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Magaldi: carabinieri, massoneria e democrazia-fantasma
Il generale Leonardo Gallitelli «graziosamente indicato da Berlusconi» come suo eventuale successore, se perdurasse l’ostracismo della pessima legge Severino che impedisce al Cavaliere di ricandidarsi? «Ci risiamo, con la retorica della brava persona estranea alla politica: non conosco il generale Gallitelli, ma so che non ci servono onesti incompetenti. Al contrario, occorrono politici a tutto tondo, ben preparati al vero, grande scontro che può salvare l’Italia, quello con Bruxelles». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e promotore del futuro Pdp, Partito Democratico Progressista, invoca il ritorno alla democrazia sostanziale, la cui assenza sta producendo danni devastanti a ogni livello: politico, economico e sociale. «Non ho mai risparmiato critiche a Berlusconi, perché non ha neanche mai provato ad attuare le riforme liberali che aveva promesso», premette Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”. «Gli auguro sinceramente di poter tornare in campo, ma in modo democratico: accettando cioè di confrontarsi con Salvini e la Meloni». Regolari primarie, insomma: «E’ giusto che sia il popolo del centrodestra a scegliersi finalmente il candidato che preferisce». Senza per questo farsi troppe illusioni: «Come Berlusconi, anche la Lega e An hanno già governato a lungo, non riuscendo a risolvere né il problema immigrazione né il rapporto con l’Ue, attualmente ostaggio di eurocrati che si dicono europeisti ma sono i veri nemici dell’Europa».Pur di evitare le primarie, Berlusconi evoca la candidatura di un generale dei carabinieri? Non è il solo a utilizzare il prestigio dell’Arma in chiave elettorale: l’hanno fatto anche Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa chiamando il generale Nicolò Gebbia a presentare il progetto della loro “Lista del Popolo”, definita anche “La Mossa del Cavallo” e ribattezzata da Magaldi “la Mossa del Somaro”, con allusione ai portatori d’acqua («i somari, appunto») cui toccherebbe mettere in piedi liste in tutta Italia, in pochissime settimane, «lasciando però l’ultima parola agli autoproclamati leader, di fatto padroni di ogni decisione». Il generale Gebbia, intanto, denuncia il ruolo occulto della massoneria nella politica: lascia anche intendere di esser stato messo da parte, nei ranghi dell’Arma, in quanto non-massone, e propone di obbligare i “grembiulini” a dichiararsi pubblicamente, se intendono concorrere a cariche pubbliche. Magaldi inorridisce: «E perché mai solo i massoni dovrebbero dichiararsi? Perché non anche esponenti di sindacati e associazioni religiose o filosofiche?». Quella contro gli aderenti alla massoneria, dice, sarebbe una grottesca discriminazione: «L’ennesima, in un paese come l’Italia, dove fa comodo fingere di non sapere che è stata proprio la massoneria a dar vita allo Stato unitario e poi a concorrere alla democrazia: era massone conclamato Meuccio Ruini, presidente della “commissione dei 75” che partorì la nostra Costituzione».Massone l’insigne giurista Pietro Calamandrei, massone il martire antifascista Giacomo Matteotti: di cosa stiamo parlando? Nel bestseller “Massoni”, pubblicato da Chiarelettere a fine 2014, Magaldi è stato il primo a rivelare, semmai, il ruolo occulto delle Ur-Lodges sovranazionali nella cabina di regia del vero potere mondiale. Ne fa cenno anche il generale Gebbia, ricordando il ruolo di protezione esercitato da Berlusconi per le truppe italiane schierate a Nassiriya, in Iraq: un intervento risolutivo, ottenuto perché «Bush e Berlusconi facevano parte della stessa loggia». Magaldi corregge l’ufficiale, allora a capo del contingente dispiegato in Iraq: «Bush tentò di affiliare Berlusconi alla superloggia “Hathor Pentalpha”, ma non vi riuscì». Nella “Hathor”, invece, era presente – scrive Magaldi nel suo libro – l’allora ministro della difesa Antonio Martino, peraltro lungamente a capo della Mount Pélerin Society, santuario europeo dell’ordoliberismo finanziario di marca reazionaria. Chiarisce Magaldi: «Ci sono massoni non solo tra i carabinieri, ma anche tra poliziotti e finanzieri. Quando viene iniziato, un massone innanzitutto giura fedeltà alla repubblica italiana. Qualcuno se ne stupisce? Non dovrebbe: proprio la massoneria è stato il maggior fautore dello Stato laico, libero e democratico, basato sul suffragio universale e non più su privilegi di casta».Il generale Gebbia si sente vittima di carabinieri massoni? «Forse dovrebbe interrogarsi sulle sue effettive benemerenze», gli risponde a distanza Magaldi, non entusiasta del profilo politico-culturale che le parole dell’anziano ufficiale lasciano trasparire, evocando la consueta “caccia alle streghe” che contraddistingue tanto mainstream, politico e giornalistico: «Siamo bravissimi a fare i duri con i piccoli massoni di provincia, magari coinvolti in maneggi bancari come quelli di Banca Etruria e Montepaschi, per poi tacere di fronte all’identità supermassonica dei veri massoni di potere», accusa Magaldi. «Rosy Bindi reclama le liste degli aderenti al Grande Oriente d’Italia e Claudio Fava propone addirittura una legge che escluda i massoni dalla politica, privandoli cioè di un fondamentale diritto civile, ma poi tutti fingono di non conoscere la cifra massonica di Mario Draghi e Anna Maria Tarantola, che in qualità di dirigenti di Bankitalia avrebbero dovuto vigilare su Mps». “Dagli al massone?” Sì, ma a patto di sorvolare sui “fratelli” che contano davvero, «per esempio Mario Monti, il devastatore dell’economia italiana, e il suo sodale Giorgio Napolitano».Pura ipocrisia italica, insiste Magaldi: anziché dare la caccia ai “grembiulini” in quanto tali (e non invece ai pericolosi oligarchi nascosti anche nei club più esclusivi della supermassoneria che conta, quella internazionale) saerebbe il caso di mettersi sulle tracce della vera, grande assente dalla scena italiana: la democrazia. Che, appunto, rischia di restare ancora largamente latitante, se è vero che il Pd renziano sembra prepararsi all’ennesimo inciucio con Berlusconi, grazie anche al disastroso Rosatellum. «L’alibi delle larghe intese sarà il solito: fermare il Movimento 5 Stelle, come se fosse un vero pericolo». Purtroppo, continua Magaldi, i 5 Stelle non sono affatto un pericolo, per l’establishment: «Al contrario, sono un movimento soporifero: dove governano, come a Roma, addormentano le istituzioni, che andrebbero invece scosse con robuste dosi di democrazia». Insieme all’economista Nino Galloni, il presidente del Movimento Roosevelt scommette sul ritorno alla sovranità finanziaria, anche monetaria: «Non è possibile che l’Europa sia governata dai cartelli bancari a capo della Bce, e dalle oligarchie private che pilotano le cancellerie. L’Italia, che resta uno dei maggiori contraenti dell’Ue, deve dire semplicemente: ci riprendiamo la nostra sovranità, oppurre arrivederci, ben sapendo che – senza l’Italia – l’Unione Europea non esiste, crolla».Proposta secca: «Una Costituzione Europea politica, validata da referendum popolari». Ipotesi completamente ignorata da Renzi, Berlusconi e 5 Stelle. «Ma sarebbe l’unica soluzione, per poter finalmente cominciare a fare sul serio». Invece, conclude Magaldi, ci tocca assistere anche alla farsa di Bersani e D’Alema, che si appellano all’articolo 1 della Costituzione dopo aver rottamato la Carta, con l’inserimento del pareggio di bilancio. «Chiamare il loro movimento “democratico e popolare”, in antitesi a Renzi, è un insulto all’intelligenza degli italiani: Renzi non ha le colpe di D’Alema e Bersani, non ha lesionato la Costituzione», sostiene Magaldi. «Persino la sua brutta proposta di riforma, quella bocciata dal referendum, non avrebbe fatto i danni delle modifiche costituzionali votate da Bersani: l’abolizione del Senato elettivo non sarebbe stata così devastante, per il paese, quanto l’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio, che ha privato l’Italia di un fondamentale strumento di sovranità democratica». Ma non sarà così per sempre, si augura Magaldi: il paese dovrà svegliarsi dal sonno e sbarazzarsi di troppi politici mediocri e inutili, spesso anche cialtroni. Massoni e non, ma tutti agli ordini del vero potere, l’élite neo-feudale della globalizzazione privatizzatrice, «interpretata dai veri antieuropeisti, come la Merkel e gli oligarchi di Bruxelles».Il generale Leonardo Gallitelli «graziosamente indicato da Berlusconi» come suo eventuale successore, se perdurasse l’ostracismo della pessima legge Severino che impedisce al Cavaliere di ricandidarsi? «Ci risiamo, con la retorica della brava persona estranea alla politica: non conosco il generale Gallitelli, ma so che non ci servono onesti incompetenti. Al contrario, occorrono politici a tutto tondo, ben preparati al vero, grande scontro che può salvare l’Italia, quello con Bruxelles». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e promotore del futuro Pdp, Partito Democratico Progressista, invoca il ritorno alla democrazia sostanziale, la cui assenza sta producendo danni devastanti a ogni livello: politico, economico e sociale. «Non ho risparmiato critiche a Berlusconi, perché non ha neanche mai provato ad attuare le riforme liberali che aveva promesso», premette Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”. «Gli auguro sinceramente di poter tornare in campo, ma in modo democratico: accettando cioè di confrontarsi con Salvini e la Meloni». Regolari primarie, insomma: «E’ giusto che sia il popolo del centrodestra a scegliersi finalmente il candidato che preferisce». Senza per questo farsi troppe illusioni: «Come Berlusconi, anche la Lega e An hanno già governato a lungo, non riuscendo a risolvere né il problema immigrazione né il rapporto con l’Ue, attualmente ostaggio di eurocrati che si dicono europeisti ma sono i veri nemici dell’Europa».
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Se l’Ue perde la Merkel, spietata esecutrice degli oligarchi
Senza Angela Merkel alla testa dell’Europa, chi lotterà contro la svolta a destra di Polonia e Ungheria in materia di immigrazione? Chi scongiurerà una Grexit? Chi, soprattutto, ricatterà-blandirà l’Italia per evitare una sua uscita dall’euro nel 2018? «Il tramonto di Angela Merkel», scrive Federico Dezzani, «risolleva le sorti del 2017 e getta le basi per un 2018 esplosivo: il governatore della Banca Centrale Europa, Mario Draghi, è ormai il solo, vero, ostacolo alla dissoluzione dell’euro». E dire che erano le presidenziali francesi in prinmavera, ad apparire come l’unico appuntamento elettorale del 2017 capace di destabilizzare l’Eurozona: nessuna sorpresa, invece, era attesa dalle elezioni federali tedesche dove, grazie al sistema proporzionale, la riconferma di Angela Merkel alla cancelleria era data per scontata. Il crollo della Spd e il timore degli altri partiti di andare incontro a un destino analogo hanno però vanificato i tentativi di formare una nuova coalizione di governo. «Il ritorno alle urne è probabile», in Germania. «E la Cdu, questa volta, correrebbe senza Angela Merkel», osserva Dezzani. «La caduta dell’ultima “paladina del mondo liberale” imprime nuovo slancio alla disgregazione dell’Unione Europea».Sconfitta Marine Le Pen, ricorda Dezzani nel suo blog, «l’attenzione si è progressivamente spostata alle elezioni italiane del 2018, considerate l’unica incognita per il fantomatico rilancio del processo di integrazione europea». Pochi colpi di scena si aspettavano dalla Germania, «dove le solide prestazioni economiche (rispetto agli altri membri della Ue), il provvidenziale blocco della “via balcanica” (primavera 2016) e l’accomodante sistema proporzionale ponevano le basi per la nascita, senza difficoltà, del quarto governo Merkel». Era improbabile che il voto tedesco del 24 settembre producesse scossoni sull’establishment politico tedesco tali da decretare la fine della cancelliera, pericolosa per la stabilità della già precaria Unione Europea. «Il logoramento di Angela Merkel si è sviluppato in sordina, sfociando in un’aperta crisi politica soltanto a distanza di due mesi dal voto», annota Dezzani. «È stata una caduta a rallentatore, ma non per questo meno rovinosa per gli equilibri europei». Dalle elezioni è uscito un Bundestag «incapace di esprimere un chiaro esecutivo», rendendo infruttuose le consultazioni per l’ipotetica “coalizione Giamaica” formata da Cdu-Csu, Verdi e Liberali.Proprio i liberali, fa notare Dezzani, hanno rifiutato la linea in materia di immigrazione emersa durante in negoziati, «piombando così la Germania nella più grave crisi istituzionale del dopoguerra: le possibilità che Angela Merkel sopravviva all’incidente sono ormai minime». Se a Bruxelles c’è chi tifa per un governo di minoranza ancora presieduto dalla Merkel, «lo scenario più realistico è un rapido ritorno alle urne, dove la Cdu, già indebolita dalla peggiore prestazione elettorale degli ultimi 70 anni, sarebbe obbligata a sbarazzarsi di Angela Merkel», scelta (ma in realtà imposta) come presidente del partito nel lontano 2000 «a discapito di Wolfgang Schäuble, neutralizzato con la “Tangentopoli tedesca”». La ragione del fallimento dei negoziati? «Va cercata nel sistema di potere adottato da Angela Merkel», sistema che oggi «lascia la Cdu senza un delfino pronto a raccogliere la sua eredità». Spiega Dezzani: «Angela Merkel, il cui unico obiettivo è stato sin dai primi anni ‘90 la conquista e la conservazione della cancelleria federale, ha sempre sfruttato, svuotato e, infine, abbandonato qualsiasi alleato. Consumatone uno, ne cercava un altro, assicurandosi soltanto di rimanere al centro della scena politica», peraltro «con grande soddisfazione dei suoi padrini atlantici».Il gioco è andato avanti per 12 anni, pima di rompersi sull’onda dell’emergenza migratoria. L’esordio è del 2005, con la Merkel a capo di una Grande Coalizione con la Spd e i Verdi. Alle elezioni successive, ricorda Dezzani, la Spd ne esce a pezzi: e la cancelliera, di conseguenza, forma il nuovo governo con i liberali. Quindi nel 2013 sono i liberali a crollare, e così la Merkel «riallaccia i rapporti con i socialisti della Spd, ridotti nuovamente a semplice satellite della cancelliera». Trascorrono quattro anni e, nel 2017, la Germania torna al voto: la Spd registra il peggiore risultato di sempre (20%), inducendo la cancelliera a cercare un’intesa con i precedenti alleati liberali, cui deve sommare anche i Verdi per sopperire al salasso di voti subito dalla Cdu-Csu (dal 41% al 32%). Ora, ragionano i liberali: perché mai dovremmo farci spremere e poi gettar via come nel 2009, solo per garantire alla Merkel altri quattro anni alla cancelleria? Merkel: chi tocca muore. Nessuno sopravvive all’alleanza. Questo spiega la volontà generalizzata dei partiti tedeschi di tornare al voto il prima possibile: tutti, sottolinea Dezzani, «vogliono evitare l’ennesimo abbraccio mortale della cancelliera, la cui immagine, oltretutto, è ormai indissolubilmente compromessa dalla crisi migratoria del 2015».Assumendo quindi che il destino di Angela Merkel sia ormai segnato, quali previsioni si possono formulare per la Germania e l’Unione Europea? Dezzani ricorda innanzitutto quali interessi rappresenta la cancelliera, definita dal “New York Times” «the Liberal West’s Last Defender», l’ultima paladina dell’ordine liberale. In virtù del primato economico della Germania, la Merkel è «il politico che ha chiesto e ottenuto il coinvolgimento del Fondo Monetario Internazionale nei “salvataggi europei”, che ha favorito il saccheggio dell’europeriferia da parte della finanza internazionale, che ha avvallato il golpe italiano del 2011, che ha imposto le sanzioni contro la Russia al resto dell’Europa, che ha incentivato la politica migratoria di George Soros, che ha sinora garantito l’integrità dell’Eurozona nel bene e nel male, che ha raccolto la guida dell’ordine mondiale “liberale” dopo l’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump (surriscaldamento climatico, difesa della globalizzazione, etc)».Per Dezzani, l’uscita di scena della Merkel avrebbe conseguenze traumatiche per il potere Ue: «La Germania si prepara, una volta liberatasi dalla tutela di Angela Merkel, a spostarsi ulteriormente “a destra”: non si intende soltanto un travaso di voti verso i falchi della Cdu-Csu o “Alternativa per la Germania”, ma anche un diverso approccio di Berlino negli affari esteri». Secondo Dezzani, senza la Merkel alla cancelleria federale, «la Germania sarà più nazionalista e “continentale”, meno liberale e atlantica». Parallelamente, «l’uscita di scena di Angela Merkel complica ulteriormente i progetti di integrazione franco-tedeschi, già indeboliti dal rapido sfaldamento della presidenza Macron, e accelera le spinte centrifughe nel resto dell’Europa».Senza Angela Merkel alla testa dell’Europa, chi lotterà contro la svolta a destra di Polonia e Ungheria in materia di immigrazione? Chi scongiurerà una Grexit? Chi, soprattutto, ricatterà-blandirà l’Italia per evitare una sua uscita dall’euro nel 2018? «Il tramonto di Angela Merkel», scrive Federico Dezzani, «risolleva le sorti del 2017 e getta le basi per un 2018 esplosivo: il governatore della Banca Centrale Europa, Mario Draghi, è ormai il solo, vero, ostacolo alla dissoluzione dell’euro». E dire che erano le presidenziali francesi, in primavera, ad apparire come l’unico appuntamento elettorale del 2017 capace di destabilizzare l’Eurozona: nessuna sorpresa, invece, era attesa dalle elezioni federali tedesche dove, grazie al sistema proporzionale, la riconferma di Angela Merkel alla cancelleria era data per scontata. Il crollo della Spd e il timore degli altri partiti di andare incontro a un destino analogo hanno però vanificato i tentativi di formare una nuova coalizione di governo. «Il ritorno alle urne è probabile», in Germania. «E la Cdu, questa volta, correrebbe senza Angela Merkel», osserva Dezzani. «La caduta dell’ultima “paladina del mondo liberale” imprime nuovo slancio alla disgregazione dell’Unione Europea».
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L’euro è una follia: lo diceva anche Draghi, lo dicono tutti
La notizia è di quelle clamorose: anche Mario Draghi giudicava l’euro una sciocchezza economica. Erano gli anni Settanta ed il futuro presidente della Bce, allora studente di economia alla Sapienza di Roma, seguiva appassionatamente la dottrina di Federico Caffé. «Chi frequentava le sue lezioni – ricorda Draghi in un’entusiastica biografia di Stefania Tamburello – lo vedeva come un modello a cui ispirarsi». Come detto, però, la rivelazione non sta tanto nella curiosa infatuazione giovanile per le teorie keynesiane, quanto piuttosto nella tesi di laurea che guadagnò al promettente economista la lode accademica e l’incarico, ambitissimo, di assistente personale del professor Caffè. S’intitolava “Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio” e, come ammette lo stesso Draghi nel libro della Tamburello (“Il Governatore”, Rizzoli, 2011, pag. 23), sosteneva che «la moneta unica era una follia, una cosa assolutamente da non fare». Ora io non so che cosa direbbe il Draghi del “whatever it takes” del Draghi euroscettico. Immagino però che l’intellighenzia di Bruxelles lo taccerebbe di populismo, abusando di una categorizzazione liquidatoria che non riesce più a contenere, né per il numero né per il profilo, la ragguardevole polifonia di quegli economisti che hanno rilevato l’anomalia strutturale dell’euro.Siccome ho l’impressione che questa sensibile inversione di tendenza ancora sfugga, ve li citerò uno ad uno, esponendo sommariamente il nucleo essenziale di ciascuna critica. Prima però sento il dovere di ringraziare tutti quegli “eretici” che decisero di aiutare una piccola trasmissione di RaiDue a sfidare il silenzio dei media sul problema dell’euro. Ringrazio Alberto Bagnai per averci prestato la puntigliosa sostanza dei suoi studi; ringrazio Paolo Barnard per le sue memorabili requisitorie; ringrazio Claudio Borghi, Antonio Rinaldi e Nino Galloni per essersi misurati in mille duelli con i campioni del pensiero egemone. Un ringraziamento speciale, tuttavia, va a Giulio Sapelli e a Bruno Amoroso, i nostri due “prof”, che su quei dibattiti furibondi aprirono l’ombrello protettivo della loro indiscutibile, e generosa, autorevolezza. Ora però devo cominciare la lista degli economisti “populisti” e, se permettete, inizierei dai Nobel. «La spinta per l’euro – sostiene, già nel 1997, Milton Friedman, padre del neoliberismo – è motivata dalla politica, non dall’economia. Lo scopo è quello di unire la Germania e la Francia così strettamente da rendere impossibile una possibile guerra europea e di allestire il palco per i federali Stati Uniti d’Europa».«Ma io credo che l’adozione dell’euro avrà l’effetto opposto», aggiunge Friedman. «Esacerberà le tensioni politiche convertendo shock divergenti, che si sarebbero potuti prontamente contenere con aggiustamenti del tasso di cambio, in problemi politici di divisioni». «Adottando l’euro – prevede, nel 1999, anche il keynesiano Paul Krugman – l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera, con tutti i danni che ciò implica». Oggi, però, il Nobel del 2008 appare ancor più convinto e agguerrito di allora: «L’Europa – insiste – non era adatta alla moneta unica, come invece gli Stati Uniti. E questo è uno dei principali motivi della fragilità del sistema Europa, almeno fino alla creazione di una garanzia bancaria continentale. L’Europa (…) ha sbagliato a scegliere la propria governance e le istituzioni per il controllo della politica economica. E’ però ancora in tempo per rimediare». Altro famigerato “avversario” dell’euro è Joseph Stiglitz. La critica del Nobel del 2001 sta tutta in una celebre, lapidaria, battuta: «Questo disastro è artificiale e in sostanza questo disastro artificiale ha quattro lettere: euro».Anche Amartya Sen, nel maggio 2013, esprime un drastico giudizio sulla moneta unica: «L’euro – confida al “Corriere” il Nobel del ‘98 – è stato un’idea orribile. Lo penso da tempo. Un errore che ha messo l’economia europea sulla strada sbagliata. Una moneta unica non è un buon modo per iniziare a unire l’Europa». Altrettanto clamore desta il discorso fatto da James Mirrlees, Nobel per l’Economia nel 1996, alla Cà Foscari di Venezia nel dicembre 2013: «Guardando dal di fuori, dico che non dovreste stare nell’euro, ma uscirne adesso. L’uscita dall’euro non risolverebbe in automatico i problemi dell’Italia, visto che rimarrebbero le questioni derivanti dalle politiche adottate dalla Germania. Ma finché l’Italia resterà nell’euro non potrà espandere la massa di moneta in circolazione o svalutare: ecco perché s’impone la necessità di decidere se rimanere o meno nella moneta unica (…). Probabilmente dovreste sostenere il costo di un’eventuale uscita, come avvenuto in Gran Bretagna, ma dovete essere pronti a pagare questo prezzo». Chiude il panorama Christopher Pissarides. Nel dicembre 2013, nel corso di una lectio magistralis subito amplificata da “Daily Mail” e “Telegraph”, il Nobel del 2010 va dritto alla soluzione: «Per creare quella fiducia che i paesi membri una volta avevano l’uno nell’altro è necessario abolire l’euro».La sequenza dei Nobel fa impressione. Ma numerosi altri economisti di indubbia fama, in questi anni, hanno infranto il tabù dei problemi dell’euro; e io credo che, alla vigilia di una campagna elettorale che tenterà di costringere gli avversari dell’euro alla pubblica abiura, sia giusto e doveroso darvene conto. Sul “Corriere” del 14 marzo scorso l’ex governatore della Bank of England, Mervin King, pronostica che «l’Eurozona, in mancanza di un reale cambiamento, precipiterà di nuovo nella crisi». «Senza l’unione fiscale – è il ragionamento di King – l’unione monetaria è stata prematura, un terribile errore. (…) La disoccupazione, in particolare quella dei giovani, è così alta che non sorprende vedere l’ascesa di nuovi partiti politici che incolpano l’unione monetaria. Vengono liquidati come populisti, ma le loro critiche sono basate su fatti economici che le élite non capiscono». Un altro ex governatore centrale, Antonio Fazio, aveva espresso valutazioni analoghe nel 2016: «Dentro la stessa moneta non ci può essere un’area che è obbligata a restare in equilibrio ed un’altra che ha un forte surplus. Stiglitz ha detto che l’euro è un’istituzione fallita. Questa persona è antipatica. L’unica cosa è che gli hanno dato un premio Nobel».In difesa di Fazio, subito bersagliato dai gendarmi dell’europeismo, scende in campo Paolo Savona. «Fazio la pensa come me», spiega l’ex ministro dell’industria, ex Bankitalia, ex Confindustria ed ex Ocse in un’intervista ad “Avvenire”: «L’euro non è mai stato irreversibile, se non a chiacchiere. Un sistema mal costruito può durare a lungo ma, prima o dopo, deflagra. E se il governo e la Banca d’Italia non hanno un piano B, verranno condannati dalla storia». Merita una citazione anche la svolta di Luigi Zingales. Da convinto sostenitore dell’euro, il rispettatissimo docente della University of Chicago – che in Italia collaborò al progetto euro-liberista di “Fare per fermare il declino” – ammette, con encomiabile onestà, il cambio di prospettiva. «Senza una politica fiscale comune – spiega a “la Repubblica” nel settembre 2016 – l’euro non è sostenibile. O si accetta questo principio o tanto vale sedersi intorno a un tavolo e dire: bene, cominciamo le pratiche di divorzio. Consensuale, per carità, perché unilaterale costerebbe troppo, soprattutto a noi».Una doverosa menzione spetta, infine, anche a Lucrezia Reichlin che per il “Corriere della Sera” ha recentemente passato in rassegna le “fragilità” dell’euro. «Dal punto di vista economico – scrive l’economista chiamata da Trichet nella struttura dirigenziale della Bce – l’euro avrebbe dovuto risolvere il problema dell’instabilità del sistema dei cambi fissi o semi-fissi adottati dall’Europa dopo la fine di Bretton Woods (…). Il problema che è apparso evidente nell’ultima crisi, però, è che la mera introduzione della moneta unica, senza istituzioni adeguate di sostegno, non garantisce la stabilità ma semplicemente tramuta le tensioni sul mercato del cambio del regime precedente in tensioni sul mercato del debito sovrano». Sei Nobel, due governatori centrali, un ex ministro del governo Ciampi e due stimatissimi accademici. In tanti anni di dibattiti televisivi ho capito che titoli e credenziali possono riuscire a prevalere sulle buone argomentazioni. Per questo ho voluto ricordare che anche molti dei più accreditati economisti hanno affermato pubblicamente che l’euro è una moneta mal costruita, che ora si può solo correggere o lasciar morire. E somiglia ad una parabola del destino che questo dilemma metta ora, l’uno di fronte all’altro, i due volti della stessa persona: il Draghi di ieri contro il Draghi di oggi.(Alessandro Montanari, “L’euro è una follia: lo diceva anche Draghi, lo dicono tutti”, dal blog “Interesse Nazionale”, novembre 2017).La notizia è di quelle clamorose: anche Mario Draghi giudicava l’euro una sciocchezza economica. Erano gli anni Settanta ed il futuro presidente della Bce, allora studente di economia alla Sapienza di Roma, seguiva appassionatamente la dottrina di Federico Caffé. «Chi frequentava le sue lezioni – ricorda Draghi in un’entusiastica biografia di Stefania Tamburello – lo vedeva come un modello a cui ispirarsi». Come detto, però, la rivelazione non sta tanto nella curiosa infatuazione giovanile per le teorie keynesiane, quanto piuttosto nella tesi di laurea che guadagnò al promettente economista la lode accademica e l’incarico, ambitissimo, di assistente personale del professor Caffè. S’intitolava “Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio” e, come ammette lo stesso Draghi nel libro della Tamburello (“Il Governatore”, Rizzoli, 2011, pag. 23), sosteneva che «la moneta unica era una follia, una cosa assolutamente da non fare». Ora io non so che cosa direbbe il Draghi del “whatever it takes” del Draghi euroscettico. Immagino però che l’intellighenzia di Bruxelles lo taccerebbe di populismo, abusando di una categorizzazione liquidatoria che non riesce più a contenere, né per il numero né per il profilo, la ragguardevole polifonia di quegli economisti che hanno rilevato l’anomalia strutturale dell’euro.
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Giannuli: serve un partito, la Mossa del Cavallo rischia l’1%
«Le prossime elezioni politiche si svolgeranno in un contesto che non ha precedenti rispetto agli ultimi 70 anni. La deriva del paese è tale da poter affermare che l’Italia è ormai allo sfascio. Ecco perché occorre una “Mossa del Cavallo”». All’appello di Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa per una “Lista del Popolo” da mettere in campo alle prossime elezioni, per fermare il collasso del paese di fronte alla “caduta libera” dei tre blocchi in apparenza contrapposti – centrodestra, centrosinistra e 5 Stelle – il politologo Aldo Giannuli frena: bene l’idea di mobilitare forze democratiche, ma è meglio evitare di candidarsi nel 2018. «Non saremo mai un partito», assicurano Ingroia e Chiesa? Male, replica Giannuli: è proprio di un partito che ci sarebbe bisogno, organizzato in modo trasparente e democratico, evitando il rischio dell’ennesima Armata Brancaleone pronta a sciogliersi e frantumarsi già all’indomani del voto, magari dopo aver racimolato un bottino elettorale irrisorio. Giannuli, saggista e storico dell’ateneo milanese, apprezza l’impegno di partenza: tenere aggregati i movimenti che lavorarono per il “no” al referendum del 4 dicembre scorso sulla Costituzione. «Mi sembra condivisibile l’idea di una fondazione dal basso del movimento mobilitando la base che fu determinante per la vittoria del “no”», scrive, sul suo blog. Ma aggiunge: «Questa scelta di lista “last minute” mi sembra per più versi discutibile».
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Magaldi: quella di Ingroia e Chiesa è la Mossa del Somaro
La Mossa del Cavallo? Ma va là, quella semmai è la Mossa del Somaro: «Come possono essere credibili, Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa – da soli – nei panni di frontman di una Lista del Popolo, né di destra né di sinistra?». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, boccia la sortita di Chiesa e Ingroia, che lanciano la proposta di un listone-cartello per dire no all’establishment in vista delle politiche 2018. «Ingroia è un ex magistrato con precise benemerenze, e Chiesa è un giornalista abile nello svelare le manipolazioni del mainstream: ma entrambi, inutile nasconderlo, provengono dalla militanza comunista». Aggiunge Magaldi: «Chiesa non è un organizzatore politico, ma non lo è nemmeno Ingroia: parlano da soli i numeri della sua ultima iniziativa, “Rivoluzione Civile”», che nel 2013 superò di poco il milione di voti, racimolando appena il 2%, senza conquistare neppure un seggio in Parlamento. «Niente di più facile che si ripeta questa performance, dato il carattere velleitario e improvvisato della “Mossa del Somaro”: se così fosse – infierisce Magaldi – verrebbero bruciate le aspettative di milioni di italiani che si aspettano una proposta politica seria, un vero cambio di paradigma».Ma anche se, miracolosamente, Ingroia e Chiesa riuscissero a superare lo sbarramento del 3%, «in aula ci finirebbero soltanto loro, lasciando fuori i tanti “somari” portatori d’acqua», continua Magaldi. «E con un pugno di seggi, com’è possibile pensare di sferrare un attacco efficace contro il manistream tecnocratico europeo?». E’ seccato, il presidente del Movimento Roosevelt, per quella che legge come una fuga in avanti, decisa da due personalità che fino a poche settimane fa erano tra gli interlocutori di una comunità politica plurale, messasi al lavoro per trovare una sintesi possibile, contro il rigore imposto dall’Ue: un programma forte, da opporre ai non-programmi del centrodestra, del centrosinistra e dei 5 Stelle. Tra i promotori del gruppo di contatto, oltre a Magaldi, un attivista come Franco Bartolomei di “Risorgimento Socialista”. Ingroia e Chiesa? «Sono venuti meno, in modo unilaterale, all’impegno della consultazione reciproca. E in più – dice Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio” – hanno copiato pari pari una proposta che il Movimento Roosevelt aveva loro segnalato, tra i 21 principi-guida del costruendo Pdp, Partito Democratico Progressista: la necessità di una Costituzione Europea, validata da referendum popolari. Un’idea nostra, che Igroia e Chiesa hanno fatto propria senza dichiararne la paternità».In collegamento web-streaming con Marco Moiso, coordinatore londinese del Movimento Roosevelt, lo stesso Magaldi contesta il metodo del “listone”: «Non si può dire: venite, poi sceglieremo noi i candidati, come se i leader della lista ne fossero i padroni. Se contesti la mancanza di democrazia in casa altrui, dovresti applicare il metodo democratico innanzitutto a casa tua, altrimenti ti comporti come i 5 Stelle, che accettano la non-democrazia interna, o lo stesso Berlusconi, che ha elevato il rango di singoli personaggi solo in base alla loro vicinanza con il principe». Magaldi conferma la vocazione trasversale del Movimento Roosevelt: «Nel prossimo Parlamento – annuncia – saranno eletti deputati e senatori a noi vicini, che proveranno a incidere, nei rispettivi partiti, per sollecitare una visione diversa della politica, non più sottomessa ai diktat dell’oligarchia finanziaria che domina le istituzioni europee». Il nascituro Pdp? «Si presenterà alle elezioni solo se saranno migliaia gli italiani che si iscriveranno all’assemblea costituente, viceversa aspetteremo che il progetto sia pienamente condiviso a livello popolare».Magaldi crede nel ritorno ai partiti: «Quelli della Prima Repubblica, con i loro limiti, avevano contribuito a fare dell’Italia una potenza economica, un paese prospero. Spariti i partiti tradizionali, magari difettosi ma comunque democratici, ci ritroviamo al potere i partiti-azienda, fondati su leader che poi diventano regnanti e spengono ogni dissenso interno». L’alternativa delle liste movimentiste? «Non esiste: ogni Armata Brancaleone è destinata a sciogliersi come neve al sole, a frantumarsi già all’indomani delle elezioni». Nell’augurare buon viaggio a quella che ha ribattezzato “La Mossa del Somaro”, lo stesso Magaldi esprime rammarico per l’interrotta collaborazione: «Non è in discussione il valore di Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa, anche se – in mesi di incontri – le nostre idee coincidevano solo in parte». Diversa, ad esempio, la lettura sul passato recente del nostro paese, «a cominciare dai tanti golpe del 1992 che hanno decretato il drammatico declino dell’Italia». Impossibile pretendere che Ingroia, da ex magistrato, consideri un “golpe bianco” il giustizialismo degli inquirenti di Tangentopoli che decapitarono la classe dirigente italiana, sguarnendo il paese di fronte al Trattato di Maastricht. Lo stesso Chiesa, nel 2004, fu eletto nel Parlamento Europeo nella lista creata da Achille Occhetto insieme all’uomo-simbolo di Mani Pulite, Antonio Di Pietro.E poi, aggiunge Magaldi, come si fa a dire “non saremo mai un partito”? Proprio di partiti – veri, seri – il paese ha un bisogno drammatico, sostiene il fondatore del Movimento Roosevelt: «Serve un impegno preciso, per il futuro. Occorre avere la vista lunga, non limitata all’imminente scadenza elettorale». Altro abbaglio: puntare sull’oceano dell’astensionismo. I “renitenti” fanno gola: in Sicilia hanno votato solo 4 elettori su dieci, a Ostia uno su tre. «Ma è evidente che i cittadini più ricettivi a un messaggio politico sono quelli che a votare ci vanno. E non è certo con i “listoni” improvvisati, confezionati in vista delle prossime elezioni, che si può pensare di invertire la rotta e motivare al voto milioni di italiani», dice Magaldi, che per l’immediato resta pessimista: «Se i 5 Stelle continuano a rifiutare alleanze, rivedremo il solito inciucio che portò al governo Letta. Solo che la crisi nel frattempo si è aggravata: è ormai crisi sociale, politica, economica». Facile profezia: «C’è fame di poltrone, ma non basteranno per tutti. E’ forte il rischio che si possa tornare al voto in tempi rapidi. E, ancora una volta, senza un vero programma per l’Italia». Il Rubicone da varcare? Un’alleanza larga, plurale, di forze democratiche e progressiste, da opporre all’oligarchia neo-aristocratica. «Serve un progetto non divisivo, ma a vocazione maggioritaria, che le elezioni le vinca. E dia vita a un governo che dica finalmente a Bruxelles: facciamo dei referendum per creare una Costituzione Europea democratica, oppure l’Italia sospende la vigenza degli attuali trattati europei».La Mossa del Cavallo? Ma va là, quella semmai è la Mossa del Somaro: «Come possono essere credibili, Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa – da soli – nei panni di frontman di una Lista del Popolo, né di destra né di sinistra?». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, boccia la sortita di Chiesa e Ingroia, che lanciano la proposta di un listone-cartello per dire no all’establishment in vista delle politiche 2018. «Ingroia è un ex magistrato con precise benemerenze, e Chiesa è un giornalista abile nello svelare le manipolazioni del mainstream: ma entrambi, inutile nasconderlo, provengono dalla militanza comunista». Aggiunge Magaldi: «Chiesa non è un organizzatore politico, ma non lo è nemmeno Ingroia: parlano da soli i numeri della sua ultima iniziativa, “Rivoluzione Civile”», che nel 2013 superò di poco il milione di voti, racimolando appena il 2%, senza conquistare neppure un seggio in Parlamento. «Niente di più facile che si ripeta quella performance, dato il carattere velleitario e improvvisato della “Mossa del Somaro”: se così fosse – infierisce Magaldi – verrebbero bruciate le aspettative di milioni di italiani che si aspettano una proposta politica seria, un vero cambio di paradigma».
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Delitto Matteotti: vero mandante il Re, socio dei petrolieri
Non fu Mussolini il vero mandante del delitto Matteotti, ma il Re: Vittorio Emanuele III decretò la morte del parlamentare socialista Giacomo Matteotti, assassinato a Roma il 10 giugno 1924 dalla squadraccia fascista capeggiata da Amerigo Dumini. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, nel suo nuovissimo saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, che ricostruisce – sulla base di archivi inediti – il vero ruolo dei due massimi sponsor occulti del fascismo, la massoneria e il Vaticano. Due poteri che “coltivarono” un regime che forse mostrò il suo vero volto, per la prima volta, proprio con l’omicidio Matteotti. Il leader socialista, si disse per decenni, fu punito per il suo straordinario coraggio: il 30 maggio 1924 denunciò alla Camera i brogli e le intimidazioni che avevano permesso ai fascisti di vincere le elezioni, il 6 aprile. Solo in questi ultimi anni è progressivamente emerso l’altro movente, più segreto: la maxi-tangente pagata al governo italiano dalla società petrolifera Sinclair Oil, per lo sfruttamento del greggio in Emilia e in Sicilia. Lo stesso Matteotti, dopo un viaggio a Londra, aveva scoperto la verità e stava per renderla pubblica. Lo scandalo avrebbe travolto il neonato regime, dato che risultava implicato anche Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Ma quello era solo il “primo livello” della tangente: perché il maggiore beneficiario dell’affare non sarebbe stato Mussolini, bensì il Re.Era lui, Vittorio Emanuele III, il vero dominus del business petrolifero, e quindi anche del delitto Matteotti. A gettare nuova luce sul “peccato originale” del fascismo sono le carte dell’obbedienza massonica di Piazza del Gesù, il Rito Scozzese italiano, di cui lo stesso Carpeoro è stato “sovrano gran maestro”. «Attenzione: lo stesso Matteotti era un 33° grado del Rito Scozzese», premette l’autore, presentando alcune anticipazioni del libro nel corso della diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”. Massone Matteotti, e massoni i “fratelli” inglesi che lo informarono dell’affare Sinclair Oil, spiegandogli – carte alla mano – che a intascare il grosso della colossale tangente petrolifera (addirittura una ingente quota azionaria della compagnia) non sarebbe stato il Duce, ma direttamente il numero uno di casa Savoia. A indagare sul ruolo occulto della massoneria all’origine del fascismo è anche il recente saggio “Mussolini e gli Illuminati”, del giovane Enrico Montermini, suffragato da un politologo del calibro di Giorgio Galli.Montermini ricostruisce il ruolo delle società segrete nell’affermazione del fascismo “antemarcia”, a partire dalla manifestazione di piazza San Sepolcro, fino al macabro epilogo di piazzale Loreto, dove il cadavere del Duce viene simbolicamente “capovolto”, appeso a testa in giù, dopo esser stato fotografato con in mano uno scettro (come l’Imperatore dei tarocchi) e poi un ramo di acacia, inequivocabile “firma” massonica. Carpeoro conferma: prima di concorrerre ad abbattere il Duce, «la massoneria ha certamente appoggiato il primo fascismo, anche perché era Mussolini stesso a presentarsi come “vero socialista”». Poi, come sappiamo, il dittatore – mai iniziato alla libera muratoria – arrivò a mettere al bando le logge, in ossequio agli accordi di potere con il Vaticano che avrebbero portato ai Patti Lateranensi. C’era stato un piccolo precedente antimassonico del Duce, quando ancora era un dirigente socialista: impegnò il partito a escludere i massoni dai propri ranghi. «Ma era solo una ritorsione: Mussolini aveva ripetutamente chiesto di essere accolto, nella massoneria, ma non era stato accettato».Un’anomalia episodica, quell’improvvisa allergia socialista per i grembiulini: «E’ stata proprio la massoneria a partorire il socialismo», sostiene Carpeoro: «Anche all’epoca del fascismo, erano massoni i maggiori esponenti del partito socialista, a cominciare dal leader storico, Filippo Turati». Autore di accurati studi sui Rosacroce, leggendaria confraternita iniziatica, Carpeoro spiega che furono proprio i manifesti rosacrociani – come la “Fama Fraternitatis” del 1614 – a delineare l’orizzonte sociale egualitario (la fine dei privilegi di casta) che peraltro si riverbera in opere altrettanto “rosacrociane” del periodo, come “Utopia” di Thomas More, “La nuova Atlantide” di Francis Bacon e “La città del sole” di Tommaso Campanella. La stessa “Fama Fraternitatis” accenna, per la prima volta, a un mondo senza più la proprietà privata né i confini tra le nazioni: sono gli albori del futuro internazionalismo socialista, che riflette le sue luci persino nel primissimo fascismo delle origini, quello di piazza San Sepolcro, tenuto a battesimo dal Grande Oriente d’Italia (Domizio Torrigiani) e poi anche da Piazza del Gesù, il cui gran maestro era Raoul Palermi – ma il vero capo del Rito Scozzese, ipotizza lo stesso Montermini, probabilmente era il sovrano in persona, Vittorio Emanuele III.Di origine scozzese è la stessa famiglia Sinclair: gli antenati dei petrolieri coinvolti nell’affare costato la vita a Matteotti, racconta Carpeoro, in qualità di eminenti rappresentanti del network rosacrociano britannico, alla fine del ‘700 avrebbero fatto segretamente tradurre nel Regno Unito le spoglie del “confratello” Mozart, ufficialmente sepolto in una fosse comune in Austria. Ma, a parte i Sinclair – passati dalla musica al petrolio – il saggio di Carpeoro ricostruisce i passaggi cruciali (e occulti) all’origine del fascismo, mettendo a fuoco il ruolo della massoneria, e non solo. Se Montermini accende i riflettori sulle società segrete che allevarono il regime fascista, Carpeoro segnala il ruolo dell’altro grande potere, antagonista della massoneria eppure suo “socio in affari” durante il ventennio: il Vaticano. Entrambi i centri potere, quello massonico e quello cattolico, puntarono su Mussolini e cercarono di pilotarlo. E il Duce, «peraltro già a libro paga dei servizi segreti inglesi, nonché collaboratore dell’intelligence statunitense e di quella francese», tentò a sua volta di destreggiarsi, ritagliandosi una sua autonomia: «Si passò così dal masso-fascismo iniziale al catto-fascismo seguente», quello dei Patti Lateranensi.Figura cruciale e onnipresente, in quegli anni di precario equilibrio, il massone Filippo Naldi, che Carpeoro definisce «il Licio Gelli dell’epoca», capace di passare con disinvoltura da un tavolo all’altro, uscendone sempre indenne e traendone il massimo vantaggio personale. Carpeoro ricorda una celebre intervista televisiva all’anziano Naldi, a cura del grande Sergio Zavoli: «Riuscì a ottenere quell’intervista perché era massone anche Zavoli», rivela Carpeoro, che ricostruisce un altro momento decisivo della parabola del Duce, la destituzione del 25 luglio ‘43: «Era un piano progettato dallo stesso Mussolini, che voleva farsi arrestare per poi uscire dall’alleanza con Hitler, instaurando a Salò una vera repubblica di orientamento socialista». Ma fu tradito, Mussolini, proprio dall’uomo-ombra della massoneria (e della monarchia), che svelò gli intenti del Duce alla segreteria pontificia. A sua volta, la diplomazia vaticana si rivolse prontamente ai nazisti: temenva che a Salò potesse davvero nascere una repubblica anticlericale.“Il fascio, il compasso e la mitra” getta luce sui retroscena più oscuri del ventennio mussoliniano, rivelando il peso dei due superpoteri – massoneria e Vaticano – nelle decisioni del governo Mussolini. Anche la monarchia giocò le sue carte, comprese quelle (coperte) su cui aveva messo le mani Giacomo Matteotti. «Io il mio discorso l’ho fatto, ora voi preparate il discorso funebre per me», disse il deputato ai colleghi socialisti, in aula, consapevole che gli sarebbe costata carissima la sua clamorosa denuncia sui brogli elettorali. «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere», rispose Mussolini, mesi dopo, di fronte alle proteste per l’insabbiamento delle indagini sull’omicidio. Ma non si trattò solo di una denuncia politica sulla regolarità delle elezioni del ‘24: il primo a rivelarlo, alla fine degli anni ‘80, è stato un ricercatore fiorentino, Paolo Paoletti, dopo aver scovato negli archivi di Washington una lettera in cui Dumini, il capo del commando omicida, rivela che Matteotti fu ucciso soprattutto per impedirgli di mettere in piazza lo scandalo petrolifero, che coinvolgeva Arnaldo Mussolini.Poche settimane prima del delitto, proprio alla Sinclair Oil (John Davison Rockefeller), il governo italiano aveva concesso l’esclusiva per la ricerca e lo sfruttamento per 50 anni di tutti i giacimenti petroliferi presenti in Emilia e in Sicilia. La compagnia aveva ottenuto condizioni di esclusivo vantaggio, tra cui l’esenzione da imposte. Per questo Matteotti doveva essere ucciso: aveva saputo della super-tangente. Tesi confermata dallo storico Mauro Canali nel ‘97 e poi da un ex dirigente Eni, Benito Li Vigni, nel saggio “Le guerre del petrolio” uscito nel 2004. All’inizio degli anni Venti, in Italia, l’80% del fabbisogno di idrocarburi era garantito dalla Standard Oil, tramite la “Società Italo-Americana pel Petrolio”, mentre la restante quota era fornita dalla filiale italiana della Royal Dutch Shell. Secondo Canali, la Standard Oil avrebbe stipulato un accordo sottobanco con la Sinclair Oil, delegando ad essa un’operazione strategica: bloccare la temuta espansione del Regno Unito sul mercato italiano. Guardando al Medio Oriente, a Londra faceva gola la posizione geografica dell’Italia, nel cuore del Mediterraneo: perfetta, per il trasporto del greggio. Per questo gli inglesi avevano sviluppato progetti con l’Italia, anche l’impianto di una raffineria, al punto da preoccupare gli Usa – che a quel punto risposero mettendo in campo la Sinclair Oil, a suon di dollari pagati sottobanco.Lo stesso Canali documenta come a intascare una maxi-rata dell’affare Sinclair fu Filippo Filippelli, un personaggio molto influente, legato ad Arnaldo Mussolini e fondatore del “Corriere Italiano”, giornale a cui – fra l’altro – era stato intestato il noleggio dell’auto con cui venne prelevato Matteotti. Gli accordi con la Sinclair Oil furono stipulati il 29 aprile del ‘24: sempre in cambio di cospicue mazzette, la compagnia ottenne dall’Italia la garanzia che nessun ente petrolifero statale avrebbe intrapreso trivellazioni nel deserto libico. All’accordo, Londra reagì a modo suo: tramite politici laburisti, rivelò a Matteotti i veri termini dell’accordo. Lo stesso Canali conferma che il leader socialista acquisì le carte che provavano la corruzione del governo italiano. Dopo l’omicidio, il “Daily Herald” accusò apertamente Arnaldo Mussolini di essere tra i politici destinatari di una tangente di 30 milioni di lire pagata dalla Sinclair Oil per ottenere la concessione. Sulla rivista “English Life” venne pubblicato (postumo) un articolo dello stesso Matteotti, in cui il deputato affermava di avere la certezza che vi era stata corruzione tra la Sinclair Oil e alcuni esponenti del governo.Tutto giusto? Sì, ma è una verità incompleta, spiega Carpeoro: perché finora le ricostruzioni sul delitto Matteotti non hanno inquadrato il principale colpevole, il Re d’Italia. «Mettendo a disposizione i killer, Mussolini ha fatto un favore innanzitutto alla monarchia», afferma Carpeoro, nel colloquio in streaming su YouTube con Fabio Frabetti. «Matteotti aveva fiutato che sull’Italia, tramite il fascismo, stavano mettendo le mani determinati poteri, in particolare petroliferi – uno su tutti, quello della Siclair Oil». Il leader socialista, continua Carpeoro, «andò a Londra con regolari referenze massoniche e venne accolto con tutti gli onori da una loggia inglese». Loggia che gli mise a disposizione una documentazione decisiva, che gli permise di scoprire «che la Sinclair Oil aveva dato delle quote azionarie a Vittorio Emanuele III». Tornò in patria di corsa, per far scoppiare lo scandalo. «E guardacaso, venne assassinato proprio al ritorno da quel viaggio quasi clandestino». Il regista dell’assassinio? «E’ colui che affittò le auto a noleggio e si fece dare da Mussolini i manovali del delitto: il massone Filippo Naldi, rappresentante degli interessi della Sinclair Oil in Italia ma, soprattutto, fedelissimo del Re».Lui, l’uomo-ombra: «E’ vero che Naldi aiutò Mussolini a uscire dal Psi e gli finanziò il “Popolo d’Italia”, ma sempre e soltanto per conto di poteri forti che volevano che in Italia rimanesse la monarchia e ci fosse sempre un certo tipo di regime». Tant’è vero che i soldi per finanziare il “Popolo d’Italia”, oltre a quelli della Sinclair Oil, sono quelli di Eridania (colosso mondiale dello zucchero) e di Ansaldo, leader dell’acciaio. «Sono i soldi che creano il fascismo, ma lo creano per mantenere un preciso assetto politico rispetto a forze che rischiavano di metterlo in discussione, come i socialisti e i repubblicani». Baricentro del potere, la monarchia. Clamorosa, la rivelazione di Carpeoro: sua maestà in persona era addirittura diventato socio della Sinclair, mentre il governo Mussolini si apprestava a favorire la compagnia. E da dove ricava, Carpeoro, le sue esplosive informazioni? Ovvio: dagli stessi archivi (massonici) ai quali, nel 1924, ebbe accesso l’eroe socialista Giacomo Matteotti, massone del 33° grado del Rito Scozzese.Non fu Mussolini il vero mandante del delitto Matteotti, ma il Re: Vittorio Emanuele III decretò la morte del parlamentare socialista Giacomo Matteotti, assassinato a Roma il 10 giugno 1924 dalla squadraccia fascista capeggiata da Amerigo Dumini. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, nel suo nuovissimo saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, che ricostruisce – sulla base di archivi inediti – il vero ruolo dei due massimi sponsor occulti del fascismo, la massoneria e il Vaticano. Due poteri che “coltivarono” un regime che forse mostrò il suo vero volto, per la prima volta, proprio con l’omicidio Matteotti. Il leader socialista, si disse per decenni, fu punito per il suo straordinario coraggio: il 30 maggio 1924 denunciò alla Camera i brogli e le intimidazioni che avevano permesso ai fascisti di vincere le elezioni, il 6 aprile. Solo in questi ultimi anni è progressivamente emerso l’altro movente, più segreto: la maxi-tangente pagata al governo italiano dalla società petrolifera Sinclair Oil, per lo sfruttamento del greggio in Emilia e in Sicilia. Lo stesso Matteotti, dopo un viaggio a Londra, aveva scoperto la verità e stava per renderla pubblica. Lo scandalo avrebbe travolto il neonato regime, dato che risultava implicato anche Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Ma quello era solo il “primo livello” della tangente: perché il maggiore beneficiario dell’affare non sarebbe stato Mussolini, bensì il Re.
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Pornografia e feticismo, la postmodernità delle anime morte
La postmodernità non è un esercizio filosofico, è la prassi che la nuova classe finanziaria dominante ha messo in atto per appropriarsi di ulteriori ricchezze attraverso un insieme di strategie comunicative e tramite la colonizzazione dell’inconscio. Nel contesto politico attuale, nel tempo malsano e degradato dell’egemonia dei banksters, la democrazia appare sempre più agonizzante e i Parlamenti degli Stati europei si sono svuotati di potere politico rappresentativo. I partiti tradizionali non avendo veri programmi si sono trasformati solo e unicamente in dispositivi elettorali per vincere le elezioni, e il liberismo ha sostituito le classi sociali con le categorie borghesi e popolari a-politiche e decontestualizzate: le “donne”, i “giovani”, gli “immigrati”, i “gay”, e via discorrendo. Ai diritti sociali, tutela del benessere moderno, welfare e lavoro, si sono sostituiti i diritti civili ed estetici: unioni civili, ius soli, maternità surrogata. Sparite dunque le classi (e le lotte di classe) oggi ci si concentra sull’individuo. Del resto «la società non esiste, esistono gli individui», chiosava Margaret Thatcher, punta di diamante del neoliberismo delle origini, capace di coniugare saldamente dumping salariale e riduzione del welfare a condizioni individuali, formalmente libere dalle imposizioni morali ma anche sociali tipiche delle ideologie.Schiavitù economica contrabbandata come libertà per i singoli, ma fino a un certo punto, perché si mina alla base il concetto di uguaglianza (perché dovremmo essere uguali? L’individuo non deve essere uguale a nessun altro) per favorire l’individualismo thatcheriano. Negli ultimi 10 anni si sono diffuse in Europa vari tipi di forze politiche, che sono state definite dal potere “populismi”: Indignados, Sovranisti, Podemos, M5S. Ma secondo l’ordine simbolico e linguistico imposto dal potere, con il solo obiettivo di rinsaldare il proprio dominio sui dominati, è necessario controllare la popolazione, e mantenere la massa schiavizzata in una condizione di subalternità, in modo tale che la neolingua possa diventare veicolo di potenziamento dei valori del neoliberismo. Dal 1989 il capitale ha adottato una nuova neolingua, e chiunque metta in discussione il potere oligarchico viene demonizzato come disfattista, complottista, o populista. La categoria di populista serve esattamente a diffamare ogni prospettiva che assuma la parte del Servo e non del Signore (“Fenomenologia dello spirito”, W. Friedrich Hegel).Oggi viene diffamato chiunque prenda la difesa dei lavoratori precarizzati e schiavizzati, perché ciò contraddice il potere, che vuol contrabbandare i propri dogmi ideologici come fossero interessi universali: concorrenza, competitività, globalizzazione, delocalizzazione, cancellazione dell’articolo 18, licenziabilità senza giusta causa, flessibilità. Chiunque abbia il coraggio di svelare il vero significato oscurato della neolingua viene silenziato come populista e complottista, incapace di accettare la mera ricostruzione dei fatti e degli eventi prospettata dalla mediatizzazione della realtà, che il potere ci mostra quotidianamente sugli schermi televisivi. Il termine “populismo” o “antipolitica”, viene quindi usato dal potere con toni spregiativi e diffamatori, è diventato una specie di parolaccia. E i media ci presentano una realtà confusa e distorta, Grillo come Trump, Raggi come Obama, l’imperatore buono, Premio Nobel per la pace, in realtà ha sostenuto 7 guerre in contemporanea (Afghanistan, Libia, Somalia, Pakistan, Yemen, Iraq e Siria).Modernità e Postmodernità. Termini che indicano lo spirito di una civiltà, nel suo divenire storico, antropologico e culturale. La distinzione va ricercata secondo un’analisi marxista, l’aforisma di Marx, per cui «la cultura dominante coincide perfettamente con la cultura della classe dominante» (Karl Marx, “Ideologia tedesca”). Le realtà virtuali, l’iperrealtà, sono la matrice della Postmodernità, strettamente correlate all’uso di macchine creatrici di virtualità: Pc, Tablet, iPhone… Se la “produzione” è la cifra della Modernità, la “simulazione” è quella della Postmodernità. La Postmodernità ridimensiona la produzione per favorire la simulazione, sposta ingenti masse di salariati dalle fabbriche al terziario o oltre, azzera quella middle class che era il volano dell’economia dei consumi, chiude impianti produttivi. La disoccupazione di massa è la vera piaga della postmodernità: felicità virtuale e disperazione reale.L’Illuminismo aveva concentrato l’attenzione sull’impatto politico della nuova mentalità scientifica, che inneggiava all’“Homo faber fortunae suae”, e aveva indotto i nuovi uomini a sostenere le prime grandi rivoluzioni della storia, Rivoluzione Americana 1776, Rivoluzione Francese 1789. Il background filosofico culturale entro cui nasce il populismo è dunque l’età postmoderna, che propone una narrazione sempre più inquieta e socialmente devastante, dove le solide narrazioni della modernità si sono frantumate contro il nonsense di un sistema sociale globalizzato, sfilatosi verso una remota periferia a-ideologica. Diversi autori hanno percepito in anticipo l’avvento del postmoderno, e lo hanno interpretato attraverso la loro acuta sensibilità, a partire dagli anni ’70: Jean-François Lyotard, Guy Debord, Jean Baudrillard, Marc Augé, Zygmunt Bauman. Al popolo postmoderno non interessa la “verità” dei fatti né il senso degli eventi, perché vuole ascoltare solo le narrazioni, favole illusionistiche, simulacri evanescenti, emersi direttamente dal nuovo oscuro inconscio collettivo, e dalla società dello spettacolo.Le nuove minacce metropolitane sono: migranti e clandestini che invadono il paese, offrendo manodopera a basso costo, ingrossando le file della microcriminalità e minando così la serenità sociale; grottesche crociate contro l’Islam; politiche di austerity che massacrano l’economia dell’Italia, divenuta il Sud Europa. La “notizia” della postmodernità è una fake news, consiste nella negazione stessa dell’informazione, perché non mira a informare sulla “verità” dei fatti, ma li reinterpreta deformandoli, proprio per oscurarli completamente (Marco Travaglio, “La scomparsa dei fatti”). Jean-François Lyotard, nel suo testo “La condizione postmoderna” (1979), conia il nuovo termine di “postmoderno” per definire l’epoca attuale. Il termine designa uno sviluppo tecnologico e scientifico che ha delle ricadute immediate sulla vita quotidiana e sulla politica. Lo sviluppo tecnologico diventa sempre più invasivo per il benessere neurovegetativo umano (“Psyche e Techne”, Umberto Galimberti). La pornografia dei media produce la molteplicità dei linguaggi, la contaminazione degli stili, un citazionismo ossessivo (film di Quentin Tarantino), tipico di un’epoca che non ha più nulla da dire, se non ripetere all’infinito, in modalità sempre diverse, le stesse tematiche.Ne è derivata la perdita di centralizzazione nell’organizzazione dello Stato (federalismo), la perdita di sovranità (euro, Ue), un aumento dei “processi di disgregazione dello Stato Nazione”. L’Occidente sta vivendo una stagione sconcertante, attraversata dalle rapidissime trasformazioni scientifico-tecnologiche. Con grande lucidità, Lyotard propone una partizione storiografica tra l’epoca moderna (secoli XVII e XX) e l’epoca post-moderna, che si è affermata compiutamente nel tardo Novecento. I moderni e i postmoderni professano una visione dell’uomo, della società e in genere della realtà, antitetiche nei loro aspetti più essenziali. L’idea forte dei moderni è il progresso umano, essi concepiscono la storia come un processo di emancipazione progressiva nella quale l’uomo realizza e arricchisce le proprie facoltà. L’idea forte della modernità è il progresso, inteso come orientamento a un modello di vita e di azione, come aspirazione a valori ultimi, fondati sulla capacità dell’uomo di esercitare la ragione. Ciò che definisce l’essenza della condizione post-moderna, invece, è proprio la negazione della capacità umana di produrre il progresso, una sorta di nichilismo dei valori. Ne segue la negazione della scuola e dell’università come agenti di socializzazione e orientamento di valori. La perdita di potere e di funzione sociale dell’intellettuale, che a partire dall’età dei Lumi era stato la coscienza della modernità. Tutto molto strano per quella che viene definita la «società della conoscenza».Guy Debord, di formazione hegeliana e marxista, è stato uno dei critici più importanti delle società occidentali avanzate. L’incipit della “Società dello Spettacolo” (1967) riprende a un secolo di distanza quello del “Capitale” (1867) di Marx: «Tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci». L’incipit dell’opera di Debord è: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli» (“La Società dello Spettacolo”). Secondo Debord, La caratteristica principale del capitalismo moderno consiste nell’accumulazione del capitale, nell’espansione delle tecnologie della comunicazione, e nel «feticismo delle merci». Quest’aspetto dello spettacolo è sicuramente «la sua manifestazione sociale più opprimente» («Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini»). Tuttavia lo spettacolo è necessariamente falso ed ingannevole, giacché struttura le immagini secondo gli interessi di una parte della società.«Per il fatto stesso che lo spettacolo è separato, è il luogo dell’inganno dello sguardo e il centro della falsa coscienza». Lo spettacolo è così il prodotto della mercificazione della vita moderna, il progresso del capitalismo consumistico verso il feticismo e la reificazione. E poi, giacché la comunicazione dei media è unilaterale, il Potere giustifica se stesso attraverso un incessante discorso elogiativo del capitalismo e delle merci da esso prodotte. «Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere». Lo spettacolo del capitalismo presuppone quindi l’assenza di dialogo, poiché è solo il potere a parlare. «Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare di isolamento». Ridotto al silenzio, al consumatore non resta altro che ammirare le immagini che altri hanno scelto per lui. L’altra faccia dello spettacolo è l’assoluta passività del consumatore, il quale ha esclusivamente il ruolo, e l’atteggiamento, del pubblico, ossia di chi sta a guardare, e non interviene. In questo modo lo spettatore è completamente dominato dal flusso delle immagini, che si è ormai sostituito alla realtà, creando un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato.È vero ciò che lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto ciò che non rientra nel flusso delle immagini selezionato dal potere, è falso, o non esiste. Come l’immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. I consumatori piuttosto che fare esperienze dirette, si accontentano di osservare nello spettacolo tutto ciò che a loro manca. Per questo lo spettacolo è il contrario della vita. Debord descrive in questi termini l’alienazione del consumatore: «Più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio». In una società mercificata, sostiene Debord, è la merce ad avere un ruolo centrale. Ogni merce promette il soddisfacimento dei bisogni, e quando arriva l’inevitabile delusione, dovuta al fatto che tali bisogni sono fittizi e manipolati, subentra una nuova merce pronta a mantenere la promessa disillusa dall’altra. Si crea così una concorrenza tra le merci, rispetto alla quale il consumatore frustrato è un mero spettatore.Questo modello impregna di sé, ormai, tutta la vita sociale, divenendo il prototipo di ogni competizione, compresa quella politica. Questa si riduce alla competizione tra leader che vendono la propria immagine come una merce, e fanno promesse che non manterranno mai. Il tutto nell’assoluta passività e apatia dei “cittadini”. Alle regionali siciliane Vittorio Sgarbi si presenta con un movimento, “Rinascimento siciliano”, insieme a Morgan e Giulio Tremonti, proponendo un trinomio decisamente bizzarro, composto da vecchi arnesi della politica spettacolo, camuffati da nuova proposta rinascimentale. La società è completamente dominata da immagini falsificate che sostituiscono la realtà, facendo scomparire qualsiasi verità al di là della falsificazione continua. Ciò determina una disincantata rilettura della storia, definitivamente sottratta a ogni finalismo e quindi anche della democrazia. La finzione di democrazia è mantenuta in vita solo attraverso la costruzione di un nemico comune, il quale consente una falsa unità che ricopre la realtà della separazione gerarchica tra dirigenti ed esecutori. È questo il ruolo del terrorismo. «Questa democrazia così perfetta fabbrica da sé il suo inconciliabile nemico, il terrorismo. Vuole infatti essere giudicata in base ai suoi nemici piuttosto che in base ai suoi risultati».La mondializzazione dell’economia è l’apogeo di questo processo che si distingue da ciò che l’ha preceduta per un solo elemento, ma d’importanza decisiva. «Il fatto nuovo è che l’economia abbia cominciato a fare apertamente guerra agli umani; non più soltanto alle possibilità della loro vita, ma anche a quelle della loro sopravvivenza». Si può quindi affermare che «l’economia onnipotente è diventata folle, e i tempi spettacolari non sono altro che questo». Nella comunità la comunicazione prende la forma del dialogo e della discussione ai quali ciascuno può partecipare, condizione necessaria per prendere decisioni in comune. Questa comunicazione diretta è l’opposto di quella unilaterale dello spettacolo, nel quale una parte separatasi dalla totalità pretende di essere l’unica a parlare impartendo ordini che il resto della società deve limitarsi ad eseguire. Per essere rivoluzionario, dunque, il proletariato dovrebbe riprendere coscienza del tempo storico, ossia del fatto che l’economia è il vero motore della storia. A questa presa di coscienza si oppone lo spettacolo che cerca di perpetuarsi diffondendo la finzione di un eterno presente che pretende di aver posto fine alla storia.Jean Baudrillard poi, altro acuto osservatore del postmoderno, ha illustrato la frammentazione dell’identità e l’immagine frammentata del mondo e dell’uomo, confezionata dai mass media contemporanei, i quali trasformano il mondo in una serie di pseudo-eventi di natura spettacolare. Per lo spettatore dei media tutto si riduce ad apprezzare l’intensità e le sensazioni della superficie delle immagini, senza poter attivare in modo consistente meccanismi di identificazione e di proiezione nei confronti di personaggi e caratteri. Baudrillard inizia con la critica polemica verso il capitalismo. Smantellate le grandi teorie che guardavano alla realtà come un sistema complesso ma ordinato e descrivibile (“Idealismo o Positivismo”), il presente diventa ora un insieme di segni. Oggi predomina una iperrealtà virtuale, fatta di segni e simulacri (“Simulacri e simulazioni”, 1981). Ad essere messo in discussione è il concetto di realtà, non di verità, come spesso era accaduto in passato. Lo sguardo di Baudrillard che si proietta sul quotidiano è pessimistico, per non dire tragico e drammatico. La cultura produce qualcosa senza significato, e la sola branca del reale che è in grado di tenere in mano le sorti dell’uomo è l’industria, la società dei consumi.I nuovi media hanno giocato un ruolo cruciale nella fabbricazione del significato o finto valore della realtà. Nel suo libro “Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?” (1996), Baudrillard ha spiegato come la televisione abbia sostituito la realtà. Tutto ciò che vediamo attraverso lo schermo è una comunicazione artificiale, un reale contraffatto, che diventa la vera realtà. Consideriamo Disneyland, Las Vegas, dove tutto è incastrato in un meccanismo di funzionamento invidiabilmente impeccabile, un mondo finto che però funziona alla perfezione. Ci rechiamo volontariamente in tali luoghi perché attratti dalla spettacolarità magnetica della ri-creazione, della meraviglia, del simulacro. Siamo assorbiti dalla manipolazione dei media, dei programmi informatici e delle psicologie commerciali. Qual è l’originale realtà per noi? Viviamo di segni e simulacri realtà virtuali o siamo in grado di coglierne la differenza con criticità? Viviamo nei non-luoghi, definiti così da Marc Augé nel libro “Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità”. Gli spazi privi di identità, relazioni e storia: autostrade, svincoli e aeroporti, mezzi di trasporto, grandi centri commerciali, outlet, campi profughi, sale d’aspetto, ascensori… ecc ecc. Spazi in cui milioni di individui si incrociano senza entrare in relazione, senza entrare in contatto, senza discutere, parlare, guardarsi, dialogare… l’esatto contrario dell’agorà di Atene, culla della democrazia. Sospinti solo dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare viaggi e percorsi.I nonluoghi sono prodotti della società della postmodernità, dove i luoghi della memoria sono confinati e banalizzati in posizioni limitate e circoscritte alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”. Le differenze culturali sono massificate, in ogni centro commerciale possiamo trovare cibo cinese, italiano, messicano e magrebino. Il mondo con tutte le sue diversità è tutto racchiuso lì. I nonluoghi sono incentrati solamente sul presente, caratterizzato dalla precarietà assoluta dalla provvisorietà, dal viaggio, dal passaggio e da un individualismo solitario. Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi abita. Nel film “The Terminal” di Steven Spielberg, il protagonista, Tom Hanks, un cittadino di un immaginario Stato dell’Europa orientale, atterra a New York e dopo aver scoperto che nel suo paese è avvenuto un colpo di Stato, diviene improvvisamente un uomo senza nazionalità, e perciò impossibilitato sia a uscire nella tanto agognata New York, sia a fare ritorno a casa, quindi resta prigioniero e si integra perfettamente nel nonluogo. I nonluoghi sono presenti anche sulla moneta Euro, con l’effigie di edifici e monumenti privi di identità e di storia, a differenza delle immagini presenti sulla Lira di Caravaggio, Verdi, Montessori, Galileo, Marconi, Colombo…Gli utenti si accontentano della sicurezza di poter trovare in qualsiasi angolo del globo la propria catena di ristoranti preferita o la medesima disposizione degli spazi all’interno di un aeroporto. Da qui un paradosso: il viaggiatore di passaggio smarrito in un paese sconosciuto si ritrova solamente nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio e degli altri nonluoghi (“Villaggio globale”, Marshall McLuhan). Il rapporto fra i nonluoghi e i suoi abitanti avviene solitamente tramite simboli, parole o voci preregistrate. L’esempio lampante sono i cartelli affissi negli aeroporti vietato fumare oppure non superare la linea bianca davanti agli sportelli. L’individuo nel nonluogo perde tutte le sue caratteristiche di cittadino e i suoi ruoli personali per continuare a esistere solo ed esclusivamente come cliente o utente. Non vi è un riconoscimento delle classi sociali, come siamo abituati a pensare nel luogo antropologico. Si è socializzati, identificati e localizzati solo in occasione dell’entrata o dell’uscita dal nonluogo; per il resto del tempo si è soli e simili a tutti gli altri utenti/ passeggeri/ clienti/ consumatori che si ritrovano a recitare una parte che implica il rispetto delle regole.La società che si vuole democratica non pone limiti all’accesso ai nonluoghi. Farsi identificare come consumatori solvibili, attendere il proprio turno, seguire le istruzioni, fruire del prodotto e pagare. Anche il concetto di “viaggio” è stato pesantemente attaccato dalla surmodernità: i grandi “nonluoghi” posseggono ormai la medesima attrattività turistica di alcuni monumenti storici. Il più grande centro commerciale degli Stati Uniti d’America, il “Mall of America”, richiama oltre 40 milioni di visitatori ogni anno. Scrive il critico Michael Crosbie nella rivista “Progressive Architecture”: «Si va al Mall of America con la stessa religiosa devozione con cui i Cattolici vanno in Vaticano, i Musulmani alla Mecca, i giocatori d’azzardo a Las Vegas, i bambini a Disneyland». Anche i centri storici delle città europee si stanno sempre di più omologando, con i medesimi negozi e ristoranti, il medesimo modo di vivere delle persone e addirittura gli stessi artisti di strada. L’identità storica delle città è stata ridotta a stereotipo di richiamo turistico. Nell’Europa che tenta di fermare l’ingresso dei migranti, si crea un’ambivalenza dei nonluoghi: quelli dell’abbondanza, e quelli della miseria, come campi profughi, centri di detenzione dei migranti et similia. In essi però l’identità è pericolosa per chi ci si trova, poiché espone al rischio di espulsione o incarcerazione.Zigmunt Bauman è stato forse il pensatore, che ha meglio interpretato il disorientamento contemporaneo. Molti saggi di grande successo, a partire da “Dentro la globalizzazione” del 1998, o “Modernità liquida” del 2000, lo hanno decretato il guru del pensiero della postmodernità. La modernità liquida, concetto fra i più noti del sociologo, ci dice che con la fine delle grandi narrazioni del secolo scorso sono finite anche le certezze del passato in ogni ambito, dal welfare al lavoro fisso, dalla sanità pubblica alle pensioni, la postmodernità le ha smontate tutte, dissacrandole e mescolandole a pulsioni nichilistiche. L’unica comunità dell’individuo è diventata il consumo, la sua unità di misura l’individualismo antagonista ed edonista in cui nuotiamo tutti noi senza più una missione comune (“Amore liquido”, 2003 o “Vita liquida”, 2005). La fase che viviamo è propizia alla nascita dei populismi, che nascono dall’indignazione. Dagli Indignados ad Occupy Wall Street fino ai movimenti populisti europei, l’ordine costituito viene fortemente contestato, con istanze naturalmente diverse ma sempre antisistema. La modernità poggiava sull’etica del lavoro, perché il capitalismo produttivo aveva bisogno di quadri dirigenziali, che facessero funzionare le industrie, fonte del proprio profitto, quindi c’era necessità di welfare, scuola pubblica, benessere per la collettività destinata a gestire le fabbriche.Al contrario, la postmodernità esalta l’estetica del consumo, che trasforma il mondo in un “immenso campo di sensazioni sempre più intense”. Un mondo spesso investito dalla pubblicità o dal venditore di turno. L’esasperazione della soggettività, trova anche incredibili attuazioni tecnologiche come la realtà virtuale (“La solitudine del cittadino globale”, 1999). Bauman in particolare nel libro “Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida” del 2014, parla di un approccio del tutto diverso rispetto alle strutture di potere. Jeremy Bentham e Michel Foucault avevano parlato di Panopticon, inteso come carcere centralizzato che controlla migliaia di detenuti, e in cui bastano pochi agenti di sicurezza per la custodia, metafora evidente del potere centralizzato della modernità e del suo controllo sulla società moderna. Bauman invece parla di un modello di società in cui le forme di controllo assumono le fattezze dell’intrattenimento e dunque del consumo, in cui sotto l’attenzione delle organizzazioni transnazionali finiscono i dati e le persone, o meglio le loro emanazioni digitali, i cui rischi più elevati sono la privacy, la libertà di azione e di scelta. La novità postmoderna è che questo spazio del controllo ha perso i muri, e a dire il vero non occorrono neanche più i sorveglianti, visto che le “vittime” contribuiscono a collaborare al loro stesso controllo. Sono impegnati nell’autopromozione e non hanno gli strumenti per individuare l’aspetto oscuro nascosto sotto a quello seduttivo.La globalizzazione è dunque un processo intimamente legato alle forze di mercato che ha ripercussioni su molti altri settori della vita, in pratica è una nuova forma d’imperialismo finanziario, impadronirsi dell’economia degli Stati, della loro moneta e della loro sovranità. Le forze economiche, infatti, hanno trasceso la dimensione nazionale, hanno perso ogni legame col territorio, dettano legge e non si prefigurano più come sistema produttivo dell’uomo per l’uomo, ma come sistema auto-referenziale, fine a se stesso. Le corporation trasnazionali muovono in uno spazio extraterritoriale, volano sopra i confini dello Stato nazionale, fino ad oggi strumento di rappresentazione delle identità sociali, eludendo ogni sorta di controllo politico e collettivo, ignorando le differenze economiche, politiche, culturali, etniche e religiose delle singole nazioni. Il potere della globalizzazione economica è ormai senza volto e senza luogo, introduce la flessibilità come dogma e preannuncia l’incertezza delle esistenze, vissute nell’affannosa rincorsa per rimanere nella società dei consumi. Il potere ci tiene in scacco lasciandoci soli, levandoci qualsiasi capacità di autodeterminazione e programmazione futura.Nascere in Italia 40 anni fa significava avere buone probabilità di vivere la propria vita in quegli stessi luoghi, avere la speranza di trovare un lavoro vicino a casa, di conoscere i propri concittadini, la possibilità di fare previsioni verosimili sul proprio futuro. Oggi, si nasce in luoghi che mediamente vengono lasciati nella prima adolescenza, i giovani seguono opportunità di lavoro fugaci, sempre più volatili ed evanescenti, i lavoratori vengono assunti in aziende che da un momento all’altro potrebbero delocalizzare. Le spinte all’individualismo e alla competizione determinano questo stile di vita veloce che porta con sé nuova alienazione: quella dell’uomo e dei suoi rapporti. Per il cittadino globale la leggerezza e la velocità di spostamento sono caratteristiche fondamentali, meno vincoli si hanno e più si è pronti alla sopravvivenza nella selva-mondo virtuale, senza barriere né confini. Anche le relazioni umane, dice Bauman, si adeguano e si plasmano sulla base di un consumo ipertrofico, sono sempre più numerose ma sempre più brevi e superficiali. E così, la nostra situazione affonda in un mare di indifferenza, che è l’unica arma di difesa valida a breve termine nei confronti dell’incertezza di ogni giorno.Nella postmodernità è nata una nuova immagine di società, come spazio che racchiude una molteplicità di individui senza più alcuna cornice comune, sempre più uguali nei loro destini ma sempre più divisi e soli nelle proprie vite. Aumenta poi costantemente il divario tra la condizione dei poveri e quello dei ricchi. Il populismo, in modo particolare il M5S, per quanto riguarda la situazione italiana, è quindi la reazione culturale e politica rispetto alle condizioni sociali drasticamente mutate nel tempo della postmodernità, dopo il golpe messo in atto dalla nuova classe sociale dominante, quell’aristocrazia finanziaria che mira a distruggere i diritti del lavoro, a proletarizzare la middle class, a desovranizzare gli Stati, ad americanizzare l’Europa. Data la potenza propagandistica dei media, riuscirà veramente a vincere le prossime elezioni politiche e a prendere il potere? Oppure sarà costretto inevitabilmente ad abbandonare istanze essenziali delle proprie battaglie, soggiogato dalla potenza della restaurazione liberista?(Rosanna Spadini, “Populismi e postmodernità”, da “Come Don Chisciotte” del 28 settembre 2017).La postmodernità non è un esercizio filosofico, è la prassi che la nuova classe finanziaria dominante ha messo in atto per appropriarsi di ulteriori ricchezze attraverso un insieme di strategie comunicative e tramite la colonizzazione dell’inconscio. Nel contesto politico attuale, nel tempo malsano e degradato dell’egemonia dei banksters, la democrazia appare sempre più agonizzante e i Parlamenti degli Stati europei si sono svuotati di potere politico rappresentativo. I partiti tradizionali non avendo veri programmi si sono trasformati solo e unicamente in dispositivi elettorali per vincere le elezioni, e il liberismo ha sostituito le classi sociali con le categorie borghesi e popolari a-politiche e decontestualizzate: le “donne”, i “giovani”, gli “immigrati”, i “gay”, e via discorrendo. Ai diritti sociali, tutela del benessere moderno, welfare e lavoro, si sono sostituiti i diritti civili ed estetici: unioni civili, ius soli, maternità surrogata. Sparite dunque le classi (e le lotte di classe) oggi ci si concentra sull’individuo. Del resto «la società non esiste, esistono gli individui», chiosava Margaret Thatcher, punta di diamante del neoliberismo delle origini, capace di coniugare saldamente dumping salariale e riduzione del welfare a condizioni individuali, formalmente libere dalle imposizioni morali ma anche sociali tipiche delle ideologie.
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Di Maio verso il Pd, attraverso Grasso e l’amico americano?
Sta’ a vedere che i 5 Stelle si preparano a fare da stampella post-elettorale al Pd, con la mediazione delle “frattaglie piddine” capitanate da Grasso, a sua volta eterodiretto, tramite D’Alema, dagli ambienti “democrat” Usa, clintoniani e obamiani. «Se non avremo la maggioranza assoluta ci assumeremo la responsabilità di non lasciare il paese nel caos», ha detto Luigi Di Maio a Conrad Tribble, funzionario del Dipartimento di Stato. «Di Maio all’interprete fa tradurre la parola ‘convergenze’», scrive la “Stampa”: «Non si sbilancia ma fa intendere che intese in Parlamento, magari su un programma di pochi punti, sono possibili». E questa è una notizia, rileva Roberto Buffagni sul blog “Italia e il Mondo”: «Senza averne mai fatto cenno né a militanti ed elettori del M5S, né in generale agli italiani, Di Maio annuncia a un diplomatico americano di medio rango che il M5S opera una conversione di 180° non solo della sua linea politica, ma della sua carta dei principi fondatori», uno su tutti: “mai alleanze con nessuno”. Se alle elezioni 2018 l’area Pd non dovesse raggiungere il 40%, quindi il premio di maggioranza, potrebbero essere i 5 Stelle a «metterci una toppa e sostenere il governo piddino o parapiddino, entrando nella maggioranza di governo nella forma più opportuna», cioè raccontando «la supercazzola che può meglio confondere le idee ai suoi elettori».Questa inversione di rotta provocherà reazioni serie nel Movimento 5 Stelle dei “duri e puri”? «Qualcosa mi dice che non le provocherà, visto il grado di autonomia dei dirigenti e il quoziente di intelligenza politica del militanti», scrive Buffagni. E questo potrebbe voler dire che «ci beccheremo un governo Pd + frattaglie piddine + M5S, una prospettiva apocalittica». Aggiunge Buffagni: «Dopo questa tragica pagliacciata, per credere che il M5S non sia eterodiretto dagli ambienti “democrat” Usa ci vuole una riserva di ingenuità e fiducia nella bontà del mondo della quale disponevo (forse) a dodici anni. A sessantuno, ho finito le scorte da un pezzo». E adesso, aggiunge Buffagni, «si capisce meglio da dove origina l’imprevista candidatura di Piero Grasso a leader delle frattaglie piddine: origina dai referenti americani di D’Alema, gli ambienti clintoniani e obamiani presso i quali D’Alema si accreditò bombardando illegalmente Belgrado». Ambienti oggi non esattamente in piena forma, ma che «ogni tanto pensano anche a noi, la loro cara portaerei mediterranea, e in vista delle prossime elezioni si preparano un ventaglio di possibilità favorevoli».Buffagni immagina un prevedibile stallo elettorale: da una parte il Pd che cala ma non perde troppi voti, e le “frattaglie piddine” che riescono a superare lo sbarramento e quindi a entrare in Parlamento, e dall’altra Forza Italia che supera la Lega: in questo caso, si prospetterebbe una grande coalizione Pd-Fi, con Renzi o Gentiloni premier. Ipotesi due: il Pd prende una mazzata epocale e le “frattaglie” fanno un discreto risultato, mentre Forza Italia supera la Lega: a quel punto, «governo Pd+M5S guidato dal Capofrattaglie Piero Grasso, il Magistrato Integerrimo che garantisce il Governo dell’Onestà per i trinariciuti 5 Stelle». In breve, chiosa Buffagni, «il M5S si fa protagonista di una riedizione aggiornata dello schema di subalternità della “sinistra critica” alla “sinistra ortodossa”: intercettare il dissenso, e al momento buono riversare i voti sulla sinistra di governo; solo che lo fa con il 25% dei voti, il che cambia tutto». Nota di speranza finale: «Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, e anche alla stupidità c’è un limite. Non è detto che questa indigesta ciambella Centrosinistra+Cinquestelle riesca col buco».Sta’ a vedere che i 5 Stelle si preparano a fare da stampella post-elettorale al Pd, con la mediazione delle “frattaglie piddine” capitanate da Grasso, a sua volta eterodiretto, tramite D’Alema, dagli ambienti “democrat” Usa, clintoniani e obamiani. «Se non avremo la maggioranza assoluta ci assumeremo la responsabilità di non lasciare il paese nel caos», ha detto Luigi Di Maio a Conrad Tribble, funzionario del Dipartimento di Stato. «Di Maio all’interprete fa tradurre la parola ‘convergenze’», scrive la “Stampa”: «Non si sbilancia ma fa intendere che intese in Parlamento, magari su un programma di pochi punti, sono possibili». E questa è una notizia, rileva Roberto Buffagni sul blog “Italia e il Mondo”: «Senza averne mai fatto cenno né a militanti ed elettori del M5S, né in generale agli italiani, Di Maio annuncia a un diplomatico americano di medio rango che il M5S opera una conversione di 180° non solo della sua linea politica, ma della sua carta dei principi fondatori», uno su tutti: “mai alleanze con nessuno”. Se alle elezioni 2018 l’area Pd non dovesse raggiungere il 40%, quindi il premio di maggioranza, potrebbero essere i 5 Stelle a «metterci una toppa e sostenere il governo piddino o parapiddino, entrando nella maggioranza di governo nella forma più opportuna», cioè raccontando «la supercazzola che può meglio confondere le idee ai suoi elettori».
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La fabbrica delle notizie gonfiate: come nella Corea del Nord
Un fatto di cronaca, una deprecabile testata di un presunto criminale finora incensurato a un giornalista – una notizia che avrebbe meritato un titolo in cronaca – tiene banco da svariati giorni e da giorni diventa apertura dei telegiornali e dei quotidiani. Una stupida e crudele manipolazione di una foto di Anna Frank per cazzeggi sportivi diventò per giorni e giorni una tragedia nazionale con mobilitazione delle istituzioni, preghiere e letture negli stadi e nelle scuole per riparare alla profanazione e denunciare la rinascita del solito razzismo e nazismo. E più indietro, una scritta sui muri sul tema diventò argomento di apertura dei giornali e dei tg con relativa denuncia del pericolo fascista tornante. Lo stupro compiuto da un magrebino ai danni di una ragazza che si era ubriacata e si era accompagnata a lui, assume rilevanza nazionale ma solo per deprecare il prete che ha usato parole troppo dure per dire una cosa giusta: se vi sballate e vi accompagnate agli sconosciuti poi non lamentatevi. Ho citato solo i primi che mi sono venuti alla mente, ma la dilatazione di una parola, di un gesto, di un atto violento da bullo di periferia al rango di Evento Nazionale, di Dramma Epocale è ormai roba di ogni giorno. Analoghi o più gravi fatti ma di segno diverso passano inosservati o relegati nelle pagine interne.Non ci sono in queste vicende né morti né stragi, deportazioni di popoli, violenze di massa, minacce alla sicurezza; sono fatti di cronaca che avrebbero meritato un titolo sui giornali ma non il lutto nazionale e l’allarme generale. Ma servono tutti per tenere vivo e dominante il Grande Racconto Ideologico, per alimentare la religione del politically correct. Dove i fatti spariscono e restano le “narrazioni” che aspirano a dimostrare una sola cosa: mafia, fascismo, razzismo, fanatismo, violenza anche sportiva, sono la stessa cosa. A nulla vale obbiettare che “il testa” è un sinti e non un fascio italiano, che simpatizzava per Grillo e magari pure per il Pd, e comunque è irrilevante la sua opinione politica, ha reagito violentemente perché non voleva la troupe addosso e non per motivazione “politica”. E a nulla vale aggiungere che Ostia è come un migliaio di comuni italiani sotto attacco o infiltrazione della malavita, tra mafia, camorra, ‘ndrangheta, simili e derivati. Nel resto dei comuni non comandano i puffi, sono ben inseriti i ladri comuni, i corrotti comuni, i comitati d’affari di ogni giorno. Ma a Ostia si vota, CasaPound ha preso un sacco di voti, è in gara un candidato di destra; ergo la vigilanza democratica e antifascista deve raggiungere il massimo grado di attenzione. E a proposito di mafia & fascismo a nulla vale ricordare per la verità storica che l’unico momento in cui la mafia fu cacciata dall’Italia e poi tornò nel ’43 con gli americani fu – ma guarda un po’ – durante il fascismo.Ora mi chiedo: ma che messaggio diamo ai cittadini, ai lettori, agli ascoltatori se i fatti principali sono questi e servono tutti a una pedagogia ideologica di massa? Poi vi lamentate delle fake news, ma è già la fabbrica delle notizie gonfiate e manipolate a drogare i fatti per veicolare l’opinione pubblica e distorcere la realtà. In uno stupro il colpevole dovrebbe essere lo stupratore, quindi in seconda battuta è complice la leggerezza delle ragazze che si sballano e si accompagnano a gente così. Invece per i media il colpevole è il prete che ha usato un linguaggio troppo aspro per dire una cosa sensata e vera. Ma la verità non esiste nel panorama balengo della disinformazione di massa. Se la prendono coi titoli urlati di “Libero” ma la realtà, la verità, la priorità delle notizie è stuprata ogni giorno anche dall’informazione di Stato. I nostri notiziari sembrano la versione occidentale di quelli coreani. Solo che da noi la dittatura non è nelle mani di Kim ma del politically correct. E giù censure a chi non la pensa così. Poi vi lamentate se la gente trova un alibi per disertare l’informazione, per non comprare i giornali, per barricarsi con le cuffie e i telefonini nella propria egoistica privacy.Un fatto di cronaca, una deprecabile testata di un presunto criminale finora incensurato a un giornalista – una notizia che avrebbe meritato un titolo in cronaca – tiene banco da svariati giorni e da giorni diventa apertura dei telegiornali e dei quotidiani. Una stupida e crudele manipolazione di una foto di Anna Frank per cazzeggi sportivi diventò per giorni e giorni una tragedia nazionale con mobilitazione delle istituzioni, preghiere e letture negli stadi e nelle scuole per riparare alla profanazione e denunciare la rinascita del solito razzismo e nazismo. E più indietro, una scritta sui muri sul tema diventò argomento di apertura dei giornali e dei tg con relativa denuncia del pericolo fascista tornante. Lo stupro compiuto da un magrebino ai danni di una ragazza che si era ubriacata e si era accompagnata a lui, assume rilevanza nazionale ma solo per deprecare il prete che ha usato parole troppo dure per dire una cosa giusta: se vi sballate e vi accompagnate agli sconosciuti poi non lamentatevi. Ho citato solo i primi che mi sono venuti alla mente, ma la dilatazione di una parola, di un gesto, di un atto violento da bullo di periferia al rango di Evento Nazionale, di Dramma Epocale è ormai roba di ogni giorno. Analoghi o più gravi fatti ma di segno diverso passano inosservati o relegati nelle pagine interne.
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Italia sconfitta: non solo calcio, è il paese a non vincere più
«Personalmente vedo l’uscita dell’Italia dal girone finale dei mondiali di calcio come la Nemesi, la giusta punizione per un paese cantato da Dante quale regno dell’ignavia». Mai definizione fu più azzeccata, per Mitt Dolcino, che ricorda: nel 1996 la sconfitta con la Corea fermò l’invasione dei calciatori stranieri in Italia, concentrandosi sugli italiani e portando in dote il mondiale 15 anni dopo. Che farà l’Italia, ora che anche i giovani italiani scappano? Dettaglio: queste note profetiche, Dolcino le ha scritte (su “Scenari Economici”) prima di conoscere l’esito del catastrofico match di San Siro, conclusosi a reti inviolate tra le lacrime dell’eroe nazionale Buffon. Calcio a parte: un segnale sinistro, simbolico e inquietante, per un’Italia che non riesce più a vincere. Fuor di metafora: «C’è una regola abbastanza affidabile: vittorie ricorrenti nello sport arrivano quando un paese funziona, nel caso del calcio quando l’economia “tira” almeno in certi settori in cui il paese rappresentato eccelle». Questo vale certamente per l’Italia, assicura Dolcino: i 4 mondiali di calcio vinti dalla nazionale azzurra «sono arrivati a seguito di grandi miglioramenti differenziali a livello economico». Anche il mitico “mundial” spagnolo del 1982, quello di Bearzot (con Pertini al seguito) arrivò dopo l’aggancio della ripresa Usa spinta da Reagan.Stesso discorso per i mondiali pre-bellici, continua Dolcino, in cui «la crescita innescata dalle conquiste fasciste – prima di fare la follia di seguire Hitler – aveva dato nuova linfa alla speranza italica». La stessa “ratio” vale anche per il mondiale del 2006, quando l’Italia «era il darling europeo degli anglosassoni, con la proficua guerra in Iraq, mentre Germania e Francia arrancavano nel Vecchio Continente, incazzate con gli italiani troppo filo-Usa». Tutto sommato «anche per Italia ’90 si poteva vincere», visto che «l’economia italiana pre-Tangentopoli tirava alla grande». Dolcino ricorda anche «i trionfi sportivi del venerato Moro di Venezia figlio di Montedison, azienda poi svenduta ai francesi per via di una tangente pagata alla magistratura milanese». Agli sfortunati mondiali Usa 2000 «si poteva vincere sulle ali dell’illusione speranzosa – mal riposta – della scellerata entrata nell’euro». Oggi, invece, «l’Italia è letteralmente annichilita dallo schema che la Germania ha imposto attraverso l’euro, un piano per affossare il più grande alleato Usa non-anglosassone in Europa».Peggio: «L’Italia è prossima al fallimento economico». Nei piani franco-tedeschi «il prossimo anno arriverà la Troika per disporre degli asset nazionali più preziosi, in presenza di una classe politica nazionale non-eletta che, da 4 governi, fa gli interessi stranieri e non quelli italiani». Non poteva conoscere il risultato di Italia-Svezia, Dolcino, quando scriveva: «Pensate davvero che possa vincere i mondiali un paese al collasso, prossimo al fallimento, con l’Inps che deve attingere per oltre 100 miliardi di euro annui ai bilanci statali per non fallire?». Pensate davvero che possa farcela, un paese «con crescita del Pil nulla o quasi, con centinaia di migliaia di disperati che arrivano sulle coste», quelli che per la sinistra «saranno il futuro»? Questo è un paese «con le tasse più alte d’Europa per le imprese». In altre parole: così, non si va da nessuna parte (nemmeno ai mondiali di calcio, infatti). Il parallelo con il pallone è suggestivo e impietoso: «Il Milan del Cavaliere vinceva perchè l’economia tirava, perchè il Cavaliere fu un grande condottiero sportivo, perchè c’erano delle nicchie con enorme valore associato che permettevano al calcio italiano di eccellere».Oggi c’è qualcosa o qualcuno che eccelle in Italia? Voi direte, la Ferrari o qualcosa del genere. Vero, ma allora dovreste tifare Olanda, visto che la sede è là». Colpa delle delocalizzazioni? Certo, «imposte da tasse altissime, come conseguenza del rigore euro-imposto». La fuga delle aziende ormai ha lasciato «il deserto economico (e sociale)», vale a dire «un paese con bassi stipendi, dormitorio di vecchi, a forte emigrazione di italiani capaci e formati, serbatoio di manodopera a basso costo, con masse consumanti ma non risparmianti in quanto il valore aggiunto deve rimanere per forza oltre Gottardo. E tutto questo per preciso volere euro-tedesco». Come non far giungere il nostro sentito grazie agli ultimi quattro premier, tutti rigorosamente non-eletti? Monti e Letta, Renzi e Gentiloni: grazie, «per non aver difeso il paese». Scriveva Dolcino, alla vigilia di Italia-Svezia: «Sappiate che non gioirò per l’eventuale mancata qualifica, spero anzi che l’Italia possa farcela. Ad ogni modo non tutto il male vien per nuocere: se la mancata qualifica potesse essere utile a farvi capire che l’Italia è davvero nella cacca fino al collo – al contrario di quello che i media cooptati al potere europeo vogliono farvi credere, per tenervi tranquilli – beh, questo sarebbe davvero un ottimo risultato. Meglio di una vittoria sportiva».Campane a morto per l’Italia: «Personalmente vedo l’uscita dal girone finale dei mondiali di calcio come la Nemesi, la giusta punizione per un paese cantato da Dante quale regno dell’ignavia». Mai definizione fu più azzeccata, per Mitt Dolcino, che ricorda: nel 1996 la sconfitta con la Corea fermò l’invasione dei calciatori stranieri in Italia, concentrandosi sugli italiani e portando in dote il mondiale 15 anni dopo. Che farà l’Italia, ora che anche i giovani italiani scappano? Dettaglio: queste note profetiche, Dolcino le ha scritte (su “Scenari Economici”) prima di conoscere l’esito del catastrofico match di San Siro, conclusosi a reti inviolate tra le lacrime dell’eroe nazionale Buffon. Calcio a parte: un segnale sinistro, simbolico e inquietante, per un’Italia che non riesce più a vincere. Fuor di metafora: «C’è una regola abbastanza affidabile: vittorie ricorrenti nello sport arrivano quando un paese funziona, nel caso del calcio quando l’economia “tira” almeno in certi settori in cui il paese rappresentato eccelle». Questo vale certamente per l’Italia, assicura Dolcino: i 4 mondiali di calcio vinti dalla nazionale azzurra «sono arrivati a seguito di grandi miglioramenti differenziali a livello economico». Anche il mitico “mundial” spagnolo del 1982, quello di Bearzot (con Pertini al seguito) arrivò dopo l’aggancio della ripresa Usa spinta da Reagan.
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Magaldi: sveglia, Renzi. Ribellati all’Ue, o sarà la catastrofe
Matteo, sveglia: devi cambiare rotta adesso, in extremis, dichiarando guerra all’austerity. Oppure, «dopo il bagno di sangue delle elezioni» sarà troppo tardi. Non ci saranno vincitori, ma un grande sconfitto, il Pd. E l’Italia dovrà rassegnarsi all’ennesimo non-governo, prono ai diktat di Bruxelles. Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, insiste su Renzi: ancora per qualche mese, l’ex rottamatore sarebbe l’unico potenziale vettore di consenso, su cui far convergere una piattaforma keynesiana in grado di ribaltare il tavolo europeo. Non lo è il Movimento 5 Stelle, nel cui programma l’Europa è assente. Non lo è Berlusconi, «che un giorno attacca la Merkel e il giorno dopo ne cerca l’amicizia, tramite Tajani». E non lo è neppure Salvini, «che dice “no a quest’Europa” ma poi non ha ricette alternative al liberismo classico». Beninteso: «A Palazzo Chigi non ci andrà, Salvini, perché le prossime elezioni – che non vincerà nessuno – regaleranno all’Italia l’ennesimo governo di basso profilo, con un premier né carne né pesce che vada bene agli uni e agli altri». E questa sarebbe anche la fine di Matteo Renzi, cioè di quella che milioni di italiani hanno percepito come come l’ultima spiaggia, l’ultima vera speranza di cambiamento. Ha bluffato, Renzi? Certamente. Dunque gli resta un’ultima possibilità: aprire, davvero, le ostilità con Berlino, Francoforte e Bruxelles. Viceversa, dopo il voto, sarebbe politicamente morto.«A differenza di altri, Renzi potrebbe in extremis dare corpo a quelle che, peraltro, sono sue enunciazioni», afferma Magadi, ai microfoni di “Colors Radio”. «Giustamente, oggi Renzi chiama in causa la vigilanza di Bankitalia su diverse vicende mal gestite – Bankitalia governata a suo tempo da Mario Draghi». Certo, si dirà che lo fa «per stornare gli attacchi ricevuti su Banca Etruria». Ed è paradossale che Berlusconi, «defenestrato a suo tempo soprattutto per volere di Draghi e delle consorterie massoniche di cui Draghi è parte», si schieri oggi in difesa del suo ex killer politico, Mario Draghi. «Ma questo fa parte del gioco di Berlusconi: da un lato chiede al Parlamento di vigilare sulle vicende dello spread del 2011, talvolta alimentando l’idea che ci sia stato un golpe a suo sfavore, ma poi va a lisciare il pelo di colui che è stato, insieme a Napolitano e altri, il burattinaio di quel golpe, che ha insediato Mario Monti a Palazzo Chigi». Se questo è il centrodestra, il centrosinistra sta ancora peggio: ma non solo per colpa di Renzi, sostiene Magaldi. «Oggi ad esempio assistiamo alle uscite di Veltroni, che dà consigli non richiesti». Veltroni, cioè «colui che ha portato il Pd alla prima sconfitta, facendo il modo che Prodi perdesse il governo».Sia chiaro, nessun rimpianto: «Prodi è tra coloro che dovrebbero chiedere scusa agli italiani, avendo (al pari di Berlusconi) governato malissimo l’ingresso dell’Italia in Europa, la sua permanenza e in generale gli ultimi 25 anni di storia», precisa Magaldi. Che però insiste: non è colpa di Renzi se il Pd, che doveva essere «la quintessenza del progressismo in Italia, raccogliendo forze nuove della società civile e politica», si è ridotto fin dall’inizio a essere soltanto «la fusione tra Margherita e Ds», nonché «l’ennesima propagazione del mondo post-comunista, Pci-Pds». Matteo Renzi? «Non è il responsabile del declino del Pd, perché Bersani – prima di lui – ha fatto molto peggio: ha appoggiato il governo Monti, la sciagurata introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione e la riforma delle pensioni della sciaguratissima ministra Fornero. Dovrebbe tacere, Bersarni: vergognarsi, e non mettere l’articolo 1 della Costituzione accanto al simbolo altrettanto grottesco del Mdp, “movimento democratico progressista”». Per Magaldi, Bersani, D’Alema e soci «sono molto peggio di Renzi, e non a caso i sondaggi li danno a percentuali risibili: non sono credibili né come alternativa a sinistra del Pd, né per rifare il centrosinistra su basi diverse da quelle renziane».Detto questo, continua Magaldi, anche Renzi ha le sue responsabilità. «Per questo, se ha un minimo senso di autoconservazione, è importante che – in modo fulmineo – cambi rotta: gli italiani non gli perdonano di esser stato un affabulatore, qualcuno che ha promesso, che ha dato delle speranze». Alle ultime europee, il Pd renziano aveva superato il 40%? Logico: «Molti hanno creduto in Renzi, nel suo piglio giovanile, nella sua capacità di comunicazione, nel suo ottimismo. Molti hanno pensato che fosse la carta giusta. Gli hanno creduto quando l’hanno sentito parlare di una nuova Europa, quando ha detto che le cose che aveva in mente avrebbero riportato occupazione e benessere». Le cose, come sappiamo, non sono andate esattamente così. Nel suo libro, “Avanti”, oggi Renzi si lamenta: sostiene di non essere stato compreso. Ammette di aver commesso degli errori (solo veniali, però) e non si rende conto che il Jobs Act ha accentuato la precarierà del lavoro. In teoria non sarebbe sbagliata l’idea delle “tutele crescenti”, dice Magaldi, ma è insostenibile in questo contesto politico-economico: «Se invece si desse per Costituzione il diritto al lavoro, questo consentirebbe anche di abbandonare le vecchie tutele – ma allora non ci sarebbe neppure più bisogno del Jobs Act».Il vero problema che la politica italiana – Renzi compreso – finge di ignorare, è il carattere artificioso della crisi, ormai disastrosa: viviamo da decenni «in un clima di economia asfittica e di impossibilità delle istituzioni di rilanciare lavoro, occupazione e benessere, rinnovando infrastrutture divenute fatiscenti». E quindi, «in un paese pesantemente trattenuto anche dal Patto di Stabilità che frena gli enti locali, è inutile che Renzi venga a dire che non è stato compreso e che ha i nemici in casa». Renzi, aggiunge Magaldi, deve decidersi «in tempi rapidissimi», perché dopo le elezioni sarà già tardi. Deve scegliere «se davvero vuole essere quello che dà un nuovo passo all’Italia». Per farlo, però, «deve abbracciare un paradigma politico-economico che è alternativo a quello dell’austerity». E’ inutile che continui a vantarsi di litigare quotidianamente con i partner europei: «Tutti hanno visto il suo abbaiare e poi il suo sostanziale andare a baciare più volte l’anello di Angela Merkel e degli altri potenti, di quella che qualcuno definirebbe Euro-Germania, ma che non è altro che un meccanismo asservito a interessi sovranazionali di carattere privato». In sostanza, dice Magaldi, se Renzi non esce dal letargo non lo farà nessun altro: nemmeno Salvini e la Meloni avrebbero la forza necessaria a scuotere il paese.«Salvini – amette Magaldi – è stato bravo a investire nella trasformazione della Lega come movimento non più settentrionale ma nazionale». Dal leader leghista arrivano «giuste critiche ad alcuni aspetti dell’Europa». Bene anche quando dice che i migranti vanno “aiutati a casa loro”: peccano non si ricordi una sola proposta concreta, della Lega, per aiutare davvero “a casa loro” i disperati che giungono sulle nostre coste. Soprattutto: «Salvini ha in mente un impianto economico che è tradizionale: le ricette che propone non sono troppo dissimili da quelle del liberismo classimo». Per primo, con lucidità, Salvini ha chiesto di abbattere le aliquote fiscali: «Ma non basta, serve di più. A Salvini, probabilmente, manca la la percezione della necessità di ricette keynesiane». Fa benissimo a chiedere le primarie nel centrodestra, che Magaldi gli augura di vincere: «Un giorno Salvini potrebbe evolvere, capendo meglio la necessità di un cambio di paradigma politico-economico: occorre comprendere la radice del problema, che riguarda la globalizzazione e il pensiero neliberista egemone nella cosiddetta austerity che ancora ispira tutti i governi europei».Per rompere questo pensiero unico, dice ancora Magaldi, occorre che Salvini e altri «cambino il loro modo di guardare alla società e all’economia, ma ancora questo passo non l’hanno fatto». Perché «non basta dire no a quest’Europa», serve una vera e propria rivoluzione copernicana nel modo di intendere la sovranità democratica, mettendo fine al dominio ideologico dell’élite che ha dogmatizzato il neoliberismo, fino a traformare l’Europa in un inferno di sofferenze sociali. «Io sono un europeista – chiarisce Magaldi – ma mi vergogno di come l’europeismo sia stato tradito da questi anti-europeisti che oggi portano il vessillo delle istituzioni europee». Sarebbe questa l’unica battaglia giusta, necessaria e urgentissima, per poter dare un senso alle prossime elezioni. Che invece, avanti di questo passo, nessuno vincerà davvero: né il Renzi dormiente, né lo stesso Salvini. «Nessuno dei leader di punta, quelli cioè troppo caratterizzanti, aerriverà a Palazzo Chigi: nessuno di loro potrà essere a capo di un governo di coalizione. E nessuno le vincerà, le prossime elezioni: non il centrodestra, né il Movimento 5 Stelle. E non il centrosinistra, che anzi si prepara alla catastrofe».Matteo, sveglia: devi cambiare rotta adesso, in extremis, dichiarando guerra all’austerity. Oppure, «dopo il bagno di sangue delle elezioni» sarà troppo tardi. Non ci saranno vincitori, ma un grande sconfitto, il Pd. E l’Italia dovrà rassegnarsi all’ennesimo non-governo, prono ai diktat di Bruxelles. Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, insiste su Renzi: ancora per qualche mese, l’ex rottamatore sarebbe l’unico potenziale vettore di consenso, su cui far convergere una piattaforma keynesiana in grado di ribaltare il tavolo europeo. Non lo è il Movimento 5 Stelle, nel cui programma l’Europa è assente. Non lo è Berlusconi, «che un giorno attacca la Merkel e il giorno dopo ne cerca l’amicizia, tramite Tajani». E non lo è neppure Salvini, «che dice “no a quest’Europa” ma poi non ha ricette alternative al liberismo classico». Beninteso: «A Palazzo Chigi non ci andrà, Salvini, perché le prossime elezioni – che non vincerà nessuno – regaleranno all’Italia l’ennesimo governo di basso profilo, con un premier né carne né pesce che vada bene agli uni e agli altri». E questa sarebbe anche la fine di Matteo Renzi, cioè di quella che milioni di italiani hanno percepito come come l’ultima spiaggia, l’ultima vera speranza di cambiamento. Ha bluffato, Renzi? Certamente. Dunque gli resta un’ultima possibilità: aprire, davvero, le ostilità con Berlino, Francoforte e Bruxelles. Viceversa, dopo il voto, sarebbe politicamente morto.
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Caro Mattarella, io mi dimetto da italiano: siamo in sfacelo
Egregio presidente della Repubblica, dottor Sergio Mattarella, è da molto tempo che desidero esternarle il mio sentimento di disagio che provo vivendo nella nostra amata Italia. In questi tempi segnati da continui accadimenti, mi sento motivato e convinto di raccontarle il disagio che vive, quotidianamente, un imprenditorie italiano. Centinaia sono le motivazioni che mi costringono, miste a rabbia, rammarico, tristezza e dispiacere ad annunciarle che in nessun modo intendo continuare a patrocinare lo sfacelo attorno a me. Voglio restituire la mia carta d’identità. Voglio diventare apolide, in un mondo capace solamente di infangare il tricolore. Sì, signor presidente, mi dimetto. Lo faccio anch’io per una volta, non mi sento e non voglio più essere italiano. Cancellatemi dagli elenchi, cancellatemi dall’anagrafe, cancellatemi dalla memoria dello Stato. Questa è la scelta più sofferta e dolorosa che io abbia mai dovuto compiere. Sono nato e cresciuto qui, tra queste Alpi, tra questi fiumi, tra questi mari, dentro a questo sole e immerso nel sentire ed ardire che bagna il tricolore. Amo il mio paese e mi sono sempre sentito orgoglioso di essere italiano. Ma adesso il logorio ha vinto ed è proprio per questo che voglio portare avanti, fino in fondo, questa scelta.Dopo un’oculata riflessione, durata circa vent’anni ed iniziata con l’età della ragione, guardandomi intorno e facendo una precisa disamina di quanto accaduto, in particolare negli ultimi anni, non posso che confermare quanto scrittole nel primo paragrafo. Crisi economica, mancanza di aiuti agli italiani costretti in degenza economica, le continue pagliacciate da parte dei partiti istituzionali ed aziende sane capaci di fornire lavoro a migliaia di persone portate dallo Stato al fallimento. Questo lo scenario targato Italia 2017. Il governo mantiene e difende, esclusivamente, clandestini, extracomunitari ed immigrati. Chiunque, l’importante che non sia italiano. Il tutto mentre i giovani, figli di questa terra, sono costretti a scappare dal proprio paese. Lo fanno perché non sono tutelati e non hanno nessuna garanzia di trovare un impiego solido, capace di donare speranza nell’avvenire. Nel mentre gli anziani, dopo una vita spesa facendo sacrifici su sacrifici, vedono riconosciuta da questo Stato una pensione da miseria. Inoltre vogliamo parlare degli italiani costretti a dormire in macchina? Uomini e donne scaraventati fuori dal loro nido perché non possono più far fronte ad un mutuo, le banche li strangolano, oppure sfratti dagli alloggi popolari.In questo scempio, le forze dell’ordine sono costrette a lavorare senza nessun tipo di garanzia, trattati peggio dei delinquenti e utilizzando mezzi completamente obsoleti. Infine le famiglie costrette ancora nei container in attesa di un alloggio dopo i, vari, terremoti che hanno sconquassato lo stivale. Chiedere in Irpinia come vivono, a distanza di 37 anni, da quando la terra tremò lasciando le certezze un lontano ricordo. Senza dimenticare il livello vessatorio a cui sono arrivate le tasse nella nostra nazione. Gli esattori, inesorabili vampiri, pronti ad avventarsi sul nostro estenuante ed umile lavoro. Proprio per questi motivi decido di rifiutare la nazionalità italiana e di dimettermi dal ruolo di cittadino italiano. Dalla data odierna mi considero apolide e pertanto richiederò accesso agli aiuti dedicati ai cittadini stranieri residenti sul nostro territorio, oppure in attesa del permesso di soggiorno. Non voglio essere più italiano, quindi rinuncio a tale incombenza. Ci era rimasta un’unica arma a disposizione: il voto. Ormai, ritengo, inutile anche questa espressione democratica da parte dei cittadini. Le malefatte, trasversali, della nostra infausta classe politica – maggioranza, minoranza, sinistra, destra, centro e a stelle – mi rendono certo che nessuno, politicamente parlando, può invertire la rotta in cui l’Italia si è immessa.In questo marasma cito le parole di uno dei padri della patria, Dante Alighieri: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!”. Divina Commedia di una nazione alla deriva. Per come la politica da seconda repubblica, in linea continua con la prima, agisce e rappresenta la nazione è opportuno e necessario voltargli le spalle. Si votassero da soli. Oppure si facciano votare da chi li ritiene adeguati e si riconosce nella loro cronica incapacità professionale e indegnità morale. Vent’anni in cui ci hanno tolto tutto, anche i sogni, quelli nostri e delle generazioni che verranno. Ci hanno rubato l’unico valore a cui tutti potevano accedere: la libertà. Mi assale e sprofondo in un indomabile senso di vergogna. Lottare? Sì, l’ho fatto con i mezzi che avevo a disposizione, ma purtroppo lottare in questo paese non porta a nulla concreto. Perché questo sistema ed il Dna del nostro popolo, opportunista e disunito, non vuole cambiare o cambierà solo davanti ad un pallone da calcio. La mia, sia chiaro, non è una resa, ma una presa di coscienza della situazione attuale. La lascio alle sue incombenze, citando un altro grande siciliano, Franco Battiato: “Povera patria. Schiacciata dagli abusi del potere di gente infame, che non sa cos’è il pudore si credono potenti e gli va bene quello che fanno e tutto gli appartiene. Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni. Questo paese è devastato dal dolore. Ma non vi danno un po’ di dispiacere quei corpi in terra senza più calore?”.(Andrea Pasini, “Non voglio più essere un italiano”, dal blog di Pasini sul “Giornale” del 1° novembre 2017. Giovane imprenditore, Pasini gestisce il blog “Senza paura” sul quotidiano diretto da Alessandro Sallusti).Egregio presidente della Repubblica, dottor Sergio Mattarella, è da molto tempo che desidero esternarle il mio sentimento di disagio che provo vivendo nella nostra amata Italia. In questi tempi segnati da continui accadimenti, mi sento motivato e convinto di raccontarle il disagio che vive, quotidianamente, un imprenditorie italiano. Centinaia sono le motivazioni che mi costringono, miste a rabbia, rammarico, tristezza e dispiacere ad annunciarle che in nessun modo intendo continuare a patrocinare lo sfacelo attorno a me. Voglio restituire la mia carta d’identità. Voglio diventare apolide, in un mondo capace solamente di infangare il tricolore. Sì, signor presidente, mi dimetto. Lo faccio anch’io per una volta, non mi sento e non voglio più essere italiano. Cancellatemi dagli elenchi, cancellatemi dall’anagrafe, cancellatemi dalla memoria dello Stato. Questa è la scelta più sofferta e dolorosa che io abbia mai dovuto compiere. Sono nato e cresciuto qui, tra queste Alpi, tra questi fiumi, tra questi mari, dentro a questo sole e immerso nel sentire ed ardire che bagna il tricolore. Amo il mio paese e mi sono sempre sentito orgoglioso di essere italiano. Ma adesso il logorio ha vinto ed è proprio per questo che voglio portare avanti, fino in fondo, questa scelta.