti-europeisti i difensori di questa Europa così com’è, dovrebbe dire a tutti gli altri partner che è giunta l’ora di sciogliere il patto».E questo, peraltro, «vorrebbe dire assumersi la leadership di un processo di riconversione democratica dell’Europa». Se invece Francia e Germania rifiutassero di ascoltare l’Italia, a quel punto «l’eventuale uscita dai trattati avrebbe ben altra legittimazione, anche internazionale». Certo, aggiunge Magaldi, lo schiaffo franco-tedesco deve bruciare soprattutto sulle guance «di tutti quegli imbecilli, anche italiani», che hanno fatto del mantra “ce lo chiede l’Europa” un dogma di fede, «credendo che il sogno europeo dovesse passare per l’imposizione di una governance post-democratica». Una sonora lezione anche per i velleitari “eroi” del nuovo sovranismo, ambigua bandiera «da sventolare in campagna elettorale, per poi ammainarla una volta al governo». Prendete Salvini: la sua ipotetica alleanza tra nazionalismi contava soprattutto su Ungheria e Polonia, «cioè proprio i due paesi che, per primi, hanno bocciato la manovra del governo Conte».Per Magaldi, in sostanza, «dobbiamo essere abili, e anche leali verso gli altri popoli europei». Illusorio rifugiarsi entro i confini nazionali: chi rimpiange l’Italia della lira, che stava certamente assai meglio di quella dell’euro, «dimentica sempre di ricordare che il nostro paese beneficiava innanzitutto del supporto internazionale degli Usa». Ovvero: «Con gli “assi” fondati sugli egoismi nazionali non si va da nessuna parte: fare da soli è impossibile, in un mondo sempre più interconnesso. E qualunque idea di una nazione isolata che possa resistere all’urto dei poteri globali è pura follia». L’alternativa? Semplice, in teoria: «Per contrastare le reti sovranazionali private, cementate da interessi inconfessabili, bisogna costruire reti sovranazionali pubbliche e finalmente democratiche». L’Italia di eri – fino a Monti, Letta, Renzi e Gentiloni – era «subalterna, imbelle e servile». Quella di oggi, gialloverde, preferisce «il piagnisteo velleitario, i proclami muscolari a cui poi non seguono i fatti». Serve un’altra Italia, «sovrana e democratica, orgogliosa di sé», capace di alzarsi in piedi e proporre la democrazia come modello imprescindibile, «non solo in Europa ma anche alle Nazioni Unite».«Il governo gialloverde non fa paura a nessuno, in Europa: abbaia, ma non morde. Ecco perché l’oligarchia europea non ha alcun interesse a farlo cadere, men che meno per instaurare un esecutivo “tecnico” come quello di Monti, oggi improponibile all’elettorato italiano». Secondo Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, l’allarme lanciato da Gianfranco Carpeoro (Cottarelli al posto di Conte, in attesa di Draghi) ha un significato «sottilmente apotropaico», quello cioè di evocare un pericolo – l’ennesimo complotto – proprio allo scopo di scongiurarlo, “bruciandolo”. Per Magaldi, in fondo, la realtà è persino peggiore di quella tratteggiata da Carpeoro: perché «gli spaventapasseri Di Maio e Salvini non hanno nemmeno saputo approfittare della rivolta francese dei Gilet Gialli per pretendere, come avrebbero dovuto, il rispetto delle legittime istanze del governo italiano». Mazziati e cornuti, ma senza ammetterlo: «Bravi ad alzare la voce sui migranti e magari su Battisti, e invece zitti di fronte ai diktat della Commissione Europea», peraltro dominata da due paesi – Germania e Francia – che adesso, con lo scandaloso Trattato di Aquisgrana, «rifilano un ceffone plateale a tutti i cantori, anche italiani, della mitica Unione Europea, finora in realtà mai esistita e mai davvero nata».
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Italia assediata, Francia e Germania ci imporranno Draghi
Se il governo Conte crolla di colpo, c’è già pronto Cottarelli. Ma il vero pericolo si chiama Mario Draghi: il presidente uscente della Bce potrebbe ripiegare su Palazzo Chigi, se non andasse in porto il piano principale che lo riguarda, cioè arrivare alla presidenza del Fmi e sottrarre il Fondo Monetario all’egemonia Usa, per metterlo al guinzaglio di Berlino e Parigi. Secondo l’analisi di Gianfranco Carpeoro, per l’Italia si è acceso l’allarme rosso: l’incredibile Trattato di Aquisgrana, che demolisce qualsiasi prospettiva comunitaria proiettando anche ufficialmente Germania e Francia nel ruolo di “padrone” neo-coloniali dell’Ue, ha come vittima principale proprio il Belpaese. A Roma non si perdona l’insubordinazione del governo gialloverde, l’unico esecutivo teoricamente all’opposizione di Bruxelles. Lo dimostra la “macchina del fango” scatenatasi contro Lega e 5 Stelle, per indebolirne la leadership. Il polverone sul padre di Di Maio (lavoro nero) e su quello di Di Battista (debiti), unitamente alla mazzata giudiziaria sui leghisti (maxi-risarcimento da 49 milioni di euro) a questo servono: a impedire che l’elettorato italiano si sollevi, nel caso in cui una crisi pilotata – banche, spread – precipitasse il paese nella bufera, replicando le condizioni del “golpe bianco” che nel 2011 consentì alla “sovragestione” europea di costringere alla resa Berlusconi e imporre il commissariamento dell’Italia, tramite Monti.Autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che svela i retroscena supermassonici di area Nato dietro ai recenti attentati affidati in Europa alla manovalanza dell’Isis, Carpeoro individua la Loggia P1 (mai riconosciuta, ufficialmente) come la vera “quinta colonna” del peggior potere internazionale, utilizzata per manipolare e indebolire la politica italiana, grazie al prezioso contributo di un establishment “collaborazionista”, reclutato da poteri stranieri per dominare il nostro paese. L’oligarchia Ue è in fibrillazione, in vista delle europee, dal momento in cui Lega e 5 Stelle – con tutti i loro limiti – hanno inserito l’Italia in una traiettoria di collisione con Bruxelles. Da qui le pressioni della Bce e della Banca d’Italia, le impennate dello spread e il “niet” di Mattarella per impedire a Paolo Savona l’accesso al ministero dell’economia. Infine, il lungo braccio di ferro sul deficit 2019 – non ancora concluso – con il governo italiano sottoposto alla minaccia della procedura d’infrazione. Obiettivo dei “sovragestori”: spuntare le armi dei gialloverdi e costringerli a rimediare una figuraccia davanti ai loro elettori, non consentendo loro di mantenere nessuna delle promesse elettorali. Guai se il “virus” della ribellione italiana – aumentare il deficit, violando il rigore di Maastricht – dovesse propagarsi in altri paesi, incoraggiando analoghe svolte politiche. Ad aumentare la tensione ha contribuito certamente anche la rivolta francese dei Gilet Gialli, capaci di spaventare seriamente i poteri che hanno insediato Macron all’Eliseo.Ora, su questo scenario già instabile piomba come un macigno l’inaudito accordo siglato da Francia e Germania, che toglie qualsiasi residua credibilità alla dimensione comunitaria dell’Ue: i due paesi si impegnano a coordinare le loro politiche economiche, fino al punto di istituire formalmente un “Consiglio dei ministri franco-tedesco”. «Si tratta di un atto gravissimo e senza precedenti», dichiara Carpeoro, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Un accordo apertamente ostile agli altri partner europei, «al quale si uniranno sicuramente anche quei lestofanti degli olandesi, che hanno già contribuito a impoverire l’Italia introducendo una normativa fiscale sleale, che ha sottratto al nostro paese ingenti risorse, attraverso il trasferimento in Olanda della domiciliazione fiscale di grandi aziende italiane». Con il nuovo trattato, dice Carpeoro, l’asse franco-tedesco getta la maschera e si prepara a colpire l’Italia in modo frontale, contando anche sull’immancabile collaborazione delle “quinte colonne” interne, «sempre pronte, come già nel Rinascimento, ad allearsi con lo straniero pur di far cadere il governo in carica».Ora il cerchio si stringe, par di capire: il Trattato di Aquisgrana – con l’Italia esclusa dall’Europa che conta – piomba come un fulmine su una situazione già molto allarmante, con la spada di Damocle della procedura d’infrazione (sempre presente) e la lettera della Bce che chiede alle banche italiane di liberarsi dei crediti inesigibili, dopo che il governo ha appena compiuto il salvataggio della genovese Carige. All’affronto franco-tedesco, dice Carperoro, l’Italia dovrebbe rispondere in modo simmetrico: cercando di siglare analoghi trattati – altrettanto ostili – con paesi mediterranei, come la Spagna e la stessa Grecia. Lo farà? Difficile dirlo: bombardato dai grandi media, tutti allineati al potere Ue, il governo Conte potrebbe cedere. Di Maio è stato bersagliato da un killeraggio inaudito, e presto potrebbe venire il turno di Salvini. L’unico vero alleato dell’Italia, cioè Donald Trump, appare isolato. Starebbe sostanzialmente evaporando una certa “sovragestione” americana esercitata fin dall’inizio sui 5 Stelle, quand’era il neocon Michael Ledeen, esponente del Jewish Institute, ad accompagnare Di Maio nei santuari del potere finanziario supermassonico. Ora si punta a indebolire e “sovragestire” l’imprudente Salvini, sommerso dalle polemiche (giustificate) per aver partecipato alla cena romana con l’entourage Pd di Maria Elena Boschi, che sulle banche interveniva per motivi di famiglia.Tutto questo, sintetizza Carpeoro, non fa che indebolire l’Italia: se il governo Conte dovesse cadere all’improvviso, sarebbe spianata la strada per il solito – orrendo – governo “tecnico”, i realtà pilotato dalla consueta élite supermassonica e, nel caso, affidato al neoliberista Carlo Cottarelli, già dirigente del Fmi, tra i massimi responsabili della catastrofe che ha messo in ginocchio la Grecia sotto i colpi dell’austerity. In prospettiva, comunque, secondo Carpeoro la minaccia maggiore viene da Draghi: proprio sul presidente della Bce, ormai in scadenza, punterebbero le oligarchie reazionarie europee per commissariare l’Italia in modo devastante, se a Draghi non riuscirà di conquistare la guida del Fondo Monetario Internazionale con l’obiettivo di sottrarlo all’influenza statunitense. Il piano: mettere il Fmi a completo servizio dell’ordoliberismo europeo: quello che oggi utilizza Francia e Germania come potenze neo-coloniali, come già alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, per spegnere sul nascere qualsiasi tentazione di riforma dell’Ue in senso democratico. Uno scenario che i “sovragestori” temono possa rafforzarsi se alle prossime europee dovesse imporsi l’onda “populista” in diversi paesi, grazie anche al “cattivo esempio” dell’odiata Italia gialloverde, cioè il paese a cui il Trattato di Aquisgrana punta a “spezzare le reni”.Se il governo Conte crolla di colpo, c’è già pronto Cottarelli. Ma il vero pericolo si chiama Mario Draghi: il presidente uscente della Bce potrebbe ripiegare su Palazzo Chigi, se non andasse in porto il piano principale che lo riguarda, cioè arrivare alla presidenza del Fmi e sottrarre il Fondo Monetario all’egemonia Usa, per metterlo al guinzaglio di Berlino e Parigi. Secondo l’analisi di Gianfranco Carpeoro, per l’Italia si è acceso l’allarme rosso: l’incredibile Trattato di Aquisgrana, che demolisce qualsiasi prospettiva comunitaria proiettando anche ufficialmente Germania e Francia nel ruolo di “padrone” neo-coloniali dell’Ue, ha come vittima principale proprio il Belpaese. A Roma non si perdona l’insubordinazione del governo gialloverde, l’unico esecutivo teoricamente all’opposizione di Bruxelles. Lo dimostra la “macchina del fango” scatenatasi contro Lega e 5 Stelle, per indebolirne la leadership. Il polverone sul padre di Di Maio (lavoro nero) e su quello di Di Battista (debiti), unitamente alla mazzata giudiziaria sui leghisti (maxi-risarcimento da 49 milioni di euro) a questo servono: a impedire che l’elettorato italiano si sollevi, nel caso in cui una crisi pilotata – banche, spread – precipitasse il paese nella bufera, replicando le condizioni del “golpe bianco” che nel 2011 consentì alla “sovragestione” europea di costringere alla resa Berlusconi e imporre il commissariamento dell’Italia, tramite Monti.
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Della rivoluzione gialla abbiamo visto l’arco, non la freccia
Ho ascoltato con interesse l’incontro tenuto a Roma con Véronique Rouille e Yvan Yonnet dei Gilets Jaunes, presentato da Moreno Pasquinelli di “Programma 101”, con la presenza di Antonio Maria Rinaldi e Mariano Ferro. Ma la conferenza mi ha destato molte perplessità sulla reale efficacia di questo movimento, soprattutto quando Yvan Yonnet ha consigliato di boicottare le elezioni europee con l’astensionismo, sostenendo che se tale astensione raggiungesse il livello dell’80%, il sistema Europa crollerebbe sotto le proprie contraddizioni. Vero che in meno di due mesi il movimento francese ha dato un’ulteriore spallata al governo Macron e alle oligarchie europee, sconvolgendone il panorama politico. Vero anche che per diverse settime consecutive le dimostrazioni sono continuate in tutto il paese anche dopo le deboli concessioni di Macron, mentre ispiravano un’ondata di manifestazioni anche in paesi limitrofi come il Belgio e l’Olanda, e mentre i media corporativi cercavano di demonizzare il movimento nella speranza non si diffondesse altrove. Il fenomeno è nato spontaneamente e i metodi stessi della sua affermazione ne hanno rivelato anche le tante fragilità.I Gilets Jaunes si sono spesso radunati in luoghi molto frequentati, dove potevano trovare facilmente visibilità mediatica: gli Champs-Elysées a Parigi, le piazze principali di altre città e le numerose rotte del traffico ai margini delle piccole città. A differenza delle manifestazioni tradizionali, le marce di Parigi erano molto libere e spontanee, spesso le persone passeggiavano e si parlano, senza leader e senza discorsi. L’assenza di leader è inerente al movimento, e questo lo predispone al rischio di facili strumentalizzazioni. Dalla loro apparizione di circa due mesi fa, i giubbotti gialli hanno sventato tutti i canoni della mobilitazione sociale: nessun leader carismatico, nessun intermediario, nessuna organizzazione strutturale, nessuna solida coordinazione delle varie compagini territoriali. Invece, un solo colore improbabile, dipinto sui giubbotti catarifrangenti dei motociclisti. Però la guerra alle oligarchie finanziarie è cosa dura e grave, e se i Gilets Jaunes non si organizzano in tempo per vincere le prossime europee e controllare il Parlamento e la Commissione, vedranno cadere nel vuoto le loro rivendicazioni e le loro manifestazioni, che se pur clamorose e sorprendenti, appariranno come una montagna che ha partorito un topolino.Potrebbero fare la stessa fine di “Occupy Wall Street”, finito nel dimenticatoio di Wikipedia. Il fenomeno Occupy era troppo caotico, pericoloso e destrutturato. Insomma, troppo rivoluzionario. Nei suoi discorsi post-Occupy e nel suo ultimo libro “The end of protest: a new playbook for revolution”, Micah M. White ha deplorato il suo fallimento organizzativo. Dai movimenti anti-globalizzazione a quelli anti-guerra in Iraq, passando per le Primavere Arabe, No-Global, movimenti pacifisti, Black Lives Matter, ecc… tutti hanno mancato quegli obiettivi di cambiamento sociale che si prefiggevano. Il neoliberismo è vivo e vegeto, le oligarchie al potere non hanno perso la loro egemonia, mentre le disparità economiche sono aumentate. Il regime dominante si è evoluto per adattarsi al contesto, come un camaleonte, che cambia pelle e colore per mimetizzarsi e non cadere in balia dei predatori. “Occupy Wall Street” in questo senso ha insegnato comunque qualcosa, che le attuali forme di protesta non funzionano più, perché mentre con Occupy la protesta si era allargata a 82 paesi e dato vita a quasi mille “accampamenti”, eppure il cambiamento sociale non si verificò proprio per nulla.Gli attivisti di oggi hanno solo poche possibilità per conquistare la sovranità: continuare a protestare, vincere le guerre o meglio ancora vincere le elezioni. Infatti l’obiettivo finale dovrebbe essere un movimento che possa vincere le elezioni al fine di poter ottenere dei risultati concreti. Il 1° dicembre l’Arco di Trionfo è stato “vandalizzato” dai Gilets Jaunes che manifestavano a Parigi, e il fatto aveva destato l’immediata reazione di Macron, che dalla vetrina del G20 a Buenos Aires aveva dichiarato: «Nessuna causa può giustificare la brutalità verso l’Arco di Trionfo». Però l’Arco di Trionfo è simbolo della “Grandeur Francese”, della sua politica imperialistica, proiettata verso la conquista di un pezzo d’Africa, che continua a sfruttare e rapinare ancora oggi tramite il franco Cfa, l’eredità coloniale che controlla di fatto le economie di 14 paesi africani, secondo norme stabilite 70 anni fa. Un’area monetaria che ricorda la nostra tragica esperienza dell’euro. Quindi la violenza contro l’Arco assume una sua valenza politica ben precisa: il 99% dei miserabili, diseredati dalle politiche neoliberiste del turbocapitalismo, portano la guerriglia urbana contro il simbolo dell’imperialismo francese, oggi soprattutto finanziario.Voluto da Napoleone I, dopo la battaglia di Austerlitz (strana coincidenza proprio il 2 dicembre 1805), il quale disse rivolto ai suoi soldati: «Si tornerà alle vostre case solo sotto archi di trionfo». Difatti un decreto imperiale datato 18 febbraio 1806 ordinò la costruzione di un arco trionfale dedicato appunto alle vittorie conseguite dall’esercito francese. I manifestanti però hanno saccheggiato anche altri emblemi del potere: il busto di Napoleone e quello di Luigi Filippo, i cui occhi sono stati colorati di rosso. Hanno sfondato un altorilievo allegorico che illustrava la partenza dei volontari del 1792, ribattezzata “la Marsigliese”, e scolpito da François Rude nel 1833, nella parte nord dell’Arco. Hanno cercato anche di distruggere un dipinto che rappresentava l’ingresso del catafalco di Victor Hugo al Pantheon. Perché tutti questi simboli? Forse per attaccare il rifiuto napoleonico alla libertà? Il rifiuto di Louis-Philippe all’uguaglianza? Come mai questi manifestanti, che sventolavano il tricolore, hanno attaccato i Volontaires del 1792? E soprattutto, perché Victor Hugo, l’autore di “Les Misérables”, il politico che, a differenza di tanti altri, andava da destra a sinistra, finendo la sua carriera da repubblicano, rifiutatosi inoltre di condannare i comunardi del 1871?Purtroppo la direzione politica dei Gilets Jaunes è ancora disorganica e incerta, per ora abbiamo visto l’Arco, ma non la freccia. Cerchiamo di non trascurare oltre la parte del caso, né della provocazione, né di quella stupidità che ha un ruolo molto più importante nella storia di quanto potrebbero ammettere gli stessi storici; tuttavia il senso di un’insurrezione è anche rivelato dai segni che lascia intatti oltre a quelli che distrugge. E il segno rimasto intatto è quello dell’anonimato di questi gialli francesi… chi li guida, chi li organizza, come si sono strutturati, quali programmi hanno pianificato e soprattutto quali obiettivi immediati si sono proposti? Perché se la ‘rivoluzione gialla’ si ferma alla protesta, se le masse che si sono mobilitate, anche con esiti straordinari per caparbietà ed efficacia negli scontri di piazza, non riusciranno a tradursi in un partito politico che influirà profondamente sulle prossime europee, avremo assistito all’ennesima protesta improduttiva e sterile. Se i giubbotti gialli sono i sans-culottes di oggi, come quelli che divennero i partigiani rivoluzionari della Rivoluzione Francese, alla fine avranno bisogno di un club giacobino. Se la storia è maestra di vita, i Gilets Jaunes dovrebbero imparare dal passato, e ascoltare le parole di Lenin: «Non sostenere il degrado del rivoluzionario al livello di un dilettante, ma elevare i dilettanti al livello dei rivoluzionari».(Rosanna Spadini, “Della rivoluzione gialla abbiamo visto l’Arco, ma non la freccia”, da “Come Con Chisciotte” del 14 gennaio 2019).Ho ascoltato con interesse l’incontro tenuto a Roma con Véronique Rouille e Yvan Yonnet dei Gilets Jaunes, presentato da Moreno Pasquinelli di “Programma 101”, con la presenza di Antonio Maria Rinaldi e Mariano Ferro. Ma la conferenza mi ha destato molte perplessità sulla reale efficacia di questo movimento, soprattutto quando Yvan Yonnet ha consigliato di boicottare le elezioni europee con l’astensionismo, sostenendo che se tale astensione raggiungesse il livello dell’80%, il sistema Europa crollerebbe sotto le proprie contraddizioni. Vero che in meno di due mesi il movimento francese ha dato un’ulteriore spallata al governo Macron e alle oligarchie europee, sconvolgendone il panorama politico. Vero anche che per diverse settime consecutive le dimostrazioni sono continuate in tutto il paese anche dopo le deboli concessioni di Macron, mentre ispiravano un’ondata di manifestazioni anche in paesi limitrofi come il Belgio e l’Olanda, e mentre i media corporativi cercavano di demonizzare il movimento nella speranza non si diffondesse altrove. Il fenomeno è nato spontaneamente e i metodi stessi della sua affermazione ne hanno rivelato anche le tante fragilità.
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Della Luna: aria di recessione, verso un golpe stile 2011?
Serie tanto ripetute e brutte di perdite sui titoli, sia azionari che obbligazionari (e in quasi tutti i comparti dei portafogli dei fondi di investimento) si erano avute solo nel 1929. Ma oggi, rispetto al 1929, ci sono aggravanti: un rallentamento in atto dell’economia su scala globale; banche in crisi per migliaia di miliardi di perdite su derivati e crediti; prossima riduzione o fine del quantitative easing, sia in Europa che in America; ripetuti rialzi dei tassi; un tedesco o simile a capo della Bce al posto di Draghi. Con quanto sopra si prepara la tempesta perfetta, che – a volerlo – si poteva facilmente prevenire sin dagli interventi statali nella crisi del 2008, ma che l’oligarchia bancaria globalista ha per contro voluto permettere (con la solita strategia del pump-and-dump, ma elevata al cubo), perché grazie ad essa potrà rastrellare tutti gli asset e tutti i residui di autonomia politica dalle nazioni che sta mettendo in ginocchio. Pare che questo piano sia contrastato da una forza politica incarnata soprattutto negli alti gradi del Pentagono nell’amministrazione Trump, il quale, oltre ad aver imposto alla Fed moderazione nei rialzi dei tassi, nel 2018 ha emesso decreti presidenziali idonei a colpire con sequestri, arresti e corti marziali chi attacca i diritti umani e l’economia, anche dall’estero.Se la tempesta perfetta non verrà sventata, l’Italia, col suo debito pubblico e la sua inefficienza comparata, e con un tedesco o finlandese a capo della Bce, verrà colpita più duramente di molti paesi che, dal 2008 ad oggi, hanno recuperato fortemente sia nel Pil che nel mercato immobiliare, acquisendo così la capacità di assorbire i colpi dei mercati. L’Italia cadrà in recessione e lo spread diverrà insostenibile. A quel punto, delle due, l’una: o uscirà dall’euro e magari anche dall’Ue, recuperando la sovranità monetaria e sperando che i suoi governanti siano tecnicamente capaci di gestire il cambiamento; oppure il trinomio Bce-Ue-Quirinale farà un nuovo golpe, mettendo su un governo alla Monti, si dice con Draghi premier, o con una Trojka europeista, che imporrà una nuova stangata fiscale, ovviamente anche patrimoniale, e dovrà reprimere con la forza le inevitabili proteste.Questo nuovo golpe avrebbe come protagonisti: un presidente della Repubblica nominato da una maggioranza parlamentare frutto di una legge già dichiarata incostituzionale, e scelto da Renzi e soci, cioè dal partito dei banchieri, pensando a tornare al governo senza passare per nuove elezioni. Nel suo passato, di notevole vi è solo la sua importante partecipazione, come vicepremier, a un governo che, in violazione della Costituzione e senza nemmeno dichiarare la guerra, bombardò i civili serbi su richiesta e per conto di interessi stranieri, al fine – come ha ricordato Diego Fusaro – di fare del Kosovo una grande piattaforma Nato anti-russa; e un Draghi, che dapprima, il 2 giugno ‘92, partecipò quale direttore generale del Tesoro al famigerato Britannia party, nel quale fu pianificata la destabilizzazione e privatizzazione dell’Italia in favore di capitalisti stranieri, e poi si impose sulle perplessità della Sorveglianza di Bankitalia al fine di permettere l’acquisto di Antonveneta da parte di Mps – che, fatto appositamente senza previa “due diligence”, mandò in rovina la banca senese, arricchendo enormemente soggetti la cui identità è ancora ben coperta. Si avvicina, insomma, il termine ultimo per potersi trasferire con le proprie attività in terre più salubri.(Marco Della Luna, “Le nozze di golpe e recessione”, dal sito di Della Luna del 5 gennaio 2019).Serie tanto ripetute e brutte di perdite sui titoli, sia azionari che obbligazionari (e in quasi tutti i comparti dei portafogli dei fondi di investimento) si erano avute solo nel 1929. Ma oggi, rispetto al 1929, ci sono aggravanti: un rallentamento in atto dell’economia su scala globale; banche in crisi per migliaia di miliardi di perdite su derivati e crediti; prossima riduzione o fine del quantitative easing, sia in Europa che in America; ripetuti rialzi dei tassi; un tedesco o simile a capo della Bce al posto di Draghi. Con quanto sopra si prepara la tempesta perfetta, che – a volerlo – si poteva facilmente prevenire sin dagli interventi statali nella crisi del 2008, ma che l’oligarchia bancaria globalista ha per contro voluto permettere (con la solita strategia del pump-and-dump, ma elevata al cubo), perché grazie ad essa potrà rastrellare tutti gli asset e tutti i residui di autonomia politica dalle nazioni che sta mettendo in ginocchio. Pare che questo piano sia contrastato da una forza politica incarnata soprattutto negli alti gradi del Pentagono nell’amministrazione Trump, il quale, oltre ad aver imposto alla Fed moderazione nei rialzi dei tassi, nel 2018 ha emesso decreti presidenziali idonei a colpire con sequestri, arresti e corti marziali chi attacca i diritti umani e l’economia, anche dall’estero.
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Magaldi: la sinistra ignorante che vorrebbe spegnere Rinaldi
Uso criminoso della televisione: manca solo la formula del famigerato “editto bulgaro” di berlusconiana memoria, all’invettiva di Steven Forti su “Rolling Stone” contro Antonio Maria Rinaldi, per chiedere l’allontanamento dell’economista dalle reti televisive italiane, evidentemente inquinate da un economista non-mainstream, non-neoliberista, estraneo all’autismo del pensiero unico. Tu chiamalo, se vuoi, giornalismo. Nel libro “M, il figlio del secolo”, Antonio Scurati ricorda che Benito Mussolini, direttore socialista de “L’Avanti” prima di diventare Duce, almeno una cosa l’aveva detta giusta: e cioè che «la gran parte dei giornalisti italiani sono dei pennivendoli con la schiena poco dritta». Lo sottolinea Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, in una video-chat su YouTube con Marco Moiso. Tema: l’ordinaria macelleria giornalistica che trasforma in carne di porco chiunque non canti nel coro – il sovranista Rinaldi e lo stesso Magaldi, definito (comicamente) «scrittore complottista, fissato col pericolo massonico». E per giunta «vittimista», per via della congiura del silenzio che ha oscurato il suo bestseller “Massoni”, pubblicato da Chiarelettere nel 2014 e tuttora in vetta classifiche Ibs. Figurarsi: come farebbero, gli attuali talkshow, a citare un saggio che rivela l’appartenenza supermassonica di personaggi come Monti, Draghi, D’Alema e Napolitano?Nonostante lo sgangherato assalto al promotore del blog “Scenari Economici”, liquidato come «narcisista e caciarone», economista senza prestigio accademico e piccolo opportunista a caccia di poltrone, Magaldi invita lo stesso Steven Forti, e gli analoghi missionari neoliberali asserragliati tra i ranghi dell’ex sinistra, a farsi avanti in modo aperto: perché non intervistare lo stesso Magaldi, per parlare finalmente del suo libro e magari anche del Movimento Roosevelt e del “partito che serve all’Italia”, progetto al quale Antonio Maria Rinaldi si è accostato in modo interlocutorio, «come battitore libero e autonomo pensatore», per prendere nota di quanto si va discutendo? Scoprirebbero, Steven Forti e i suoi sodali, che i problemi del mondo hanno sempre almeno due spiegazioni, in democrazia. Sono le famose due campane, che un tempo i giornalisti si peritavano di ascoltare, non foss’altro che per un elementare rispetto dei loro lettori. Intanto prendano nota, alla redazione di “Rolling Stone”: sono tutti invitati alla London Metropolitan University, il 30 marzo, dove parleranno un bel po’ di economisti post-keynesiani, impegnati a spiegare come mai questa Europa è sempre in crisi, perde i pezzi (Gran Bretagna) ed è diventata una Disunione Europea dove tutti si fanno le scarpe a vicenda. Vuoi vedere che la politica di austerity introdotta dall’Eurozona è una catastrofe, e in ultima analisi si è trasformata in una fabbrica di sovranismi, nazionalisti, populismi e Gilet Gialli?Il mainstream che si trincera dietro il politically correct non perdona a Rinaldi di tifare per i gialloverdi: fa scialo del più convenzionale corredo squadristico a base di insulti (razzismo, xenofobia, fascismo) per infangare Salvini, il nuovo mostro da sbattere in prima pagina, ma si guarda bene dall’interrogarsi sulle ragioni del fenomeno. Pensiero magico: la demonizzazione dell’Uomo Nero a questo serve, a evitare di chiedersi il perché delle cose. Un consiglio? Tornare a essere laici, smettendo i panni del fanatismo religioso. E magari, cessare di considerare l’avversario un nemico da abbattere. In altre parole, converrebbe ragionare. A proposito, aggiunge Magaldi: hanno una proposta, i coristi “di sinistra” come Steven Forti, su come uscire dalla crisi? Sono bravissimi a censurare le idee altrui, e a demolirle in modo unilaterale, senza mai dialogo, quando non riescono più a soffocarle (come nel caso di Rinaldi, spesso ospitato in televisione). Ma ce l’hanno, in tasca, un Piano-B? E se ce l’hanno, perché non ne parlano mai? Non sarebbe ora di cominciare a farlo? «Informo Steven Forti che diversi esponenti di quella che immagino sia la sua area di riferimento, cioè il Pd e LeU, fanno parte del Movimento Roosevelt». Non solo, aggiunge Magaldi: «Alcuni di loro, come Rinaldi, guardano con interesse anche alla prospettiva del “partito che serve all’Italia”, dato che – dalle loro parti – vedono che si va verso il disfacimento».“Rolling Stone” definisce «un gruppetto», la pattuglia di intellettuali, da Nino Galloni a Ilaria Bifarini, aggregati per ora nelle prime riunioni convocate per valutare la possibilità del nuovo soggetto politico, «il cui sviluppo, a partire dal nome, sarà a cura dei costituenti, dato il rispetto che abbiamo per il metodo democratico». Gruppetto? Sui numeri sarà il tempo a dire la sua, perché siamo solo ai preliminari, assicura Magaldi. Che però aggiunge: anche se alla fine non fossimo in tantissimi, «informo Steven forti che un “gruppetto” di massoni riuniti intorno alla Loggia delle Nove Sorelle, alla fine del ‘700, determinò tanto i preparativi per la Rivoluzione Americana, quindi per la Guerra d’Indipendenza, che quelli per la Rivoluzione Francese: talvolta i gruppetti, se ben coesi e agguerriti, fanno le rivoluzioni». Se Steven Forti non afferra il concetto, prosegue Magaldi, forse è perché «non ha grande dimestichezza con lo studio della storia», benché il suo curruculum accademico lo accrediti come esperto in storia contemporanea. Iniste Magadi: «Steven Forti mi sembra carente di letture», se in qualche modo associa la massoneria al cospirazionismo. L’autore di “Massoni”, libro che smonta moltissime tesi complottistiche, cita il filosofo Gian Mario Cazzaniga, che nel saggio “La religione dei moderni” «spiega come la religione dei moderni sia la politica, e spiega anche che la politica, nel senso moderno e contemporaneo, l’hanno creata i proprio massoni».Altre letture consigliate alla redazione di “Rolling Stone”: le opere di un grande sociologo come Jürgen Habermas, «che ha spiegato come lo stesso concetto di opinione pubblica sia nato da ambienti massonici». E cioè: si prenda atto, meglio tardi che mai, che «la massoneria è un soggetto storico importante». Se poi il giovane Steven Forti leggesse pure il saggio di Magaldi, scoprirebbe che negli ultimi decenni un’élite massonica internazionale, reazionaria e neoaristocratica, ha progettatto e gestito la globalizzazione neoliberista che ha privatizzato il pianeta, rottamando i caposaldi del welfare tanto cari alla sinistra, a loro volta “fabbricati” sempre da massoni, ancorché progressisti, come il massimo economista del Novecento, l’inglese John Maynard Keynes, e il connazionale William Beveridge, l’inventore del “welfare system”. Per inciso: il progressista Keynes era iscritto al partito liberale. I laburisti, invece – come i socialisti francesi, i socialdemocratici tedeschi e l’ex Pci italiano – sono stati i più zelanti esecutori, negli ultimi decenni, delle direttive antidemocratiche dell’élite globalista: è stata proprio la sedicente sinistra a obbedire alla peggiore destra economica. In Italia l’ha fatto prima con Prodi e Draghi, poi con il governo Monti: Fiscal Compact votato senza fiatare, così come la legge Fornero sulle pensioni e il pareggio di bilancio inserito proditoriamente nella Costituzione, con lo Stato terremotato dal ricatto dallo spread.Non la si vuole vedere, la realtà? E allora all’intellighenzia dell’ex sinistra non resta che godersi Salvini, dandogli ogni giorno del fascista. Almeno, puntualizza Magaldi, si eviti di scadere nella disinformazione più scorretta, rinfacciando come una colpa – a un uomo come Antonio Maria Rinaldi – la libertà intellettuale di cui gode: avrà diritto o no, di dirsi scontento della manovra economica del governo gialloverde? Proprio non glielo si vuole riconoscere, il diritto di aspettarsi di più dall’esecutivo Conte? Scherno, disprezzo e criminalizzazione di chi non la pensa come te, riassume Magaldi, non fanno parte dell’abc dell’informazione, che può essere anche fortemente critica, ma mai scorretta. I media mainstream sembrano lo specchio della politica italiana, basata su scontri quotidiani dal sapore tribale. Puoi anche farlo cadere, un avversario, ma poi sapresti come agire, al suo posto? Qualcuno ricorda un’idea – una sola – che negli ultimi vent’anni la sedicente sinistra abbia partorito, per migliorare la situazione, mentre passava il tempo a tuonare contro l’orrido Berlusconi – per poi fare persino peggio, una volta a Palazzo Chigi? Il punto è che c’è bisogno di tutti, sembra dire Magaldi. Oggi più che mai, nessuno deve sentirsi escluso. Lo gridano, gli elettori, quando votano per i cosiddetti populisti. Ormai vedono benissimo quant’è infame, la post-democrazia Ue. E’ tanto comodo, ricamare indignati elzeviri sui tweet di Salvini: serve a continuare a non vedere cosa sta succedendo, lassù, dove un pugno di decisori tiene in ostaggio mezzo miliardo di persone, in Europa. Fino a quando?Uso criminoso della televisione: manca solo la formula del famigerato “editto bulgaro” di berlusconiana memoria, all’invettiva di Steven Forti su “Rolling Stone” contro Antonio Maria Rinaldi, per chiederne l’allontanamento dalle reti televisive italiane, evidentemente inquinate da un economista non-mainstream, non-neoliberista, estraneo all’autismo del pensiero unico. Tu chiamalo, se vuoi, giornalismo. Nel libro “M, il figlio del secolo”, Antonio Scurati ricorda che Benito Mussolini, direttore socialista de “L’Avanti” prima di diventare Duce, almeno una cosa l’aveva detta giusta: e cioè che «la gran parte dei giornalisti italiani sono dei pennivendoli con la schiena poco dritta». Lo sottolinea Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, in una video-chat su YouTube con Marco Moiso. Tema: l’ordinaria macelleria giornalistica che trasforma in carne di porco chiunque non canti nel coro – il sovranista Rinaldi e lo stesso Magaldi, definito (comicamente) «scrittore complottista, fissato col pericolo massonico». E per giunta «vittimista», per via della congiura del silenzio che ha oscurato il suo bestseller “Massoni”, pubblicato da Chiarelettere nel 2014 e tuttora in vetta classifiche Ibs. Figurarsi: come farebbero, gli attuali talkshow, a citare un saggio che rivela l’identità supermassonica di personaggi come Monti, Draghi, D’Alema e Napolitano?
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Nuovo sgarro all’Italia: Parigi e Berlino bocciano Fincantieri
La Commissione Europea ha accolto la domanda presentata da Francia e Germania, che la invitavano a esaminare – alla luce del regolamento sulle concentrazioni – la proposta di acquisizione di Chantiers de l’Atlantique da parte di Fincantieri. In particolare, scrive Paolo Annoni sul “Sussidiario”, la Germania si è associata alla richiesta di rinvio trasmessa dalla Francia. E questo, nonostante il progetto di acquisizione non raggiunga le soglie di fatturato previste dal regolamento Ue che norma le concentrazioni industriali, per le operazioni che devono essere notificate alla Commissione a causa della loro dimensione europea. La questione è chiara e, secondo Annoni, si può riassumere in questi termini: l’acquisizione strategica di un’azienda francese da parte di una italiana, Fincantieri, verrà con ogni probabilità bloccata dopo due anni di affannosi tentativi perché non c’è più il necessario “supporto politico”. In pratica, la Francia (che aveva dimostrato fin da subito un enorme fastidio per l’operazione, già con Renzi primo ministro) ha ora deciso di volerla “smontare”, come probabilmente accadrà.Di certo, rileva Annoni, l’Italia ha consegnato negli anni alla Francia asset e imprese di grandissimo valore economico e strategico. Una delle ultime (particolarmente fastidiose per il sistema) è stato il risparmio gestito di Unicredit, Pioneer, destinato ad alimentare il campione nazionale francese Amundi. Per Annoni, è l’ennesima espressione di “cupio dissolvi” del nostro sistema-paese. «In tutti questi casi si è usato come “scusa” o l’Europa o il mercato, con una dimostrazione di ipocrisia o dabbenaggine incredibili, perché la Francia presidia i propri campioni con gelosia e in barba a qualsiasi afflato europeo o di mercato». Esempi infiniti: dal settore auto al nucleare, con gli italiani di Enel sbattuti fuori dalla grande partita dell’energia. Nel caso delle trattative per i cantieri navali, oggi l’Eliseo approfitta delle pessime relazioni col governo italiano per mandare a monte l’accordo.«Teniamo presente che noi facevamo affari con un paese che bombardava la Libia, i nostri “impianti” e gli interessi nazionali – scrive Annoni – mentre Dio solo sa cosa vedono e cosa lasciano passare, i militari francesi, dei migranti e dei flussi migratori che arrivano in Italia».Infatti, nonostante gli accordi, «i nostri soldati l’Africa subsahariana non l’hanno potuta vedere neanche con il binocolo». Ma a pesare è anche «il rapporto malato che abbiamo noi italiani con l’Europa», nel senso che «la narrazione sull’Europa che si sente in Italia non ha paragoni al di là delle Alpi». Per tutti gli altri, sottolinea Annoni, l’Ue resta uno strumento che «coincide più o meno chiaramente con i propri interessi o con un ben definito blocco di potere». Noi invece «diciamo Europa, ma in realtà dovremmo dire asse franco-tedesco», con tutte le conseguenze che questa equazione ha sui rapporti tra istituzioni europee. È curioso, aggiunge Annoni, che proprio ora Francia e Germania abbiano annunciato un nuovo incontro per rafforzare la loro alleanza economica. «Non è un caso del destino cinico e baro che più della metà delle banche tedesche non applichi gli stessi standard contabili di quelle italiane. È il frutto di una difesa accorta e persistente dei propri punti deboli».Naturalmente, prosegue l’analista, adesso «qualcuno avrà il coraggio di dirci che il “deal” salta perché in Italia ci sono i populisti, oppure per le dichiarazioni di Di Maio sui Gilet Gialli», quando invece «è chiaro anche ai ciechi che la Francia era due anni che provava a far saltare l’operazione», non gradendo l’ingresso di Fincantieri. «Ma l’aspetto più grottesco è un altro», aggiunge Annoni: «Negli imprevedibili sviluppi della politica, che a volte sfuggono di mano anche ai “grandi fratelli” e alle élites più élite che ci sono, nessuno ci assicura che i populisti francesi o tedeschi di domani saranno migliori di quelli italiani di oggi». Sperarlo, secondo Annoni, è indice di provincialismo italico. «L’unica cosa certa è che i nostri populisti li possiamo eventualmente spegnere noi alle elezioni, mentre quelli francesi o tedeschi no». E in attesa di un’unione politica europea (di cui nessuno sa quando e come potrebbe nascere, «visto che il blocco di potere che dà le carte e ricatta tutti non ha alcun interesse a promuoverla»), l’unica certezza è che gli altri faranno solo i loro interessi. La vera questione, conclude Annoni, è come l’Italia «riesca a uscire dal buco in cui si è infilata e dallo stato di subordinazione e ricatto in cui nei fatti si ritrova».L’austerity, con la sua applicazione arbitraria, è solo un sinonimo di questo stato “coloniale”, mentre «neanche il migliore governo che possiate immaginare può fare molto, rispetto a uno stato di cose che, senza modifiche, è un circolo vizioso». Certo, ammette Annoni, uscirne ha un costo enorme: ma rimanerci? «È un dibattito che noi non possiamo fare, se no lo spread sale, mentre in Germania diventa dibattito tra economisti». I tedeschi sanno che, in questi anni, l’euro è costato carissimo all’Italia. Che fare, adesso? «Bella domanda. Però bisognerebbe porsela e avere bene in testa le alternative, senza edulcorazioni europeiste o sovraniste che siano». Di certo, chiosa Annoni, è davvero surreale farsi “fregare” così incredibilmente dai cugini d’oltralpe, sull’affare-cantieri, proprio mentre «ci rimandano indietro i migranti con le scarpe tagliate, tra il tripudio della grande stampa italiana per le fusioni “europee”».La Commissione Europea ha accolto la domanda presentata da Francia e Germania, che la invitavano a esaminare – alla luce del regolamento sulle concentrazioni – la proposta di acquisizione di Chantiers de l’Atlantique da parte di Fincantieri. In particolare, scrive Paolo Annoni sul “Sussidiario”, la Germania si è associata alla richiesta di rinvio trasmessa dalla Francia. E questo, nonostante il progetto di acquisizione non raggiunga le soglie di fatturato previste dal regolamento Ue che norma le concentrazioni industriali, per le operazioni che devono essere notificate alla Commissione a causa della loro dimensione europea. La questione è chiara e, secondo Annoni, si può riassumere in questi termini: l’acquisizione strategica di un’azienda francese da parte di una italiana – Fincantieri – verrà con ogni probabilità bloccata, dopo due anni di affannosi tentativi, perché non c’è più il necessario “supporto politico”. In pratica, la Francia (che aveva dimostrato fin da subito un enorme fastidio per l’operazione, già con Renzi primo ministro) ha ora deciso di volerla “smontare”, come probabilmente accadrà.