Archivio del Tag ‘elezioni’
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Paura-Renzi, tutti con lui: Usa, Cei, Merkel, Wall Street
Ve lo vedete il nostro ambasciatore a Washington che si intromette nelle campagna elettorale di Trump? Ne verrebbe fuori un putiferio. Invece, rileva Aldo Giannuli, in Italia nessuno apre bocca se mezzo mondo interviene in soccorso di Renzi, in vista del temutissimo referendum d’autunno – temutissimo perché, dopo il Brexit, sarebbe una breccia per altri “pericolosi” referendum, non solo in Italia, sull’euro e la Ue. «La Cei, l’ambasciatore americano, la Merkel, Wall Street, le agenzie di rating come “Fitch”, la Goldman Sachs e la Jp Morgan, la Ue e chissà chi altro nelle prossime ore, stanno accorrendo tutti al capezzale del governo italiano in vista del pericoloso appuntamento referendario che rischia di diventarne l’infarto finale». Per Renzi la strada è in salita: la probabilità di perdere è molto più che una semplice ipotesi. «E pur di scongiurare questo (per loro) infausto evento, si mettono da parte rivalità e vecchi rancori e si travolge persino la prassi diplomatica per la quale è vietatissimo ad un ambasciatore prendere posizione sulle vicende interne del paese presso il quale è distaccato». E, salvo «la timida ma onorevole uscita di Mattarella», non c’è stata nessuna protesta diplomatica del nostro ministero degli esteri.Ormai, scrive Giannuli sul suo blog, «pare che il governo italiano non rappresenti più il popolo italiano ma sia diventato una dépendence del Pd e che, anzi, ringrazi gli Usa per il grazioso appoggio». Ma perché l’opposizione tace? Non una parola dai 5 Stelle o da Sinistra Italiana. In silenzio anche Lega Nord, Forza Italia, Fratelli d’Italia. Perché non chiedere «un dibattito in aula sulle ingerenze straniere nel referendum», o magari «una mozione di sfiducia al ministro degli esteri?». E le gerarchie vaticane, perché si schierano anche loro con Renzi? «Cosa gliene importa ai vescovi italiani (che per il Concordato, dovrebbero tenere il becco chiuso sulla politica in questo paese) se, in Italia, c’è il Senato o no?». Quanto alla Casa Bianca, finora «ha mostrato ben poche simpatie per Renzi a causa delle sue posizioni sui rapporti con la Russia», ma adesso perché di colpo lo difende? E perché anche la Merkel accorre in aiuto del “giullare” fiorentino? No, Renzi non è diventato improvvisamente simpatico a tutti: «Il punto è un altro e va messo in relazione alla Brexit». Una bocciatura della riforma renziana «suonerebbe come la seconda aperta sconfessione di un governo europeo, e questo sarebbe un esempio molto pericoloso».Napolitano e Monti sono stati espliciti, in merito: non sono materie da sottoporre a giudizio referendario, il popolo non deve metter becco in questi argomenti. Il rischio, continua Giannuli, è che «a ruota piombino le richieste di referendum sulla Ue, l’euro o altre materie “sensibili” anche in Francia, Spagna, Portogallo, Olanda e Repubblica Ceca, travolgendo i rispettivi governi come è stato rovesciato Cameron e come lo sarebbe Renzi se vincesse il No». E questo, ovviamente, «potrebbe preludere al crollo della Ue con effetto-domino sugli Usa», anche perché «non dobbiamo perdere d’occhio i venti di rivolta elettorale che soffiano su Europa e Usa come reazione alla crisi ormai quasi decennale». Questa l’analisi di Giannuli: «Le élites dominanti, anzi la élite globale, reagisce mettendo da parte i suoi dissensi interni e opponendo un fronte unico alla sollevazione popolare. D’altra parte, la riforma di Renzi dell’“uomo solo al comando” tutta impostata sul ruolo centrale e quasi esclusivo del governo ai danni di magistratura e, soprattutto, Parlamento si inquadra perfettamente nella “costituzione emergenziale” della globalizzazione: una governance impostata su una sorta di conferenza permanente dei capi degli esecutivi senza impicci parlamentari e tantomeno di organi come le Corti Costituzionali o, più in generale, del potere giudiziario». In altre parole, «l’ordine neoliberista non tollera di essere messo discussione e tantomeno dai popoli dell’Occidente». Se non altro, ora ha gettato la maschera.Ve lo vedete il nostro ambasciatore a Washington che si intromette nelle campagna elettorale di Trump? Ne verrebbe fuori un putiferio. Invece, rileva Aldo Giannuli, in Italia nessuno apre bocca se mezzo mondo interviene in soccorso di Renzi, in vista del temutissimo referendum d’autunno – temutissimo perché, dopo il Brexit, sarebbe una breccia per altri “pericolosi” referendum, non solo in Italia, sull’euro e la Ue. «La Cei, l’ambasciatore americano, la Merkel, Wall Street, le agenzie di rating come “Fitch”, la Goldman Sachs e la Jp Morgan, la Ue e chissà chi altro nelle prossime ore, stanno accorrendo tutti al capezzale del governo italiano in vista del pericoloso appuntamento referendario che rischia di diventarne l’infarto finale». Per Renzi la strada è in salita: la probabilità di perdere è molto più che una semplice ipotesi. «E pur di scongiurare questo (per loro) infausto evento, si mettono da parte rivalità e vecchi rancori e si travolge persino la prassi diplomatica per la quale è vietatissimo ad un ambasciatore prendere posizione sulle vicende interne del paese presso il quale è distaccato». E, salvo «la timida ma onorevole uscita di Mattarella», non c’è stata nessuna protesta diplomatica del nostro ministero degli esteri.
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La Bundesbank: preparatevi a dire addio alla pensione
In pensione sempre più tardi, possibilmente mai: «Un allungamento della vita lavorativa non dovrebbe essere un tabù ma deve, anzi, essere considerato come un elemento fondamentale», avvertono gli economisti della Bundesbank, la banca centrale tedesca presieduta da Jens Weidmann. «Non appena la crisi ricorda a tutti di non esser mai finita, si alza immediatamente la voce ammonitrice di chi reclama più austerità sui conti pubblici (tacendo sempre sull’insostenibilità di quello privato, soprattutto)», commenta Claudio Conti su “Contropiano”. «Inutile far notare a un Weidmann o un Dijsselbloem che in questo modo si distrugge il benessere della popolazione: l’obiettivo è infatti proprio quello». Oggi in Germania l’età del ritiro dal lavoro è a 67 anni. Allontanare ancora l’età pensionabile significa arrivare ai settant’anni. E la previsione è ancora peggiore per le generazioni più giovani, entrate al lavoro con le leggi “Hartz IV” varate sul modello delle “riforme” introdotte anni fa alla Volkwagen corrompendo i leader sindacali perché firmassero accordi-capestro per i dipendenti. Problema: il modello-Germania, creato con l’inganno, oggi in Europa fa testo. Ispira tutte le nuove legislazioni, dal Jobs Act al Loi Travail francese.Il calcolo della banca centrale tedesca, aggiunge “Contropiano”, è truccato anche questa volta: esclude infatti moltissime voci del bilancio statale, «per arrivare infine a “dimostrare” che, se non si toccano unicamente le pensioni, tutto salta». Il ragionamento, continua Conti, si basa sulla generazione dei baby-boomers, nati negli anni ‘50 e ‘60, quando il benessere della ricostruzione post-bellica aveva spinto le famiglie a mettere al mondo molti figli. Dopo l’exploit del 1964, come in Italia, anche in Germania poi è cominciata una “discesa” demografica: ogni anno, c’è mezzo milione di tedeschi in meno rispetto all’anno prima (solo gli immigrati mantengono il bilancio in equilibrio). L’allarme di Weidmann considera solo il “picco negativo” elevandolo a tendenza, «come se negli anni successivi quel trend non si fosse mai invertito», arrivando così a sostenere che «tra il 2030 e il 2060» il costo sociale del declino demografico potrebbe farsi insostenibile. Per “Contropiano”, si tratta di un ricatto esplicito: «O si aumenta l’età pensionabile, portandola il più vicino possibile all’aspettativa di vita (tradotto: dovete morire sul lavoro), oppure si aumenta la percentuale di salario dirottata ai contributi previdenziali». O, ancora, «si abbassa il “tasso di sostituzione”, cioè il rapporto tra assegno pensionistico mensile e ultima retribuzione percepita (già ora molto basso, intorno al 42%)».Con le elezioni ormai alle porte – in Germania di voterà nel 2017 – la Merkel non intende fornire un assist ai suoi avversari: si è infatti affrettata a garantire che il sistema previdenziale resterà immutato. Ma la sortita della banca centrale, osserva Conti, è chiaramente rivolta a tutti i membri dell’Ue. Il messaggio è chiaro: se è costretta a tirare la cinghia persino la Germania, cioè il paese economicamente più forte (e con i conti quasi in regola con i parametri di Maastricht), figuriamoci cosa dovranno fare i paesi con deficit o debito eccessivo, Francia e Italia in primis. In altre parole: la tecnocrazia agli ordini dell’élite sembra ben decisa a “terminare” quel che resta del welfare europeo. Il grosso del “lavoro sporco” è già stato fatto, con le varie “riforme” del mercato occupazionale che hanno azzerato i diritti dei dipendenti, senza contare i tagli alla sanità e la privatizzazione selvaggia dei servizi essenziali, come trasporti, acqua ed energia. Resta il boccone più grosso, quello delle pensioni: terremotare la previdenza pubblica significa, tra l’altro, scatenare la corsa alle pensioni integrative, private, secondo lo schema italiano della legge Fornero.Tutto questo, conclude Claudio Conti, serve ad «affermare concretamente il principio che tutto è dovuto all’interesse del mercato capitalistico e nulla alle popolazioni». Si teme dunque che «anche le pensioni già in essere dovranno subire tagli forsennati, come è stato imposto alla Grecia». Neoliberismo, reinterpretato dal neo-feudalesimo europeo che nega l’istituto strategico del deficit positivo, la spesa pubblica come investimento strategico, sociale ed economico. La logica resta quella, aberrante (puro delirio anti-economico) del pareggio di bilancio: impossibile spendere più di quanto si produce (il che è vero solo per famiglie e aziende, mai per uno Stato che sia sovrano della sua moneta, da emettere in quantità necessaria per sostenere il sistema-paese). In più, l’ordoliberismo teutonico impugna a senso unico il falso dogma del bilancio in pareggio: «Nel settore finanziario, infatti, nulla viene rimproverato a quanti (ad iniziare da Deutsche Bank, hanno accumulato perdite, debiti, “sofferenze” sistemiche inaffrontabili». In quel caso, al contrario, lo Stato è generosissimo: ogni sforzo pubblico è stato invocato (e ottenuto) per “salvare” gli istituti di credito rigorosamente privati. E ora, chiosa “Contropiano”, il fatto che alcune voci del bilancio pubblico (persino tedesco) siano considerate sacrificabili, significa una sola cosa: la resa dei conti è ogni giorno più vicina.In pensione sempre più tardi, possibilmente mai: «Un allungamento della vita lavorativa non dovrebbe essere un tabù ma deve, anzi, essere considerato come un elemento fondamentale», avvertono gli economisti della Bundesbank, la banca centrale tedesca presieduta da Jens Weidmann. «Non appena la crisi ricorda a tutti di non esser mai finita, si alza immediatamente la voce ammonitrice di chi reclama più austerità sui conti pubblici (tacendo sempre sull’insostenibilità di quello privato, soprattutto)», commenta Claudio Conti su “Contropiano”. «Inutile far notare a un Weidmann o un Dijsselbloem che in questo modo si distrugge il benessere della popolazione: l’obiettivo è infatti proprio quello». Oggi in Germania l’età del ritiro dal lavoro è a 67 anni. Allontanare ancora l’età pensionabile significa arrivare ai settant’anni. E la previsione è ancora peggiore per le generazioni più giovani, entrate al lavoro con le leggi “Hartz IV” varate sul modello delle “riforme” introdotte anni fa alla Volkwagen corrompendo i leader sindacali perché firmassero accordi-capestro per i dipendenti. Problema: il modello-Germania, creato con l’inganno, oggi in Europa fa testo. Ispira tutte le nuove legislazioni, dal Jobs Act alla Loi Travail francese.
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Referendum: la super-finanza teme per il suo uomo, Renzi
«Se il referendum controcostituzionale in Italia è più importante della Brexit e se a sostenerlo è il “Wall Street Journal” è proprio il caso di dire che nel nostro paese il gioco si va facendo duro». Lo sostiene Sergio Cararo in un editoriale su “Contropiano”, partendo dal monitoraggio che “Repubblica” ha effettuato sulla stampa inglese: il quadro che emerge non è sorprendente ma decisamente inquietante, scrive Cararo, ricordando il monito di Jamie Dimon, Ceo di Jp Morgan, contro le costituzioni “troppo socialiste” dei paesi euromediterranei, senza contare «gli articoli terroristici prima del referendum britannico sulla Brexit». Se la grande stampa anglosassone – dall’“Economist” al “New York Times” – rispecchia la voce del massimo potere finanziario mondiale, dopo «una serie di articoli preoccupati della situazione economica italiana», adesso a far paura è l’incerta sopravvivenza del governo Renzi, con le possibili ripercussioni sull’Unione Europea. E il grande timore, naturalmente, si chiama referendum.Per il “Wall Street Journal”, il voto d’autunno in Italia è «probabilmente più importante del Brexit». Infatti, «i mercati sono concentrati sulla posta in gioco politica del referendum». Una bocciatura degli elettori – altamente probabile, stando ai sondaggi – potrebbe travolgere Renzi. Il vero costo per l’Italia? Il prolungamento della stagnazione economica, col peggioramento del debito pubblico e delle sofferenze bancarie. Se la “Reuters” parla di «stabilità a rischio in Italia», il “New York Times” evidenzia tre possibili scenari negativi connessi al referendum sulla Costituzione. Primo scenario: il referendum viene bocciato, Renzi si dimette, il Senato sopravvive e il sistema elettorale diventa proporzionale, rendendo ancora più difficile capire chi comanda: nuove elezioni, con Camera e Senato potenzialmente in mano a maggioranze diverse, e quindi ingovernabilità assoluta. Oppure: Renzi sopravvive, ma deve accordarsi con Forza Italia sulla legge elettorale, trascurando l’economia e facendo “volare” i 5 Stelle. O ancora, terzo scenario: se Renzi non riesce a risollevare l’economia, il M5S vince nel 2018. O meglio stravince, «vista la debolezza del nuovo Senato».Amche per il “Financial Times” Renzi ha sbagliato a personalizzare il referendum: «Molti italiani coglieranno l’occasione per votare contro», sperando di mandarlo a casa. Unica via d’uscita: Bruxelles deve concedere a Renzi più spazio, allentando la morsa dell’austerity sull’Italia. «Avrà effetto questa campagna di pressione e allarmismo dei giornali legati alle corporations sul referendum di autunno?», si domanda Cararo. «Alla luce di come è andata con la Brexit potrebbe non funzionare. Ma gli inglesi, prima di arrivare al compromesso con la monarchia, almeno la testa di un re l’avevano tagliata. Altrettanto è accaduto in Francia. Si tratta di paesi dove la forza dell’identità del citoyen che ha diritto di decidere sulle sorti del proprio Stato è ancora molto consistente». In Italia invece non siamo andato oltre i referendum, come quello – pur decisivo – del 1946, su monarchia o repubblica. «Facciamo in modo che vada come nel 1946 – auspica “Contropiano” – e che anche questo monarca, peraltro del tutto privo di “investiture divine” o popolari, si tolga dai coglioni».«Se il referendum controcostituzionale in Italia è più importante della Brexit e se a sostenerlo è il “Wall Street Journal” è proprio il caso di dire che nel nostro paese il gioco si va facendo duro». Lo sostiene Sergio Cararo in un editoriale su “Contropiano”, partendo dal monitoraggio che “Repubblica” ha effettuato sulla stampa inglese: il quadro che emerge non è sorprendente ma decisamente inquietante, scrive Cararo, ricordando il monito di Jamie Dimon, Ceo di Jp Morgan, contro le costituzioni “troppo socialiste” dei paesi euromediterranei, senza contare «gli articoli terroristici prima del referendum britannico sulla Brexit». Se la grande stampa anglosassone – dall’“Economist” al “New York Times” – rispecchia la voce del massimo potere finanziario mondiale, dopo «una serie di articoli preoccupati della situazione economica italiana», adesso a far paura è l’incerta sopravvivenza del governo Renzi, con le possibili ripercussioni sull’Unione Europea. E il grande timore, naturalmente, si chiama referendum.
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Germania No-Euro: trionfa Alternative für Deutschland
Dopo l’exploit alle elezioni nazionali di marzo, il partito euroscettico di destra “Alternative für Deutschland” ha ottenuto un altro importante risultato nel Meclemburgo-Pomerania, dove diventa il secondo partito, superando la Cdu di Angela Merkel. Nonostante abbia sottrato voti a tutte le principali forze politiche – spiega lo “Spiegel” all’indomani del voto – a perdere la porzione maggiore di elettori sono state le forze di sinistra, rappresentate da Spd e Die Linke. Importante sottolineare anche come in una regione con un tasso di disoccupazione molto alto, quasi il 30% dei votanti senza un lavoro abbia optato per il partito “populista”, annota Christoph Sydow, chiarendo che, in Meclemburgo-Pomerania, Afd ha ottenuto un importante successo «grazie al voto dei lavoratori, dei disoccupati e degli ultratrentenni». Una persona su quattro «ha votato con convinzione per i populisti di destra». Esito che smentisce seccamente la teoria secondo la quale una maggiore affluenza alle urne indebolirebbe i “populisti”.E’ un “teorema” bocciato dalla realtà, insiste il giornalista dello “Spiegel” in un articolo tradotto da “Voci dall’Estero”: lo dimostra il successo di “Alternative für Deutschland” non solo in Meclemburgo-Pomerania, ma anche nelle recenti elezioni statali in Baden-Württemberg, Renania-Palatinato e Sassonia-Anhalt, «tutti Land in cui l’affluenza è cresciuta notevolmente». In Meclemburgo-Pomerania quest’ultima è aumentata di circa dieci punti percentuali rispetto al 2011. Vero, la partecipazione è ancora molto al di sotto dei valori riscontrati dal 1994 al 2000, ma in passato le elezioni regionali hanno quasi sempre coinciso con le elezioni nazionali, che attraggono tradizionalmente più elettori. Ancora una volta è dunque Afd a beneficiare dell’incremento dell’affluenza alle urne: secondo le analisi di Infratest Dimap, il partito No-Euro avrebbe mobilitato oltre 56.000 ex astenuti – più di qualsiasi altra formazione. Inoltre, Afd è riuscita a convincere 20.000 sostenitori dell’Npd, il partito nazional-democratico dell’ultradestra. E ha strappato oltre 23.000 elettori alla Cdu, più 16.000 all’Spd. Infine, l’Afd ha spodestato anche la Linke: 18.000 elettori che quattro anni fa avevano scelto la sinistra, questa volta hanno votato per “Alternative für Deutschland”.«Il fatto che l’Afd venga percepito principalmente come un partito di protesta è mostrato chiaramente dagli exit poll», continua Sydow. «Interrogati sul motivo della loro decisione di voto, il 66 % degli elettori di Afd ha dichiarato di aver scelto i populisti di destra per via della delusione nei confronti degli altri partiti. Solo il 25% si è detto pienamente convinto dal programma di Add». Guardando l’elettorato totale, il rapporto è invertito: il 57% ha scelto con convinzione il proprio partito, mentre solo il 36% ha dichiarato di essere deluso dagli altri raggruppamenti. «Non abbiamo fatto campagna contro i rifugiati», ha affermato Leif-Erik Holm, il principale candidato di Afd, la sera dopo la chiusura delle urne. È evidente come l’opinione degli elettori del suo partito sia differente. Interrogati sul tema che ha influito in modo decisivo sul voto, il 52% dei votanti di Afd ha risposto: i “profughi”. Al contrario, guardando la totalità degli elettori solo il 20%, ha menzionato questo punto.L’Afd, continua lo “Spiegel”, è particolarmente forte nell’elettorato tra i 35 e i 60 anni; nella fascia tra i 35 e i 44 anni di età è quasi alla pari con l’Spd; minore è il suo consenso tra gli elettori più giovani. La Cdu riesce a superare l’Afd solo nell’elettorato over-60. “Alternative für Deutschland” riscuote successo soprattutto nella popolazione maschile: in Meclemburgo-Pomerania ha convinto il 25% degli elettori maschi, mentre la percentuale di voto tra le donne è solo del 16%. In questo modo, nel computo totale dei voti femminili, Afd si piazza terzo, dopo Spd (34%) e Cdu (20%). Gli elettori Afd provengono da tutte le classi sociali: disoccupati (29%), lavoratori dipendenti (34%) e lavoratori autonomi (28%). «Afd guadagna punti soprattutto tra gli elettori con un livello di formazione medio-basso, posizionandosi di pochissimo dietro l’Spd», conclude lo “Spiegel”. «Tra le fasce della popolazione altamente istruite il partito si piazza solo al terzo posto, proprio davanti alla sinistra».Dopo l’exploit alle elezioni nazionali di marzo, il partito euroscettico di destra “Alternative für Deutschland” ha ottenuto un altro importante risultato nel Meclemburgo-Pomerania, dove diventa il secondo partito, superando la Cdu di Angela Merkel. Nonostante abbia sottrato voti a tutte le principali forze politiche – spiega lo “Spiegel” all’indomani del voto – a perdere la porzione maggiore di elettori sono state le forze di sinistra, rappresentate da Spd e Die Linke. Importante sottolineare anche come in una regione con un tasso di disoccupazione molto alto, quasi il 30% dei votanti senza un lavoro abbia optato per il partito “populista”, annota Christoph Sydow, chiarendo che, in Meclemburgo-Pomerania, Afd ha ottenuto un importante successo «grazie al voto dei lavoratori, dei disoccupati e degli ultratrentenni». Una persona su quattro «ha votato con convinzione per i populisti di destra». Esito che smentisce seccamente la teoria secondo la quale una maggiore affluenza alle urne indebolirebbe i “populisti”.
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Paolo Barnard, l’appestato. E’ l’uomo più scomodo d’Italia
Ho iniziato a fare il giornalista ‘alla vecchia’ (piccoli pezzi x piccolo ma ottimo giornale, “La Gazzetta di Parma”) mentre vivevo a Londra sotto il ‘Nazismo’ Neoliberista di Margaret Thatcher. Anni ’80. Lavoravo con schiavi sociali in un tunnel a sgrassare auto, in nero. Ho vissuto come vivono gli schiavi delle ‘riforme’ del lavoro. Mi sono specializzato in politica estera vivendo anche negli Usa. Lì ho visto di peggio parlando di sadismo sociale Neoliberista, cose che in Italia arriveranno fra 20 anni. Di certo. Nel 1988 approdo alla stampa italiana importante, Mondadori, perché ho l’idea di essere il primo giornalista al mondo che intervista Roger Waters, Pink Floyd, unicamente sulle tematiche sociali di “The Wall”. Waters aveva appena rifiutato una richiesta di “Rolling Stone Magazine”. Accetta me perché nessuno si era mai interessato alle sue idee politiche. Nel 1991 inizio una collaborazione con “Samarcanda” di Michele Santoro, dove, con l’aiuto della compianta Jill Tweedy, faccio lo scoop del testimone americano che, all’insaputa del mondo intero, era rinchiuso all’Al-Rasheed hotel di Baghdad durante la I Guerra del Golfo, e che aveva smentito con foto tutta la versione della Cnn/Pentagono su bombardamenti di civili.Vengo minacciato di arresto dal deputato Giuliano Ferrara e salvato da Andreotti che, col Papa, si opponeva alla guerra. Mai incontrato Andreotti, la cosa mi fu rivelata dopo da Paolo Liguori. 1993, vengo minacciato di morte da un agente Cia a Roma, che mi dice: «Se ti offriamo 5 milioni di lire al mese per andare a fare il giornalista all’ufficio turistico del Trentino, tu accetta. Mi stai capendo?». Offerta mai giunta, perché fui allontanato dalla Rai immediatamente, quindi non ero più un pericolo. Nel 1993 scopro per primo le torture dei soldati italiani in Somalia nell’operazione “Restore Hope”, le pubblico su “La Stampa” di Torino. Silenzio generale (anni dopo, “Panorama” fece lo ‘scoop’). Nel frattempo lavoro per quasi tutte le testate nazionali di stampa, inclusi il “Corriere della Sera” e la “Voce” di Indro Montanelli, poi per Paolo Flores D’Arcais a “Micromega”, e per il “Golem” del “Sole 24 Ore” con l’ex Pm di Mani Pulite Gherardo Colombo. Sempre da esterno. Nel 1994, Roberto Quagliano, Milena Gabanelli ed io, con 4 altri, fondiamo “Report”, sotto la direzione di Giovanni Minoli (allora si chiamava “Effetto Video8”).Nello stesso anno sono in Africa a lavorare sulla guerra in Angola e soprattutto in Sudafrica, dove Mandela rischia di non poter essere eletto per via delle violenze. Vedo stragi, corpi dilaniati, rischio due volte di morire. La seconda volta ero sdraiato sul fondo di una cabina del telefono x mandare una corrispondenza, mentre dei proiettili Ak 47 mi volavano sopra la testa. Dall’altra parte del telefono un idiota mi dice: «Richiama, c’è Berlusconi in diretta». Lì decisi che l’Italia… stocazzo. All’elezione di Mandela sputtano Henry Kissinger di fronte a tutta la stampa mondiale. Nessun italiano presente. Pensai di non lasciare il paese vivo. Alla fine del 1995 intervisto in esclusiva il leader serbo-bosniaco Radovan Karadzic, che faccio infuriare quando gli dico che Milosevic ha tendenze suicide e sta portando tutto il paese alla morte. Al tempo non eravamo al corrente degli accordi segreti Usa-Israele per fomentare la guerra, rivelati poi. Nel 1998 faccio un’inchiesta (“Report”, Rai3) sull’assistenza ai morenti (Hospice) del tutto inesistente allora in Italia. Sono il primo in Italia a fare un’inchiesta (“Report”, Rai3) sul debito dei paesi poveri che li sta ammazzando per il sadismo del Fondo Monetario Internazionale, che insiste nei pagamenti da parte di gente disperata. Vedo la fame, cosa sono i poveri davvero, l’orrore dell’Africa fuori dai club vacanze.Sono il primo in Italia nel 1999 a fare un’inchiesta (“Report”, Rai3) sulla globalizzazione e sugli Istituti Sovranazionali padroni del mondo, che comandano i Parlamenti di chiunque (oggi tutti lo sanno…). Da lì inizio la mia indagine sul Vero Potere, intuisco cioè che la vita di tutti noi non è comandata dai singoli governi. Sono il primo in Italia a fare un’inchiesta (“Report”, Rai3) dove denuncio Usa, Iraele e Gran Bretagna come i maggiori terroristi del mondo. Tratto il caso Palestina senza peli sulla lingua per Israele. Ricevo il plauso di Noam Chomsky, Ilan Pappe, John Pilger, fra gli altri. Sono il primo in Italia a fare un’inchiesta (“Report”, Rai3) sullo sfruttamento degli ammalati da parte delle multinazionali del farmaco, che costa alla Rai la prima querela in civile mai ricevuta, e a me l’abbandono da parte di Milena Gabanelli, “l’eroina del giornalismo libero”. Mi abbandonarono perché non si creasse un precedente in Rai dove un giornalista viene difeso e gli viene pagata l’eventuale condanna pecuniaria. In tribunale, Rai e Gabanelli chiedono la mia condanna in esclusiva, come se l’inchiesta l’avessi messa in onda io da solo! Perdo il lavoro e il reddito e non ho fondi per difendermi.Sono il primo in Italia a fare un’inchiesta (Rai Educational di Minoli) su come una Commissione di Grandi Clinici ammalati gravi, che quindi hanno conosciuto la sofferenza e la paura, saprebbe rifare la sanità in senso più umano e più efficiente. Fondiamo la Commissione, arriviamo fino al ministro della sanità Livia Turco, ma il suo governo cade poche settimane dopo. Sono il primo in Italia a scrivere un libro di altissima documentazione internazionale (archivi segreti Usa e Gb et al.) sul terrorismo occidentale nel mondo povero, sull’orrore neo-nazista d’Israele in Palestina, e di come questo nostro terrorismo in un secolo di violenze immani ha poi portato a Bin Laden e ad altri gruppi armati di resistenza nel mondo. Il libro è edito da Rizzoli Bur, col titolo “Perché ci odiano”. Scrivo altri 5 libri, ma non voglio che li compriate, perché gli editori sono delle merde e non meritano soldi. Giovanni Minoli mi chiede di tornare in Rai. Gli dico no. Prima Rai e Gabanelli devono chiedermi scusa in pubblico (sì, certo). Scrivo due saggi, fra altri, intitolati “Per un mondo migliore” e “L’informazione è noi” dove parlo di concetti che forse verranno capiti fra 90 anni.Nel 2009 intuisco che tutta l’Eurozona è un immenso crimine sociale guidato da poteri forti, cioè il Vero Potere. Studio un’economia alternativa e di altissimo interesse pubblico, la Mosler Economics-Mmt (Me-Mmt), dal nome dell’economista americano Warren Mosler (un genio). La porto in Italia per primo, e nel 2010 pubblico la storia, la denuncia, e i rimedi (la Me-Mmt) del crimine chiamato Eurozona in “Il Più Grande Crimine” (online). Vengo deriso per anni da tutti, specialmente dagli economisti di ‘sinistra’. Oggi tutti ’sti pezzenti mi copiano parola per parola senza citarmi. Racconto per anni cosa sia il Vero Potere, come funziona, dico cose che appaiono alla gente e ai ‘colleghi’ come follie, ma sono io avanti 50 anni su questo perché ho vissuto fra Il Vero Potere, e infatti tutto ciò che dissi si sta avverando. Nel 2012, al palazzo dello sport di Rimini, io e altri attivisti organizziamo la più grande conferenza di economia della storia, con oltre 2.000 partecipanti paganti. Portiamo la Me-Mmt in Italia in grande stile. Nessun media, neppure quelli di quartiere ci coprono. Santoro manda una ragazzina a filmare, che poi dirà che le cassette furono… rubate.La Me-Mmt diventa un fenomeno nazionale organizzato per gruppi regionali. Facciamo migliaia di conferenze. Io vengo chiamato da “L’ultima parola”, Rai2, diverse volte, da TgCom24, da “La Zanzara”, da Radio3, e poi divengo editorialista economico di punta di “La Gabbia” a La7. Verrò cacciato per motivi, non pretestuosi ma ridicoli, da Gian Luigi Paragone di “La Gabbia” ben 3 volte. La verità la sa solo lui (e Berlusconi). Creo quindi ciò che lo stesso Warren Mosler chiama “il più grande fenomeno Me-Mmt” del mondo. Purtroppo pochi anni dopo Mosler mi accoltella alle spalle, col beneplacido del 99% dei miei collaboratori. Oplà. Divento un ‘appestato’, il primo giornalista-Ebola d’Italia. Una carriera, la mia, che va dal top nazionale al non essere più chiamato neppure da una radio di parrocchia. Sono il primo in Italia a inventarsi “La crisi economica spiegata alla nonna”, dove racconto il crimine epocale dell’Eurozona con termini comprensibili alle nonne. Oggi gentaglia economica di ogni sorta, e i miei stessi ex collaboratori, mi stanno copiando tutto senza citarmi. Sono il primo in Italia a inventarsi “La storia dell’economia (che ti dà da mangiare) spiegara al bar”. Idem come sopra, copioni inclusi. Sono il primo in Italia a inventarsi “L’economia criminale spiegata ai ragazzi attraverso i testi delle canzoni pop”. Questa non me l’hanno ancora copiata, ma fra un poco vedrete…Nella mia vita professionale ho mandato al diavolo ogni singola occasione di divenire famoso. Ho criticato aspramente (mandato a fanc…) per senso di giustizia ed etica: Minoli (disse: «Se vedo Barnard gli tiro un armadio», ma Minoli rimane un ‘grande’) – la Gabanelli (che rimane una m…) – Flores D’Arcais – Gherardo Colombo – Marco Travaglio – Beppe Grillo (che mi chiamò a Quarrata “un grande”) – Lorenzo Fazio che è il boss di Chiarelettere e del “Fatto Quotidiano” – Giuliano Amato (che mi chiamò a casa) – Vittorio Sgarbi che mi voleva in una sua trasmissione – il ministro Tremonti che mi chiamò per capire ‘la moneta’… – Cruciani e Parenzo in diverse puntate – Gianluigi Paragone – e ho rifiutato ogni singola offerta di candidatura politica, fra cui quella di Berlusconi per voce di Marcello Fiori (con testimoni). Ho ignorato un migliaio di paraculi più o meno noti che mi volevano come volto pubblico. Ho detto a Maroni in diretta Tv che è un deficiente, ho chiamato “criminali” Mario Monti, Prodi, Napolitano e molti altri, sempre in diretta Tv, mi feci cacciare dal ministero dell’industria dal ministro Piero Fassino, ho sputtanato Romano Prodi alla Commissione Europea, ho detto a Peter Gomez che è un falsario (con Travaglio) che ha ignorato la distruzione del paese per far soldi coi libri su Berlusconi. Infatti sono l’unico italiano che non ha un blog sul “Fatto Quotidiano”.Quando compresi che il 99% dei miei collaboratori nel Movimento Me-Mmt erano dei fagiani che non capiscono il Vero Potere per nulla, parecchio vigliacchini, o che erano perfidi carrieristi, li ho tutti buttati al cesso. E… ho ignorato un tal Roberto Mancini che si è alzato da un tavolo per stringermi la mano. Non sapevo che è una star del calcio… ( Ho fatto volontariato per decenni in aiuto a gente che voi neppure immaginate, ho messo le mani nel dolore, nella devastazione sociale, nella morte. E forse sarà l’unica cosa che mi ricorderò quando crepo. Oggi nel panorama giornalistico e intellettuale non mi considera più nessuno. Dicono, alcuni critici, che è a causa delle mie folli provocazioni sociali che ho reso pubbliche, ma ciò è falso: il problema non erano le mie provocazioni, ma che il 99,9% del pubblico è troppo scemo per capirle. Nella realtà, e siamo seri, se un reporter da 30 anni attacca Usa, Israele, e soprattutto il Vero Potere come ho fatto io, be’, è normale essere sepolto vivo. Curiosità: piaccio alle donne, ragazzine incluse, come se fossi Johnny Depp, ma so che è solo perché sono un ‘personaggio’, e non ci vado a letto (sono vecchio e brutto come un c…). So fare le pizze e il filetto al pepe verde come un Dio. Ho un carattere micidiale, quando mi parte la furia o la rabbia sociale non mi fermo (inclusi gli 8 poliziotti che chiamavo ‘assassini’ di Cucchi e Aldrovandi, e che mi hanno spaccato un braccio, denunciato, ecc.). Ma sono un genio che ha scritto e fatto cose 100 anni avanti a tutti. Amo indossare i gioielli come le donne, e di più. Adoro la donne. Vostro PB.(Paolo Barnard, “Obbligatorio leggere chi sono, prima di leggermi”, post in evidenzia nel blog di Barnard, i cui agiornamenti sono sospesi, per protesta, dall’inizio di agosto 2016, per sfiducia nel pubblico italiano).Ho iniziato a fare il giornalista ‘alla vecchia’ (piccoli pezzi x piccolo ma ottimo giornale, “La Gazzetta di Parma”) mentre vivevo a Londra sotto il ‘Nazismo’ Neoliberista di Margaret Thatcher. Anni ’80. Lavoravo con schiavi sociali in un tunnel a sgrassare auto, in nero. Ho vissuto come vivono gli schiavi delle ‘riforme’ del lavoro. Mi sono specializzato in politica estera vivendo anche negli Usa. Lì ho visto di peggio parlando di sadismo sociale Neoliberista, cose che in Italia arriveranno fra 20 anni. Di certo. Nel 1988 approdo alla stampa italiana importante, Mondadori, perché ho l’idea di essere il primo giornalista al mondo che intervista Roger Waters, Pink Floyd, unicamente sulle tematiche sociali di “The Wall”. Waters aveva appena rifiutato una richiesta di “Rolling Stone Magazine”. Accetta me perché nessuno si era mai interessato alle sue idee politiche. Nel 1991 inizio una collaborazione con “Samarcanda” di Michele Santoro, dove, con l’aiuto della compianta Jill Tweedy, faccio lo scoop del testimone americano che, all’insaputa del mondo intero, era rinchiuso all’Al-Rasheed hotel di Baghdad durante la I Guerra del Golfo, e che aveva smentito con foto tutta la versione della Cnn/Pentagono su bombardamenti di civili.
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Brzezinski: contrordine, America. Pace con Putin e la Cina
«L’architetto principale del piano di Washington per governare il mondo ha abbandonato il progetto e ha richiesto la creazione di legami con la Russia e la Cina». Anche se l’articolo di Zbigniew Brzezinski su “The American Interest”, dal titolo “Towards a Global Realignment” (verso un riallineamento globale) è stato ampiamente ignorato dai media, «dimostra che membri potenti dell’establishment decisionale non credono più che Washington prevarrà nel suo tentativo di estendere l’egemonia degli Stati Uniti in tutto il Medio Oriente e in Asia», afferma Mike Whitney. Il super-massone reazionario Brzezinski, primo reclutatore di Osama Bin Laden in Afghanistan, «è stato il principale fautore di questa idea», l’espansione “imperiale”, già esposta nel 1997 nel libro “La Grande Scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici”. Ora «ha fatto dietro-front e ha richiesto una incredibile revisione strategica». Infatti scrive che «gli Stati Uniti devono prendere l’iniziativa per riallineare l’architettura del potere globale», dal momento che «finisce la loro epoca di dominio globale». Meglio sfruttare la residua potenza americana per affrontare in modo diverso, cioè pacifico, «l’emergente ridistribuzione del potere globale e il violento risveglio politico in Medio Oriente».Gli Stati Uniti, sottolinea Brzezinski, «sono ancora l’entità politicamente, economicamente e militarmente più potente del mondo». Ma, aggiunge, «dati i complessi cambiamenti geopolitici negli equilibri regionali, non sono più la potenza imperiale globale». In un post su “Counterpunch” tradotto da “Come Don Chisciotte”, Mike Whitney invita a confrontare questo giudizio con quello che lo stesso Brzezinski aveva dato ne “La Grande Scacchiera”, quando affermava che gli Stati Uniti erano «il massimo potere a livello mondiale, giudice-chiave delle relazioni di potere eurasiatiche». Il crollo dell’Unione Sovietica aveva determinato «la rapida ascesa di una potenza dell’emisfero occidentale, gli Stati Uniti, come l’unica e, in effetti, la prima potenza veramente globale». Nell’ultima parte del ventesimo secolo, nessuna altra potenza gli si è nemmeno avvicinata». Ma, scrive oggi Brzezinski, «quell’epoca sta ormai per finire». L’ex consigliere strategico per la sicurezza nazionale sotto Jimmy Carter, autorevolissimo esponente della dottrina della supremazia mondiale degli Usa, ora «indica l’ascesa della Russia e della Cina, la debolezza dell’Europa e il “violento risveglio politico tra i musulmani post-coloniali”, come le cause approssimative di questa improvvisa inversione».I suoi commenti sull’Islam, continua Whitney, sono particolarmente istruttivi: Brzezinski infatti «fornisce una spiegazione razionale per il terrorismo, invece dell’aria fritta governativa sull’“odiare le nostre libertà”». Del resto, lo stesso Brzezinski seppe vedere lo scoppio del terrore come lo «sgorgare di lamentele storiche» da un «senso di ingiustizia profondamente sentito», e quindi non come «la violenza cieca di psicopatici fanatici». Nel libro “Massoni”, Gioele Magaldi presenta Brzezinski anche sotto un’altra luce: come leader del cartello super-massonico neo-aristocratico e ultra-conservatore. Un fronte che, però, si starebbe incrinando, davanti al cinismo della strategia della tensione – dall’11 Settembre all’Isis – e, soprattutto, alla crescente resistenza di Russia, Cina e loro alleati. Una parte di quell’élite, fino a ieri granitica, si starebbe “sfilando”. E questo, avvertono alcuni osservatori provienienti dalla cultura massonica democratica, forse spiega il crescente ricorso agli attentati: l’oligarchia teme di perdere la presa sulla scena geopolitica e sull’opinione pubblica occidentale. Anche così si spiega il clamoroso successo degli outsider nella campagna elettorale americana: Bernie Sanders e soprattutto Donald Trump, così morbido con Putin. Una “prudenza” che sembra ora pienamente condivisa da un ex super-falco come Brzezinski.«E’ chiaro che quello che più lo preoccupa è il rafforzamento dei legami economici, politici e militari tra la Russia, la Cina, l’Iran, la Turchia e gli altri Stati dell’Asia centrale», osserva Whitney. Un problema già segnalato nel libro del ‘97: «D’ora in poi – scriveva Brzezinski – gli Stati Uniti potrebbero dover stabilire come far fronte a coalizioni regionali che cercano di spingere l’America fuori dall’Eurasia, minacciando in tal modo lo status degli Stati Uniti come potenza mondiale». Ergo, per l’imperialista Brzezinski il problema era «prevenire la collusione e mantenere la dipendenza sulla difesa tra i vassalli, tenere i tributari docili e protetti, e impedire che i barbari si uniscano». Il che si è puntualmente verificato, prima con la “guerra infinita” promossa dal clan Blush, e poi con la «politica estera sconsiderata dell’amministrazione Obama, in particolare il rovesciamento dei governi in Libia e in Ucraina», cosa che – annota Whitney – ha «notevolmente accelerato la velocità con cui si sono formate queste coalizioni anti-americane». In altre parole, «i nemici di Washington sono apparsi, in risposta al comportamento di Washington. Obama può biasimare solo se stesso».Putin ha risposto a tono alla crescente minaccia di instabilità regionale e al posizionamento delle forze Nato ai confini della Russia: ha rafforzanto le alleanze con i paesi perimetrali della Russia e in tutto il Medio Oriente. Allo stesso tempo, insieme ai colleghi Brics (Brasile, India, Cina e Sudafrica) il presidente russo ha istituito un sistema bancario alternativo (Brics Bank e Aiib) che finirà per sfidare il sistema dominato dal dollaro, che è la fonte del potere globale degli Stati Uniti. È per questo, continua Whitney, che Brzezinski ha fatto una rapida svolta a U, abbandonando il piano egemonico degli Stati Uniti: è preoccupato «per i pericoli di un sistema non basato sul dollaro che sta nascendo tra i paesi emergenti e i non allineati, che dovrebbe sostituire l’oligopolio della Banca Centrale occidentale. Se ciò accadrà, allora gli Stati Uniti perderanno la loro morsa sull’economia globale». Quel giorno finirebbe anche «il sistema di estorsione nel quale biglietti verdi buoni per incartare il pesce vengono scambiati per beni e servizi di valore».Purtroppo, aggiunge Whitney, è improbabile che l’approccio più cauto di Brzezinski sarà seguito dao Hillary Clinton, «che è una convinta sostenitrice dell’espansione imperiale attraverso la forza delle armi». Spiegava infatti nel 2010, sulla rivista “Foreign Policy”: «Mentre la guerra in Iraq si esaurisce e l’America comincia a ritirare le sue forze dall’Afghanistan, gli Stati Uniti si trovano ad un punto di svolta. Negli ultimi 10 anni, abbiamo stanziato risorse immense in questi due teatri. Nei prossimi 10 anni, dobbiamo essere intelligenti e sistematici su dove investiremo tempo ed energia, in modo da metterci nella posizione migliore per sostenere la nostra leadership, garantire i nostri interessi e far avanzare i nostri valori. Uno dei compiti più importanti della politica americana nel prossimo decennio sarà quello di tenere al sicuro gli investimenti – diplomatici, economici, strategici, e di altro tipo – sostanzialmente aumentati nella regione Asia-Pacifico». L’apertura dei mercati in Asia «fornisce agli Usa opportunità senza precedenti per gli investimenti, il commercio, e l’accesso alla tecnologia d’avanguardia: le aziende americane devono sfruttare la vasta e crescente base di consumatori dell’Asia».L’Asia è il nuovo Eldorado: «Genera già oltre la metà della produzione mondiale e quasi la metà del commercio mondiale», affermava Hillary. «Mentre ci sforziamo di soddisfare l’obiettivo del presidente Obama di raddoppiare le esportazioni entro il 2015, siamo alla ricerca di opportunità per fare ancora più affari in Asia». Lo sapeva anche Brzezinski, 14 anni fa, quando scriveva “La Grande Scacchiera”: «Per l’America, il premio geopolitico principale è l’Eurasia», che è «il più grande continente del globo», il maggiore asse geopolitico. «Una potenza che domini l’Eurasia controllerebbe due delle tre regioni più avanzate ed economicamente produttive del mondo».Attenzione: «Circa il 75% della popolazione mondiale vive nell’Eurasia, e la maggior parte della ricchezza fisica del mondo sta lì, sia nelle sue imprese che sotto il suolo. L’Eurasia conta per il 60% del Pil mondiale e circa tre quarti delle risorse energetiche conosciute al mondo». Gli obiettivi strategici sono quelli della Clinton oggi, ma con una enorme differenza: sono passati 14 anni, e forse Hillary non se n’è accorta.«Brzezinski ha fatto una correzione di rotta sulla base di circostanze mutevoli e della crescente resistenza al bullismo, al dominio e alle sanzioni statunitensi», scrive Whitney. «Non abbiamo ancora raggiunto il punto di svolta per il primato degli Stati Uniti, ma quel giorno si sta avvicinando velocemente e Brzezinski lo sa». Al contrario, la Clinton «è ancora completamente impegnata ad ampliare l’egemonia degli Stati Uniti in tutta l’Asia. Non capisce i rischi che ciò comporta per il paese o per il mondo. E’ intenzionata a continuare con gli interventi fino a quando il titano combattente Stati Uniti si immobilizzerà di colpo, cosa che, a giudicare dalla sua retorica iperbolica, accadrà probabilmente dopo un po’ di tempo durante il suo primo mandato». Brzezinski presenta «un piano razionale ma opportunista per fare marcia indietro, ridurre al minimo i conflitti futuri, evitare una conflagrazione nucleare e mantenere l’ordine globale, cioè il “sistema del dollaro”. Ma la sanguinaria Hillary seguirà il suo consiglio? Nemmeno per sogno».«L’architetto principale del piano di Washington per governare il mondo ha abbandonato il progetto e ha richiesto la creazione di legami con la Russia e la Cina». Anche se l’articolo di Zbigniew Brzezinski su “The American Interest”, dal titolo “Towards a Global Realignment” (verso un riallineamento globale) è stato ampiamente ignorato dai media, «dimostra che membri potenti dell’establishment decisionale non credono più che Washington prevarrà nel suo tentativo di estendere l’egemonia degli Stati Uniti in tutto il Medio Oriente e in Asia», afferma Mike Whitney. Il super-massone reazionario Brzezinski, primo reclutatore di Osama Bin Laden in Afghanistan, «è stato il principale fautore di questa idea», l’espansione “imperiale”, già esposta nel 1997 nel libro “La Grande Scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici”. Ora «ha fatto dietro-front e ha richiesto una incredibile revisione strategica». Infatti scrive che «gli Stati Uniti devono prendere l’iniziativa per riallineare l’architettura del potere globale», dal momento che «finisce la loro epoca di dominio globale». Meglio sfruttare la residua potenza americana per affrontare in modo diverso, cioè pacifico, «l’emergente ridistribuzione del potere globale e il violento risveglio politico in Medio Oriente».
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La meglio gioventù è questa, che scava tra le macerie
Ero a L’Aquila, come volontario. Pareva il fronte. Un veneto di ventotto anni mi passava le brande da campo, mentre un toscano ed io, le posizionavamo dentro la tenda, qualificati da anni di corsi ed esercitazioni. Eravamo stanchi insieme; nei giorni passati tra le macerie, fusi nel nostro essere italiani. Contrariamente al pensiero comune, fratello è chi parla la mia lingua, riconosce il mio confine e condivide la mia tragedia. Amico è tutto il resto. Sardi, veneti, laziali, toscani. Liceali, universitari, disoccupati, già sposati. Giovanotti già dati per dispersi nelle pagine della storia. L’Aquila, Emilia Romagna, Genova. Amatrice. Centro Italia. La meglio gioventù, spala e scava. La meglio gioventù sta tra fango e macerie, la trovi là, a donare il proprio sangue, non la cercate nelle rivolte di piazza, i tempi cambiano. Non la cercate in un bonifico, è squattrinata, né a chiedere un mutuo o nei parchi, nei villaggi vacanze, tra le tette della donna o negli aeroporti verso l’estate arrembante; neanche nelle sezioni di partito. Non esistono più.Che la terra abbia tremato o si sia sciolta come il pianto dei disperati, la gioventù d’Italia ha risposto all’appello. Una corsa, vera, che fotografa i tempi. Non c’è colore, né distinzione. Un minimo comune multiplo, una linea di continuità, non esclusivamente tappe di un unico dolore. Tra drammi incredibili che piegano i rami carichi di una quercia stanca in mezzo al Mediterraneo. Tra drammi che sono, però, un segnale che incarna una speranza da non sottovalutare, rappresentano un esempio. Se il divenire storico vuole etichettare i propri eventi per ricordare dove li aveva messi, allora forse, ci siamo. Forse sarà questo che identificherà la “Generazione Duemila”, quella dei millenials – ufficialmente buona a nulla, lobotomizzata su un divano, costretta a pensarla alla stessa maniera, a frequentare vernissage o a fraternizzare con le Ong, a dimenticare davanti alla Playstation, annichilita e vecchia tuffarsi in un tormentone per avere un’overdose di vitalità, costretta a morire intirizzita ancora prima dei vent’anni – che come un milite ignoto, esiste senza un nome, un cognome, un volto. Allora sarà questo agire spontaneo e ripetuto che potrebbe offrirle un appellativo, fornendole una carta d’identità agli occhi della storia, come prima d’essa, ogni blocco generazionale.Tragedie in cui i giovani italiani c’erano, al pieno della loro gioventù, delle loro braccia forti e di un cuore pulsante. Come nel lontano 1966, con l’Inghilterra, per la prima ed unica volta, campione del mondo e Firenze sotto strati d’acqua e miseria, si rivedono i fanti della dignità. Volontari. Ragazzi e ragazze, figli della normalità, con i jeans sporchi ed i calli alle mani, come i loro padri. Con la divisa gialla e blu, con quella rossa. Una cordata che va oltre il senso bigotto e populista di solidarietà, un esercito armato di pala e piccone che supera le mode ed accorre, si scrolla da dosso la muffa da annichilimento ed accorre, lascia a casa fidanzata e genitori, curriculum, portfolio, disoccupazione ed accorre. Nessuna santificazione in un estasi di Gloria, piuttosto un segnale di vita: i giovani d’Italia ci sono. Spicca un ritorno all’origine che ossigena le anime e rinvigorisce la coscienza nazionale. Si torna a vedere esempi puliti tra i pezzi di case venuti giù come un apocalisse di stelle cadenti. Come per L’Aquila, l’Emilia Romagna, Genova, Amatrice e per tante altre ferite, c’erano i volontari della Protezione Civile, della Croce Rossa Italiana, con le proprie divise, le chiamate a casa per rassicurare ed i panini a pranzo e cena tra una tenda da montare e brandelli di muro da buttar via.Dunque occorre necessariamente riflettere. Proprio come i coetanei classe ’66, divisi tra rivoluzioni culturali, pantaloni a zampa e capigliature alla Paul McCartney, anche i nostri, noti alle cronache per essere figli mai liberi della crisi di un’epoca, dei valori, dell’etica e del buon senso, lavoratori a prestazione gratuita, senza speranza, senz’arte né parte, tormentoni o stereotipi, bendati verso il futuro, stanno raggiungendo la redenzione agli occhi della storia? Forse l’emblema della Generazione Duemila potrà essere proprio il cuore grande, che va oltre ogni cosa, oltre il nichilismo, la velocità siderale, la plastica, il denaro, l’ingozzamento dei nostri tempi? Forse l’appellativo di questa generazione sarà “volontaria”. Potremmo pensare di ricordare, prima di sprofondare nell’oblio da Tablet sul divano, la generazione degli anni ’10 come i ragazzi del soccorso, la “Generazione Duemila”, quella dei volontari. E per pietà, non copriate ciò che vuole andare oltre con nessuna passerella elettorale, con nessuna passeggiata mediatica.(Emanuele Ricucci, “La meglio gioventù sta tra le macerie – la Generazione Duemila, quella dei volontari”, dal blog “Contraerea” su “Il Giornale” del 26 agosto 2016).Ero a L’Aquila, come volontario. Pareva il fronte. Un veneto di ventotto anni mi passava le brande da campo, mentre un toscano ed io, le posizionavamo dentro la tenda, qualificati da anni di corsi ed esercitazioni. Eravamo stanchi insieme; nei giorni passati tra le macerie, fusi nel nostro essere italiani. Contrariamente al pensiero comune, fratello è chi parla la mia lingua, riconosce il mio confine e condivide la mia tragedia. Amico è tutto il resto. Sardi, veneti, laziali, toscani. Liceali, universitari, disoccupati, già sposati. Giovanotti già dati per dispersi nelle pagine della storia. L’Aquila, Emilia Romagna, Genova. Amatrice. Centro Italia. La meglio gioventù, spala e scava. La meglio gioventù sta tra fango e macerie, la trovi là, a donare il proprio sangue, non la cercate nelle rivolte di piazza, i tempi cambiano. Non la cercate in un bonifico, è squattrinata, né a chiedere un mutuo o nei parchi, nei villaggi vacanze, tra le tette della donna o negli aeroporti verso l’estate arrembante; neanche nelle sezioni di partito. Non esistono più.
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Hillary o Trump, l’agenda del dopo-Obama la detta l’élite
Sta’ a vedere che alla fine vince Trump. Ma non “da solo contro tutti”, bensì appoggiato da una poderosa quota di establishment, in base a un piano preciso: la rinascita industriale degli Usa, rimpatriando le imprese delocalizzate, e il patto con la Russia di Putin per il rialzo del prezzo del petrolio, che converrebbe a entrambi e ai loro alleati, a cominciare dai sauditi. Lo scrive Pepe Escobar, cogliendo informazioni riservate provenienti dallo staff elettorale di Trump. Punto di partenza, la crescente insofferenza (anche di parte dell’élite) nei confronti della Clinton, vista come “protesi” di Wall Street. «Potenti interessi economici che supportano con discrezione Trump – lontano dal circo mediatico – sono convinti che questi sia in possesso della mappa per giungere alla vittoria», scrive Escobar. Il messaggio vincente? La denuncia della distruzione del comparto industriale statunitense e il crollo dei salari dovuto all’importazione illegale di lavoro «da nazioni dove gli stipendi valgono una manciata di dollari». Di mezzo c’è anche l’industria bellica, esportata oltre il Pacifico, cioè in zone controllate da russi e cinesi. Industrie che «vanno rimpatriate immediatamente».Quindi, scrive Escobar in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, Trump dovrebbe sfruttare il messaggio che il credito bancario vada legato alla ricostruzione della moribonda industria statunitense, «alzando i dazi o sfruttando i cambi di valuta». I sostenitori di Trump puntano il dito contro il credito bancario: «Non dovrebbe essere utilizzato per facilitare la manipolazione dei valori delle Borse. Non dovrebbe esserci credito per la speculazione e assolutamente per gli hedge fund. Bisogna sbarazzarsi di questi mezzi speculativi alzando le tasse sugli introiti a breve termine dati dal trading, interrompendo i vantaggi fiscali sui prestiti e bloccando il credito a favore della speculazione». Questo spiega bene l’avversione viscerale di Wall Street nei confronti di Trump, da Bloomberg a Lloyd Blankfein, il boss di Goldman Sachs. «Chiunque conosca Wall Street – scrive Escobar – sa bene che ogni mercato, ogni bene e ogni indice viene manipolato da grossi movimenti di fondi». I sostenitori di Trump insediati a New York indicano i veri avversari da abbattere: «Dovremmo fare in modo che i Carl Icahan e i George Soros si trovino un vero lavoro, ultratassando i loro profitti derivanti da speculazione».E insistono: «In questa nazione ci servono gli Henry Ford che creino industrie, non i saccheggiatori di Wall Street che si arricchiscono come hanno fatto nel 2008, per poi ritrovarsi a utilizzare il loro peso per far coprire i buchi alla politica, mentre milioni di cittadini venivano buttati fuori dalle loro case». Secondo questa tabella di marcia, la lotta all’immigrazione illegale e alle speculazioni finanziarie creerebbe un “rinascimento industriale” negli Usa, per ricostruire tutte le Detroit che stanno andando allo sfascio. La strategia: «Sostituire milioni di lavoratori immigrati con milioni di disoccupati statunitensi», che sarebbero almeno il 23% della popolazione adulta. Alcune di queste idee sono già entrate nel programma economico annunciato da Trump, aggiunge Escobar. Ce la farà? I sondaggi puntano ancora alla Clinton, ma i sostenitori di Trump non si fidano, dicono che sono manipolati. E poi c’è l’isteria anti-russa che ormai galoppa. Hillary ha paragonato Putin a Hitler, mentre Trump ripete di essere pronto a fare affari con Mosca, cominciando con un’azione congiunta per sbarazzarsi dell’Isis. Falso problema, la Russia: chiunque sarà alla Casa Bianca dopo Obama, farà davvero un accordo strategico coi russi.Lo afferma «una fonte vicina ai piani dei Veri Padroni dell’Universo», riferisce Escobar. Fonte che va dritta al punto: «Per quanto riguarda la Russia, la decisione viene dall’alto, dove è in corso la battaglia. La decisione viene presa sopra le teste di Hillary e Donald: se Hillary verrà eletta le verrà imposto di riprendere i contatti, in caso così venga deciso. Se vincerà Trump è semplice. In caso non venisse eletto, allora la mancata elezione verrà comunque utilizzata come catalizzatore per un cambio di politica nei confronti della Russia. La vera guerra è dietro le quinte». Così come per le manipolazioni sulle valute, che «verranno impedite», e per la fine della “guerra del petrolio”, venduto finora a prezzi stracciati per colpire la Russia. Come dicono i sostenitori di Trump, «è un obiettivo nazionale degli Usa, perché un valore di mercato più alto renderebbe gli Stati Uniti stessi indipendenti dal punto di vista energetico. Ciò è parte significativa della rivoluzione di Trump». Secondo fonti vicine alla leadership dell’Arabia Saudita, aggiunge Escobar, sauditi e russi hanno già avviato un pre-negoziato sulla crescita del prezzo del greggio fino ai 100 dollari al barile. Il Pentagono non potrebbe opporsi, perché, dice un sostenitore di Trump, «è negli interessi del complesso militare-industriale raggiungere l’obiettivo di una totale indipendenza energetica e rimpatriare tutte le industrie belliche sul territorio nazionale».Escobar non si sbilancia: «Non ci sono prove che questo programma tanto ambizioso e controverso possa essere venduto agli strateghi di Jp Morgan o ai fratelli Koch. Trump che crea un partito trasversale o addirittura un movimento che trascenda i partiti potrà funzionare solo se membri di peso delle élite di potere lo sosterranno, altrimenti è impossibile che ciò accada». Quello che invece continua senza sosta è «una campagna di disinformazione di massa, un bel remix delle valanghe antisovietiche della prima guerra fredda: la Macchina dei Media della Clinton sta addirittura attaccando Michael Flynn, ex capo della Dia, che supporta Trump», dopo aver sostenuto che Obama e la Clinton erano fondatore e co-fondatrice dell’Isis. La situazione, oggi: «Trump non sta raccogliendo abbastanza denaro per controbilanciare l’incredibile macchina dei soldi della Clinton». Se invece vincerà “The Donald”, vorrà dire che “qualcuno” l’avrà aiutato in modo determinante. Il vero potere, quello a cui il premier britannico Benjamin Disraeli alluse parlando con il nipote: «Vedi, mio caro Coningsby, il mondo è governato da personaggi molto differenti da quelli che si immagina chi non sta dietro le quinte».Sta’ a vedere che alla fine vince Trump. Ma non “da solo contro tutti”, bensì appoggiato da una poderosa quota di establishment, in base a un piano preciso: la rinascita industriale degli Usa, rimpatriando le imprese delocalizzate, e il patto con la Russia di Putin per il rialzo del prezzo del petrolio, che converrebbe a entrambi e ai loro alleati, a cominciare dai sauditi. Lo scrive Pepe Escobar, cogliendo informazioni riservate provenienti dallo staff elettorale di Trump. Punto di partenza, la crescente insofferenza (anche di parte dell’élite) nei confronti della Clinton, vista come “protesi” di Wall Street. «Potenti interessi economici che supportano con discrezione Trump – lontano dal circo mediatico – sono convinti che questi sia in possesso della mappa per giungere alla vittoria», scrive Escobar. Il messaggio vincente? La denuncia della distruzione del comparto industriale statunitense e il crollo dei salari dovuto all’importazione illegale di lavoro «da nazioni dove gli stipendi valgono una manciata di dollari». Di mezzo c’è anche l’industria bellica, esportata oltre il Pacifico, cioè in zone controllate da russi e cinesi. Industrie che «vanno rimpatriate immediatamente».
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Hitlery Clinton, dalla guerra fredda all’ecatombe atomica
La Guerra Fredda iniziò durante l’amministrazione Truman e durò durante le amministrazioni Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Ford e Carter. Terminò col secondo mandato di Reagan, quando lui e Gorbachev trovarono un accordo sul fatto che il conflitto era pericoloso, costoso e inutile. La Guerra Fredda però non cessò per molto tempo – la tregua durò solo dal secondo mandato di Reagan al mandato di George H. W. Bush [padre]. Negli anni ’90 il presidente Clinton riavviò la Guerra Fredda infrangendo la promessa che l’America aveva fatto di non espandere la Nato nell’Europa dell’est. George W. Bush [figlio] riattizzò la nuova Guerra Fredda ritirando gli Stati Uniti dal Trattato Abm (anti missili balistici), e Obama proseguì su quella via con una retorica irresponsabile, posizionando i missili statunitensi a ridosso del confine russo e appoggiando il rovesciamento del governo ucraino. La Guerra Fredda fu una creazione di Washington. È stato il lavoro dei fratelli Dulles. Allen era a capo della Cia, John Foster era Segretario di Stato, posizioni che essi detennero per lungo tempo.I fratelli Dulles avevano degli interessi personali nella Guerra Fredda. Usarono la Guerra Fredda per difendere gli interessi dei clienti del loro studio legale e per aumentare il potere e il bilancio legato alle loro posizioni all’interno del governo. È decisamente interessante essere gli incaricati della politica estera e delle attività segrete durante periodi pericolosi. Ogni volta che un governo democratico riformista appariva in America Latina, i fratelli Dulles lo vedevano come una minaccia alle partecipazioni azionarie che i clienti del loro studio legale avevano in quel dato paese. Queste partecipazioni, talvolta acquisite tramite tangenti versate a governi non democratici, dirottavano le ricchezze e le risorse dei diversi paesi verso mani americane, e l’obiettivo dei fratelli Dulles era proprio di continuare a fare in modo che fosse così. Il governo riformista veniva a quel punto definito marxista o comunista, e la Cia e il Dipartimento di Stato collaboravano per rovesciarlo e riportare al potere qualche dittatore compiacente a Washington. La Guerra Fredda era insensata, eccetto che per gli interessi dei Dulles e del complesso militare.Il governo sovietico, al contrario del governo americano di oggi, non aveva aspirazioni all’egemonia globale. Stalin aveva dichiarato la dottrina del “socialismo in un solo paese” e si era liberato dei trotskysti, che volevano una rivoluzione a livello mondiale. Il comunismo in Cina e nell’Europa dell’est non erano prodotti dal comunismo internazionale sovietico. Mao era il padrone di se stesso, e l’Unione Sovietica mantenne l’Europa dell’est, che l’Armata Rossa aveva liberato dai nazisti, come zona cuscinetto contro un Occidente ostile. A quei tempi il termine “red scare” [“paura rossa”] era usata un po’ come la “paura del terrorismo musulmano” oggi – per spingere l’opinione pubblica ad allinearsi a un certo programma che non capisce, e senza che ci sia un dibattito. Considerate la costosa guerra in Vietnam, per esempio. Ho Chi Minh era un anticolonialista che guidava un movimento nazionalista. Non era un agente del comunismo internazionale, ma John Foster Dulles lo rese tale e disse che Ho Chi Minh doveva essere fermato o ci sarebbe stato un “effetto domino” che avrebbe portato alla caduta di tutto il sud-est asiatico verso il comunismo. Il Vietnam vinse la guerra e non lanciò affatto l’aggressione al sud-est asiatico che Dulles aveva previsto.Ho Chi Minh aveva implorato sostegno dal governo Usa contro il potere coloniale francese che dominava l’Indocina. Di fronte ad un rifiuto, Ho Chi Minh si rivolse alla Russia. Se Washington avesse semplicemente fatto presente al governo francese che il tempo del colonialismo era finito e la Francia doveva andarsene dall’Indocina, si sarebbe evitato il disastro della guerra in Vietnam. Ma gli spauracchi delle minacce inventate servivano ai gruppi d’interesse ieri come oggi, e Washington, come molti altri, fu succube dei propri mostri immaginari. La Nato non serviva perché non c’era nessun pericolo di un’invasione dell’Armata Rossa verso l’Europa occidentale. Il governo sovietico aveva già abbastanza problemi ad occuparsi dell’Europa dell’est e delle sue popolazioni ribelli. L’Unione Sovietica si trovò alle prese con una sollevazione nella Germania dell’Est nel 1953, poi in Polonia e Ungheria nel 1956, e poi da parte dello stesso partito comunista in Cecoslovacchia nel 1968. L’Unione Sovietica aveva sofferto un’enorme perdita demografica nella Seconda Guerra Mondiale e aveva bisogno di tutta la forza lavoro che le restava per la ricostruzione post-bellica. Era ben oltre le capacità sovietiche occupare l’Europa occidentale dopo avere occupato quella orientale.I partiti comunisti in Francia e in Italia erano forti nel periodo post-bellico, e Stalin poteva sperare che un governo comunista in Francia o in Italia spezzasse l’impero europeo stabilito da Washington. Questa speranza fu cancellata dalla Operazione Gladio. La Guerra Fredda ci fu perché serviva agli interessi dei fratelli Dulles e al potere e ai profitti del complesso militare. Non c’erano altre ragioni per la Guerra Fredda. La nuova Guerra Fredda è ancora più insensata della precedente. La Russia stava cooperando con l’Occidente, l’economia russa è integrata con quella occidentale come fornitore di materie prime. La politica economica neoliberale che Washington è riuscita a far implementare al governo russo era orientata a mantenere l’economia russa nel ruolo di fornitore di materie prime verso l’Occidente. La Russia non aveva espresso alcuna ambizione di ampliamento territoriale e aveva investito molto poco in spese militari. La nuova Guerra Fredda è il prodotto di una manciata di fanatici neoconservatori che credono che la storia abbia scelto gli Stati Uniti come potere egemone sul mondo intero. Alcuni di questi neocon sono figli di ex-trotskysti che hanno la stessa idea romantica di rivoluzione mondiale, solo che questa volta sarebbe una rivoluzione “democratico-capitalista” e non comunista.La nuova Guerra Fredda è ben più pericolosa della precedente, perché le rispettive dottrine di guerra delle potenze nucleari sono cambiate. La funzione delle armi nucleari non è più quella di rappresaglia. La certezza di una distruzione reciproca era la garanzia che quelle armi non sarebbero state usate. Nella nuova dottriva di guerra, le armi nucleari sono state elevate a strumento di attacco preventivo. Washington ha fatto questo passo per prima, costringendo la Russia e la Cina a seguirla. La nuova Guerra Fredda è ancora più pericolosa per un altro motivo. Durante la prima Guerra Fredda, i presidenti americani si concentravano sulla riduzione delle tensioni tra le potenze nucleari. Ma oggi Clinton, George W. Bush e Obama hanno fatto aumentare drammaticamente le tensioni. William Perry, segretario alla Difesa nell’amministrazione Clinton, ha parlato recentemente di pericoli di guerre nucleari lanciate per errore a causa di difetti nei circuiti dei computer.Per fortuna, quando situazioni di questo genere si sono verificate in passato, l’assenza di tensioni nelle relazioni tra potenze nucleari ha fatto in modo che le autorità delle due parti riconoscessero i falsi allarmi. Oggi però, con le continue accuse di imminenti invasioni russe, la demonizzazione di Putin come “nuovo Hitler”, e l’incremento delle forze militari Usa e Nato attorno ai confini russi, i falsi allarmi rischiano di essere creduti. La Nato ha cessato il suo scopo quando è crollata l’Unione Sovietica. Però ormai troppe carriere, troppi soldi a bilancio e troppi profitti sugli armamenti dipendenvano dalla Nato. I neoconservatori allora presero la Nato come un pretesto politico e un ausilio militare per le proprie ambizioni egemoniche. Lo scopo della Nato oggi è di coinvolgere tutta l’Europa nei crimini di guerra statunitensi. Dato che sono tutti colpevoli, i governi europei non possono più rivoltarsi contro Washington e accusare gli americani di crimini di guerra.Le altre voci in campo sono troppo deboli per avere delle conseguenze. Nonostante i suoi tanti crimini contro l’umanità, l’Occidente è ancora nella posizione di “luce del mondo”, difensore della verità, della giustizia, dei diritti umani, della democrazia e delle libertà individuali. Questa reputazione resiste nonostante la distruzione della Dichiarazione dei Diritti Usa e la repressione dello stato di polizia. L’Occidente non rappresenta affatto i valori che il mondo è stato forzato (col lavaggio del cervello) a credere che siano associati all’Occidente. Per dirne una, non c’era alcun motivo di attaccare con le armi atomiche i civili nelle città giapponesi, nel 1945. Il Giappone stava cercando di arrendersi e stava solo resistendo alla richiesta Usa di una resa incondizionata al fine di salvare il proprio imperatore dall’esecuzione per crimini di guerra, sui quali egli non aveva controllo. Come i sovrani britannici oggi, l’imperatore del Giappone non aveva potere politico ed era solo simbolo di unità nazionale. I condottieri giapponesi avevano paura che l’unità giapponese si sarebbe dissolta se l’imperatore, simbolo di quell’unità, fosse stato deposto.Certo, gli americani erano troppo ignoranti per capire la situazione, e così il piccolo Truman, che per tutta la vita era stato canzonato come una nullità, si glorificò del proprio potere e fece sganciare le bombe. Le bombe atomiche gettate sul Giappone erano potenti. Ma le bombe all’idrogeno che sono venute dopo sono ancora più potenti. L’uso di tali armi potrebbe distruggere la vita sulla Terra. Donald Trump ha detto ha detto l’unica cosa su cui sperare in tutta la campagna presidenziale. Ha messo in discussione la Nato e il conflitto orchestrato con la Russia. Non sappiamo se possiamo credergli e se un suo eventuale governo seguirebbe questa direzione. Ma sappiamo che “Hitlery” [neologismo che unisce il nome di Hillary Clinton a Hitler, NdT] è una guerrafondaia, un agente dei neoconservatori, del complesso militare, della lobby israeliana, delle banche “troppo grandi per fallire”, di Wall Street, e di qualsiasi interesse estero che dà mega-milioni di dollari di donazioni alla fondazione Clinton o un quarto di milione di dollari per un suo discorso.“Hitlery” ha dichiarato che il presidente russo è la più grande minaccia – il “nuovo Hitler”. Si potrebbe essere più chiari di così? Un voto a “Hitlery” è un voto per la guerra. Nonostante questo sia più che ovvio, i media statunitensi, a reti unificate, stanno facendo tutto ciò che è in loro potere per abbattere Trump e far eleggere “Hitlery”. Tutto ciò cosa ci dice sull’intelligenza del “Unipower”, “l’unica superpotenza del mondo”, il “popolo indispensabile”, la “nazione eccezionale”? Ci dice che sono scemi come la m**da. Gli americani, creature della “Matrix” creata dai loro propagandisti, vedono minacce immaginarie e non vedono quelle reali. Ciò che i russi e i cinesi vedono è un popolo troppo indottrinato e ignorante per essere di alcun aiuto nella pace. Vedono la guerra che arriva e si stanno preparando.(Paul Craig Roberts, “Ripensare la guerra fredda”, dal blog di Craig Roberts dell’11 agosto 2016, tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”. Economista e autorevole editorialista statunitense, Roberts è stato sottosegretario al Tesoro di Ronald Reagan).La Guerra Fredda iniziò durante l’amministrazione Truman e durò durante le amministrazioni Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Ford e Carter. Terminò col secondo mandato di Reagan, quando lui e Gorbachev trovarono un accordo sul fatto che il conflitto era pericoloso, costoso e inutile. La Guerra Fredda però non cessò per molto tempo – la tregua durò solo dal secondo mandato di Reagan al mandato di George H. W. Bush [padre]. Negli anni ’90 il presidente Clinton riavviò la Guerra Fredda infrangendo la promessa che l’America aveva fatto di non espandere la Nato nell’Europa dell’est. George W. Bush [figlio] riattizzò la nuova Guerra Fredda ritirando gli Stati Uniti dal Trattato Abm (anti missili balistici), e Obama proseguì su quella via con una retorica irresponsabile, posizionando i missili statunitensi a ridosso del confine russo e appoggiando il rovesciamento del governo ucraino. La Guerra Fredda fu una creazione di Washington. È stato il lavoro dei fratelli Dulles. Allen era a capo della Cia, John Foster era Segretario di Stato, posizioni che essi detennero per lungo tempo.
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Ma quest’Europa è da cestinare: partiti, prendetene atto
Non basta l’evocazione di Ventotene per resuscitare il sogno europeo, messo nero su bianco dall’antifascista Altiero Spinelli, insieme a Ernesto Rossi e Ursula Hirschmann, con prefazione di Eugenio Colorni. Doveva essere l’antidoto naturale contro gli opposti appetiti truccati da nazionalismi. Né basta una location tutt’altro che casuale – il ponte della portaerei Garibaldi, nave intitolata all’eroe cosmopolita dell’unificazione italiana – per dare credibilità alle promesse di Angela Merkel, François Hollande e Matteo Renzi. «Il meeting ha voluto provare al mondo che il “sogno europeo” non è morto e che andrà avanti, nonostante il Brexit». Eppure, scrive Marco Moiso, quelli che oggi si dicono protettori del progetto europeo «rischiano di diventare i carnefici del sogno europeo a causa della loro palesata incapacità di capire il significato, profondo, che quel sogno ha e potrebbe avere per il popolo europeo». Ovvero, il sogno di Spinelli: «Un’unione federale delle nazioni europee, gli Stati Uniti d’Europa, volta a creare una società libera dalla paura, dal bisogno e dalle costrizioni, in cui ci sia uguaglianza nelle opportunità di realizzazione personale e collettiva, e in cui sia diffuso un senso di fratellanza che vada oltre la diversità di razze, nazionalità e religioni».Vale a dire: l’esatto opposto del “mostro tecnocratico” rappresentato oggi dall’Ue, che per Moiso – esponente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi – va assolutamente archiviato e superato, varando una vera federazione paritaria da realizzare a qualsiasi costo, «tramite un’evoluzione dell’attuale Unione Europea o tramite la sua dissoluzione». Nulla di simile è in vista, però, stando alle velleitarie conversazioni che hanno avuto luogo a Ventotene, dove sono emerse soltanto proposte «contingenti al contesto politico attuale e completamente incapaci di ridisegnare il progetto europeo, per ridargli senso e finalità». Se infatti «è auspicabile identificare un gruppo di nazioni disposte a proseguire verso una federazione degli Stati europei», partendo quindi dai partner di maggior peso come appunto Francia, Italia e Germania, «non è certo con i temi dell’esercito, della difesa e del rigore finanziario che si possono riaccendere gli animi per far ripartire il processo di unificazione europea».L’unione federale delle nazione europee è un progetto ambizioso, insiste Moiso, «ed è con ambizione che bisogna affrontarlo, senza cedere a particolarismi nazionali e comprendendo la necessità e l’opportunità, nel 21° secolo, di un’unione politica, economica e sociale del vecchio continente». I futuribili Stati Uniti d’Europa? «Dovranno essere capaci di restituire dignità (economica e sociale) e sovranità (politica) al popolo europeo, rimettendo l’uomo al centro del confronto politico e ridando al Parlamento continentale – eletto tramite suffragio universale – il ruolo di legislatore, di fulcro del processo integrativo e della governance complessiva dell’Europa: ruolo oggi usurpato malamente dalla Commissione Europea e sciaguratamente da una Banca Centrale Europea asservita ad interessi privati». Soltanto attraverso una completa ridefinizione del ruolo e delle finalità degli “Stati Uniti d’Europa”, conclude Moiso, «il 21° secolo potrà vedere un’ulteriore evoluzione della società in senso democratico ed egualitario, su scala globale».Organismo meta-partitico sorto per sollecitare il “risveglio” dei partiti sui temi più strategici, il Movimento Roosevelt proprone «l’apertura di un cantiere, trasversale alle identità partitiche e movimentiste, che avrà la finalità di riscrivere la Costituzione Europea per rilanciare un progetto sinceramente democratico e social-liberale». Imposta come un approdo istituzionale necessario e non negoziabile, l’attuale Ue – rivelatasi un formidabile strumento di controllo geopolitico per ingabbiare l’Europa, bloccando lo sviluppo delle relazioni con Mosca dopo la caduta del Muro – è stata in realtà progettata come una struttura autoritaria e antidemocratica: un comitato d’affari dove migliaia di lobbisti condizionano la Commissione, le cui direttive – scritte sotto dettatura – esaudiscono i voleri delle maggiori multinazionali. Il capolavoro dell’Ue consiste nell’aver demolito la sovranità democratica neutralizzando l’autonomia finanziaria degli Stati, obbligati – con l’euro – a ricorrere al mercato anche per rifornirsi di moneta, strumento indispendabile per la pianificazione strategica dell’economia. E’ la morte dell’interesse pubblico, come spiega Paolo Barnard: lo Stato è costretto a ricorrere e prestiti, esattamente come fosse una famiglia o un’azienda.E senza più la minima capacità di investire, utilizzando lo strumento-chiave del deficit positivo (il debito pubblico che ha permesso lo sviluppo del dopoguerra, del quale stiamo ancora beneficiando – infrastrutture, servizi) lo Stato è costretto a tagliare e privatizzare i settori vitali del welfare e a super-tassare il settore privato, aggravando la crisi, come più volte sottolineato da economisti indipendenti del calibro di Nino Galloni: se persino la moneta è “privatizzata”, cioè non più a disposizione del bilancio in modo teoricamente illimitato, si innesca una spirale depressiva che si traduce nel disastro economico che stiamo vivendo, di cui – in ultima analisi – è vittima anche lo Stato, che vede costantemente diminuire il gettito fiscale, nonostante l’aumento esasperante delle imposte. L’Europa sta rischiando grosso: l’allarme viene dalla catastrofe della disoccupazione, dal Brexit, dall’emergere della protesta attraverso il crescente consenso popolare di cui godono i nuovi movimenti nazionalisti, ostili alla gestione monopolitica del potere da parte di Bruxelles. Riscrivere le regole, da zero: mission impossibile? L’ostacolo enorme è rappresentato dalla super-piramide del potere finanziario, il vero padrone dell’Ue. Primo passo, per il Movimento Roosevelt: cominciare almeno a “costringere” i partiti a prendere atto che, così, non si può più andare avanti.Non basta l’evocazione di Ventotene per resuscitare il sogno europeo, messo nero su bianco dall’antifascista Altiero Spinelli, insieme a Ernesto Rossi e Ursula Hirschmann, con prefazione di Eugenio Colorni. Doveva essere l’antidoto naturale contro gli opposti appetiti truccati da nazionalismi. Né basta una location tutt’altro che casuale – il ponte della portaerei Garibaldi, nave intitolata all’eroe cosmopolita dell’unificazione italiana – per dare credibilità alle promesse di Angela Merkel, François Hollande e Matteo Renzi. «Il meeting ha voluto provare al mondo che il “sogno europeo” non è morto e che andrà avanti, nonostante il Brexit». Eppure, scrive Marco Moiso, quelli che oggi si dicono protettori del progetto europeo «rischiano di diventare i carnefici del sogno europeo a causa della loro palesata incapacità di capire il significato, profondo, che quel sogno ha e potrebbe avere per il popolo europeo». Ovvero, il sogno di Spinelli: «Un’unione federale delle nazioni europee, gli Stati Uniti d’Europa, volta a creare una società libera dalla paura, dal bisogno e dalle costrizioni, in cui ci sia uguaglianza nelle opportunità di realizzazione personale e collettiva, e in cui sia diffuso un senso di fratellanza che vada oltre la diversità di razze, nazionalità e religioni».
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Isis, cioè turchi e sauditi: guerra in Siria per un gasdotto
Lo sapevate che Steve Jobs, il guru della Apple, era figlio di un siriano immigrato negli Usa negli anni ‘50? E che il presidente Assad ha un consenso democratico superiore a quello di Obama? E ancora: chi sapeva che la principale fonte dei media occidentali sul conflitto siriano è un negozio di magliette in Inghilterra? «Non è uno scherzo», assicura “TheAntiMedia.org”. «Se seguite le notizie è probabile che abbiate sentito i media parlare di un’entità grandiosamente definita “Osservatorio Siriano per i Diritti Umani” (“Syrian Observatory for Human Rights”, Sohr)». Ebbene, questo cosiddetto “osservatorio” è gestito da una sola persona nella propria casa, a Coventry, a migliaia di chilometri di distanza dal conflitto siriano. «Eppure è definito come la fonte più rispettata dai media occidentali: “Bbc”, “Reuters”, “Guardian”». Le credenziali di questa persona? «Consistono nell’essere proprietario di un negozio di magliette nella stessa via della propria casa, nonché di essere un noto dissidente dell’attuale presidente siriano». E questa è solo una delle tante cose che i media mainstream non raccontano, del conflitto in Siria. Dove, a innescare la guerra, è stato il rifiuto di Assad di concedere il proprio territorio per un gasdotto che avrebbe collegato Arabia Saudita e Turchia.Lo scrive Darius Shahtahmasebi, in un post ripreso da “Zero Hedge” e rilanciato da “Voci dall’Estero” per illuminare le clamorose falle della narrazione ufficiale sulla guerra in Siria. Una notizia decisamente irrintracciabile, su giornali e televisioni, è il tasso di popolarità di Bashar Assad: «Dall’inizio del conflitto nel 2011 – scrove Shahtahmasebi – Assad ha sempre mantenuto il sostegno della maggioranza del suo popolo. Le elezioni del 2014 – dove Assad ha ottenuto una vittoria schiacciante, e osservatori internazionali hanno dichiarato che non ci sono stati brogli – è la prova del fatto che, sebbene Assad sia stato accusato di gravi violazioni dei diritti umani, continua a mantenere un’ampia popolarità presso il popolo siriano». Obama, dal canto suo, ha vinto le elezioni del 2012 con una maggioranza di appena il 53,6%, e con solo 129 milioni di cittadini recatisi alle urne. «Questo significa che circa 189,8 miliori di americani non hanno votato Obama». Il suo attuale tasso di approvazione è quindi attorno al 50%, inferiore a quello del “dittatore” Assad.Un’autentica barzelletta, continua Shahtahmasebi su “TheAntiMedia.org”, riguarda la famosa “opposizione moderata”: se mai c’è stata, non esiste più. «Il cosiddetto Libero Esercito Siriano sostenuto dall’Occidente è dominato da anni dalle forze estremiste. Gli Usa lo sanno già, eppure hanno continuato a sostenere l’opposizione siriana. Il “New York Times” nel 2012 ha riportato che la maggior parte degli armamenti spediti in Siria finivano nelle mani degli jihadisti». Un report riservato della Dia prediceva l’ascesa dell’Isis nel 2012: «Se la situazione si dipana – recitava testualmente il documento – è possibile che si stabilisca un principato Salafita, sia esso dichiarato o meno, nella Siria orientale. Questo è esattamente ciò che vogliono attualmente le forze dell’opposizione, per isolare il regime siriano». Inoltre, una testimonianza di un comandante del Libero Esercito Siriano mostra non solo l’ammissione che i suoi combattenti partecipano regolarmente ad azioni congiunte con al-Nusra (il braccio siriano di Al-Qaeda), ma anche che lui stesso spera di vedere la Siria governata dalla legge della Sharia.Altra super-montatura, quella dell’uso di armi chimiche da parte del regime nell’agosto 2013, che rischiò di innescare bombardamenti Nato: tra gli altri, un giornalista Premio Pulitzer come Seymour Hersh dimostrò che l’intelligence Usa era perfettamente al corrente dell’uso del gas Sarin da parte dei “ribelli”. Darius Shahtahmasebi ricorda che lo stesso generale Wesley Clark rivelò che, all’indomani dell’11 Settembre, il Pentagono aveva sviluppato un piano per rovesciare, in cinque anni, i governi di sette paesi: oltre alla Siria l’Iraq (invaso nel 2003), il Libano (attaccato da Israele nel 2006), la Libia (distrutta nel 2011), la Somalia (oggi sorvolata dai droni Usa) e il Sudan, smembrato nel 2011 al termine di una sanguinosa guerra civile. Nell’elenco degli Stati da abbattere era compreso anche l’Iran, che con la Siria ha un accordo di reciproca difesa stipulato nel 2005. Gioco pericoloso: con l’Iran sono schierate Russia e Cina. E l’intervento militare russo in Siria «dimostra che queste non sono vane minacce: il loro impegno ha seguito le loro parole».I media raccontano che l’Isis è nato in Siria? Sbagliato: il Califfato è nato come conseguenza dell’invasione statunitense in Iraq, dice Shahtahmasebi. Prima, l’Isis era noto come “Al-Qaeda in Iraq”, ed è diventato importante in seguito all’invasione Nato del 2003. «È ben noto che non c’era alcuna traccia tangibile di Al-Qaeda in Iraq prima di quella invasione, e per un motivo ben preciso: quando Paul Bremer ricevette il ruolo di inviato presidenziale in Iraq nel maggio 2003, dissolse le forze di polizia e l’esercito. Bremer licenziò quasi 400.000 uomini in servizio, tra cui ufficiali militari di alto rango che avevano combattuto nella guerra Iran-Iraq negli anni ’80. Questi ufficiali oggi detengono importanti posizioni all’interno dell’Isis. Se non fosse stato per l’azione statunitense, l’Isis probabilmente non sarebbe mai esistito». I suoi tagliagole oggi «sono diventati fondamentali nel programma occidentale di rovesciamento dei regimi in Libia e in Siria. Quando i vari gruppi iracheni e siriani affiliati ad al-Qaeda si sono uniti lungo il confine siriano nel 2014, ci siamo trovati con il gruppo terroristico che conosciamo oggi».Oltre al ruolo della Turchia di Erdogan nel fornire assistenza di ogni genere all’Isis in Siria, c’è poi un altro fondamentale retroscena: «Turchia, Qatar e Arabia Saudita volevano costruire un gasdotto lungo la Siria, ma Assad ha rifiutato». Ed ecco i guai. La storia comincia nel 2009, quando il Qatar propose di costruire una conduttura lungo la Siria e la Turchia per esportare il gas saudita, scrive Shahtahmasebi. «Assad rifiutò la proposta e formò al contrario un accordo con l’Iran e l’Iraq per costruire una conduttura verso il mercato europeo, che avrebbe tagliato fuori Turchia, Arabia Saudita e Qatar». Da allora, prosegue “TheAntiMedia.org”, questi paesi sono diventati forti sostenitori dell’opposizione siriana che voleva rovesciare Assad. «Complessivamente, hanno investito miliardi di dollari, prestato armamenti, incoraggiato la diffusione del fanatismo ideologico e hanno permesso il passaggio dei combattenti lungo i propri confini». Grazie alla resistenza di Assad sostenuto da Putin, la conduttura Iran-Iraq «rafforzerà l’influenza iraniana nella regione e minerà il suo rivale, l’Arabia Saudita, l’altro grande produttore Opec. Se avrà la capacità di trasportare gas verso l’Europa senza dover passare per gli alleati di Washington, l’Iran guadagnerà potere contrattuale e potrà negoziare accordi di escludano completamente gli Usa e il dollaro». Un mare di soldi: e questo, più di qualunque altro argomento, aiuta a capire meglio lo strano accanimento contro il governo di Damasco.Lo sapevate che Steve Jobs, il guru della Apple, era figlio di un siriano immigrato negli Usa negli anni ‘50? E che il presidente Assad ha un consenso democratico superiore a quello di Obama? E ancora: chi sapeva che la principale fonte dei media occidentali sul conflitto siriano è un negozio di magliette in Inghilterra? «Non è uno scherzo», assicura “TheAntiMedia.org”. «Se seguite le notizie è probabile che abbiate sentito i media parlare di un’entità grandiosamente definita “Osservatorio Siriano per i Diritti Umani” (“Syrian Observatory for Human Rights”, Sohr)». Ebbene, questo cosiddetto “osservatorio” è gestito da una sola persona nella propria casa, a Coventry, a migliaia di chilometri di distanza dal conflitto siriano. «Eppure è definito come la fonte più rispettata dai media occidentali: “Bbc”, “Reuters”, “Guardian”». Le credenziali di questa persona? «Consistono nell’essere proprietario di un negozio di magliette nella stessa via della propria casa, nonché di essere un noto dissidente dell’attuale presidente siriano». E questa è solo una delle tante cose che i media mainstream non raccontano, del conflitto in Siria. Dove, a innescare la guerra, è stato il rifiuto di Assad di concedere il proprio territorio per un gasdotto che avrebbe collegato Arabia Saudita e Turchia.
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Perché gli strateghi dell’orrore hanno tanta paura di Trump
Basta guardare chi “spara” su Trump per convincersi che “The Donald” sia davvero l’unica alternativa possibile alla “guerra infinita”, inaugurata dall’élite Usa all’indomani dell’11 Settembre, casus belli della spaventosa strategia della tensione diffusa senza tregua, a livello internazionale, attraverso sigle che vanno da Al-Qaeda all’Isis, passando per le carneficine in Afghanistan, Iraq, Somalia, Yemen, Libia e Siria. «Nessuno di noi voterà per Trump», hanno annunciato 50 ex funzionari repubblicani della sicurezza nazionale, schierati con la Clinton. Tra questi l’ex direttore della Cia, Michael Hayden, l’ex presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, e il famigerato John Negroponte, grande stratega del terrore in Centramerica, coi finanziamenti occulti ai Contras e l’occultamento degli abusi contro i diritti umani commessi da agenti addestrati dalla Cia in Honduras negli anni ‘80. Per Hillary Clinton, una tifoseria da film dell’orrore. «Non sappiamo perché Trump apprezzi Putin», ha detto Hillary. L’annuncio della Clinton, secondo un analista americano come Stephen Lendman, «spiega molto del perché il partito della guerra degli Stati Uniti stia temendo Trump».Il tycoon col parrucchino ha definito la Nato “obsoleta”? Certo: infatti «può tentare di normalizzare i legami con la Russia». Donald Trump «non è un pacifista, ma difficilmente inizierebbe la Terza Guerra Mondiale», scrive Lendman, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «Comparato alla Clinton, è la minore di due forze oscure. Bisogna dargli merito di volere un riavvicinamento con la Russia e non lo scontro, a condizione che riesca ad andare fino in fondo se eletto presidente». Il suo potenziale spostamento geopolitico, continua Lendman, ha avversari come l’ex direttore Cia, Michael Morell, che lo definisce «un agente inconsapevole della Federazione Russa», e quindi costituisce «una minaccia per la sicurezza nazionale». Aggiunge Lendman: «I neoconservatori come Morell, la Clinton e molti altri che infestano Washington, credono che le iniziative di pace che guadagnano forza rappresentino la più grande minaccia geopolitica all’America – soprattutto se pongono fine agli annosi rapporti contraddittori con la Russia».Per Morell e soci, “The Donald” non è qualificato per gestire la politica estera: «Sarebbe un presidente pericoloso e metterebbe a rischio la sicurezza e il benessere del nostro paese». Secondo i 50 firmatari dell’ultra-destra, autori del manifesto anti-Trump, l’avversario della Clinton «indebolirebbe l’autorità morale degli Stati Uniti come leader del mondo libero», anche prché «ha poca comprensione degli interessi nazionali dell’America, le sue complesse sfide diplomatiche, le sue indispensabili alleanze e dei valori democratici su cui deve basarsi la politica estera degli Stati Uniti». Peggio ancora: «Si complimenta insistentemente con i nostri avversari e minaccia i nostri alleati ed amici». Ergo: «Se arrivasse allo Studio Ovale sarebbe il presidente più sconsiderato della storia americana». Tutto questo, perché crede che la Nato sia “obsoleta” e perchè favorisce la normalizzazione delle relazioni con la Russia. «La massima priorità dell’umanità è di evitare un’altra guerra globale», osserva Lendman. Guerra che, se scoppiasse, «probabilmente sarebbe con armi nucleari e minaccierebbe la sopravvivenza del genere umano».Non è un’ipotesi remotissima: «Le probabilità per l’impensabile sono fin troppo alte per rischiare sotto Hillary, se dovesse succedere ad Obama. Fin dagli anni ‘90 i suoi pessimi primati dimostrano quanto sia una guerrafondaia pazza scatenata, estremamente ostile alla Russia, alla Cina e a tutti gli altri Stati sovrani indipendenti». La conosciamo, Hillary Clinton: «La sua strategia geopolitica preferita è la guerra. È favorevole all’uso di armi nucleari e alle aggressioni della Nato, guidata dagli Stati Uniti, “per preservare il nostro stile di vita”». E Trump? Ha risposto ai firmatari della lettera dicendo che sono «quelli a cui il popolo americano dovrebbe chiedere le risposte sul perché il mondo sia un disastro». Li ringraziamo per essersi fatti avanti, aggiunge Trump, così almeno «chiunque, nel paese, sa a chi dare la colpa di rendere il mondo un posto così pericoloso». Non sono «nient’altro che le élite fallite di Washington che cercano di aggrapparsi al proprio potere».Ha ragione, scrive Lendman: «Molti di loro sono responsabili delle guerre di aggressione pre-e-post 11 Settembre – estremisti anti-pace che dovremmo denunciare tutti». La Clinton? «E’ la scelta dell’establishment come presidente. Probabilmente succederà ad Obama con mezzi leciti o illeciti». Se invece vincesse Trump, a sorpresa, «probabilmente non si discosterà molto dalle tradizionali politiche interne ed estere degli Stati Uniti». Inutile illudersi: «I candidati dicono qualsiasi cosa per farsi eleggere». Ma poi, «una volta in carica, continuano i loro affari sporchi come al solito». Eppure, conclude Lendman, «un’inconcepibile guerra globale è molto più probabile sotto la Clinton che sotto di lui». Ecco perché «è fondamentale contrastare la sua candidatura alla più alta carica della nazione o a qualsiasi altra carica pubblica».Basta guardare chi “spara” su Trump per convincersi che “The Donald” sia davvero l’unica alternativa possibile alla “guerra infinita”, inaugurata dall’élite Usa all’indomani dell’11 Settembre, casus belli della spaventosa strategia della tensione diffusa senza tregua, a livello internazionale, attraverso sigle che vanno da Al-Qaeda all’Isis, passando per le carneficine in Afghanistan, Iraq, Somalia, Yemen, Libia e Siria. «Nessuno di noi voterà per Trump», hanno annunciato 50 ex funzionari repubblicani della sicurezza nazionale, schierati con la Clinton. Tra questi l’ex direttore della Cia, Michael Hayden, l’ex presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, e il famigerato John Negroponte, grande stratega del terrore in Centramerica, coi finanziamenti occulti ai Contras e l’occultamento degli abusi contro i diritti umani commessi da agenti addestrati dalla Cia in Honduras negli anni ‘80. Per Hillary Clinton, una tifoseria da film dell’orrore. «Non sappiamo perché Trump apprezzi Putin», ha detto Hillary. L’annuncio della Clinton, secondo un analista americano come Stephen Lendman, «spiega molto del perché il partito della guerra degli Stati Uniti stia temendo Trump».