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In Turchia, se indaghi sull’Isis finisci impiccato nella toilette
Ciò che sta accadendo in Turchia ci riguarda molto da vicino. Un tiranno, Recep Tayyip Erdogan, non un semplice dittatore, bensì una sorta di satrapo ha il potere, tutto il potere nelle sue mani avide, sue e dei familiari, a cominciare dal figlio Ahmet, coinvolto in molti loschissimi affari. Egli ha creato un vero e proprio modello politico, secondo qualche analista: l’erdoganismo, che appare una sorta di bismarckismo iperautoritario, che prova a giocare sull’inclusione delle masse e sulla messa fuori gioco, con qualsiasi mezzo, di ogni forma non solo di opposizione, ma di dissenso. Le ultime elezioni, di cui la nostra ineffabile signora Mogherini ha certificato la democraticità, sono state stravinte da Erdogan, grazie alle azioni terroristiche contro le opposizioni: la strage dei giovani che marciavano per la pace ad Ankara del 9 ottobre scorso, con 95 morti, e centinaia di feriti, è un esempio mostruoso; saranno stati anche i kamikaze, ma come si sono comportate le autorità? Quali misure prima e dopo hanno preso? La polizia addirittura impediva i soccorsi, e aggrediva i superstiti.Le vittime sono diventate imputati, in sostanza, come in altri episodi assai meno gravi ma diffusi, sotto la tirannia di Erdogan: dopo l’attentato, costui ebbe l’insolenza di dichiarare che si trattava di un atto “contro l’unità del paese”, lo stesso stucchevole, ma pericolosissimo, ritornello usato contro i partiti curdi. Tutto, in un clima di crescente intolleranza verso chi la pensava diversamente dal capo, verso magistrati che si permettevano di mettere il naso negli affari di famiglia, verso alti militari giudicati pericolosi per il potere del capo, e così via. Impressionante, la serie di chiusure di giornali e di siti internet, gli arresti e le pesanti condanne detentive di giornalisti, le intimidazioni d’ogni genere verso chi non è del partito del capo o verso chi si azzarda a esprimere, anche in modo sommesso, una critica: di questo passo in Turchia, la Turchia che vorrebbe aderire all’Ue, neppure lo ius murmurandi sarà più concesso. L’attentato contro il corteo di giovani che chiedevano la pace, ossia la fine delle azioni militari del governo contro i curdi, essenzialmente, fu un episodio che colpì enormemente l’opinione pubblica internazionale, in qualche modo evocatore della strage dei giovani socialisti norvegesi da parte del neonazista Andres Breivik, nell’estate 2011.Ma quali furono gli atti della “comunità internazionale” volti a chiedere conto dell’accaduto a Erdogan e al suo governo? E che dire della brutale eliminazione, degna di un poliziesco, della giornalista e attivista britannica Jacky Sutton, all’interno dell’aeroporto Ataturk di Istanbul? Con tanto di suicidio inscenato, per impiccagione, nella toilette… La Sutton indagava sui possibili nessi tra governo turco e Is, guarda caso. Anche in questo caso non risultano inchieste serie all’interno, né proteste “vigorose” della solita comunità internazionale, a cominciare da quella europea. Ogni volta, insomma, Erdogan alza l’asticella, e ogni volta, regolarmente, incontra acquiescenza, connivenza, al massimo imbarazzati silenzi. E stupisce anche l’assenza della stampa di inchiesta su un caso che, anche con lo sguardo cinico del professionista della comunicazione, è dannatamente “interessante”. E il rullo compressore erdoganiano procede, schiacciando tutto ciò che incontra sul proprio cammino.Nel disegno politico di colui che si considera il nuovo Ataturk, Racep Erdogan appunto, la “sua” Turchia – sua in senso proprio, proprietario, si direbbe – deve diventare potenza egemone nell’area mediorientale, per poi sedere al banchetto dei “grandi”, forte di un esercito potentissimo, e di una crescita economica che finora ha sostenuto le sorti governative; finora, ma le cose stanno cambiando. Per raggiungere lo scopo, Erdogan non ha esitato a stabilire rapporti, più o meno coperti, con Daesh, mentre conservava e rafforzava i suoi legami con Usa e Nato: non buoni invece quelli con l’Unione Europea, che stenta ad accogliere uno Stato come questo nel suo seno (con notevole ipocrisia, d’altronde). E, soprattutto, Erdogan, con straordinario cinismo, stabilisce e rompe intese ed alleanze: il suo attacco alla Russia (l’abbattimento di un aereo della Federazione impegnato in azioni contro l’Isis è stata una dichiarazione di guerra, evidentemente compiuta con l’assenso della Nato e degli Usa) e l’eliminazione dell’avvocato Tahir Elci, uno dei più noti difensori della causa del popolo curdo, è stata un’altra dichiarazione di guerra, contro un intero popolo, la cui esistenza in Turchia neppure viene riconosciuta (i curdi sono chiamati “turchi del Nord”!). Un vero e proprio “caso Matteotti” in salsa turca.Ci si sarebbe aspettato una generale levata di scudi, specie dopo aver visionato il video dell’azione: gli assassini scappano verso gli agenti di polizia che sparano verso di loro senza mai colpirli, al punto che vien da pensare che le loro armi fossero caricate a salve. “L’uccisione rimarrà un mistero”, si è subito bofonchiato. Lo rimarrà perché le autorità vogliono che nulla trapeli della verità, perché esse sono implicate direttamente nell’omicidio, che con la solita faccia tosta Erdogan ha attribuito al Pkk ossia il partito curdo di sinistra estrema, che Elci difendeva sia in tribunale, nelle tante cause in corso, sia nelle pubbliche occasioni, in una delle quali era egli stesso incappato nell’accusa di tradimento e quant’altro, ed era stato arrestato. Ma un altro video è da guardare, con estrema attenzione, quello dei suoi funerali. Esso costituisce un bellissimo quanto dolente omaggio al combattente caduto, che è anche una dimostrazione di coraggio per chi vi ha partecipato, e una lezione per chi, nelle nostre tepide case, lo guarda, ammirato della sua grandiosa semplicità, e della sua forza.Ma il potere di Erdogan e del suo cerchio magico non si lascia condizionare, come non lo aveva smosso l’ondata di proteste dello scorso anno di piazza Taksim in difesa del Gezi Park, ma in realtà di quel poco di libertà che ancora rimaneva nel paese. Proteste represse, come le precedenti e le successive, con durezza estrema dalla polizia: feriti, morti, e centinaia di arresti. Tutto ciò, ribadisco, nella silenziosa acquiescenza delle “democrazie occidentali”, che si stanno rendendo complici del tiranno. L’odio per i “comunisti” (del Pkk), da un canto, la russofobia dall’altro giocano sempre un ruolo importante. La democratica Europa tace. La democratica Italia, balbetta. I democraticissimi Stati Uniti, invece, si schierano a fianco del tiranno. E così costui, nel suo megagalattico palazzo presidenziale da 1200 stanze – il più gigantesco del mondo – una reggia fortificata, per giunta edificata in zona vietata (il diritto che nasce dalla forza, non viceversa…), sogna come “Il Grande Dittatore”, aggirandosi per saloni, corridoi, scale, parco… Sogna di avere, nelle sue avide mani adunche prima il Medio Oriente, e poi?La sua corsa tuttavia rischia di fargli fare passi falsi: colpire con un missile un aereo russo è stato un gesto a dir poco spregiudicato, volto a far schierare tutto l’Occidente al suo fianco, in nome dell’antica paura e odio per i russi; l’arroganza con cui Erdogan ha, con toni truculenti, rivendicato il “diritto” della Turchia a “difendere i propri confini”, perché un aereo che in teoria combatte dalla stessa parte turca contro l’Is, aveva sconfinato (per 27 secondi, ossia, 2,7 km), è apparso quasi grave quanto quel missile. Ma quando preso ormai da una sorta di delirio di onnipotenza, Erdogan ha sentenziato: «La Russia scherza col fuoco», allora l’inquietudine è cresciuta. Non v’è dubbio che oggi, vi sia un solo soggetto politico-militare che possa fermare Erdogan: la Federazione Russa di Vladimir Putin: piaccia o non piaccia. Così come è chiaro che soltanto la Russia oggi sta combattendo l’Is, seriamente, al di là delle motivazioni, e che solo la Russia può impedire alla Turchia di impadronirsi di un quarto del territorio siriano, di un quinto di quello iracheno e così via. Solo la Russia, in definitiva, può impedire la Terza Guerra Mondiale, verso la quale, invece, la Turchia di Erdogan sembra voler trascinare il mondo.(Angelo d’Orsi, “Crimini e misfatti, la Turchia di Erdogan”, da “Micromega” del 2 dicembre 2015).Ciò che sta accadendo in Turchia ci riguarda molto da vicino. Un tiranno, Recep Tayyip Erdogan, non un semplice dittatore, bensì una sorta di satrapo ha il potere, tutto il potere nelle sue mani avide, sue e dei familiari, a cominciare dal figlio Ahmet, coinvolto in molti loschissimi affari. Egli ha creato un vero e proprio modello politico, secondo qualche analista: l’erdoganismo, che appare una sorta di bismarckismo iperautoritario, che prova a giocare sull’inclusione delle masse e sulla messa fuori gioco, con qualsiasi mezzo, di ogni forma non solo di opposizione, ma di dissenso. Le ultime elezioni, di cui la nostra ineffabile signora Mogherini ha certificato la democraticità, sono state stravinte da Erdogan, grazie alle azioni terroristiche contro le opposizioni: la strage dei giovani che marciavano per la pace ad Ankara del 9 ottobre scorso, con 95 morti, e centinaia di feriti, è un esempio mostruoso; saranno stati anche i kamikaze, ma come si sono comportate le autorità? Quali misure prima e dopo hanno preso? La polizia addirittura impediva i soccorsi, e aggrediva i superstiti.
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Sciiti e sunniti, colpa loro. Noi occidentali? Innocenti, ovvio
“Se Allah avesse voluto una sola religione, al mondo, quella soltanto ci sarebbe”. Nel suo saggio sulle principali confessioni del pianeta, Paolo Franceschetti ricorda lo straordinario ecumenismo presente nel Corano, secondo cui “tutte le religioni sono mezzi che conducono alla stessa meta”. «Lo stesso Maometto, pur “prescelto da Dio”, aggiungeva: non compio miracoli, non servirebbe. Nonostante i suoi miracoli, nemmeno Cristo, il più grande dei profeti, è stato riconosciuto per ciò che era, ed è stato crocifisso». Ora torna in voga il refrain sullo “scontro di civiltà”, inaugurato nel 1996 da un esponente dell’élite come Samuel Huntington (“Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”) e reso tristemente celebre da Oriana Fallaci dopo l’11 Settembre. E oggi, nella narrazione mainstream frastornata da attentati e guerre a catena (Libia e Siria, Charlie Hebdo, Yemen, strage di Parigi del 13 novembre), lentamente affiora anche nei talkshow un nuovo capitolo, quello della guerra inter-islamica tra sciiti e sunniti. «Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale», scriveva Huntington. «Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro», anche perché «le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura».Superiorità occidentale? Sì, ma a mano armata: «L’Occidente – ammette ancora Huntington – non ha conquistato il mondo con la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione, ma attraverso la sua superiorità nell’uso della violenza organizzata, il potere militare». E attenzione: «Gli occidentali lo dimenticano spesso, i non occidentali mai». Lo sottolinea Paolo Barnard nel suo saggio “Perché ci odiano”, in cui intervista anche l’allora “numero tre” di Al-Qaeda: il mondo islamico ha ormai incorporato un rancore smisurato e più che giustificato verso l’Occidente, dopo aver subito – senza interruzione – un genocidio dopo l’altro, lo stupro di interi paesi e la razzia delle risorse (petrolifere, e non solo) grazie alla complicità di élite locali, i “raìs” che rinnegarono le istanze della decolonizzazione, restando al potere – dittature e monarchie – col granitico supporto occidentale. Una stagione di piombo, dopo la fine delle speranze accese dai leader terzomondisti arabi e africani sistematicamente uccisi o fatti uccidere dagli occidentali, perché scomodi: da Patrice Lumumba in Congo, liquidato dal Belgio per insediare Mobutu, fino a Thomas Sankara, in Burkina Faso (l’uomo che voleva azzerare il debito per i paesi poveri), assassinato col solito sistema, sicari locali armati da mandanti occidentali, francesi e americani.Il maggiore leader della storia egiziana moderna, Nasser, trascinò il mondo sull’orlo della guerra nel fatidico 1956: nazionalizzò il Canale di Suez per protesta contro la Banca Mondiale che rifiutava di finanziare una grande diga sul Nilo; per rovesciarlo manu militari, inglesi e francesi sbarcarono in forze a Port Said, ma furono fermati dall’Urss che intimò loro il ritiro immediato, pena l’impiego delle armi atomiche. Proprio il crollo dell’Unione Sovietica ruppe equilibri decennali, congelando al potere i vecchi autocrati, ancora sul trono o travolti solo ora dalle “primavere arabe”. Sempre in Egitto, il “faraone” Mubarak era stato il vicepresidente di Anwar Sadat, l’uomo della storica pace separata con Israele. Pagò con la vita, Sadat, e la sua fine mise sotto i riflettori, per la prima volta, la “jihad islamica”: Sadat fu ucciso nel 1981 da un killer jihadista. Meno di dieci anni dopo, l’Algeria schierò i carri armati nelle strade per annullare i risultati delle elezioni, che avevano clamorosamente incoronato il Fis, Fronte Islamico di Salvezza. Ma l’unico grande paese in cui l’Islam andò letteralmente al potere fu l’Iran, con la travolgente rivoluzione di Khomeini del 1979, guidata dal carismatico ayatollah (sciita) esiliato dal feroce regime dello “scià” Reza Pahlavi, a cui l’Occidente aveva imposto di eliminare il premier Mohammad Mossadeq, che aveva osato nazionalizzare il petrolio iraniano, saldamente in mano agli inglesi dal lontano 1908.Con Khomeini, l’identità religiosa si è trasformata anche in arma politica di autodifesa, da parte di paesi storicamente brutalizzati e rapinati dall’Occidente, che non ha mai neppure provato a sanare la devastante piaga della Palestina, martoriata fino al genocidio delle bombe al fosforo bianco sganciate anche sui bambini, dopo che a Gaza si è imposta (democraticamente, per via elettorale) la fazione sciita di Hamas. Appena più a nord, altri sciiti, quelli del partito armato di Hezbollah insediato in Libano, sono ora impegnati accanto ai russi nel sostegno militare del regime di Assad, esponente della componente sciita (alawyta) della Siria. Mentre nell’altro paese raso al suolo dalle bombe, l’Iraq, a maggioranza sciita, sono stati gli americani a emarginare, con la fine di Saddam, la componente sunnita, da cui si racconta sia partita l’ultima ondata jihadista che sta insanguinando il Medio Oriente e terrorizzando la Francia. Religione o potere? Secondo un eminente studioso come Francesco Saba Sardi, biografo di Picasso e traduttore di Simenon, Pessoa, Borges e Garcia Marquez, religione e potere compaiono insieme, nella storia della civiltà, insieme al terzo elemento: la guerra. Accade nel passaggio cruciale tra il paleolitico, abitato da cacciatori e raccoglitori, al neolitico, in cui l’uomo scopre l’agricoltura e quindi il bisogno di conquistare e difendere la terra. Nel saggio “Dominio”, Saba Sardi sostiene che proprio la religione nacque per conferire autorità al primo capo politico e militare della storia dell’umanità, il re-sacerdote.Se la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei, potrebbe essere classificato (come il Papa-re) nella categoria dei re-sacerdoti, è pur vero però che i “nemici” dei paesi islamici non professano, di fatto, alcuna religione: il biglietto da visita dell’Occidente “cristiano” non è il crocifisso, ma una valigia di dollari e una flotta di droni che sganciano missili. Tre milioni di vittime, fra i musulmani, solo negli ultimi anni. E’ sempre l’Occidente – l’ha ricordato un comico, Maurizio Crozza, citando Hillary Clinton – ad aver “fabbricato”, in Afghanistan, il fondamentalismo islamico da cui poi nacquero i Talebani e il loro profeta, l’ex uomo Cia più famoso del mondo, Osama Bin Laden. Eppure, di fronte ai fallimenti catastrofici in Medio Oriente e alla recente paura quotidiana per gli attentati, un’Europa smemorata e incerta, guidata dall’evanescente Obama, resta tra le nebbie di una politica reticente e disonesta: preferisce tacere sul ruolo di Usa, Francia e Turchia nella progettazione a tavolino della “guerra civile” in Siria, per parlare piuttosto di scontro inter-islamico tra sciiti e sunniti, come se si trattasse di una lite di famiglia tra parenti lontani, stravaganti e fanatici, fingendo di non sapere come mai, molti di loro, ce l’hanno tanto con noi.Posto che nessuno potrebbe mai farsi saltare in aria senza essere imbottito di anfetamine o debitamente manipolato con tecniche psicologiche potentissime, come quelle messe a punto nel programma Mk-Ultra della Cia, non occorre un Premio Nobel per riconoscere le ragioni di un risentimento vastissimo, motivato da decenni di mostruose sofferenze inflitte. «La differenza tra noi e voi è semplice: noi non abbiamo paura di morire», dice un jihadista. Può succedere, sostiene Marco Travaglio, se scopri di non avere più niente da perdere, perché qualcuno ti ha condotto alla disperazione, privandoti di tutto. «Aiutiamoli a casa loro», dicono – senza ridere – leader come Salvini, come se non sapessero in che modo li stiamo già “aiutando”, a casa loro, da decenni. Enrico Mattei, che alla parola “aiuto” dava un significato diverso (non rapina, ma scambio equo) fu fatto esplodere in aria, sul suo aereo. Ma era tanto tempo fa. Troppo, per ricordare. Meglio allora i pettegolezzi sulla lite di famiglia tra i sunniti, cioè gli eredi di Abu Bakr, amico e suocero di Maometto, e gli sciiti, seguaci dell’imam Alì, cugino e genero del Profeta. La divisione religiosa risale al VII secolo dopo Cristo, ma è “esplosa” soltanto adesso, da quando i paesi islamici del Vicino Oriente si sono accorti, definitivamente, della natura dell’“aiuto a casa loro” fornito dal potere occidentale.Il nostro è un potere non certo religioso, ma finanziario e militare, come ricorda Huntington, peraltro co-autore dello storico saggio “La crisi della democrazia”, commissionato dalla Trilaterale e utilizzato come Vangelo dall’oligarchia mondialista, quella che ha messo fine alla sovranità nazionale anche archiviando la sinistra dei diritti, quella che – per inciso – sosteneva le cause del terzo mondo, inclusa quella palestinese, che sta a cuore tanto ai sunniti quanto agli sciiti. Ma attenzione: buttarla in politica non risolve sempre tutto. Lo sostiene un osservatore speciale come Fausto Carotenuto, già analista di primo piano dei servizi segreti, ora animatore del network “Coscienze in rete”: conta anche, e moltissimo, la dimensione “invisibile”, quella dei pensieri. Angoscia, paura e rabbia, oppure speranza e fiducia: il “potere” della preghiera. I musulmani sono un miliardo e mezzo, nel mondo, e pregano Allah cinque volte al giorno, tutti i giorni, a ore fisse. «Ogni fedele – dice Paolo Franceschetti – sa che, mentre sta pregando, lo sta facendo insieme a tutti gli altri, in ogni parte del mondo. Questo dona una grande forza interiore, demolisce la solitudine».Per il massone Gianfranco Carpeoro, l’errore fatale dei cattolici fu quello di attaccare gli arabi con le Crociate. San Francesco d’Assisi viaggiò fino a Damietta, sul Nilo, per fare la pace coi musulmani. Che, all’imperatore esoterista Federico II, regalarono una scorta d’onore: la guarda armata del capo del Sacro Romano Impero era composta da guerrieri musulmani. Emblematico, sotto questo aspetto, il ruolo-ponte dei Sufi, confraternita iniziatica di origini antichissime, pre-islamiche, capace di sviluppare una particolarissima forma di sincretismo, oltre che una sorta di diplomazia di pace. «Sapendo che tutto è Dio, cerco Dio per trovare il tutto», sintetizzava Gabriele Mandel, eminente studioso e leader dei “dervisci” italiani, per tutta la vita impegnato nel dialogo interreligioso. Dagli islamici abbiamo molto da imparare, aggiunge Franceschetti: «Per loro la carità è un obbligo, vivono una straordinaria solidarietà quotidiana. Da sempre, nei paesi islamici, il fisco è progressivo: i ricchi pagano più tasse. E la finanzia islamica non è speculativa come la nostra, l’etica la impone il Corano: se non riesci più a a pagare il muto, la banca si riprende la casa ma si ferma lì, non ti perseguita con gli interessi. Non a caso, da noi non si vedono banche islamiche». Discorsi che portano lontano, certo. Molto più lontano dei missili sulla Siria, e di quelli sparati ogni giorno dal circo mediatico con le sue mediocri comparse senza memoria.“Se Allah avesse voluto una sola religione, al mondo, quella soltanto ci sarebbe”. Nel suo saggio sulle principali confessioni del pianeta, Paolo Franceschetti ricorda lo straordinario ecumenismo presente nel Corano, secondo cui “tutte le religioni sono mezzi che conducono alla stessa meta”. «Lo stesso Maometto, pur “prescelto da Dio”, aggiungeva: non compio miracoli, non servirebbe. Nonostante i suoi miracoli, nemmeno Cristo, il più grande dei profeti, è stato riconosciuto per ciò che era, ed è stato crocifisso». Ora torna in voga il refrain sullo “scontro di civiltà”, inaugurato nel 1996 da un esponente dell’élite come Samuel Huntington (“Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”) e reso tristemente celebre da Oriana Fallaci dopo l’11 Settembre. E oggi, nella narrazione mainstream frastornata da attentati e guerre a catena (Libia e Siria, Charlie Hebdo, Yemen, strage di Parigi del 13 novembre), lentamente affiora anche nei talkshow un nuovo capitolo, quello della guerra inter-islamica tra sciiti e sunniti. «Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale», scriveva Huntington. «Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro», anche perché «le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura».
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Nino Galloni sindaco di Roma: troppo bello per essere vero?
«Carissimi, vi giro un link del Movemento Roosevelt (MR) in cui si fa una proposta diretta al M5S per la candidatura a sindaco di Roma. La proposta è un po’ “arrogante” ma il candidato, Nino Galloni, appare di elevato livello», scrive Filippo Ridolfi, il 29 novembre, sul forum del blog di Grillo. «Puoi dire al MR di andare a fare in c***», chiarisce il grillino Massimiliano Morosini. A un altro iscritto, “Gnam Gnam”, il nome Galloni non dice granché: «Vediamo un po’. Uhm, non trovo il curriculum del tizio». Un quarto attivista, “Filippo”, s’illumina: «Ahah… ho visto anche un “Passaparola” di Beppe con Galloni». Sdoganato, quindi, il grande economista? Macché: «Preferisco Virginia Raggi», chiosa “Ste”, alludendo alla giovane avvocatessa grillina «sbarcata in Campidoglio nel 2013 col vento del grillismo per occuparsi di stanziamenti per il verde pubblico», come scrive “Linkiesta”. La Raggi? «Un po’ di lavoretti da cameriera e baby sitter, il volontariato nei canili. Oggi è avvocato civilista esperta diritto d’autore, proprietà intellettuale e nuove tecnologie. Se prendesse il posto di Marino sarebbe il primo sindaco donna nella storia della Capitale». E Galloni?La “pazza idea” di candidare a Roma l’insigne economista progressista, già alto funzionario governativo – protagonista di una battaglia sotterranea per salvare l’Italia dal disastro del Trattato di Maastricht – proviene dal movimento fondato da Gioele Magaldi, massone e autore del dirompente saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) che denuncia i misfatti di alcune Ur-Lodges, fra le 36 superlogge segrete ai vertici del potere mondiale, negli ultimi decenni alle prese con la svolta oligarchica che ha imposto la grande crisi alle masse, arricchendo l’élite. Fulcro della grande restaurazione planetaria, il taglio neoliberista dello Stato a vantaggio dei signori del “mercato”: meno spesa pubblica, azzeramento del debito, tassazione alle stelle, crollo del Pil e disoccupazione. Tutto ciò imposto, in Europa, attraverso la scure dell’euro, che Galloni considera un’arma (economica) di distruzione di massa. Tanto era temuto, Galloni, che – ai tempi dell’ultima stagione governativa di Andreotti – spinse il cancelliere Kohl a muoversi, personalmente, perché fosse rimosso. Una battaglia, la sua, per la difesa della sovranità italiana, nella certezza che le modalità di imposizione della moneta unica avrebbero devastato l’economia nazionale, declassandola e deindustrializzandola.Era un piano preciso, ha spiegato Galloni a Claudio Messora, sul blog “Byoblu”: l’euro fu imposto dalla Francia per indebolire la Germania, di cui temeva la riunificazione; in cambio, Berlino pretese (e ottenne) il ridimensionamento del suo concorrente industriale più pericoloso: noi. Questo è il personaggio su cui “Filippo”, “Ste” e “Gnam Gnam” si saranno ormai documentati. Allievo del maggiore economista europeo del dopoguerra, il professor Federico Caffè, e quindi “compagno di banco” di Bruno Amoroso, eminente economista impegnato in Danimarca, e di un certo Mario Draghi, che si laureò con una testi sulla insostenibilità della moneta unica, molto prima di salire sul Britannia per la grande svendita dell’Italia. Riuscirà il Movimento 5 Stelle a prendere in considerazione l’offerta? Galloni collabora col Movimento Roosevelt, che vuole riscrivere le linee-guida della politica (e quindi dell’economia) per aiutare l’Italia a uscire dal disastro. Fine della sudditanza rispetto all’élite finanziaria che manovra Bruxelles? «Ma noi non siamo contro l’euro», dichiarò Gianroberto Casaleggio a Marco Travaglio, giusto alla vigilia delle ultime elezioni europee, segnate dalla squillante affermazione, in tutta Europa, di partiti e movimenti decisi a mettere fine alla catastrofe economica innescata proprio dalla moneta unica, quella che lo stesso Draghi, studente modello, giudicava una follia.«Nino Galloni sindaco di Roma? Magari!», sogna ad occhi aperti Andrea Signini su “Signoraggio.it”, definendo Galloni «grande giurista, nome di punta degli anni Ottanta e Novanta, il cosiddetto “oscuro funzionario” il quale, di contro, tutto è tranne che oscuro, dal curriculum di pregio e dalla profonda conoscenza delle dinamiche dell’economia, della finanza e anche della politica, di cui non ha mai fatto parte se non a richiesta, come professionista interrogato per risolvere i problemi che la politica stessa ha sempre causato». Già ricercatore all’università di Berkeley, tra il 1980 e il 1987 Galloni collaborò strettamente col suo maestro Federico Caffè, economista post-keynesiano, all’università di Roma. In seguito, Galloni ha insegnato economia alla Luiss di Roma, alla Sapienza, alla Cattolica di Milano, negli atenei di Modena e di Napoli. E’ stato direttore generale al ministero del lavoro, ha diretto l’osservatorio sul mercato del lavoro e l’occupazione giovanile, ha lavorato all’Inpdap e all’Ocse, è tra i sindaci dell’Inps e dell’Inail. Ha anche fondato il Centro Studi Monetari, un’associazione per lo studio dei mercati finanziari e delle forme di moneta emettibili senza creare debito pubblico.Galloni punta al ritorno della sovranità finanziaria nazionale e alla netta separazione tra banche d’affari, speculative, e credito pulito al servizio dell’economia reale, com’era prima dell’abolizione del Glass-Steagall Act ad opera di Bill Clinton, che diede la stura definitiva alla roulette finanziaria mondiale, decisa a “pescare” anche nella finanza pubblica. Il dramma risale al 1981, ricorda ancora Galloni, quando Ciampi e Andreatta staccarono il Tesoro da Bankitalia, che fino ad allora era il “bancomat del governo”, a costo zero, costringendo il paese ad attingere denaro attraverso l’emissione di titoli di Stato. Interessi salatissimi: «Così, di colpo, il debito pubblico italiano raddoppiò». Galloni? «E’ l’uomo giusto al punto giusto», scrive Signini. «Apprezzato da destra a sinistra, dal popolo cosiddetto moderato e quello di nicchia; ma soprattutto ammirato da chi accorre alle sue conferenze; conferenze che tiene in tutta Italia senza mai farsi pagare, ricordiamolo. Nino è così: sobrio nelle scelte, sobrio nel vivere, anche nel vestire. Non giuda Jeep o Ferrari, no. Lo puoi trovare nei consessi internazionali di finanza ed economia e poi il giorno appresso seduto al bar con gli appartenenti di ogni forza politica, di qualsiasi colore e schieramento o a parlare amabilmente con chi lo riconosce e gli chiede consigli e suggerimenti».«Questo è Nino», conclude Signini: Galloni è «l’altro allievo di Federico Caffè, del tutto diverso da Mario Draghi». Con tutta probabilità, «grazie proprio al bagaglio culturale e professionale che ha sviluppato sin dai tempi in cui, dopo essere ritornato dagli Usa per venire ad insegnare nelle università italiane», Nino Galloni «non può che essere colui sul quale scaricare la responsabilità di rifondare Roma», devastata dalle amministrazioni Alemanno e Marino. «Tentare di pescare l’ennesimo nome dal cilindro lercio della politica, sappiatelo, è inutile, oltre che nocivo», assicura Signini: «C’è rimasto solo Galloni». Che ne pensano “Ste”, “Gnam Gnam” e tutti gli altri? E soprattuttto: come la vedono Grillo e Casaleggio? E’ ovvio che una candidatura come quella di Galloni nella capitale rappresenterebbe una rivoluzione copernicana, dopo decenni di politica nazionale affidata a mezze figure prone ai diktat dei “padroni” stranieri, i veri burattinai della “casta” impresentabile contro cui si è scagliato il grillismo prima maniera. La sola candidatura di Galloni, col suo inevitabile contributo culturale, contribuirebbe a scardinare una lunga stagione di menzogne. Mission impossible?«Carissimi, vi giro un link del Movemento Roosevelt (MR) in cui si fa una proposta diretta al M5S per la candidatura a sindaco di Roma. La proposta è un po’ “arrogante” ma il candidato, Nino Galloni, appare di elevato livello», scrive Filippo Ridolfi, il 29 novembre, sul forum del blog di Grillo. «Puoi dire al MR di andare a fare in c***», chiarisce il grillino Massimiliano Morosini. A un altro iscritto, “Gnam Gnam”, il nome Galloni non dice granché: «Vediamo un po’. Uhm, non trovo il curriculum del tizio». Un quarto attivista, “Filippo”, s’illumina: «Ahah… ho visto anche un “Passaparola” di Beppe con Galloni». Sdoganato, quindi, il grande economista? Macché: «Preferisco Virginia Raggi», chiosa “Ste”, alludendo alla giovane avvocatessa grillina «sbarcata in Campidoglio nel 2013 col vento del grillismo per occuparsi di stanziamenti per il verde pubblico», come scrive “Linkiesta”. La Raggi? «Un po’ di lavoretti da cameriera e baby sitter, il volontariato nei canili. Oggi è avvocato civilista esperta diritto d’autore, proprietà intellettuale e nuove tecnologie. Se prendesse il posto di Marino sarebbe il primo sindaco donna nella storia della Capitale». E Galloni?
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Chi ci porta in guerra, e perché i giornali non lo rivelano
Mille cisterne di petrolio dell’Isis, dirette in Turchia, distrutte in pochi giorni dai caccia russi. Poi l’abbattimento del Sukhoi-24, col mitragliamento di uno dei piloti mentre scendeva col paracadute. E il ministro degli esteri turco che dice al collega russo Lavrov che i militari di Ankara, quei pasticcioni, non avevano capito che l’aereo sul confine turco-siriano fosse russo. Una farsa pericolosa, su cui Obama si è limitato a dire che “la Turchia ha il diritto di difendersi”, come se il bombardiere Su-24 stesse minacciando la sicurezza turca. Conseguenze? Imprevedibili. Secondo Pepe Escobar, Mosca potrebbe chiudere i rubinetti del gas (da cui la Turchia dipende), armare segretamente i separatisti curdi dell’Anatolia e, intanto, spedire gli “Spetznaz” – i temibili reparti speciali – in missione punitiva tra le montagne dove si annidano i guerriglieri turcomanni, quelli che hanno mitragliato il paracadutista compiendo un crimine di guerra particolarmente odioso, sanzionato dalla Convenzione di Ginevra del 1977. Il “colpo alla schiena” sferrato a Putin ci spinge verso una guerra più vasta?
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Il giovane Renzi e l’idea (geniale) del Ponte sullo Stretto
Il Jobs Act, l’Italicum, il taglio del Senato, la rottamazione della Costituzione, le privatizzazioni selvagge come quella di Poste Italiane. Ma Renzi non ci fa mancare nulla, e ora rispolvera persino il Ponte sullo Stretto, per anni in pole-position nella classifica horror di berlusconiana memoria. «Non bastavano i regali alle lobby delle fonti fossili e degli inceneritori, ora rassicuriamo anche chi vorrebbe guadagnare dalla realizzazione di un’opera tanto faraonica (soprattutto nei costi) quanto inutile», protesta il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. «Il premier sa bene, e lo dice, che le emergenze italiane sono ben altre: perché allora continua a sostenere le lobby del ‘900 e le loro idee vecchie e superate?». Rigenerazione urbana, fonti rinnovabili, mobilità sostenibile, chimica verde? Voci non pervenute, così come agricoltura di qualità, raccolta differenziata, sicurezza delle scuole, ferrovie utili. Niente da fare: la leggenda del Ponte sullo Stretto – fabbrica di progetti costosi, più che di pilastri veri e propri – va sempre bene per dare la caccia all’elettorato in fuga dal Cavaliere.«Tre anni fa il futuro premier bocciava il Ponte sullo Stretto, auspicando che quella montagna di denaro pubblico necessaria – 8 miliardi di euro – fosse indirizzata piuttosto a realizzare nuove scuole e a migliorare quelle esistenti», ricordano Fabio Granata, Anna Donati e Annalisa Corrado, esponenti di “Green Italia”, che in un post ripreso da “Il Cambiamento” condannano questa «spericolata inversione a U», augurandosi che l’uscita di Renzi sia solo «la sua ennesima promessa non mantenuta». Gli italiani, del resto, «credevano che quello del Ponte fosse un capitolo chiuso, perché di fronte ad un paese costantemente piegato dal dissesto idrogeologico, con infrastrutture che collassano per il maltempo e situazioni come quelle di Messina senz’acqua potabile, indegne di un paese civile, anche solo parlare di Ponte sullo Stretto è uno schiaffo alla realtà». Già, la realtà: «E’ quella dei cittadini dell’Aquila ancora sfollati, quelli della Liguria che passano da un’alluvione con smottamenti e morti a un piano-casa tutto cemento, o il popolo inquinato di Taranto e di Crotone». Allegria: «Dopo le trivelle, gli inceneritori, le autostrade, mancava solo il Ponte assurto a ‘nuovo simbolo per l’Italia’ per dimostrare che il premier crede che le ricette da boom economico degli anni ‘60 siano ancora attuali, mentre c’è un mondo che va in un’altra direzione».«Di straordinario – ricorda Leandro Janni, presidente siciliano di Italia Nostra – il ponte sullo Stretto di Messina ha solo il tempo e i soldi sprecati per un’opera insostenibile dal punto di vista tecnico, ambientale ed economico». Il progetto definitivo, elaborato da Eurolink SpA, è considerato talmente lacunoso dalla Commissione di valutazione di impatto ambientale da far avanzare la richiesta, il 10 novembre 2011, di ben 223 integrazioni su tutti gli aspetti nodali (strutturali, trasportistici, economico-finanziari, geologici, idrogeologici, naturalistici, paesaggistici, relativi alle emissioni atmosferiche, ai rumori e alle vibrazioni), a cui Eurolink non è ancora riuscita rispondere esaurientemente. Sconcertante, se si pensa che da oltre 10 anni la cattiva politica – cui ora si associa il “giovane” Renzi – vorrebbe costruire, «in una delle aree a più alto elevato rischio sismico del Mediterraneo, un ponte sospeso, ad unica campata di 3,3 km di lunghezza, sorretto da torri di circa 400 metri di altezza, a doppio impalcato stradale e ferroviario». Oggi il ponte più lungo al mondo, il Minami Bisan-Seto in Giappone, è lungo un terzo di quello progettato per Messina.Si tratta di un’opera che ad oggi verrebbe a costare 8,5 miliardi di euro, continua il “Cambiamento”: oltre mezzo punto di Pil, e senza un piano economico-finanziario che ne dimostri la redditività e l’utilità. Impietoso il dossier dei prestigiosi tecnici italiani ingaggiati dagli ambientalisti per “smontare” il disastroso progetto di Eurolink. Primo problema, il terremoto: viene garantita l’invulnerabilità del manufatto solo per eventi sismici fino a 7,1 Richter, escludendo quindi «in maniera ascientifica» che ci possa essere un sisma di maggiore energia in una zona di rischio molto elevato. Inoltre, nel calcolo dei materiali da scavo viene dimenticato il conteggio di 3,5 milioni di metri cubi di terreno estratto o movimentato. Sos ambiente: non è stata ancora elaborata una valutazione di incidenza credibile sullo Stretto di Messina, area di pregio naturalistico teoricamente a tutela europea. L’ultimo progetto, poi, considera “trascurabili” le modifiche apportate: un incremento di 17 metri dell’altezza delle torri, che arriverebbero a quota 400 metri, per sollevare l’impalcato sino ad 80 metri sul livello del mare. Poi lo spostamento della torre sul lato della Calabria, la variazione del tipo d’acciaio e quindi il peso delle funi e delle strutture portanti, e infine il cambiamento dell’altezza dell’impalcato del viadotto Pantano, lato Sicilia.Non è tutto. «Sono state presentate analisi trasportistiche insufficienti ed elaborati progettuali incompleti – aggiungono gli ambientalisti – da cui emerge che a 25 anni dalla realizzazione dell’opera ponte si registrerebbe un traffico pari a 11,6 milioni di auto all’anno per un’infrastruttura dimensionata per 105 milioni di auto l’anno, con un grado di utilizzo, quindi, dell’11% circa». Mostruoso, super-costoso e super-inutile: bravo Renzi. Non fa che aggiungere malinconia e desolazione l’esame dell’équipe tecnica che ha “fatto le pulci” all’improbabile progetto Eurolink. Tra gli oltre 30 esperti che hanno lavorato con le associazioni ambientaliste, scrive il “Cambiamento”, fra gli specialisti dell’università di Messina troviamo Emilio Di Domenico (oceanografia biologica), Gaetano Gargiulo (botanica), Lucrezia Genovese (Cnr), Salvatore Giacobbe (ecologia). Poi Domenico Gattuso (ingegneria, Reggio Calabria), i geologi Giuseppe Gisotti, Alessandro Guerricchio e Gioacchino Lena.Ci sono tecnici come Piero Polimeni, ingegnere pianificatore, esperto di cooperazione e sviluppo locale; Guido Signorino, professore ordinario del dipartimento economia, statistica e sociologia dell’Università di Messina. E poi Stefano Sylos Labini, ricercatore dell’Enea e geologo come Carlo Tansi (Università della Calabria). Non manca il geologo più famoso d’Italia, il conduttore televisivo Mario Tozzi. E ci sono specialisti come il professor Vincenzo Vacante (agraria, Reggio), l’ingegner Claudio Villari, un urbanista come il professor Alberto Ziparo dell’ateneo di Firenze. «Serve altro?», si domanda “Il Cambiamento”. Sì, certo: tanto per cominciare servirebbe un altro premier, magari regolarmente eletto. E poi un’altra Italia, in cui a nessuno verrebbe in mente di proporre opere demenziali e succulente per il sistema mafioso degli appalti, dalla linea Tav Torino-Lione al suo gemello mediterraneo, l’inaffondabile Ponte sullo Stretto.Il Jobs Act, l’Italicum, il taglio del Senato, la rottamazione della Costituzione, le privatizzazioni selvagge come quella di Poste Italiane. Ma Renzi non ci fa mancare nulla, e ora rispolvera persino il Ponte sullo Stretto, per anni in pole-position nella classifica horror di berlusconiana memoria. «Non bastavano i regali alle lobby delle fonti fossili e degli inceneritori, ora rassicuriamo anche chi vorrebbe guadagnare dalla realizzazione di un’opera tanto faraonica (soprattutto nei costi) quanto inutile», protesta il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. «Il premier sa bene, e lo dice, che le emergenze italiane sono ben altre: perché allora continua a sostenere le lobby del ‘900 e le loro idee vecchie e superate?». Rigenerazione urbana, fonti rinnovabili, mobilità sostenibile, chimica verde? Voci non pervenute, così come agricoltura di qualità, raccolta differenziata, sicurezza delle scuole, ferrovie utili. Niente da fare: la leggenda del Ponte sullo Stretto – fabbrica di progetti costosi, più che di pilastri veri e propri – va sempre bene per dare la caccia all’elettorato in fuga dal Cavaliere.
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L’Italia obbedisce, con Renzi e il Re Travicello al Quirinale
Da diversi anni vado spiegando che la funzione reale del presidente della Repubblica italiano, nell’ordinamento reale, è quella di assicurare l’obbedienza del governo e del Parlamento, cioè delle istituzioni elettive, ai suoi padroni stranieri e ai loro interessi. In questo senso, il presidente Napolitano dapprima impose con la cosiddetta “moral suasion” a Berlusconi di partecipare alla per noi rovinosa guerra contro la Libia, con la quale aveva appena stretto un trattato di riconciliazione e collaborazione, e poco dopo lo sostituì con l’altrettanto rovinoso governo non eletto di Mario Monti, che egli prima fece senatore a vita. Ossia, il presidente della Repubblica sinora ha assicurato che chiunque il popolo avesse messo al potere con il suo voto elettorale, si sarebbe conformato alle direttive delle potenze dominanti sull’Italia. Molti ritengono che i suddetti interventi di re Giorgio costituissero colpi di Stato, ma si sbagliano, perché per fare un colpo di Stato bisogna che prima ci sia uno Stato indipendente, mentre l’Italia, dalla sua capitolazione nel 1943, è un paese a sovranità limitata.Poi ha ceduto anche quella che le rimaneva, cioè anche quella monetaria, legislativa e di bilancio, ad istituzioni dominate da capitali stranieri. Con le riforme della legge elettorale e della Costituzione attuate dal governo Renzi, viene molto ridotto il contenuto del potere di scelta politica da parte del popolo, perché i poteri dello Stato vengono in gran parte riuniti nelle mani del primo ministro e il Parlamento diviene un Parlamento di nominati diretto dal medesimo grazie a un ampio premio di maggioranza, che gli consente persino di trasformare la Costituzione. Quindi adesso è il primo ministro, ovviamente non eletto dal popolo, che assicura l’obbedienza dell’Italia agli interessi stranieri dominanti e alle loro direttive europee e bancarie. Un leone in casa, un cagnolino all’estero. Renzi in effetti ruggisce in Italia ma poi, nel vertici europei, se ne sta tranquillo fuori dalla porta chiusa, con la ciotola vuota, ad aspettare per le decisioni e le direttive: un vero Amministratore Capo della colonia Italia.A seguito del suddetto spostamento di funzioni e di poteri, il presidente della Repubblica, che ora viene praticamente nominato dal primo ministro, può svolgere semplicemente il ruolo notarile, di rappresentanza e supporto moralmente legittimante, a favore del primo ministro stesso. Anche il primo ministro britannico ha vasti poteri, è quasi un dittatore temporaneo sul Parlamento e sul suo partito, però non nomina e non controlla il capo dello Stato, ovviamente, dato che questi è il re o la regina. Lo stesso Mussolini, a differenza di Hitler, era sottoposto al re, il quale in effetti, al momento opportuno, lo fece arrestare. Il primo ministro che esce dalle riforme dell’attuale governo non ha questo limite. E così, finito il regno di re Giorgio, inizia la dinastia dei re Travicelli.(Marco Della Luna, “Re Travicello”, dal blog di Della Luna dell’11 novembre 2015).Da diversi anni vado spiegando che la funzione reale del presidente della Repubblica italiano, nell’ordinamento reale, è quella di assicurare l’obbedienza del governo e del Parlamento, cioè delle istituzioni elettive, ai suoi padroni stranieri e ai loro interessi. In questo senso, il presidente Napolitano dapprima impose con la cosiddetta “moral suasion” a Berlusconi di partecipare alla per noi rovinosa guerra contro la Libia, con la quale aveva appena stretto un trattato di riconciliazione e collaborazione, e poco dopo lo sostituì con l’altrettanto rovinoso governo non eletto di Mario Monti, che egli prima fece senatore a vita. Ossia, il presidente della Repubblica sinora ha assicurato che chiunque il popolo avesse messo al potere con il suo voto elettorale, si sarebbe conformato alle direttive delle potenze dominanti sull’Italia. Molti ritengono che i suddetti interventi di re Giorgio costituissero colpi di Stato, ma si sbagliano, perché per fare un colpo di Stato bisogna che prima ci sia uno Stato indipendente, mentre l’Italia, dalla sua capitolazione nel 1943, è un paese a sovranità limitata.
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Prima dell’acqua potabile, Messina avrà il plastico del Ponte
Berlusconi ci aveva provato con la Protezione Civile di Bertolaso, il suo ras delle Grandi Opere e dei Grandi Eventi per il business del ventunesimo secolo: un Italia da trasformare interamente in un lucroso enorme luna park per turisti. Varie ed eventuali implicazioni criminali di quel tentativo a parte, dal punto di vista politico-economico anche Matteo Renzi sembra pensare ad un progetto del genere, almeno fin da quando ha sostituito Lupi alle Infrastrutture (ex Lavori Pubblici) con il suo fedelissimo Delrio. Non sorprende quindi che abbia appena conferito alla Protezione Civile poteri straordinari, dopo aver affondato Marino consegnando il Giubileo al renziano Team Expo, del quale ogni giorno i media embedded tessono le lodi con toni agiografici. Anche il Vaticano sembra partecipare attivamente al programma. Millenario fiuto per gli affari. E l’odore dei soldi inasprisce la guerra fra bande. Oltretevere come nel Pd. Per il riutilizzo dell’area Expo sono già in arrivo almeno duecento milioni di euro.Non ci sarebbe stato bisogno in realtà di nessun Vatileaks per sapere che la Chiesa Cattolica è una delle multinazionali più avide e corrotte del pianeta. E la gestione delle attrazioni e dei flussi turistici è sempre stata una delle sue specialità. Renzi è un animatore turistico, e fare dell’Italia il suo villaggio probabilmente è proprio il compito che gli è stato assegnato. Perché il progetto in realtà non è soltanto berlusconiano. Questa è anche l’idea che le classi dirigenti d’Europa e del resto del mondo hanno dell’Italia: un resort di loro proprietà dove venire ad ammirare panorami, monumenti, e culi, al dolce canto dei tenorini di Sanremo.Quindi il premier che gli serve in Italia è un curatore, un commissario, come Monti, ma con un’immagine mediatica più accattivante. Un commissario cazzaro. E gli serve una Costituzione truccata come una Volkswagen apposta per mantenere il Commizzaro al suo posto il più possibile.Secondo gli ultimi sondaggi, in un eventuale ballottaggio il Movimento 5 Stelle batterebbe il Pd. L’Italicum sarà quindi modificato in modo che assegni la maggioranza assoluta dei seggi al perdente. Poi il Team Expo sostituirà Camera e Senato con due padiglioni. Alla maggioranza del resto degli italiani resteranno i ruoli di cameriere stagionale, sguattero precario, guida turistica abusiva. Pizzaiolo. Cubista. Sfondo da selfie. Agli intellettuali, quello di posteggiatori. Meno i turisti capiranno l’italiano, più apprezzeranno i loro stornelli. Messina avrà il plastico del ponte prima dell’acqua potabile. Mentre il Commizzaro s’impegnerà a dimostrare ai Casamonica d’essere un giostraio più abile di loro.(Alessandra Daniele, “Il Comizzaro”, da “Carmilla online” dell’8 novembre 2015).Berlusconi ci aveva provato con la Protezione Civile di Bertolaso, il suo ras delle Grandi Opere e dei Grandi Eventi per il business del ventunesimo secolo: un Italia da trasformare interamente in un lucroso enorme luna park per turisti. Varie ed eventuali implicazioni criminali di quel tentativo a parte, dal punto di vista politico-economico anche Matteo Renzi sembra pensare ad un progetto del genere, almeno fin da quando ha sostituito Lupi alle Infrastrutture (ex Lavori Pubblici) con il suo fedelissimo Delrio. Non sorprende quindi che abbia appena conferito alla Protezione Civile poteri straordinari, dopo aver affondato Marino consegnando il Giubileo al renziano Team Expo, del quale ogni giorno i media embedded tessono le lodi con toni agiografici. Anche il Vaticano sembra partecipare attivamente al programma. Millenario fiuto per gli affari. E l’odore dei soldi inasprisce la guerra fra bande. Oltretevere come nel Pd. Per il riutilizzo dell’area Expo sono già in arrivo almeno duecento milioni di euro.
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Ci vogliono in guerra, l’Isis è solo manovalanza (di fiducia)
E adesso siamo davvero in guerra. «Tutta la vita politica europea sarà sconvolta per sempre», dice Giulietto Chiesa, secondo cui d’ora in avanti ogni disagio sociale sarà rubricato come problema di ordine pubblico: «La nostra vita diverrà un eterno passaggio attraverso un metal detector». Lo sanno bene i politici che balbettano di fronte alla strage di Parigi, che espone al ridicolo l’intero dispositivo francese della sicurezza: a dieci mesi dalla mattanza di “Charlie Hebdo”, non meno di 70-80 professionisti armati, alloggiati, organizzati e coordinati nella capitale transalpina hanno potuto mettere a segno 7 attacchi simultanei in pieno centro. «Vuol dire che è meglio che quelli della Suretè si diano al giardinaggio», scrive Aldo Giannuli. Possibile che gli uomini di Hollande si siano fatti sorprendere così? Peraltro, se si pensa che siamo a 14 anni dall’attentato alle Twin Towers, dopo tre guerre (Afghanistan, Iraq e Libia) e un mare di soldi spesi, «qui la disfatta non è solo dei francesi, ma di tutta l’intelligence occidentale». Puzza di bruciato? Se ne accorge persino il mainstream: Paolo Pagliaro, nella trasmissione “Otto e mezzo” condotta da Lilli Gruber su “La7”, ricorda che l’Isis è stato finanziato da Turchia e Arabia Saudita, ed equipaggiato dagli Usa. Il vicepresidente Joe Biden riconobbe, tempo fa, che le armi inviate ai “ribelli” anti-Assad erano “finite” tutte alle milizie jihadiste del “califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi, l’uomo fotografato in Siria in compagnia del senatore John McCain.«La Russia, con il suo intervento in Siria, ha cambiato il quadro politico mondiale», osserva Giulietto Chiesa su “Megachip”. «Il piano di ridisegnare la mappa medio-orientale è fallito. Daesh è, di fatto, sconfitta là dov’è nata. Dunque i suoi manovratori spostano l’offensiva in Europa». Obiettivo chiarissimo: terrorizzare il vechio continente e costringerlo sotto l’ombrello americano. «A mettere a posto la Russia penserà Washington. Del resto l’Airbus abbattuto nel Sinai, in termini di sangue russo innocente, è equivalso al massacro parigino. E non ce ne eravamo accolti». Merkel e Hollande, i due leader che «stavano cambiando rotta per uscire dal cappio americano», sono avvertiti. E mentre i Renzi di tutta Europa non osano affrontare le telecamere non sapendo cosa dire, ci si domanda inevitabilmente chi siano i manovratori del potente e vastissimo gruppo di fuoco che ha potuto fare quello che voleva, nel pieno centro di Parigi. «L’Isis è creatura di una Spectre composta da pezzi di Occidente e petromonarchie del Golfo», annota Chiesa. «Qualcuno la guida, ed è molto potente, carico di denaro e di armi. Il fanatismo è la sua facciata. Ma non spiega la sua “intelligence”». Una traccia l’ha fornita un anno fa Gioele Magaldi col suo libro “Massoni”, edito da Chiarelettere: una delle 36 Ur-Lodges, vertice massonico del potere mondiale, avrebbe un debole per le stragi e la strategia della tensione. Si chiama “Hathor Pentalpha” e, secondo Magaldi, annovera tra i suoi leader il capo del centrodestra francese, Nicolas Sarkozy. Obiettivo strategico: annullare la democrazia, anche a colpi di attentati, per riconsegnare il potere all’élite più reazionaria, neo-feudale, neo-aristocratica.Sorta nel 1980 quando George Bush fu sconfitto da Reagan nella corsa alla Casa Bianca, la “loggia del sangue e della vendetta” avrebbe promosso l’apocalisse dell’11 Settembre, punto di partenza della “guerra infinita” che da allora sta destabilizzando il pianeta. Oltre ai Bush, dal vecchio George Herbert al figlio George Walker fino al fratello, Jeb Bush, tra gli alfieri della “Hathor” figurerebbero anche Tony Blair, l’uomo da cui nacque l’invenzione delle “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein, nonché un leader autoritario come il turco Ergogan, appena rieletto con un plebiscito da una Turchia abbondantemente terrorizzata con un’ondata di paurosi attentati molto simili a quello di Parigi. Nel nome “Hathor”, spiega Magaldi, c’è il richiamo diretto all’Isis: Hathor è l’altro nome della dea Iside, molto popolare nel milieu massonico, compreso quello dei “controiniziati” che userebbero a scopo di potere – e con sanguinario cinismo – la propria conoscenza esoterica, fatta anche di precisi riferimenti simbolici. Sempre su “Megachip”, Roberto Quaglia ricorda la passione di Christine Lagarde (Fmi) per la numerologia, e osserva che la strage parigina è avvenuta un venerdì 13, nell’11esimo mese dell’anno e nell’11esimo “arrondissement” di Parigi.La maggior parte delle vittime, quelle del teatro Bataclan, erano spettatori di un concerto di heavy metal, sul palco c’erano gli “Eagles of Death Metal”. «Due settimane prima, a Bucarest (nota una volta come “la piccola Parigi”), in una strage su scala minore oltre 50 ragazzi perivano nel rogo sviluppatosi durante un concerto heavy metal, evento che ha rapidamente portato alla caduta del governo rumeno e l’instaurazione di un governo “tecnico” più eurocratico che mai», aggiunge Quaglia. Frequentare concerti heavy metal sta iniziando a farsi pericoloso? «Ciò detto, buona Terza Guerra Mondiale a tutti». Secondo Quaglia, all’Isis «non bastava venire bombardata dalla Russia con bombe vere», tenendo conto che quelle sganciate dagli Usa erano, di fatto, rifornimenti. «L’Isis vuole che anche la Francia ora si faccia avanti per bombardarli e, possibilmente, che invii anche truppe di terra per combatterli meglio. Cosa c’è di strano? Ha già annunciato simili attentati pure a Roma, Londra e Washington». Evidente la strategia: coinvolgere l’Europa nell’opzione-guerra, quella su cui scommettono dal 2001, ininterrottamente, le “menti” dell’11 Settembre, capaci di “inventarsi” come nemico pubblico prima l’ex uomo Cia in Afghanistan, Osama Bin Laden, e ora il bieco “califfo”, capo di un’orda di tagliatori di teste, completamente indisturbati fino all’entrata in azione, in Siria, dei bombardieri di Putin.Non era già Bin Laden, continua Quaglia, a sperare che – 14 anni fa – l’Afghanistan venisse bombardato e l’Iraq invaso? «Dopotutto fu proprio questo che egli ottenne». La solite malelingue sostengono che Isis è stato creato dagli Stati Uniti? E pazienza «se fra le malelingue c’è il generale francese Vincent Desportes, cosa volete che ne sappia uno come lui?». E le foto di Al-Baghdadi con McCain? «A chi non capita, dopotutto, di trovarsi per sbaglio assieme a personaggi sgradevoli che passavano di lì per caso?», scrive Quaglia, con sarcasmo: «Potrebbe accadere ad ognuno di noi». Alla vigilia dell’attentato di Parigi il capo della Cia si sarebbe incontrato col responsabile dei servizi segreti francesi? «Probabilmente questa gente va insieme a bersi una birra più spesso di quanto pensiamo – e cosa c’è di male?». Come spesso accade in questi casi, aggiunge Quaglia, le informazioni della strage su Wikipedia sono apparse a velocità da record: «Pare che alcuni fatti (una dichiarazione di Hollande) siano stati riportati addirittura prima che accadessero. Ma a questi piccoli miracoli siamo ormai abituati: i più smaliziati ricorderanno la Bbc annunciare l’11 settembre 2001 il crollo del Wtc7 con 20 minuti di anticipo rispetto al fatto».E siamo anche abituati ad altre puntuali “coincidenze”: tutte le volte che i terroristi colpiscono, qualche esercitazione antiterrorismo è sempre in corso. Accadde a New York l’11 Settembre, a Londra il 7 luglio 2005. Stavolta, a Parigi, la polizia era accorsa in forze alla Gare de Lyon per un allarme bomba. «E sempre per un “allarme bomba” lo stesso giorno è stato fatto sgomberare anche l’albergo dove si trovava la squadra nazionale tedesca di calcio, in città per l’incontro serale con la Francia. Dite che è poco?». Quel giorno, infine, era in corso «anche un’esercitazione completa proprio per il caso di un multi-attacco, che coinvolgeva polizia e pompieri, esattamente come in tutti i casi più eclatanti di terrorismo che ci hanno propinato». Secondo Quaglia, è impossibile non leggere una precisa regia dietro tutti questi eventi. Tanto più vero oggi, dopo la recente decisione del governo Hollande di apporre il segreto di Stato alle indagini sulla strage di “Charlie Hebdo”: i magistrati avevano scoperto che le armi provenivano da una strana triangolazione tra Slovacchia, Belgio e servizi segreti francesi. Realtà occulta, spaventosa e “inaccettabile”, come quella disegnata da Gioele Magaldi? «E’ previsto che ve ne rendiate conto a puntate, così da non farci troppo caso», conclude Quaglia. «Avete mai sentito la ricetta di come vanno bollite le rane così che non saltino fuori dalla pentola?».E adesso siamo davvero in guerra. «Tutta la vita politica europea sarà sconvolta per sempre», dice Giulietto Chiesa, secondo cui d’ora in avanti ogni disagio sociale sarà rubricato come problema di ordine pubblico: «La nostra vita diverrà un eterno passaggio attraverso un metal detector». Lo sanno bene i politici che balbettano di fronte alla strage di Parigi, che espone al ridicolo l’intero dispositivo francese della sicurezza: a dieci mesi dalla mattanza di “Charlie Hebdo”, non meno di 70-80 professionisti armati, alloggiati, organizzati e coordinati nella capitale transalpina hanno potuto mettere a segno 7 attacchi simultanei in pieno centro. «Vuol dire che è meglio che quelli della Suretè si diano al giardinaggio», scrive Aldo Giannuli. Possibile che gli uomini di Hollande si siano fatti sorprendere così? Peraltro, se si pensa che siamo a 14 anni dall’attentato alle Twin Towers, dopo tre guerre (Afghanistan, Iraq e Libia) e un mare di soldi spesi, «qui la disfatta non è solo dei francesi, ma di tutta l’intelligence occidentale». Puzza di bruciato? Se ne accorge persino il mainstream: Paolo Pagliaro, nella trasmissione “Otto e mezzo” condotta da Lilli Gruber su “La7”, ricorda che l’Isis è stato finanziato da Turchia e Arabia Saudita, ed equipaggiato dagli Usa. Il vicepresidente Joe Biden riconobbe, tempo fa, che le armi inviate ai “ribelli” anti-Assad erano “finite” tutte alle milizie jihadiste del “califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi, l’uomo fotografato in Siria in compagnia del senatore John McCain.
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Strage a Parigi, operazione militare truccata da jihadismo
Orrendo massacro, lucida follia: ma non è follia. E’ un’operazione militare quella che ha sconvolto Parigi la sera del 13 novembre 2015, facendo 158 morti, colpiti per strada da esplosioni “kamikaze” o freddati a colpi d’arma da fuoco al Bataclan, locale gremito per un concerto. La strage, avverte Pino Cabras, non è solo un evento terroristico spettacolare: «È anche un evento militare di notevole entità nel cuore di una grande metropoli europea». Nel mirino di nuovo la Francia, dopo l’eccidio della redazione di “Charlie Hebdo”. Violenza opaca: sulle indagini relative alla mattanza del giornale satirico, il governo Hollande ha apposto il segreto di Stato dopo che gli inquirenti avevano scoperto che la pista delle armi lambiva i servizi segreti francesi, con una triangolazione che tocca la Slovacchia e il Belgio passando per il quartier generale dell’intelligence di Parigi. «Anche stavolta si fa notare una manovalanza di assassini che si rifà al jihadismo», annota Cabras su “Megachip”. «Non c’è da stupirsi che essa abbia un peso militare sempre maggiore, essendo una legione di avventurieri istruiti con tecniche sofisticate».Una “legione” di miliziani armata segretamente dall’Occidente e «schierata su molteplici linee del fuoco geopolitiche, pronta a prestare i suoi servizi per demolire interi Stati, e allo stesso tempo ricca di coperture e sovvenzioni statali, persino degli Stati che ne subiscono le interferenze nella loro sicurezza nazionale». E’ un fatto: sono ormai migliaia i combattenti jihadisti europei arruolati nelle guerre di oggi. «Si è creato un tipo di soldato che in Libia, in Siria e altrove non si vuole far rispondere alle convenzioni di Ginevra, per poter fare il massimo danno con il minimo di responsabilità». Ai governanti, scrive Cabras, ci sarebbe da dire: per i vostri sogni neocoloniali dalla tasca avete tirato fuori uno scorpione, non un gattino. Dopo la strage di Charlie Hebdo, fu facile fare una profezia fredda e precisa: «Lo scorpione pungerà ancora in Europa. I governanti europei, fra i più ricattabili e ricattati in ogni campo, subiranno pressioni enormi contro gli interessi dei propri paesi. È l’Impero del Caos che bussa, non l’Islam».Il Caos, continua Cabras, ha lambito il presidente François Hollande, preso di peso mentre assisteva alla partita di calcio Francia-Germania, al momento in cui fuori dallo stadio si udivano esplosioni. «Il messaggio, data la circostanza, non certo casuale (proprio quella partita…), lo ha sentito sicuramente anche la Germania. E i lanciatori del messaggio non sono certo da cercare fra i soldati-terroristi, che sono meri esecutori. Gli autori si trovano fra i soggetti che vogliono che l’Europa non si sottragga alla grande guerra che si sta preparando. Sono pezzi di classi dirigenti occidentali, turche, petro-monarchiche. Gli sponsor dell’Isis e del Caos». Lo spiegava già a fine 2014 il profetico libro “Massoni”, di Gioele Magaldi, svelando le trame occulte di alcune delle 36 superlogge segrete del potere mondiale, tra cui la “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush, di cui – secondo l’autore – fanno parte personaggi decisivi come Tony Blair e il leader turco Erdogan, appena rieletto dopo una vigilia elettorale scadita da spaventosi attentati come quello di Parigi.Definita “loggia del sangue e della vendetta”, creata nel 1980 quando a George Bush fu preferito Reagan, secondo Magaldi la “Hathor Pentalpha” – il cui nome è sinistramente consonante con Isis (Hathor è l’altro nome di Iside) sarebbe stata nella “cabina di regia” dell’11 Settembre e oggi sarebbe al corrente di parecchi retroscena del Medio Oriente, a cominciare proprio dalla comparsa dei “tagliagole” in Siria e in Iraq, macabro esito della “fabbrica di terroristi” armati sottobanco dal Pentagono, in collaborazione con Francia e Gran Bretagna e Turchia, nonché Arabia Sudita e altri paesi del Golfo. Non può non colpire la sincronicità della nuova, mostruosa strage di Parigi rispetto all’impegno dell’unica potenza finora schierata sul campo in modo trasparente – la Russia di Putin – per cercare di mettere fine alla sanguinosa strategia della tensione che sta devastando il teatro mediorientale. Altro motivo di preoccupazione, per i “burattinai del terrore”, le crescenti esitazioni della Germania, schierata coi russi nel sostegno al regime di Assad (il male minore) e sempre più contraria all’aggressione occidentale verso lo spazio russo, organizzata utilizzando l’espediente del golpe in Ucraina.«Il governo di Angela Merkel – scrive Pino Cabras – sta sempre più prendendo atto dell’efficacia dei bombardamenti russi in Siria, delle divisioni in seno alle classi dirigenti statunitensi e dei rapidi cambiamenti negli equilibri strategici internazionali». Berlino, aggiunge Cabras su “Megaxchip”, sta dunque cercando di ritirarsi da una battaglia tutto sommato persa, e di giocare un nuovo ruolo pacificatore in Siria. «Il ministro degli esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, punta da settimane a organizzare un incontro del tipo 5+1 (il formato diplomatico che a Vienna ha spinto verso gli accordi per l’Iran) in modo da risolvere il buco nero terroristico che ha investito la Siria». Dentro quello stadio, accanto a Hollande, c’era proprio Steinmeier. «E fuori dallo stadio, sui selciati parigini, decine di innocenti ammazzati, lo stato d’emergenza, la solita strategia della tensione. Dentro e fuori dalla fortezza europea, le braci di una guerra che possono incendiarla. Dove sarà la prossima strage?». Un ottimo argomento, conclude Cabras, per l’imminente G-20 di Antalya. Sede del summit, la Turchia di “Hathor” Erdogan: un paese Nato che, fino all’intervento russo, ha sostenuto con armi, mezzi e logistica i tagliagole anti-Assad, l’esercito dello “scorpione” che ora ha di nuovo colpito Parigi.Orrendo massacro, lucida follia: ma non è follia. E’ un’operazione militare quella che ha sconvolto Parigi la sera del 13 novembre 2015, facendo 120 morti, colpiti per strada da esplosioni “kamikaze” o freddati a colpi d’arma da fuoco al Bataclan, locale gremito per un concerto. La strage, avverte Pino Cabras, non è solo un evento terroristico spettacolare: «È anche un evento militare di notevole entità nel cuore di una grande metropoli europea». Nel mirino di nuovo la Francia, dopo l’eccidio della redazione di “Charlie Hebdo”. Violenza opaca: sulle indagini relative alla mattanza del giornale satirico, il governo Hollande ha apposto il segreto di Stato dopo che gli inquirenti avevano scoperto che la pista delle armi coinvolgeva i servizi segreti francesi, con una triangolazione che tocca la Slovacchia e il Belgio passando per il quartier generale dell’intelligence di Parigi. «Anche stavolta si fa notare una manovalanza di assassini che si rifà al jihadismo», annota Cabras su “Megachip”. «Non c’è da stupirsi che essa abbia un peso militare sempre maggiore, essendo una legione di avventurieri istruiti con tecniche sofisticate».
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Expo, fiasco segreto: affari loro, e indovinate chi pagherà?
L’Expo? Un affarone per tanti, a cominciare da Pd e Compagnia delle Opere. Molto meno per gli italiani, che dovranno pagare per la voragine (oscurata dai media) dei mancati introiti: biglietti venduti a 20 euro e poi a 10 anziché a 30, a una ventina di milioni di visitatori, contro i 29 previsti. La grande kermesse è stata di un terzo al di sotto delle aspettative, accusa Mario Vitiello su “Comune-Info”, sottolineando «le innumerevoli ferite che si devono ancora rimarginare», dopo la maxi-speculazione organizzata alla periferia di Milano. La proprietà delle aree è di Arexpo Spa, la società che ha comperato il milione di metri quadri su cui si è svolto l’evento: «Li ha acquistati da Cabassi, da Fondazione Fiera e da Poste Italiane, pagandoli uno sproposito (grazie ad una speculazione tipo “mani sulla città” garantita dalla giunta Moratti), indebitandosi con le banche (principalmente Intesa San Paolo per circa 160 milioni) e con la stessa Fondazione Fiera (per circa 50 milioni di euro)». E ora? «La gara indetta negli scorsi mesi per trovare un compratore per le aree del sito è andata deserta, e in molti stanno pensando a cosa fare di queste aree, che per il momento sembrano interessare a tutti ma che nessuno vuole».Expo Spa è la società che ha costruito la maxi-installazione per gestire lo show. I suoi compiti? Organizzare e gestire l’evento, redigere il piano finanziario delle opere essenziali, gestire i finanziamenti pubblici degli enti finanziatori, stipulare i contratti relativi alla gestione operativa dell’evento e acquisirne i proventi. Expo Spa ha realizzato il sito, stipulato i contratti con i paesi ospiti, gestito il management, incassato i proventi di pubblicità e merchandising nonché quelli dei biglietti. «Ad oggi non è chiaro a nessuno quale sia il bilancio definitivo di Expo Spa», scrive Vitiello. «Certo è che erano attesi 29 milioni di visitatori, e forse si arriverà a 20 milioni», nella conta finale. «Il masterplan prevedeva che l’accesso costasse 30-32 euro, mentre fin dal mese di aprile erano sul mercato biglietti a 20 euro, che diventavano 10 euro per le scuole». In più, dal mese di giugno i visitatori serali (comunque contati nel conto complessivo) sono entrati pagando solo 5 euro. «Molti paesi non stanno pagando i creditori, tra cui gli Stati Uniti». Morale: «Si può affermare, senza timore di grosse smentite, che Expo produrrà un importante passivo che dovrà essere ripagato dall’unico soggetto capace di una operazione di questo genere e portata: il ministero dell’economia, cioè lo Stato, tramite Cassa Depositi e Prestiti».Questa voragine, aggiunge Vitiello, avrà sicuramente ripercussioni sul bilancio del Comune di Milano, sull’economia dell’intera regione e, in generale, sul “sistema paese”. «Sul piano politico (e delle politiche) Expo è una specie di buco nero», continua Vitiello. «Tutti si sono improvvisamente scoperti “expottimisti”, a partire ovviamente dal Pd e dalla giunta del sindaco Pisapia, che ha ereditato l’Expo quando ne avrebbe volentieri fatto a meno ma che non ha saputo dire l’unico “no” che avrebbe dato un senso al suo mandato». L’euforia da Expo «è stata venduta con gran dispiegamento di forze», e alla fine il mantra che ripete ossessivamente “Expo è un successo” «si è affermato con modalità orwelliane». Attenzione: «La saldatura tra Comunione e Liberazione e Pd nella gestione di tutta l’area metropolitana è oramai definitiva». Sotto i profilo culturale, poi, l’Expo si è rivelato «esattamente quello che molti avevano sempre temuto: la materializzazione di una specie di Disneyland in versione padana, con una dose rilevante di kitch e una enorme capacità di imporre il pensiero unico dell’”Expo felice”».Non è un caso che il grande evento sia stato accolto dai media col tappeto rosso: «Ha dato una grossa mano il contribuito di (pare) circa 50 milioni elargito da Expo alle maggiori testate e giustificato sotto la voce “comunicazione istituzionale”», scrive Vitiello. Boom turistico? Sì, certo: ma solo per l’Expo, non per Milano. Weekend intasati e code chilometriche, ma soltanto a Rho. A Milano città, «molti ristoratori lamentano un calo delle presenze in centro, molti esercizi commerciali fuori dalle rotte-Expo non hanno registrato alcun incremento di clientela». In compenso, «sul piano della legalità Expo ha avuto il pregio di far emergere il peggio del peggio della corruzione, della connivenza tra settori dello Stato, con manager incaricati di gestire la cosa pubblica, e criminalità organizzata». Soprattutto ha dimostrato, per quanto fosse già chiaro, che «la macchina del “grande evento”, così come è pensata, genera un diffuso agire criminale». Ormai è chiaro: «Non esiste una “grande opera” sana e pulita, le grandi opere per definizione sono un precipitato di criminalità e di connivenza tra impresa, Stato e organizzazioni malavitose, tanto da rendere difficile distinguere i confini tre questi soggetti».Il dopo-Expo? «Per ora assomiglia a qualcosa a metà tra un film con Fantozzi e un film di Fellini», continua Vitiello. «Sicuramente subiremo con violenza la narrazione del successo di Expo, e si userà il numero di visitatori per giustificarlo. Invece i numeri reali del bilancio verranno tenuti nascosti almeno per tutta la campagna elettorale, che si svolgerà nella prossima primavera». L’unico soggetto che ne uscirà bene sarà Ffm, Fondazione Fiera Milano, «che venderà la sua quota in Arexpo allo Stato, incasserà le plusvalenze e non dovrà nemmeno preoccuparsi delle bonifiche, delle dismissioni e di qualsiasi cosa riserverà il dopo-sito». L’area di Expo, infatti, «rischia di rimanere abbandonata a se stessa per i prossimi mesi e forse per i prossimi anni», perché «tutti resteranno fermi in attesa che vengano definiti gli accordi tra i poteri forti», che per l’area milanese in questa fase significano l’intreccio tra Fondazione Fiera, Ferrovie dello Stato (che «sta per trasformare gli ex scali ferroviari in nuove speculazioni edilizie»), Aler (che «procederà con la svendita del patrimonio immobiliare pubblico») e l’università, che «tenterà di diventare l’ennesimo agente del Real Estate».Uno scenario ad elevato rischio di bolla speculativa, insiste Vitiello, perché «a Milano non esiste nessun bisogno reale, cioè capace di suscitare mercato, di nuove edificazioni o di nuovi interventi, che finiranno per moltiplicare i fallimenti di Santa Giulia o di City Life». Infine si devono considerare i progetti infrastrutturali, che trovano nuova forza dallo “Sblocca Italia” e incombono sull’area metropolitana (in particolare sul Parco Sud: trivelle, discariche e stoccaggi di idrocarburi). Questi progetti «confermano la gigantesca menzogna di Expo rispetto al tema dell’esposizione: cibo, filiera corta, alimenti a km zero, agricoltura sostenibile e periurbana», e dimostrano «l’inutilità della Carta di Milano, spacciata come “High Agreement” quando in realtà nessuno sa cosa ci sia scritto e finirà dimenticata». Expo? «E’ stato e sarà un furto alla collettività. È stato realizzato con risorse pubbliche che hanno drenato le casse del Comune, della Regione e domani anche dello Stato». Il maxi-evento, inoltre, «non ha ridistribuito ricchezza». Ha generato «limitatissimi ritorni economici diffusi», mentre ha prodotto «enormi plusvalenze per pochi soggetti, collocati in posizione strategica». Per Vitiello, quella di Milano 2015 «è stata la vittoria della logica emergenziale, violenta e privatistica di concepire l’economia e più in generale i rapporti sociali in questa fase di crisi», dove tutto è stato “blindato” da Fiera e Compagnia delle Opere.L’Expo? Un affarone per tanti, a cominciare da Pd e Compagnia delle Opere. Molto meno per gli italiani, che dovranno pagare per la voragine (oscurata dai media) dei mancati introiti: biglietti venduti a 20 euro e poi a 10 anziché a 30, a una ventina di milioni di visitatori, contro i 29 previsti. La grande kermesse è stata di un terzo al di sotto delle aspettative, accusa Mario Vitiello su “Comune-Info”, sottolineando «le innumerevoli ferite che si devono ancora rimarginare», dopo la maxi-speculazione organizzata alla periferia di Milano. La proprietà delle aree è di Arexpo Spa, la società che ha comperato il milione di metri quadri su cui si è svolto l’evento: «Li ha acquistati da Cabassi, da Fondazione Fiera e da Poste Italiane, pagandoli uno sproposito (grazie ad una speculazione tipo “mani sulla città” garantita dalla giunta Moratti), indebitandosi con le banche (principalmente Intesa San Paolo per circa 160 milioni) e con la stessa Fondazione Fiera (per circa 50 milioni di euro)». E ora? «La gara indetta negli scorsi mesi per trovare un compratore per le aree del sito è andata deserta, e in molti stanno pensando a cosa fare di queste aree, che per il momento sembrano interessare a tutti ma che nessuno vuole».
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Scordatevi sicurezza e privacy, Facebook è in ascolto
Una cosa alla quale siamo diventati tutti troppo abituati è il fatto che la nostra realtà possa venire manipolata per assomigliare a qualcosa di totalmente diverso. Invadere un’altra nazione è un atto di difesa, elezioni corrotte vengono spacciate come democrazia in azione, un numero maggiore di pistole (o armi nucleari) assicurano la pace, il commercio e gli investimenti stranieri aumentano i posti di lavoro a casa. La logica orwelliana è diventata una cosa normale. Ciò che voglio affrontare qui è un altro tipo di manipolazione: il modo in cui Facebook e gli altri social media usano le informazioni che, per la maggior parte inconsapevolmente, gli forniamo – incluse le conversazioni che facciamo nella privacy della nostre case – per pubblicizzare prodotti che non abbiamo richiesto e che quasi certamente non vogliamo, e passare dati al governo. Non sono di sicuro il primo a scoprire questa capacità straordinaria: molti si sono dichiarati sbalorditi e arrabbiati quando si sono resi conto che parole usate nelle conversazioni su Facebook e Twitter, messaggi, location, status, così come quelle usate nelle conversazioni private fra le mura delle proprie case, venivano quasi immediatamente captate e convertite in annunci pubblicitari.Nomini un certo sport, ed ecco che appare la pubblicità di un’agenzia di prenotazione biglietti. Dici che ti piacerebbe guidare una Lexus ed ecco che compare una pubblicità sulla Lexus. Parli di una vacanza e una pubblicità su Facebook ti raccomanda una spiaggia Hawaiana o un piccolo hotel a Parigi che – guarda caso! – avevi appunto nominato ieri! E’ paranoia? Facebook (o Instagram, Google, o Yahoo) è in grado di origliare le nostre conversazioni? Facebook ammette senza tanti problemi che il suo modello di business si basa sui dati che inseriamo o trasmettiamo on-line, che una volta che ci siamo iscritti i dati sostanzialmente diventano proprietà di Facebook, e che – come ha affermato Mark Zuckerberg, Ceo di Facebook – alla maggior parte delle persone non interessa poi così tanto davvero, della loro privacy. Chiaramente, Facebook & Co. si difendono dicendo che stanno semplicemente rispondendo ai tuoi bisogni e che, se lo desideri, puoi sempre ridurre (ma non eliminare) la quantità di pubblicità, semplicemente selezionando una lista nelle impostazioni di programma. Ma per quanto riguarda il fatto dell’ascolto, Facebook sostiene che l’utente sia l’unico a controllare il microfono, e che, secondo il capo della sicurezza di Facebook, si debba autorizzare Facebook ad attivarlo. Per caso qualcuno si ricorda di una richiesta di autorizzazione?Sembra che si possa disattivare la funzione microfono in Windows o nell’applicazione mobile Facebook sullo smartphone o sul tablet. Ma “off”, significa davvero del tutto “off”? Sembrerebbe di no. L’esperienza mia e di mia moglie dopo aver disattivato il microfono sul suo computer, afferma il contrario. Da notare che le pubblicità sono apparse pochi secondi dopo la nostra conversazione. * Jodi ha fatto un commento sull’attrice Robin Wright Penn. Subito, sono comparse pubblicità su film di Sean Penn.* Abbiammo discusso di magliette per i nipoti. Ecco comparire pubblicità proprio per quelle magliette. * Jodi ha parlato della nostra sfida a Scarabeo, lasciata in sospeso. La pubblicità del gioco Yahtzee è comparsa all’istante. * Jodi stava descrivendo il suo aspetto in relazione alla sua età, per esempio le linee di espressione ed i capelli bianchi, ed è comparsa una pubblicità per la linea “Age Rewind” di Maybelline. E allora uno si chiede, ok, ma spiare non è illegale, un’invasione della privacy?Ci sono state proteste sul larga scala circa lo spionaggio di Facebook sugli smartphone, ma nessuno cambio di policy da parte di Facebook, a quanto ne so. A livello legale, uno studio belga – e tra l’altro, gli europei sono molto più infastiditi e attenti alle manovre sospette di Facebook di quanto non lo siano gli americani – mette in evidenza che il “ritirarsi” dalla pubblicità non è lo stesso che dare consenso informato e diretto. Inoltre, Facebook non chiede il nostro consenso per acquisire dati da altre fonti, per raccogliere dati di localizzazione forniti dagli smartphone, per usare foto o altri dati (come il “like”) inseriti dall’utente. Penso che una corretta interpretazione del report belga e dei chiarimenti più recenti di Facebook sulla sua politica (2015), sia che Facebook può raccogliere ed usare ogni tipo di informazione risultante dall’uso di Facebook da parte dell’utente e dallo strumento utilizzato per accedervi. “Ogni tipo di informazione” significa assolutamente ogni dato l’utente abbia inserito, sia su se stesso che su persone terze, sia comunicato per scritto, a voce, o attraverso immagini. Anche se si decide di chiudere l’account Facebook, tutti i dati forniti restano in suo possesso.E c’è un’ulteriore questione, ancora più dannosa: la raccolta e l’uso dei dati provenienti dai social media da parte delle agenzie governative, in particolare l’ Agenzia per la Sicurezza Nazionale (Nsa). Questa pratica, portata allo scoperto da Edward Snowden, include la partecipazione di Facebook, Apple e numerose altre aziende tecnologiche nel programma Prism della Nsa, per raccogliere dati direttamente dalle aziende piuttosto che semplicemente tramite Internet. L’Unione Europea sta ora contestando questa invasione della privacy. Nel 2000, l’Ue ha accettato la proposta americana di istituire un programma di “Safe Harbor” – Porto Sicuro – per il trasferimento agli Stati Uniti dei dati personali raccolti in Europa da Facebook, Google e Amazon. Quell’accordo è stato rivalutato dall’avvocato generale della Corte di giustizia europea, che ha concluso che esso viola i diritti fondamentali degli europei. L’avvocato generale ritiene che i dati possano «venire utilizzati dalla Nsa e da altre agenzie di sicurezza degli Stati Uniti nel corso di una sorveglianza indiscriminata di massa».La Corte di giustizia europea ha appena confermato tale opinione, e dichiarato non valido il programma “Safe Harbor”. La decisione della Corte di giustizia è che il Safe Harbor «debba essere considerato come qualcosa che compromette l’essenza stessa del diritto fondamentale al rispetto della vita privata». E’ un colpo duro, sebbene non fatale, per Facebook e per gli altri soggetti coinvolti nel trasferimento di dati in Europa. Gli europei hanno fatto pressioni a queste aziende, in particolare a Google e Amazon, anche circa altre questioni, come nel caso della legislazione antitrust. Idealmente, la decisione della Corte di giustizia e la altre azioni europee incoraggeranno gli americani ad organizzare le loro battaglie per una maggiore tutela della privacy ed una maggior trasparenza sul modo in cui i giganti della tecnologia conducono i loro affari. L’invasione della privacy sui social media vi preoccupa, o considerate la perdita della privacy come il prezzo della socializzazione? Come avete gestito la vostra privacy sul vostro computer, smartphone, o tablet? Avete avuto esperienze di “spionaggio” come quelle che ho nominato?(Mel Gurtov, “La distorsione della realtà: Facebook è in ascolto”, da “Counterpunch” del 13 ottobre 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”. Professore emerito di scienze politiche alla Portland State University, Gurtov è editorialista di “Asian Perspective”, trimestrale di politica internazionale, e scrive sul blog “In the Human Interest”).Una cosa alla quale siamo diventati tutti troppo abituati è il fatto che la nostra realtà possa venire manipolata per assomigliare a qualcosa di totalmente diverso. Invadere un’altra nazione è un atto di difesa, elezioni corrotte vengono spacciate come democrazia in azione, un numero maggiore di pistole (o armi nucleari) assicurano la pace, il commercio e gli investimenti stranieri aumentano i posti di lavoro a casa. La logica orwelliana è diventata una cosa normale. Ciò che voglio affrontare qui è un altro tipo di manipolazione: il modo in cui Facebook e gli altri social media usano le informazioni che, per la maggior parte inconsapevolmente, gli forniamo – incluse le conversazioni che facciamo nella privacy della nostre case – per pubblicizzare prodotti che non abbiamo richiesto e che quasi certamente non vogliamo, e passare dati al governo. Non sono di sicuro il primo a scoprire questa capacità straordinaria: molti si sono dichiarati sbalorditi e arrabbiati quando si sono resi conto che parole usate nelle conversazioni su Facebook e Twitter, messaggi, location, status, così come quelle usate nelle conversazioni private fra le mura delle proprie case, venivano quasi immediatamente captate e convertite in annunci pubblicitari.
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Dominus del potere sub-europeo, Renzi manovra per durare
Durare nel tempo e imporsi come nuova struttura di potere: questo, per Alfonso Gianni, il senso della manovra varata da Renzi con la legge di stabilità. Operazione ambiziosa: da un lato l’apertura di una «lunga campagna elettorale, la cui prima tappa è costituita dalle amministrative della prossima primavera in quasi tutte le città più importanti del paese, vere e proprie “midterm elections in salsa italiana”». Ma, al di là del puro ritorno elettorale, la manovra «vuole consolidare un blocco di potere articolato e allo stesso tempo coeso, di cui il Pd deve essere l’unico rappresentante politico, anzi il dominus». L’esito delle elezioni 2016 non è scontato, visti i poco soddisfacenti risultati in precedenti elezioni locali, «a dimostrazione che la distruzione dei corpi intermedi, asse strategico dell’azione renziana, che comincia dalla liquidazione del suo stesso partito, ha degli effetti collaterali indesiderati, quali la mancanza di una classe dirigente diffusa e fedele». Inoltre, a orientare la manovra è il timore dei “censori” di Bruxelles, visto che il governo «ambisce ad essere niente altro che un’articolazione del sistema di potere delle élite economiche e politiche europee».Da qui, scrive Gianni sul “Manifesto”, la centralità della cosiddetta riforma fiscale, «definita con la consueta modestia una “rivoluzione copernicana”». I proprietari di 75.000 case di lusso e palazzi ne trarranno ampi benefici, almeno 2.800 euro in media a testa. «Non importa se a farne le spese sarà la sanità o altri istituti dello stato sociale, un tempo misura della nostra civiltà. Diceva il grande Petrolini: quando bisogna prendere i soldi li si cavano ai poveri, ne hanno pochi ma sono tanti. Quindi, se si fa il contrario, ovvero si concedono generosi sgravi fiscali, meglio farlo con i ricchi, perché sono meno e hanno più potere». Per questo, continua Gianni, «la più grande “riforma fiscale di tutti i tempi”, secondo un’altra sobria definizione del suo autore, va oltre al copia e incolla di quella berlusconiana». Il vecchio leader di Arcore, almeno, «ci metteva un po’ di populismo e parlava di una seconda fase dedicata all’alleggerimento della pressione fiscale sulle persone fisiche». Invece, «Renzi prevede che il secondo step deve riguardare le aziende, cioè l’Irap e l’Ires. Il resto viene dopo, se viene. E Squinzi, dopo qualche incomprensione, si riaccende di amore verso il governo».Il boss di Confindustria sembra confortato anche dai propositi del leader: intervenire d’autorità sullo svuotamento della rappresentanza sindacale e sulla liquidazione del contratto collettivo nazionale, «usando come piede di porco l’innocente salario minimo orario legale, ancora da definire». E qui, per Alfonso Gianni, «si scende negli inferi del diabolico». Il taglio dell’Ires? «Verrebbe condizionato al via libera della Ue sulla flessibilità per i costi dell’ondata migratoria. Ovvero i migranti e i profughi, quelli che sopravvivono alla guerra per terra e per mare in atto contro di loro, verrebbero usati come merce di scambio per ridurre le imposte sul reddito d’impresa. Ma un occhio di riguardo bisogna pur tenerlo anche per gli evasori fiscali: non pagano le tasse, ma votano come gli altri. Ecco quindi sbucare l’innalzamento della quota di contante da mille a tremila euro per ogni singolo pagamento, in modo da renderne impossibile la tracciabilità».Renzi vuole durare, insiste Gianni. «Per farlo, dopo la distruzione sistematica dei corpi intermedi della società civile, deve dare vita a un nuovo blocco di potere con collanti tenaci». Le “controriforme” costituzionali, istituzionali ed elettorali in atto potranno essere smantellate, forse, solo a colpi di referendum. Ma intanto il governo Renzi si fa cinghia di trasmissione del super-potere di Bruxelles, «espresso dagli organi ademocratici della Ue», e in Italia diventa «strumento di disarticolazione di ogni potenziale schieramento sociale antagonista», provando a cooptare «strati e settori sociali utili a puntellare un sistema che non sopporta la dualità sociale attiva, cioè il conflitto».Durare nel tempo e imporsi come nuova struttura di potere: questo, per Alfonso Gianni, il senso della manovra varata da Renzi con la legge di stabilità. Operazione ambiziosa: da un lato l’apertura di una «lunga campagna elettorale, la cui prima tappa è costituita dalle amministrative della prossima primavera in quasi tutte le città più importanti del paese, vere e proprie “midterm elections in salsa italiana”». Ma, al di là del puro ritorno elettorale, la manovra «vuole consolidare un blocco di potere articolato e allo stesso tempo coeso, di cui il Pd deve essere l’unico rappresentante politico, anzi il dominus». L’esito delle elezioni 2016 non è scontato, visti i poco soddisfacenti risultati in precedenti elezioni locali, «a dimostrazione che la distruzione dei corpi intermedi, asse strategico dell’azione renziana, che comincia dalla liquidazione del suo stesso partito, ha degli effetti collaterali indesiderati, quali la mancanza di una classe dirigente diffusa e fedele». Inoltre, a orientare la manovra è il timore dei “censori” di Bruxelles, visto che il governo «ambisce ad essere niente altro che un’articolazione del sistema di potere delle élite economiche e politiche europee».