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Come il golpista Maduro ha calpestato l’eredità di Chavez
Dopo la morte di Hugo Chavez, avvenuta nel marzo del 2013, tra le fila del Suv, Partito Socialista Unido del Venezuela, si è molto presto diffusa la consapevolezza della debolezza della leadership politica di Nicolas Maduro e del quasi subitaneo calo di consensi del gruppo dirigente chavista rimasto orfano del suo capo. La bassa popolarità di Maduro si manifestava già nelle elezioni presidenziali celebrate nello stesso anno della morte di Chavez quando, nonostante la generale ondata di commozione dovuta alla recente dipartita del “comandante en jefe eterno della revolucion bolivariana”, il suo successore designato riusciva a stento a affermarsi alle urne con uno scarto di appena 224.000 voti sul suo avversario Enrique Capriles Radonski. La forte polarizzazione dell’elettorato del paese aveva contraddistinto l’intera storia recente del Venezuela ma, con l’elezione dell’Assemblea Nazionale tenutasi il 6 dicembre 2015, si verificava il primo è vero tracollo del chavismo e un ribaltamento degli umori dell’elettorato di dimensioni sorprendenti. In quella circostanza infatti le opposizioni di centrodestra riunite nella Mod, Mesa de Unitad Democratica, conquistavano la maggioranza assoluta del Parlamento di Caracas con ben 109 deputati, in luogo dei soli 55 eletti dal partito ufficialista alla guida del paese.A partire da quel momento, la compagine madurista, resasi consapevole del crollo vertiginoso di consensi nel paese, si è sempre più arroccata in una gestione autoreferenziale del potere esecutivo, rompendo il patto costituzionale col popolo venezuelano e con le opposizioni e lanciando una campagna di epurazioni di stampo staliniano nei confronti di qualsiasi voce critica si sia levata tanto nell’area di governo quanto nella stessa opinione pubblica venezuelana. Diversi dirigenti chavisti storici della prima ora, fra cui spiccano i nomi dell’ex ministro dell’ambiente Ana Elisa Osorio, dell’ex ministro per la pianificazione economica Jorge Giordani, dello storico presidente della Pdvsa Rafael Ramirez e quello della ex procuratrice generale Luisa Ortega Diaz, sono stati delegittimati dalle loro rispettive funzioni con modalità alquanto eclatanti, e in alcuni casi gli stessi dirigenti storici un tempo vicinissimi a Hugo Chavez oggi sono stati costretti a trovare riparo all’estero per sottrarsi alla furia vendicatrice della cricca di potere vicina a Maduro.L’involuzione autoritaria del madurismo si è percepita in tutta la sua nettezza nel 2016, quando il governo ha iniziato arbitrariamente a restringere molti spazi di pluralismo democratico nel paese ed ha avviato un’azione di sabotaggio sistematico di qualsiasi istituzione politica gli facesse da contrappeso, violando così in modo palese lo spirito e la lettera della Carta costituzionale approvata nel 1999, che fa della diversificazione e separazione dei poteri il suo elemento maggiormente democratico e innovativo. In particolare Nicolas Maduro ha manifestato la sua evidente paura di confrontarsi direttamente con l’elettorato quando ha sabotato con dei cavilli il referendum revocatorio sulla figura di presidente, un processo di consultazione previsto dalla Costituzione venezuelana e col quale lo stesso Chavez non aveva avuto alcun timore di misurarsi, uscendone vincitore alla grande nell’anno 2005. Inoltre, sempre nel 2016 il governo, per paura di subire una ulteriore bocciatura nelle urne, con motivi pretestuosi ha deciso di rinviare sine die l’elezione dei governatori degli Stati in cui è amministrativamente ripartito il Venezuela.Uno dei più gravi atti di rottura del patto costituzionale, in violazione del principio sulla separazione dei poteri, con cui lo stesso governo ha confermato la sua inequivocabile intenzione di non volere più avere alcun rispetto della volontà popolare, si è avuto nel marzo del 2017, quando il Tribunale Supremo di Giustizia, un organismo politicamente contiguo a Maduro, con un colpo di mano ha provato ad avocare a sé le prerogative della Assemblea Nazionale controllata dalle opposizioni, disconoscendo di fatto il carattere cogente delle leggi approvate dal Parlamento e aprendo così un conflitto politico istituzionale di difficilissima soluzione. Quest’ultimo atto, oggettivamente eversivo dell’ordine costituzionale, ha rappresentato un grave segno di debolezza del campo madurista. E ha avviato una fase di scontro durissimo per le strade e nelle piazze delle principali città del Venezuela, dove migliaia di oppositori e di cittadini comuni, accettando a loro modo la sfida del potere esecutivo, hanno fatto sentire la loro protesta assaltando palazzi pubblici e ricorrendo a forme anche estreme e violente di disobbedienza civile, come la creazione capillare di blocchi stradali e barricate in diverse zone del paese.Da quel momento in poi, la repressione degli apparati di sicurezza governativi, a partire dalla Guardia Nacional Bolivariana, è stata durissima e non ha risparmiato alcun mezzo di coercizione, ivi inclusi gli arresti arbitrari di oppositori, la violenza su semplici manifestanti inermi e il funzionamento di tribunali speciali militari per sanzionare reati a sfondo politico. Nella fase culminante delle proteste, estate 2017, per il loro carattere particolarmente aggressivo si sono fatti notare i cosiddetti “colectivos”, gruppi motorizzati di paramilitari contigui alla criminalità organizzata attiva nelle grandi concentrazioni urbane, i quali sembrano avere stipulato un patto di fiducia col governo al fine di esercitare in suo nome il controllo del territorio nelle zone più calde del paese, specie all’interno di quei “barrios” cittadini in cui è maggiore il rischio che possa montare da un momento all’altro la protesta popolare per il carovita.Sempre nel 2017 Nicolas Maduro, al fine di provare a sottrarre definitivamente il potere legislativo al Parlamento eletto nel 2015 e in cui il suo partito è in minoranza, ha fatto insediare un inconsueta Assemblea Costituente, eletta con modalità e criteri palesemente antidemocratici. E a partire da quel momento il conflitto con le opposizioni ha assunto una portata irreversibile e non più sanabile. La scelta inattesa di convocare questa Assemblea Costituente è apparsa a molti come uno sfacciato escamotage a cui è ricorso il madurismo per paralizzare le funzioni del Parlamento, sostituendolo con una nuova assemblea composta unicamente dai suoi sodali. Peraltro, nel paese, fino ad allora non si era mai avvertita alcuna esigenza di riscrivere le norme della ancora giovane Carta Costituzionale del 1999, definita dagli stessi chavisti come “la Costituzione più bella del mondo”.Dopo l’insediamento di questa contestata assemblea costituente, la cui legittimità non è stata riconosciuta dalle opposizioni, Maduro ha poi scelto di giocare d’anticipo sulla sua rielezione alla presidenza del paese. E così, ormai certo di aver assunto il totale controllo politico della nazione, ha convocato delle nuove elezioni presidenziali svoltesi il 21 maggio 2018 e celebrate addirittura con diversi mesi di anticipo rispetto alla naturale scadenza del suo mandato. E dopo che il Tribunale Supremo Elettorale ha bloccato la partecipazione alle elezioni presidenziali di alcuni fra i candidati maggiormente in grado di insidiare Maduro, la sua scontata rielezione ha assunto il sapore di una farsa, visto l’aperto sabotaggio della competizione deciso dei principali partiti di opposizione e vista la conseguente bassissima partecipazione dell’elettorato. In questo contesto di serio indebolimento dell’immagine e del prestigio internazionale del paese, il 10 gennaio 2019 Maduro ha infine prestato giuramento entrando ufficialmente nel suo secondo mandato presidenziale.(Giuseppe Angiuli, estratto da “La triste parabola del socialismo bolivariano – II”, analisi pubblicata da “L’Intellettuale Dissidente” il 26 gennaio 2019. Osservatore privilegiato dell’attualità venezuelata, Angiuli è stato un sincero estimatore della geuinità autenticamente popolare della rivoluzione di Hugo Chavez, tenacemente osteggiata dall’Occidente).Dopo la morte di Hugo Chavez, avvenuta nel marzo del 2013, tra le fila del Suv, Partito Socialista Unido del Venezuela, si è molto presto diffusa la consapevolezza della debolezza della leadership politica di Nicolas Maduro e del quasi subitaneo calo di consensi del gruppo dirigente chavista rimasto orfano del suo capo. La bassa popolarità di Maduro si manifestava già nelle elezioni presidenziali celebrate nello stesso anno della morte di Chavez quando, nonostante la generale ondata di commozione dovuta alla recente dipartita del “comandante en jefe eterno della revolucion bolivariana”, il suo successore designato riusciva a stento a affermarsi alle urne con uno scarto di appena 224.000 voti sul suo avversario Enrique Capriles Radonski. La forte polarizzazione dell’elettorato del paese aveva contraddistinto l’intera storia recente del Venezuela ma, con l’elezione dell’Assemblea Nazionale tenutasi il 6 dicembre 2015, si verificava il primo è vero tracollo del chavismo e un ribaltamento degli umori dell’elettorato di dimensioni sorprendenti. In quella circostanza infatti le opposizioni di centrodestra riunite nella Mod, Mesa de Unitad Democratica, conquistavano la maggioranza assoluta del Parlamento di Caracas con ben 109 deputati, in luogo dei soli 55 eletti dal partito ufficialista alla guida del paese.
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Sechi: il governo è finito, ma durerà. Mancano alternative
«Non stiamo facendo una bella figura», ha detto Salvini al Movimento 5 Stelle che sta bloccando il riconoscimento di Guaidó come presidente del Venezuela. Il ministro dell’interno non ha perso l’occasione per replicare all’alleato di governo dopo che Di Maio ha sonoramente bocciato le aperture sulla Tav del collega vicepremier. «Che si tratti di Venezuela, di Torino-Lione o di caso Diciotti – scrive Federico Ferraù sul “Sussidiario” – tra M5S e Lega sembra si sia toccato un punto di non ritorno». Ma secondo Mario Sechi, direttore di “List”, è la mancanza di alternative a consolidare, almeno per ora, la coabitazione a Palazzo Chigi. Con tre variabili: la crisi, l’autonomia differenziata e i voti al Sud. Davvero non c’è tregua: «C’è tanto rumore: per nulla, aggiungerei», dice Sechi, intervistato da Ferraù. «In un sistema normale i governi vanno in crisi, ma qui di normale c’è ben poco». Ovvero: «Siamo in una situazione eccezionale, con un governo di necessità». Realismo: «Questo esecutivo è l’unico “format” disponibile, non ci sono alternative».Dunque Di Maio e Salvini non possono aprire una crisi? «Per andare dove e con chi? Il governo – sostiene Sechi – dal punto di vista della coesione delle forze che lo compongono, è finito. Questo non significa che sia morto». Coabitazione forzata: «Una coabitazione necessaria», secondo Sechi. «In questo quadro, M5S e Lega possono litigare su cose molto serie, ma sapendo che alla fine conviene ad entrambi trovare un accordo». Eppure, sottolinea Ferraù, sul progetto Tav Torino-Lione la tensione è alta. «Se la Lega non porta a casa la Tav è un problema. Per il M5S invece è un problema se la Tav si fa. Però sarebbe un problema ancora maggiore, per entrambi, aprire una crisi di governo». Stallo completo, dunque. Eppure, si domanda Ferraù, perché i sondaggi continuano a premiare l’esecutivo? «La gente non è soddisfatta della politica economica di M5S e Lega, ma li voterebbe ancora – secondo Sechi – perché hanno mantenuto intatta la capacità di alimentare la speranza di cambiamento. Le due cose non sono in contraddizione».Che rischio corrono i pentastellati? «Che il reddito di cittadinanza non funzioni e che alla fine siano assunti soltanto i “navigator”». E la Lega? Il pericolo, per Sechi, è che salti l’autonomia: «La “constituency” del M5S sono gli italiani in cerca di reddito e protezione, quella della Lega sono le imprese del Nord. Autonomia, nei fatti, significa secessione dolce». Lombardia e Veneto, dopo un referendum dirompente che tutti hanno sottovalutato, secondo Sechi vogliono l’autonomia differenziata per avere il controllo delle risorse. «Questo fa ancora parte dell’immaginario del Nord ed è anche il patto fondativo della prima Lega di Bossi con il suo elettorato di riferimento. Salvini lo sa e deve fare presto». Ma quella Lega non s’era pensato che non esistesse più? «Al Nord esiste, eccome. Alle imprese di Lombardia e Veneto non importa nulla o molto poco del partito nazionale che ha in mente Salvini». La nuova Lega sembra importare a Salvini, «ma per altre ragioni, che non interessano i ceti produttivi». E cioè: «Salvini prende i voti del Sud sulla sicurezza e sull’idea di una leadership forte. Per il Nord l’autonomia differenziata è un’assicurazione sulla vita in tempo di recessione, una salvaguardia contro lo spreco di soldi al Sud».L’eventuale statuto autonomo del Nord-Est spaccherebbe l’Italia? «Ma l’Italia è già spaccata», risponde Sechi: «Basta scendere sotto Firenze per vedere un altro paese. Anzi, la vera riuscita del governo gialloverde sarebbe proprio quella di tenere insieme il Sud in cerca di occupazione e il Nord produttivo. La novità, semmai, è un’altra ed è lo scontro generato dalla gestione condominiale». Dovuto a che cosa? «A un imprevisto che ha cambiato i piani iniziali: i voti di Salvini sono destinati a crescere anche al Sud». E sono cifre importanti, sottolinea Sechi. «Ma siccome il voto ravvicinato Salvini non lo avrà, e forse segretamente nemmeno lo vuole perché è troppo rischioso, si tratterà di vedere se e come il suo consenso al Sud si consolida nel tempo». E poi, ricorda Ferraù, per andare al voto occorre un capo dello Stato disposto a sciogliere le Camere. Infatti: «Senza il sì del Quirinale è da pazzi lanciarsi in una crisi al buio». Quindi, conclude Sechi, in queste condizioni «a Salvini resta solo una cosa da fare, perdere tempo per prendere tempo. Il tempo che gli serve per dare l’autonomia al Nord».E con le europee, si domanda Ferraù, cosa potrà cambiare? Il voto di maggio, dice Sechi, «può essere lo spartiacque se le cose vanno molto male ai 5 Stelle, anche se – aggiunge – non credo che accadrà». I grillini potrebbero avere una flessione, «ma non eccessiva, perché tutto il Sud sta aspettando il reddito». Altra mina, l’autorizzazione a procedere contro Salvini per lo sbarco ritardato dei migranti della Diciotti. «Mi auguro che venga respinta», dichiara Sechi, perché «per i pentastellati, votarla sarebbe un suicidio politico». Però, aggiunge, «è vero che sono capaci di tutto». E la Tav valsusina? Alla fine si farà o resterà nel congelatore? Dipende, ragiona Sechi: «I grillini avevano detto che avrebbero chiuso l’Ilva e l’Ilva è aperta; il Tap non si doveva fare e si fa». Insomma, «non mi sorprenderei se anche sulla Tav si trovasse un compromesso». Da parte sua, «Salvini ci starebbe». E con la Francia si può sempre trattare. «Il tema vero – insiste Sechi – è cosa succede nella base a 5 Stelle con il sì alla Tav e nel voto pro-Lega al Nord con il no all’opera. Il rischio del cortocircuito è molto grande, ma torniamo all’inizio: nessuno apre una crisi se non è certo di poterla condurre».«Non stiamo facendo una bella figura», ha detto Salvini al Movimento 5 Stelle che sta bloccando il riconoscimento di Guaidó come presidente del Venezuela. Il ministro dell’interno non ha perso l’occasione per replicare all’alleato di governo dopo che Di Maio ha sonoramente bocciato le aperture sulla Tav del collega vicepremier. «Che si tratti di Venezuela, di Torino-Lione o di caso Diciotti – scrive Federico Ferraù sul “Sussidiario” – tra M5S e Lega sembra si sia toccato un punto di non ritorno». Ma secondo Mario Sechi, direttore di “List”, è la mancanza di alternative a consolidare, almeno per ora, la coabitazione a Palazzo Chigi. Con tre variabili: la crisi, l’autonomia differenziata e i voti al Sud. Davvero non c’è tregua: «C’è tanto rumore: per nulla, aggiungerei», dice Sechi, intervistato da Ferraù. «In un sistema normale i governi vanno in crisi, ma qui di normale c’è ben poco». Ovvero: «Siamo in una situazione eccezionale, con un governo di necessità». Realismo: «Questo esecutivo è l’unico “format” disponibile, non ci sono alternative».
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Magaldi: 5 Stelle, bugie sul Venezuela e fallimenti in Italia
Mascalzoni: o siete ignoranti, all’oscuro dei fatti, o siete addirittura in malafede. E non si sa cosa sia peggio, visto che sedete addirittura al governo. Pazienza, se si trattasse dei soliti “leoni da tastiera”, che sui social diffondono falsità e distribuiscono insulti in modo sleale, protetti dall’anonimato, convinti di restare impuniti in eterno. Ma se si rivestono cariche istituzionali, non si può scadere fino a questo punto. Specie se, come in Venezuela, è in gioco la sicurezza di quasi 30 milioni di persone, ormai alle prese con un’emergenza umanitaria. Sono tantissimi i venezuelani di origine italiana, ieri vicini al governo socialista di Hugo Chavez e ora spaventati e mortificati: dall’invereconda autocrazia dell’indegno Nicolas Maduro, e dal silenzio ufficiale dell’Italia, il cui governo non prende posizione in modo netto sulla crisi in corso. E’ esasperato, Gioele Magaldi, di fronte all’opaca neutralità dei 5 Stelle: non riconoscendo Juan Guaidò come “presidente ad interim”, i pentastellati finiscono per supportare Maduro, cioè il politico fallimentare di cui la stragrande maggioranza dei venezuelani vorrebbe liberarsi. «Avevo dato del cialtrone ad Alessandro Di Battista – tuona Magaldi, in web-streaming su YouTube – ma ora allo stesso giudizio associo anche il vicepremier Luigi Di Maio, allineatosi a Di Battista, esattamente come il presidente della Camera, Roberto Fico».L’accusa: è semplicemente folle dare del “golpista” a Guaidò, solo perché è sostenuto dagli Usa. «L’autoproclamato presidente non ha fatto nulla che non fosse previsto dalla Costituzione del Venezuela: e il governo italiano non può fingere di non saperlo, come invece fanno i 5 Stelle». Scandisce i termini della questione, il presidente del Movimento Roosevelt: per chi non l’avesse ancora capito, ribadisce, Guaidò non è un “signor nessuno” messo lì dalla perfida America per rovesciare un governo legittimo. E’ il presidente del Parlamento. E la Costituzione del suo paese – in circostanze straordinarie, come queste – gli conferisce il potere, legale, di disconoscere il presidente in carica, sostituendolo in via strettamente provvisoria. Con un unico obiettivo: indire elezioni. Dove starebbe il golpismo? Per colpo di Stato si intende: presa del potere con metodi violenti, mediante l’uso della forza. Guaidò vuole forse cacciare Maduro per insediarsi stabilmente alla presidenza? No: si limita a compiere un passaggio costituzionale necessario, per imporre a Maduro il ripristino della legalità democratica. Vuole che i venezuenali possano tornare a votare. L’ultima volta che l’hanno fatto, lo scorso anno, il partito di Maduro ha praticamente vinto da solo: l’opposizione incarnata da Guaidò non si era neppure candidata, non ravvisando l’agibilità democratica della consultazione. Come si può parlare, seriamente, di golpe?Certo, il Venezuela è ricchissimo di petrolio: ha la prima riserva petrolifera del mondo, e ora è boicottato dagli Stati Uniti. Come ricorda Eugenio Benetazzo, c’è proprio il petrolio nel destino di Caracas, nel bene e nel male: usando i proventi del greggio, Hugo Chavez riuscì a condurre uno spettacolare programma di welfare, di stampo socialista. Maduro avrebbe voluto imitarlo, ma il crollo del prezzo del barile gliel’ha impedito. E quando il paese è scivolato nella crisi, l’erede di Chavez – a differenza del suo precedessore – non ha esitato a ricorrere alla repressione, di fronte alle proteste popolari. Maduro ha forzato ripetutamente la Costituzione, cosa che invece Chavez s’era ben guardato dal fare: aveva proposto una modifica costituzionale in senso presidenziale, ma aveva accettato (democraticamente) il verdetto contrario dei venezuelani. «Maduro – sintetizza Magaldi – ha letteralmente rovinato il gran lavoro svolto da Chavez». Non ci credete? E allora, suggerisce il presidente del Movimento Roosevelt, magari leggetevi su “L’Intellettuale Dissidente” le illuminanti analisi di un osservatore privilegiato come Giuseppe Angiuli, grande estimatore di Chavez e oggi rassegnato a descrivere “la triste parabola del socialismo bolivariano”, con ormai quasi 3 milioni di venezuali in fuga – per fame – nei paesi vicini.Lo fa notare lo stesso Benetazzo: è vero, il regime di Maduro si è trovato ad affrontare difficoltà serissime ed è stato progressivamente “accerchiato”. Ma la sua evidente incapacità è ormai diventata un problema insormontabile: al di là dell’avversione ideologica per il governo di Caracas, paesi come Brasile, Argentina ed Ecuador percepiscono Maduro come un ostacolo da rimuovere, non essendo in grado di impedire che il Venezuela si trasformi in una bomba sociale, nel teatro regionale di una catastrofe umanitaria. Alle Sette Sorelle – fa notare Gianni Minà – fa gola il petrolio venezuelano: il loro grande obiettivo è appropriarsi della Pdvsa, la compagnia petrolifera nazionale, tuttora statale. Tutto sembra congiurare contro Maduro: l’Ue lo ha scaricato, e la Banca d’Inghilterra rifiuta di restituire al Venezuela l’ingente riserva aurea di cui il paese virtualmente dispone, nei forzieri di Londra. Ma in tutto questo – insorge Magaldi – come si fa a non vedere da che parte sta, Juan Guaidò? Non agisce a nome delle perfide multinazionali, bensì del popolo venezuelano mortificato e affamato dalla crisi che Maduro non ha saputo affrontare, preferendo silenziare l’opposizione e reprimere ferocemente le proteste, anche calpestando la Costituzione che Hugo Chavez aveva sempre rispettato.Magaldi considera Guaidò un patriota, un vero sindacalista civile del suo paese. Un uomo coraggioso, pronto a rischiare la pelle in nome della democrazia. Il suo partito, “Voluntad Popular”, non è affatto neoliberista: è di ispirazione dichiaratamente liberaldemocratica. Magadi è trasparente: lui stesso, precisa, milita nello stesso network massonico internazionale di Guaidò, quello che si dichiara progressista e si oppone al dominio neo-oligarchico che ha confiscato la democrazia in tutto il pianeta. Come dire: di Guaidò potete fidarvi. In Venezuela, antichi supporter di Chavez masticano amaro, di fronte a quello che interpretano come un tradimento, e vedono in Guaidò un leale traghettatore. Ipotesi: un nuovo Venezuela, non più affamato né “normalizzato”, non ridotto a colonia neoliberale. Un paese senza più il carisma del chavismo, certo, ma senza neppure «gli eccessi statalistici che, in altri tempi, in Cile, prepararono le condizioni del golpe Usa che costò la vita ad Allende, altro massone progressista». Ma, a parte l’orientamento politico di Guaidò, «socialdemocratico, non certo reazionario», l’oppositore di Maduro – insiste Magaldi – riveste oggi un profilo istituzionale perfettamente legale, che solo un cieco potrebbe non vedere. Per questo, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, la vacuità bugiarda e cialtrona dei 5 Stelle, di fronte alla tragedia venezuelana, è pari alla fellonia parolaia del “governo del cambiamento”, che in Italia non sta cambiando proprio niente.Sparare proclami a vanvera su uno scenario lontano come il Venezuela, fa notare Magaldi, serve anche a distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica sulle miserie domestiche dell’infimo governo gialloverde. Nelle parole dei leader pentastellati risuonano echi terzomondisti e vetero-antiamericanisti? Male, dice Magaldi (atlantista dichiarato), perché è facile giocare con gli slogan, come fanno gli anonimi “eroi” del web complottista. L’imperialismo yankee è brutto? «Tutte le potenze del mondo, da sempre, attuano politiche di quel tipo». L’egemonia Usa è stata determinante per l’Italia? Eccome: «Ma chi demonizza gli Stati Uniti dimentica cos’era, l’Italia feroce di Mussolini con le sue leggi razziali. Dimentica che, senza il Piano Marshall, il paese – in macerie – non sarebbe mai diventato quello del boom economico. I detrattori degli Usa avrebbero preferito l’egemonia dell’Urss? Volevano che l’Italia diventasse come l’Albania? La Cecoslovacchia? L’Unghieria?». Ovvio, non c’è rosa senza spine: e l’Italia ne ha assaggiate parecchie. Bombe nelle piazze, stragismo, strategia della tensione, tentativi di golpe. Tutta roba americana, anche quella. Chi lo dice? Sempre Magaldi, nel saggio “Massoni”.Col piglio dello storico e del politologo, l’autore ha svelato retroscena mai prima chiariti: erano massoni statunitensi i burattinai della Loggia P2 di Licio Gelli, con la sua rete di servizi deviati e terroristi pilotati. Ma erano massoni statunitensi – di segno opposto, progressista – gli uomini come Arthur Schlesinger Jr., capaci di manovrare dietro le quinte per sventare tutti e tre i tentativi di colpo di Stato organizzati dai signori della “Three Eyes” capitanata da Kissinger, l’ispiratore del golpe in Cile, dall’onnipresente David Rockefeller (grande padrino della Trilaterale) e dal raffinato stratega Zbigniew Brzezinski, l’uomo che arruolò Osama Bin Laden in Afghanistan. Poi però, annota Magaldi, lo stesso Brzezinski ci riomase male, quando Bin Laden lasciò la “Three Eyes” per approdare alla “Hathor Pentalpha” dei Bush, cupola eversiva e terroristica, capace di progettare (con l’11 Settembre) la strategia della tensione internazionale che stiamo ancora scontando, per imporre – a mano armata – la peggior forma di globalizzazione. Uno schema a cui il pavido Obama non ha osato opporsi, e che oggi vede come il fumo negli occhi l’outsider assoluto che siede alla Casa Bianca, Donald Trump, l’uomo che oggi vorrebbe liberarsi di Maduro. Come dire: niente è come sembra, l’apparenza inganna. Più che gli Stati, la geopolitica la dettano gruppi ristretti, in lotta fra loro. Ma appena sale la tensione, ricompaiono le bandiere: e il derby lo vince l’emotività. Peccato veniale, prendere lucciole per lanterne, a patto che non si sieda al governo di un paese come l’Italia.Magaldi è stato un franco sostenitore del governo Conte, come unico possibile esecutivo “eretico” rispetto al dogma finto-europeista. Aveva scommesso sulla freschezza dei 5 Stelle e sulla conversione nazionale di Salvini, a capo di una Lega non più nordista. Sperava che l’esecutivo avesse il coraggio di resistere alle pressioni internazionali, esercitate prima ancora che il governo nascesse, con il “niet” su Paolo Savona all’economia. Ad ogni sconfitta, leghisti e grillini hanno alzato la voce: grandi proclami, per nascondere l’imbarazante verità. L’ipotesi di deficit al 2,4%? Troppo debole, per aiutare l’economia. Ma si sono dovuti rimangiare pure quella, piegandosi agli oligarchi di Bruxelles. Non hanno osato tener duro, i gialloverdi, neppure di fronte al clamoroso assist offerto in Francia, contro l’establishment eurocratico, dai Gilet Gialli. L’ultima cosa che oggi possono permettersi di fare, i 5 Stelle, è di dire stupidaggini su Juan Guaidò, insiste Magaldi: prima di parlare, si leggano la Costituzione del Venezuela. E smettano di essere ipocriti: «Il governo è pieno di massoni, anche se nel “contratto” (in modo discriminatorio, ledendo un diritto democratico) avevano scritto che non avrebbero dato spazio a esponenti della massoneria». Peggio: «Qualche settimana fa, esponenti della maggioranza erano venuti a chiedere la mia personale intercessione per essere aiutati, a livello europeo, dai circuiti massonici progressisti». E adesso vogliono farci la lenzioncina sul Venezuela?O siete ignoranti, all’oscuro dei fatti, o siete addirittura in malafede. E non si sa cosa sia peggio, visto che sedete addirittura al governo. Pazienza, se si trattasse dei soliti “leoni da tastiera”, che sui social diffondono falsità e distribuiscono insulti in modo sleale, protetti dall’anonimato, convinti di restare impuniti in eterno. Ma se si rivestono cariche istituzionali, non si può scadere fino a questo punto. Specie se, come in Venezuela, è in gioco la sicurezza di quasi 30 milioni di persone, ormai alle prese con un’emergenza umanitaria. Sono tantissimi i venezuelani di origine italiana, ieri vicini al governo socialista di Hugo Chavez e ora spaventati e mortificati: dall’invereconda autocrazia dell’indegno Nicolas Maduro, e dal silenzio ufficiale dell’Italia, il cui governo non prende posizione in modo netto sulla crisi in corso. E’ esasperato, Gioele Magaldi, di fronte all’opaca neutralità dei 5 Stelle: non riconoscendo Juan Guaidò come “presidente ad interim”, i pentastellati finiscono per supportare Maduro, cioè il politico fallimentare di cui la stragrande maggioranza dei venezuelani vorrebbe liberarsi. «Avevo dato del cialtrone ad Alessandro Di Battista – tuona Magaldi, in web-streaming su YouTube – ma ora allo stesso giudizio associo anche il vicepremier Luigi Di Maio, allineatosi a Di Battista, esattamente come il presidente della Camera, Roberto Fico».
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Minà: stampa vile, oscura l’infame assedio del Venezuela
Un drammatico tentativo di “regime change”, al culmine di un assedio spietato. Da sei anni, cioè dalla morte di Hugo Chavez, il Venezuela è stretto nella morsa imperiale degli Usa. Vero obiettivo: mettere le mani sulla Pdvsa, la compagnia petrolifera statale. Per inciso: il Venezuela dispone della maggior riserva di petrolio al mondo. Altro da aggiungere? Certo, a pesare è l’insipienza del governo Maduro, che è solo l’ombra del leader “bolivariano” a cui è succeduto. Ma sarebbe assurdo non vedere – come fa la grande stampa – a quali difficoltà è stato costretto, l’esecutivo di Caracas, dalla micidiale macchina del Washington Consensus. Lo afferma un grande giornalista come Gianni Minà, per lunghi anni rivoluzionario conduttore di programmi che hanno fatto la storia della televisione italiana. Intervistato da Fabrizio Verde per “L’Antidiplomatico”, Minà si schiera senza esitazione dalla parte di Maduro, che nella regione è sostenuto da paesi come il Messico e Cuba, la Bolivia e l’Uruguay. Il Venezuela, scrive Verde, si trova nuovamente sotto attacco: «A Washington hanno costruito il grottesco golpe con lo sconosciuto Guaidò che si è auto-nominato presidente ad interim». Minà sottolinea «l’incongruenza della politica degli Stati Uniti praticamente da sempre». E spiega: «Non saprei definire in altro modo le numerose guerre dichiarate da Washington, nell’ultimo mezzo secolo, in nome della democrazia e della libertà».Osservando conflitti come quello del Vietnam e ultimamente quelli in Medio Oriente, aggiunge Minà, «viene da domandarsi perché tutto questo si ripeta, visto che alla fine gli yankee si devono quasi sempre ritirare e rinunciare alle loro mire iniziali». Riguardo al Venezuela, appoggiato da Russia e Cina, Gianni Minà considera drammatica la situazione, senza la possibilità di una soluzione a breve: «E questo perché nessuno vuol dispiacere al paese della libertà, quello di Trump ovviamente». Spirano venti di guerra: corriamo il rischio che Caracas diventi una nuova Damasco? «Credo proprio di sì», risponde Minà, anche se, aggiunge, «con l’auto-nomina del candidato “americano”, tutto è diventato ridicolo: specialmente se a una tale “trovata” nessuno, neanche l’Unione Europea, ha avuto il coraggio di essere dissenziente e chiaro». Per bocca di John Bolton, gli Stati Uniti hanno annunciato nuove sanzioni contro la compagnia petrolifera statale Pdvsa, quinta fornitrice di petrolio per gli Usa. Inoltre sono stati congelati ben 7 miliardi di dollari della società di Caracas. Il vero obiettivo è quello di impadronirsi del petrolio venezuelano? «Credo che questo obiettivo sia palese», conferma Minà, secondo cui siamo letteralmente alle solite: le Sette Sorelle vogliono il petrolio venezuelano. Tutto il resto è coreografia. O tragedia: «Si può condannare alla fame un paese strategico che fa comodo all’economia di un altro paese? Pare di sì, in barba a tutte le dichiarazioni di moralità e di etica della politica».Secondo Fabrizio Verde, l’informazione sul Venezuela è spesso inquinata da “fake news” propalate senza soluzione di continuità dal circuito informativo mainstream. Perché tanto accanimento contro il Venezuela? La Rivoluzione Bolivariana rappresenta un esempio scomodo per troppi paesi schiacciati sotto il tallone di ferro del neoliberismo? Minà confessa «una punta di malinconia per la fine che ha fatto il nostro mestiere». E spiega: «Non ho letto o ascoltato infatti articoli seri, ma soltanto l’esaltazione della giustezza della politica nordamericana o la propaganda ritmata per cui (ormai da sei anni, dalla morte di Chavez) esiste un piano di mortificazione dei diritti dei venezuelani». Aggiunge: «Gli errori del governo di Maduro hanno fatto il resto, ma è vile assistere a un assedio del paese che dura da tempo, si esprime con atti golpisti ogni due, tre mesi, sparisce dall’informazione per un paio di volte al mese, dopo di che aspetta i dollari che devono arrivare dagli Stati Uniti per continuare una strategia infame e finisce, da giugno, per ignorare che le elezioni le ha vinte il governo chavista. Piaccia o non piaccia agli organizzatori di questi golpe».Le elezioni di cui parla Minà sono le presidenziali del 20 maggio 2018, contestate da alcune Ong. Maduro ha stravinto ottenendo quasi il 70% dei consensi (oltre 6 milioni di voti), battendo Henri Falcon (“Avanzata progressista”) e l’indipendente Javier Bertucci. Alla tornata elettorale però avevano rifiutato di partecipare “Prima la Giustizia”, “Azione Democratica” e “Volontà Popolare”, la formazione di Guaidò. Assediato dalle manifestazioni di piazza, in un video-appello “al popolo Usa”, oggi Maduro dichiara: «È stata avanzata una campagna brutale di immagini false, di immagini truccate e montate: non credete a tutto quello che affermano i media degli Stati Uniti, ve lo dico con il cuore». L’altra notizia è che la Banca d’Inghilterra ha clamorosamente rifiutato di consegnare al governo di Caracas la riserva aurea del Venezuela, di cui il paese ha disperato bisogno. In compenso, i venezuelani sono invitati a consolarsi con gli aiuti umanitari alternativi, richiesti da Guaidò e procurati di fatto dagli stessi poteri che oggi rifiutano di restituire al Venezuela l’oro dello Stato.Un drammatico tentativo di “regime change”, al culmine di un assedio spietato. Da sei anni, cioè dalla morte di Hugo Chavez, il Venezuela è stretto nella morsa imperiale degli Usa. Vero obiettivo: mettere le mani sulla Pdvsa, la compagnia petrolifera statale. Per inciso: il Venezuela dispone della maggior riserva di petrolio al mondo. Altro da aggiungere? Certo, a pesare è l’insipienza del governo Maduro, che è solo l’ombra del leader “bolivariano” a cui è succeduto. Ma sarebbe assurdo non vedere – come fa la grande stampa – a quali difficoltà è stato costretto, l’esecutivo di Caracas, dalla micidiale macchina del Washington Consensus. Lo afferma un grande giornalista come Gianni Minà, per lunghi anni rivoluzionario conduttore di programmi che hanno fatto la storia della televisione italiana. Intervistato da Fabrizio Verde per “L’Antidiplomatico”, Minà si schiera senza esitazione dalla parte di Maduro, che nella regione è sostenuto da paesi come il Messico e Cuba, la Bolivia e l’Uruguay. Il Venezuela, scrive Verde, si trova nuovamente sotto attacco: «A Washington hanno costruito il grottesco golpe con lo sconosciuto Guaidò che si è auto-nominato presidente ad interim». Minà sottolinea «l’incongruenza della politica degli Stati Uniti praticamente da sempre». E spiega: «Non saprei definire in altro modo le numerose guerre dichiarate da Washington, nell’ultimo mezzo secolo, in nome della democrazia e della libertà».
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Non vi lasciano governare? Fate un atto eroico: dimettetevi
Fate una cosa fantastica, che nessuno ha mai osato fare prima d’ora: andatevene a casa. Sarebbe rivoluzionario, perché aprirebbe gli occhi alla gente. Finalmente, tutti avrebbero accesso alla verità, che è la seguente: qualsiasi governo in carica non è in grado di mantenere le sue promesse, a meno che non siano in linea, già in partenza, con il potere reale di chi comanda davvero. Ve l’immaginate cosa accadrebbe, in Italia, se i 5 Stelle dicessero una cosa simile? Non ci lasciano governare come vorremmo, quindi diciamo addio al governo e ci dimettiamo anche da parlamentari. Torniamo a casa, perché governare l’Italia è impossibile, anche se hai vinto le elezioni. Il giorno dopo, infatti, arriva qualcuno che ti spiega cosa puoi fare e cosa non puoi fare. E’ successo sempre, sta succedendo ancora. Al punto da lasciar sbiadire, fino a ridurre a zero, qualsiasi istanza di cambiamento. Il governo gialloverde è diventato una farsa, e in particolare i 5 Stelle stanno scivolando nel ridicolo. Perché non se ne vanno a casa? Sarebbe un gesto clamoroso, che gli italiani capirebbero. Dopo, allora, il cambiamento potrebbe cominciare davvero.E’ l’appello che Massimo Mazzucco, elettore deluso dai grillini, torna a rilanciare: se sei costretto a rimangiarti tutte le promesse – dal reddito di cittadinanza al rifiuto della legge Lorenzin sull’obbligo vaccinale – ti resta un’ultima carta, le dimissioni. Sarebbero esplosive e dirompenti, ribadisce Mazzucco, in web-streaming su YouTube. Se Di Maio, Toninelli e compagnia facessero una cosa simile – aggiunge – verrebbe giù il paese. Gli italiani si scuoterebbero. E i grandi media sarebbero costretti a dire finalmente la verità, ad ammettere che l’Italia non ha più sovranità su niente, non può prendere decisioni a tutela dei cittadini perché non piacciono al potere economico, l’unico che conti. L’obbligo vaccinale? Alto tradimento: il “contratto” di governo prevedeva il “superamento” della legge Lorenzin. Emergono notizie sui vaccini “sporchi” e sulle reazioni avverse? La Puglia ha dimostrato che 4 bambini su 10, dopo il vaccino, mostrano problemi anche gravi? Ma il ministro della salute, Giulia Grillo, diffonde uno spot in tv per far dire all’astronauta Samantha Criostoforetti che «i vaccini sono sicuri». Menzogna: lo sanno tutti, che non lo sono. Lo scrive, nero su bianco, la Corte Suprema degli Usa: i danni da vaccino «sono inevitabili». E al governo americano sono finora costati 4 miliardi di dollari in risarcimenti.Dove siete, cari 5 Stelle? Che ci fate, accanto a Salvini che si schiera per il Tav Torino-Lione, violando slealmente il patto di governo, la cui carta garantiva che quel progetto sarebbe stato sottoposto al severo vaglio dell’analisi costi-benefici? Dove siete, cari pentastellati, quando i poteri oligarchici che dominano l’Unione Europea vi costringono a rinunciare – a colpi di spread e di minacce, come la procedura d’infrazione – a tutte le promesse che avevate fatto agli elettori italiani? Che senso ha, restare al governo in queste condizioni? I militanti più ciecamente fanatici dicono che bisogna comunque resistere, mediare, tener duro? No, protesta Mazzucco. C’è ben altro, che si può fare. Qualcosa di estremo, pulito, trasparente. Dire, alla nazione: noi torniamo a casa, perché i grandi poteri (privati, non democratici) ci impediscono di governare come vorremmo. Se accadesse una cosa simile, lo choc sarebbe così enorme da produrre – allora sì – la rivoluzione di cui si riempivano la bocca, un tempo, i 5 Stelle. A quel punto, tutti gli italiani sarebbero con loro. E le elezioni successive si trasformerebbero in un plebliscito (e in un cataclisma, per tutti i poteri che hanno frenato, intralciato e sabotato il “governo del cambiamento”). Si tratta di compiere un’azione semplice, lineare. Unico requisito: il coraggio. Politici onesti, cioè coraggiosi. Qualcuno ne vede, in giro? Nemmeno col telescopio.Fate una cosa fantastica, che nessuno ha mai osato fare prima d’ora: andatevene a casa. Sarebbe rivoluzionario, perché aprirebbe gli occhi alla gente. Finalmente, tutti avrebbero accesso alla verità, che è la seguente: qualsiasi governo in carica non è in grado di mantenere le sue promesse, a meno che non siano in linea, già in partenza, con il potere reale di chi comanda davvero. Ve l’immaginate cosa accadrebbe, in Italia, se i 5 Stelle dicessero una cosa simile? Non ci lasciano governare come vorremmo, quindi diciamo addio al governo e ci dimettiamo anche da parlamentari. Torniamo a casa, perché governare l’Italia è impossibile, anche se hai vinto le elezioni. Il giorno dopo, infatti, arriva qualcuno che ti spiega cosa puoi fare e cosa non puoi fare. E’ successo sempre, sta succedendo ancora. Al punto da lasciar sbiadire, fino a ridurre a zero, qualsiasi istanza di cambiamento. Il governo gialloverde è diventato una farsa, e in particolare i 5 Stelle stanno scivolando nel ridicolo. Perché non se ne vanno a casa? Sarebbe un gesto clamoroso, che gli italiani capirebbero. Dopo, allora, il cambiamento potrebbe cominciare davvero.
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Aquisgrana: il vero potere adesso ha paura di noi europei
Tanto peggio, tanto meglio: vuoi vedere che l’orrendo patto franco-tedesco per fondare la versione 2019 del Sacro Romano Impero finirà con l’aprire gli occhi agli europei? Lo sostiene Enrico Carotenuto in un’analisi su “Coscienze in Rete”, network impegnato a svelare i retroscena della geopolitica sulla base di una tesi di fondo: il vero potere non mostra mai il suo vero volto, preferendo utilizzare comodi burattini (come Macron e la Merkel, in questo caso). E una mossa come il Trattato di Aquisgrana – che affossa virtualmente l’Ue sullo scenario mondiale – rivela la fragilità del potere franco-tedesco, spaventato dalla ribellione in corso in tutta Europa (elettorale in Italia, popolare in Francia, istituzionale nella Gran Bretagna della Brexit). Ma quel potere, più che “franco-tedesco”, è apolide: la Francia di Macron e la Germania della Merkel sono solo i principali strumenti con cui il neoliberismo neo-feudale ha esercitato il suo dominio, imponendo ai popoli europei di sottostare alle rigide norme finanziarie che hanno fatto crescere il Pil europeo impoverendo però la stragrande maggioranza della popolazione, attraverso un immenso trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto, grazie a regole truccate dell’austerity.Tristemente decadente anche l’aspetto simbolico del trattato, firmato non casualmente proprio ad Aquisgrana, la capitale di Carlomagno. Proprio Aachen, ricorda Enrico Carotenuto, è la città dove ben 37 imperatori del Sacro Romano Impero vennero incoronati “Re dei Germani” (non dei Franchi). E siamo sicuri, aggiunge, «che anche questa ennesima “incoronazione” abbia il beneplacito del papato». Ve le ricordate, le effusioni del soave Macron in Vaticano con Papa Francesco, dopo che i francesi avevano appena definito “vomitevole” la politica italiana sui migranti? Ora ci risiamo: lo stesso Macron – attaccato da Di Maio per lo sfruttamento coloniale dell’Africa – dice che l’Italia merita governanti migliori, all’altezza della sua storia. Si scivola dal ridicolo al grottesco, visto che Macron – a capo di un paese che rapina nel modo più ignobile 14 paesi africani – parla come una Maria Antonietta qualsiasi, assediato com’è dalla rivolta dei Gilet Gialli, approvata da 8 francesi su 10. Ed è proprio il malconcio Macron – politicamente, un morto che cammina – ad aver firmato il Trattato di Aquisgrana insieme ad Angela Merkel, la cui stella politica è al tramonto.In altre parole: non sono loro, a decidere. Politici come Merkel e Macron si limitano a eseguire ordini. La notizia? L’élite che li comanda oggi teme il popolo. Ha paura del risveglio in atto, nelle coscienze dei cittadini europei. «Noi – scrive Carotenuto – siamo del parere che il “peggioramento” (l’accorciamento delle linee di comando) sia una manovra di retroguardia, da parte di certe forze, di fronte a quello che sta succedendo realmente dal punto di vista evolutivo». Sempre “Coscienze in Rete” immagina «che la risposta a questo peggioramento imposto sia un’occasione di miglioramento delle coscienze individuali». E’ evidente, intanto, il rischio che la Ue “si smonti” per via dei risentimenti crescenti che stanno esplodendo ovunque, specie nell’Europa mediterranea. Il Trattato di Aquisgrana sembra fatto apposta per varare l’Europa a due velocità, divisa tra paesi leader e piccoli satelliti. Il vero potere lavora da sempre alla creazione del super-Stato, «ma è un lavoro molto lungo e difficile anche per le grandi piramidi». Chi ha un po’ di potere tende a mantenerlo. E la piramide è antica, come i suoi metodi: carota e bastone, “divide et impera”. Ora, se non altro, il fenomeno è sotto gli occhi di tutti.Tanto peggio, tanto meglio: vuoi vedere che l’orrendo patto franco-tedesco per fondare la versione 2019 del Sacro Romano Impero finirà con l’aprire gli occhi agli europei? Lo sostiene Enrico Carotenuto in un’analisi su “Coscienze in Rete”, network impegnato a svelare i retroscena della geopolitica sulla base di una tesi di fondo: il vero potere non mostra mai il suo vero volto, preferendo utilizzare comodi burattini (come Macron e la Merkel, in questo caso). E una mossa come il Trattato di Aquisgrana – che affossa virtualmente l’Ue sullo scenario mondiale – rivela la fragilità del potere franco-tedesco, spaventato dalla ribellione in corso in tutta Europa (elettorale in Italia, popolare in Francia, istituzionale nella Gran Bretagna della Brexit). Ma quel potere, più che “franco-tedesco”, è apolide: la Francia di Macron e la Germania della Merkel sono solo i principali strumenti con cui il neoliberismo neo-feudale ha esercitato il suo dominio, imponendo ai popoli europei di sottostare alle rigide norme finanziarie che hanno fatto crescere il Pil europeo impoverendo però la stragrande maggioranza della popolazione, attraverso un immenso trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto, grazie a regole truccate dell’austerity.
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Parigi e Londra: chi ha pagato per avere Macron all’Eliseo
Secondo le rivelazioni del “Journal du dimanche” del 2 dicembre, tra marzo 2016 e maggio 2017 la metà dei finanziamenti di En Marche è arrivata da appena 913 donazioni. Il contributo del Regno Unito alla campagna presidenziale di Emmanuel Macron sarebbe superiore a quello delle dieci maggiori città francesi della provincia. Si tratta di un gruppo di sostenitori che, quando si tratta di aiutarsi tra amici, non fa economie. Il “Journal du dimanche”, che ha indagato sui conti de “La République en Marche” (Lrem), il 2 dicembre ha rivelato che l’epopea presidenziale di Emmanuel Macron è stata finanziata per metà da… al massimo 913 persone. Questo “club dei mille” ha donato non meno di 6,3 milioni di euro a En Marche nel periodo tra la sua formazione nel marzo 2016 e maggio 2017, il che rappresenta il 48% delle donazioni totali. Questa cifra impressionante è ad esempio superiore alla somma di tutte le donazioni fatte a candidati “minori”, come Nicolas Dupont-Aignan, Jean Lassalle, Philippe Poutou, François Asselineau, Nathalie Arthaud, Jacques Cheminade. Una cifra in grado di pilotare apertamente una candidatura per le elezioni presidenziali.In un sondaggio pubblicato lo scorso aprile, “Marianne” ha mostrato come, per lanciare la nomina dell’enarca, i collaboratori di Emmanuel Macron si siano finanziati principalmente tramite delle cene di raccolta fondi organizzate con esponenti dell’alta finanza. Alla fine del 2016, il 69% delle donazioni risultavano pervenute con questa modalità. En Marche poteva persino contare su un prezioso club di “400 contributori di oltre 5.000 euro”. L’inchiesta del “Jdd” conferma che questo circolo si è leggermente allargato nei primi sei mesi del 2017, ma non troppo. La cifra riportata, 913, corrisponde infatti al numero di donazioni superiori a 5.000 euro, ma non al numero di donatori, dato che il massimo ammontare è di 7.500 euro a persona all’anno. È infatti abbastanza probabile che molti dei ricchi mecenati dell’ex-Ispettore delle Finanze abbiano scelto di fare due donazioni, una nel 2016 e una nel 2017. Il famoso “club dei mille” è più probabilmente una più ristretta cerchia di circa 450 donatori.La geografia di queste donazioni rivela un altro squilibrio. Ne emerge il ritratto di un candidato ampiamente sostenuto nella regione parigina (il 56% del totale) e… nelle roccaforti della finanza all’estero, molto più che in provincia. Preoccupante, dal momento che in buona parte della “Francia periferica” si sta sollevando la protesta del movimento dei Gilet Gialli. Si viene in tal modo a sapere che le donazioni dalla Svizzera (95.000 euro) hanno portato più soldi a En Marche rispetto a quelle provenienti da Marsiglia (78.364 euro), la seconda città più grande della Francia! Con solo 18 benefattori ma con donazioni per 105.000 euro, i libanesi hanno fortemente contribuito all’emergere del macronismo, più dei 250.000 abitanti di Bordeaux e dei 230.000 abitanti di Lille insieme! Dopo Parigi, la seconda città più “macronizzata” non è altro che… Londra. Con 800.000 euro di donazioni, il Regno Unito ha contribuito più di tutte le dieci maggiori città francesi della provincia.Questa informazione dà un altro significato alla parziale rimozione della “exit tax” [imposta sugli utili in conto capitale per chi delocalizza], annunciata in gran pompa da Emmanuel Macron alla rivista americana “Forbes” lo scorso maggio. Nel tentativo di liberarsi della sua etichetta di “candidato dei ricchi”, l’ex banchiere avrebbe peraltro costretto i suoi collaboratori a mentire. Nel maggio 2017, il team di En Marche assicurava a “Libération” che la proporzione di donazioni di oltre 5.000 euro sulla raccolta totale fosse di “un terzo”. In realtà è la metà, come documenta oggi l’inchiesta del “Jdd”. Ciò diviene particolarmente interessante se raffrontato allo studio dell’Istituto delle politiche pubbliche pubblicato lo scorso ottobre, dal quale si evince che i grandi vincitori della politica fiscale di Emmanuel Macron sono… gli ultra-ricchi. L’1% più ricco ha visto i propri redditi aumentare del 6%, laddove le famiglie meno abbienti hanno perso l’1% del loro potere d’acquisto.(Étienne Girard, “La campagna presidenziale di Macron è stata finanziata per metà da un gruppo di neanche mille persone”, da “Marianne.net” del 2 dicembre 2018; articolo tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).Secondo le rivelazioni del “Journal du dimanche” del 2 dicembre, tra marzo 2016 e maggio 2017 la metà dei finanziamenti di En Marche è arrivata da appena 913 donazioni. Il contributo del Regno Unito alla campagna presidenziale di Emmanuel Macron sarebbe superiore a quello delle dieci maggiori città francesi della provincia. Si tratta di un gruppo di sostenitori che, quando si tratta di aiutarsi tra amici, non fa economie. Il “Journal du dimanche”, che ha indagato sui conti de “La République en Marche” (Lrem), il 2 dicembre ha rivelato che l’epopea presidenziale di Emmanuel Macron è stata finanziata per metà da… al massimo 913 persone. Questo “club dei mille” ha donato non meno di 6,3 milioni di euro a En Marche nel periodo tra la sua formazione nel marzo 2016 e maggio 2017, il che rappresenta il 48% delle donazioni totali. Questa cifra impressionante è ad esempio superiore alla somma di tutte le donazioni fatte a candidati “minori”, come Nicolas Dupont-Aignan, Jean Lassalle, Philippe Poutou, François Asselineau, Nathalie Arthaud, Jacques Cheminade. Una cifra in grado di pilotare apertamente una candidatura per le elezioni presidenziali.
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Solo il Papa Buono si oppose all’orrore Usa in America Latina
Che l’America Latina debba essere proprietà privata degli Stati Uniti fu deciso nel 1823 dal presidente americano James Monroe, che nella sua celebre “dottrina” già aveva definito le terre che vanno dal Messico alla Patagonia come proprietà naturale degli Usa, cioè terre che per una “naturale legge di gravità politica” sarebbero prima o poi cadute nel “giardino di casa” di Washington (citaz. Chomsky). L’unico ostacolo, prevedeva Monroe, erano gli inglesi, le cui flotte erano a quel tempo troppo potenti per permettere la conquista yankee, ma che prima o poi si sarebbero ritirate, predisse il presidente. E infatti è accaduto. Quello che sta succedendo in queste ore in Venezuela è, in una sua parte, banale: il Padrone non molla mai, e siamo da capo, cioè all’intervento illegale N. 300 degli Stati Uniti in America Latina secondo la dottrina di Monroe. Naturalmente, agli Usa devono conformarsi i vassalli – cioè gli Stati latinoamericani oggi in mano a pupazzi del Fondo Monetario Internazionale, come il gruppo di Lima, poi la Gran Bretagna e anche noi della Ue. E la cosa farsesca è che, mentre in America si strilla isterici per le presunte interferenze di Putin a favore di Trump, accade che come nulla fosse il ministro degli esteri americano Mike Pompeo telefona al neo-autoproclamato presidente del Venezuela, Juan Guaidò, 24 ore prima dell’annuncio della sua candidatura a presidente. Ma va’?Prima domanda: “Ma se Pompeo fa questo, allora perché Putin non avrebbe potuto telefonare a Trump 24 ore prima dell’annuncio della sua candidatura?”. Poi, la risposta alla domanda “cosa si saranno detti?” la si può fare a una scatoletta di tonno, fiduciosi di avere la risposta giusta. E siccome è noto che – da Kennedy, finanziatore dell’orrendo golpe in Brasile; a Kissinger, finanziatore dei golpe dappertutto; passando per Carter e Reagan, torturatori del Nicaragua in particolare; i Bush contro Haiti in particolare; Bill Clinton, finanziatore degli squadroni della morte in Colombia; fino a Obama, sostenitore del golpe in Honduras e armatore della nuove basi militari – siccome è noto che, dicevo, Washington ci tiene così tanto agli ideali democratici che vanno esportati nel suo “giardino di casa”, è notizia di oggi che Mike Pompeo ha nominato il “neocon” Elliot Abrams come suo inviato speciale in Venezuela, giusto per dar l’impressione di essere equidistanti. Abrams è un neo-nazista, un pregiudicato (graziato da Bush I), che ha finanziato il genocidio in Guatemala del generale Rios Montt, che ha passato le bustarelle dello scandalo Iran-Contras sotto Reagan e che organizzò il fallito golpe contro Chavez nel 2002. E’ “the Monroe doctrine on steroids”, si direbbe in slang.Ma vedete, l’articolo N. 231 di oggi sul Venezuela e tutti i dettagli da Google-journalism non vi servono a molto. Piuttosto va dato ancora un po’ di retroterra per capire Maduro e come uscirne. In un indicibile paradosso, le tragedie dell’America Latina iniziarono nel XVI secolo con la conquista nel nome del Vaticano, ma ebbero la loro unica speranza di terminare proprio grazie al Vaticano, quello del Concilio Secondo di Papa Giovanni XXIII nel 1959. Fra le maggiori istanze che esso annunciò, ve n’era una di portata rivoluzionaria scioccante: l’opzione della Chiesa dei Poveri. Dall’infame Costantino, nel IV secolo, la Chiesa aveva scelto senza ombra di dubbio l’opzione per i ricchi e per i potenti e il tripudio per lo sterminio dei poveri e dei dissidenti, non stop per i 1.700 anni successivi anni fino al grande Papa Giovanni XXIII (poi ci è ricascata, ahimè). Questo pontefice, invece, di colpo invertì gli ordini di squadra: no, disse, la Chiesa ora sceglie i poveri. Quasi nessuno qui da noi ci fece molto caso; ovvio, eravamo italiani in pieno boom economico. Ma nell’America Latina invece il messaggio del Concilio Secondo prese piede in modo sorprendente sotto forma della Teologia della Liberazione. Cos’era?In due parole: si trattò di ampi numeri di preti e suore, e qualche rarissimo caso nei ranghi ecclesiastici superiori, che proprio ispirati dal Concilio Vaticano Secondo si spogliarono di ogni bene e semplicemente fecero quello che fece Cristo, cioè lottarono nelle bidonville dei poverissimi, morirono per e accanto a loro, e ovviamente entrarono in aperto conflitto con i superiori, cioè i loro vescovi, arcivescovi e cardinali, fra cui anche il buon Bergoglio. Nota: lunga e fetente storia per questo mistificatore, che sempre tenne i piedi in 3 staffe. Un minino stette coi suoi gesuiti teologi della liberazione (ne tradì due in circostanze orribili e silenziò molti altri), ma poi in maggioranza stette invece zitto con le dittature, e alla fine fu un fedele facilitatore del Fondo Monetario Internazionale di Washington fino al Papato. Ma torniamo alla storia. Nel 1962, il venerato (da voi…) presidente Usa J.F. Kennedy notò questi clamorosi fatti e scosse il capo. Ma scherziamo? Adesso ’sti quattro preti straccioni si mettono a fare i “socialisti” contro gli interessi degli investitori americani? Ma che crepino (non poté “prepensionare” Giovanni XXIII perché era troppo popolare).Quindi Kennedy per primo (ma nel mezzo fu assassinato) e poi il suo successore Lyndon B. Johnson diedero il semaforo verde (per usare un’espressione tutta americana) al peggior terrore neonazista della storia del Brasile, quando con la cacciata del democratico Goulart i militari ripresero il potere nel paese (1964) inaugurando la notoria stagione del National Security States, quella cioè dei golpe fascisti latinoamericani per tre decadi successive. Nei files segreti dell’epoca, oggi desecretati e disponibili presso i National Security Archives di Washington, si possono leggere le euforiche parole dell’ambasciatore statunitense in Brasile Lincoln Gordon, un uomo del “democratico” Kennedy, che definì il golpe dei torturatori «una grande vittoria per il mondo libero» e «un punto di svolta per la storia» (un intero capitolo del mio “Perché ci odiano” della Rizzoli è dedicato a questi abomini). Spiacenti, caro Papa Giovanni XXIII, la tua Opzione per i Poveri deve morire, disse Jfk. E fu olocausto di massacri, torture, campi di concentramento, furti di risorse per trilioni di dollari, tutto di fila in America Latina fino alla fine anni ’90 e proprio a partire dalla nascita della Teologia della Liberazione laggiù.Fra l’altro quest’anno ricorre il 30esimo anniversario di uno degli ultimi atti di macellazione post-Jfk della giustizia in America Latina, cioè la strage di sei accademici gesuiti teologi della liberazione e di due loro domestiche da parte degli squadroni della morte Atlacatl in Salvador nel 1989. Nota: col benestare evidente e più volte espresso nei fatti dell’infame Papa Wojtyla, l’uomo piantato a Roma da Washington non solo per abbattere l’Urss ma proprio per disintegrare l’Opzione per i Poveri in America Latina, visto che rodeva nelle tasche delle corporations, degli hedge funds e degli asset manager americani (e nostri). E arriviamo a Maduro oggi, passando, come già scritto sopra, per tutti i presidenti Usa di fila che mai hanno smesso di finanziare e armare ogni porcheria antidemocratica a sud del Texas (ripeto: da Kennedy, finanziatore del golpe in Brasile; a Kissinger, finanziatore dei golpe dappertutto; passando per Carter e Reagan, torturatori del Nicaragua in particolare; i Bush contro Haiti in particolare; Bill Clinton, finanziatore degli squadroni della morte in Colombia; fino a Obama, sostenitore del golpe in Honduras e armatore della nuove basi militari).Washington non molla, e oggi col naufragio delle rivoluzioni “bolivariane” in America Latina, siamo a questa realtà: l’85% del continente è tornato nelle mani delle destre-stuoini del Fondo Monetario. Ma qui l’onestà intellettuale impone un “ma”… Verissimo che la guerra di sanzioni americane contro Cuba e Venezuela è un abominio della legalità internazionale e ruba miliardi all’anno a quei due paesi. Verissimo che la fetente lustrascarpe del Fmi, cioè la Ue, non è capace di un belato di giustizia internazionale da nessuna parte (Palestina, Siria, Egitto, Yemen, America Latina) mentre ruggisce contro le pecorelle Piigs. Verissimo che quella che fu la culla della democrazia, la Gran Bretagna, ha di nuovo sputato sulla propria storia bloccando l’oro di Maduro in un momento drammatico per il Venezuela. Ma… è altrettanto verissimo che l’America Latina, almeno nella leadership (ma non solo), non ce la può fare, come si dice gergalmente. E inizio da questo: sono “cattolici dentro”, anche quando sono comunisti. Dal 2001/2 fino a ieri, le sinistre latinoamericane hanno avuto in mano quasi tutto per salvare il continente e per finalmente usare le loro immani risorse e le loro monete sovrane sganciate dal dollaro per rafforzare la base sociale povera, cioè il 90% degli elettori.Gli Usa erano in ritirata ormai decennale sia economica che militare, e in affanno, anzi, panico, proprio mentre dall’altra parte esplodeva il potere degli “astri benevoli” dell’America Latina di sinistra, cioè Cina e Russia a far da contraltare. Ma cosa è successo invece? Siamo minimamente onesti, per favore: i leader latinoamericani hanno sbagliato economie nel 100% dei casi, e con una pervicacia sbalorditiva, limitandosi a programmi-elemosina per la base sociale povera, cioè il 90% (vi ricorda qualcuno? RdC?). Hanno fatto parrocchie a sinistra come a destra nel 100% dei casi. Come ogni bravo “cattolico dentro” sono stati ipocriti da vomitare, corrotti da barzellette, e alla fine (in Brasile in modo cosmico) hanno rubato il rubabile. Chiunque non sia un partigiano in malafede si è accorto che sia in Brasile ma soprattutto in Venezuela l’elettorato di maggioranza detesta la sinistra come la destra, derubato e tradito da entrambi, oggi. Nomi come Maduro e Guaidò non rappresentano più nulla, sono screditati alla morte, e figurano solo nei media per via di quel 10% a testa di esagitati che riescono ancora a far comparire davanti alle telecamere in piazza, mentre l’80% sta a casa a sbattere la testa contro il muro. Quindi?Quindi di certo nel mondo dei sogni andrebbe messo uno stop immediato ai 196 anni d’illegalità della dottrina Monroe (con la pietosa Ue al seguito); di certo l’unica via è oggi il negoziato, visto che laggiù la scelta realistica per quella povera gente è fra lo schifo di Maduro e lo schifo di Guaidò. Ma come sempre dico in quasi totale isolamento da decenni (come nel caso dei paesi africani), finché le sinistre, intese come base di popolo, non accetteranno di guardarsi dentro e di capire come hanno fatto a diventare ovunque nel mondo delle tali schifezze, mafie, parrocchie e traditrici di lotte centenarie, possiamo pure continuare a gridare “yankee go home!”, ma in America Latina le maggioranze continueranno a sbattere la testa contro il muro. O le sinistre imitano l’immenso atto di autocritica di Giovanni XXIII e anch’esse ritornano a una vera storica Opzione per i Poveri (si spera con maggior successo oggi), oppure non si andrà da nessuna parte (neppure qui da noi).(Paolo Barnard, “Da Monroe a Papa Giovanni XXIII a Kennedy, fino a Obama, e allora si capisce il disastroso Maduro”, dal blog di Barnard del 29 gennaio 2019).Che l’America Latina debba essere proprietà privata degli Stati Uniti fu deciso nel 1823 dal presidente americano James Monroe, che nella sua celebre “dottrina” già aveva definito le terre che vanno dal Messico alla Patagonia come proprietà naturale degli Usa, cioè terre che per una “naturale legge di gravità politica” sarebbero prima o poi cadute nel “giardino di casa” di Washington (citaz. Chomsky). L’unico ostacolo, prevedeva Monroe, erano gli inglesi, le cui flotte erano a quel tempo troppo potenti per permettere la conquista yankee, ma che prima o poi si sarebbero ritirate, predisse il presidente. E infatti è accaduto. Quello che sta succedendo in queste ore in Venezuela è, in una sua parte, banale: il Padrone non molla mai, e siamo da capo, cioè all’intervento illegale N. 300 degli Stati Uniti in America Latina secondo la dottrina di Monroe. Naturalmente, agli Usa devono conformarsi i vassalli – cioè gli Stati latinoamericani oggi in mano a pupazzi del Fondo Monetario Internazionale, come il gruppo di Lima, poi la Gran Bretagna e anche noi della Ue. E la cosa farsesca è che, mentre in America si strilla isterici per le presunte interferenze di Putin a favore di Trump, accade che come nulla fosse il ministro degli esteri americano Mike Pompeo telefona al neo-autoproclamato presidente del Venezuela, Juan Guaidò, 24 ore prima dell’annuncio della sua candidatura a presidente. Ma va’?
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Oro, petrolio e sanzioni: strangolato il Venezuela di Maduro
Negli ultimi tre anni, il Venezuela ha usato il suo oro come garanzia per ottenere miliardi di prestiti da istituti di credito internazionali. Tuttavia, gli accordi di scambio sono diventati difficili per il Venezuela nel 2017, dopo che Washington ha vietato alle istituzioni finanziarie statunitensi di finanziare le operazioni dello Stato del Venezuela. Lo scrive “L’Antidiplomatico”, secondo cui «la crisi in Venezuela non è un problema di democrazia, ma di guerra energetica e finanziaria». Dal novembre del 2018, aggiunge il blog, la Banca d’Inghilterra si rifiuta di consegnare il rapporto sull’oro del Venezuela. In particolare, la Bank of England si rifiuta di consegnare 550 milioni di dollari in oro (di proprietà del Venezuela) a fronte della richiesta di Caracas per 14 tonnellate di lingotti. Le partecipazioni nella stessa banca, tra l’altro, sono più che raddoppiate a dicembre (31 tonnellate o circa 1,3 miliardi di dollari), dopo che il Venezuela ha restituito i fondi che aveva preso in prestito da Deutsche Bank attraverso un accordo di finanziamento (Swap) che utilizza l’oro come garanzia. La motivazione del rifiuto da parte dei funzionari britannici verte «sull’adozione di misure volte a prevenire il riciclaggio di denaro sporco». Come riporta il “Times”, «ci sono preoccupazioni sul fatto che Maduro possa prendere l’oro, che è di proprietà dello Stato, e venderlo per guadagno personale».Per cercare di aggirare le sanzioni degli Usa, aggiunge “L’Antidiplomatico”, il Venezuela aveva cercato di scambiare il suo greggio con beni, ma le trattative sarebbero state bloccate per «crescenti difficoltà nell’ottenere l’assicurazione per la spedizione necessaria per spostare un grosso carico d’oro». Per impedire al Venezuela di riavere i suoi beni, scrive sempre il blog, «gli Usa hanno aggravato le sanzioni, estenderndole anche ai singoli individui e alle società coinvolti nelle vendite di oro in Venezuela». Negli ultimi anni, «Washington ha introdotto una vasta gamma di misure punitive contro la Repubblica Bolivariana, colpendo le sue finanze, l’emissione di debito e l’attività commerciale della compagnia petrolifera statale Pdvsa». Il Venezuela ha recentemente tentato di eliminare la dipendenza dalle istituzioni e dagli strumenti finanziari controllati dagli Stati Uniti, incluso il dollaro Usa. Il mese scorso, il paese si è impegnato a negoziare in euro, yuan e «altre valute convertibili».«Ecco perché fa tanta paura il Venezuela di Maduro», sostiene “L’Antidiplomatico”: se agli Usa riuscisse il “regime change”, «questo esperimento sarà esportato in qualsiasi situazione geopolitica, in qualsiasi Stato sovrano sia d’intralcio alle mire energetiche del blocco (Israele, Canada, Brasile, ma anche Germania, Francia, Spagna) che fa capo al mercato neoliberista degli Usa». Secondo Usa e Ue, in realtà, la situazione è precipitata quando Maduro ha rifiutato l’esito delle elezioni del 2016, a lui sfavorevoli, mettendo fuori gioco l’opposizione con la manovra per creare una nuova Costituzione. Manovra boicottata dall’opposizione, che ha rinunciato per protesta a partecipare alle elezioni 2018. Le crescenti sanzioni sono parallele all’involuzione autocratica del regime di Maduro, ora fronteggiato da Juan Guaidò, presidente del Parlamento e leader di “Volontà Popolare”, autoproclamatosi “presidente ad interim” il 23 gennaio, in aperta sfida a Maduro.Il Venezula (32 milioni di abitanti) è uno dei due membri latino-americani dell’Opec, insieme all’Ecuador. Vanta la prima riserva petrolifera al mondo: 302 miliardi di barili di greggio. Nel 2014 il Venezuela è stato colpito dal crollo del costo del petrolio, che rappresenta il 96% delle entrate del paese. La mancanza di moneta ha fatto precipitare lo Stato in una crisi acuta, «generando un esodo di venezuelani in fuga da carenze alimentari e di medicine, non senza conseguenze su diversi paesi vicini». Tre milioni di venezuelani vivono all’estero e, di questi, secondo le stime dell’Onu almeno 2,3 milioni hanno lasciato il paese a partire dal 2015. Un dato che, stando alle stime, dovrebbe salire a 5,3 milioni nel 2019. In cinque anni, secondo il Fmi, il Pil è calato del 45%. E la Banca Mondiale prevede una contrazione del Pil dell’8% nel 2019, dopo il -18% del 2018. Davanti a una iper-inflazione, «che dovrebbe raggiungere quest’anno il 10 milioni per cento», a metà gennaio «Maduro ha quadruplicato il salario minimo a 18.000 bolivar (20 dollari, secondo il tasso ufficiale), cioè l’equivalente di due chilogrammi di carne. Ad agosto aveva lanciato un piano di rilancio, svalutando il bolivar del 96%».L’erede di Hugo Chavez sostiene che la crisi in Venezuela sia il risultato di una “guerra economica” da parte della destra e degli Stati Uniti per rovesciare il suo governo, visto che Washington ha imposto diverse serie di sanzioni. A novembre del 2017 il Venezuela e la compagnia petrolifera nazionale Pfvsa sono stati dichiarati in default parziale da diverse agenzie di rating. «Il tasso di povertà, cavallo di battaglia della rivoluzione bolivariana, è schizzato all’87%, secondo un’indagine delle principali università del paese», aggiunge “Quotidiano.net”. Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, sostiene che la crisi venezuelana ricorda quella che precedette il golpe nel Cile di Allende, con una differenza sostanziale: Allende non fece mai ricorso alla repressione della protesta, mentre Nicolas Maduro si è macchiato di gravi crimini, sospendendo di fatto la democrazia e violando i diritti umani.Negli ultimi tre anni, il Venezuela ha usato il suo oro come garanzia per ottenere miliardi di prestiti da istituti di credito internazionali. Tuttavia, gli accordi di scambio sono diventati difficili per il Venezuela nel 2017, dopo che Washington ha vietato alle istituzioni finanziarie statunitensi di finanziare le operazioni dello Stato del Venezuela. Lo scrive “L’Antidiplomatico”, secondo cui «la crisi in Venezuela non è un problema di democrazia, ma di guerra energetica e finanziaria». Dal novembre del 2018, aggiunge il blog, la Banca d’Inghilterra si rifiuta di consegnare il rapporto sull’oro del Venezuela. In particolare, la Bank of England si rifiuta di consegnare 550 milioni di dollari in oro (di proprietà del Venezuela) a fronte della richiesta di Caracas per 14 tonnellate di lingotti. Le partecipazioni nella stessa banca, tra l’altro, sono più che raddoppiate a dicembre (31 tonnellate o circa 1,3 miliardi di dollari), dopo che il Venezuela ha restituito i fondi che aveva preso in prestito da Deutsche Bank attraverso un accordo di finanziamento (Swap) che utilizza l’oro come garanzia. La motivazione del rifiuto da parte dei funzionari britannici verte «sull’adozione di misure volte a prevenire il riciclaggio di denaro sporco». Come riporta il “Times”, «ci sono preoccupazioni sul fatto che Maduro possa prendere l’oro, che è di proprietà dello Stato, e venderlo per guadagno personale».
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Facebook cancella membri dai gruppi in vista delle europee
Quando si parla dell’algoritmo di Facebook tutti pensano subito alla matematica. Eppure quante volte è capitato che vengano aggiunti amici al profilo senza che ciò venisse richiesto? Quante volte scompaiono i like senza motivo? Si elimina un commento e scompare l’intero thread del post. Il politically correct censura parole come “negri” dalle canzoni di Edoardo Vianello, mentre lascia passare minacce e ingiurie della paggior specie. Chi frequenta con assiduità il Re dei social sa benissimo di cosa stiamo parlando. E la matematica non c’entra nulla. In questi giorni, Facebook cancella in automatico gli iscritti dai gruppi. Tutti se ne sono accorti e gli admin lamentano la scomparsa improvvisa di centinaia, se non di migliaia di membri dal gruppo da loro gestito. Poichè il social di Zuckerberg è incontrollabile se non dagli sviluppatori di Menlo Park, viene da chiedersi perchè proprio i gruppi, e, soprattutto, quali gruppi? Pier Paolo Pasolini, in un celeberrimo articolo sul “Corriere della Sera”, scriveva così: «Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere)».«Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, (…) Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero (…)». Ebbene, anche se a fronte del repulisti censorio di Facebook verrebbe facile evocare Pasolini ed il suo “io so”, nel caso dei gruppi, direi che ci sono anche le prove. I gruppi dai quali sono spariti centiania di membri automaticamente sarebbero tutti, incondizionatamente, ma i soli a lamentarsene pubblicamente sono i gruppi che parlano di politica, specialmente quelli che trattano di controinformazione.I gruppi tacciati di “rossobrunismo” o che propongono politiche economiche di stampo keynesiano o molto critici nei confronti dell’Unione Europea. E’ in quei gruppi che si registrano i danni maggiori. La scusa per bannare è la passività dei membri. Detto diversamente, Facebook si è arrogata il diritto di cancellare tutti quei membri che non partecipano alla vita del gruppo, non mettono i like, non condividono nè postano notizie. Eppure, chi è iscritto in gruppi come “amici che rivogliono Pippo Baudo alla tele”, pur silenti da anni, non si sono visti scippare l’iscrizione da Zuckerberg… come mai? Ora i soliti siti antibufala si affrettano a garantire che è tutto un malinteso, perchè il messaggio di chiarimento inviato dal social californiano precisa che non compariranno più tra i membri quei soggetti che sono stati iscritti in passato da altri e che d’ora in avanti, per rimanerci, dovranno confermarlo in modo esplicito. Dunque, se rimani iscritto agli “amici che rivogliono Pippo Baudo” è solo perchè, quella volta, tu hai chiesto l’iscrizione. Qualora, invece, fossi stato iscritto “di nascosto”, ban automatico in attesa di conferma esplicita.Niente Zuckerberg cattivo, dunque. Ma questa difesa antibufala puzza come le bufale scadute da un mese. Se applicassimo lo stesso criterio alle democrazie occidentali, cadrebbero tutte domani mattina, perchè nessuno dei viventi ha sottoscritto di suo pugno la dichiarazione d’indipendenza americana del 1876 o la Costituzione italiana del 1948. E tornando a Internet, basta scivolare sul mouse per accettare i cookies di qualsivoglia sito web, oppure accedere ad un servizio tramite Facebook per vedersi arrivare in posta elettronica email spazzatura da tutto il mondo. Questo zelo – “ti elimino dai gruppi se ti ha iscritto un amico anni fa” – a pochi mesi dalle elezioni, puzza di bruciato. Il confronto politico di maggio 2019 potrebbe cancellare un’intera classe politica dal vecchio continente. lobby comprese. I gruppi che si sono visti dimezzare gli iscritti, infatti, molto difficilmente pubblicano approfondimenti di “Repubblica” o del “Sole 24 Ore”, e la scusa per azzopparli con astruse motivazioni tecniche può convincere solo chi è ingenuo. O in malafede.(Massimo Bordin, “Facebook cancella membri dai gruppi a pochi mesi dalle elezioni europee”, dal blog “Micidial” del 21 gennaio 2019).Quando si parla dell’algoritmo di Facebook tutti pensano subito alla matematica. Eppure quante volte è capitato che vengano aggiunti amici al profilo senza che ciò venisse richiesto? Quante volte scompaiono i like senza motivo? Si elimina un commento e scompare l’intero thread del post. Il politically correct censura parole come “negri” dalle canzoni di Edoardo Vianello, mentre lascia passare minacce e ingiurie della paggior specie. Chi frequenta con assiduità il Re dei social sa benissimo di cosa stiamo parlando. E la matematica non c’entra nulla. In questi giorni, Facebook cancella in automatico gli iscritti dai gruppi. Tutti se ne sono accorti e gli admin lamentano la scomparsa improvvisa di centinaia, se non di migliaia di membri dal gruppo da loro gestito. Poiché il social di Zuckerberg è incontrollabile se non dagli sviluppatori di Menlo Park, viene da chiedersi perché proprio i gruppi, e, soprattutto, quali gruppi? Pier Paolo Pasolini, in un celeberrimo articolo sul “Corriere della Sera”, scriveva così: «Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere)».
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Annullare la Brexit? Ora il divorzio mette in croce Corbyn
Un sondaggio riservato, commissionato dalla campagna pro-Ue “Best for Britain” (che vede tra i suoi finanziatori principali lo speculatore George Soros) suggerisce che gli elettori britannici sarebbero meno propensi a sostenere il Labour qualora il partito dovesse impegnarsi in maniera decisa a fermare la Brexit. Lo rivela il “Guardian”: quasi un terzo degli intervistati avrebbe dichiarato che, in questa circostanza, voterebbe con meno probabilità i laburisti. Un numero simile di cittadini ha affermato che la posizione sul tema non muterebbe l’atteggiamento verso la formazione guidata da Corbyn. Solo il 25% del campione, scrive Andrea Genovese su “Contropiano”, ha dichiarato che un impegno “europeista” del Labour costituirebbe una maggior motivazione per sostenere la compagine. “Best for Britain”, che sta spingendo per un secondo referendum Ue, ha commissionato il sondaggio prima che i parlamentari votassero sull’accordo negoziato da Theresa May con l’Ue (poi clamorosamente respinto dalla Camera dei Comuni). Quanto ai flussi elettorali, il sondaggio afferma che una svolta in favore del secondo referendum ad opera del Labour potrebbe far guadagnare al partito il 9% degli elettori conservatori, ma causerebbe la perdita dell’11% degli attuali sostenitori laburisti.Per la formazion di Corbyn sarebbe una perdita solo parzialmente compensata dal maggiore interesse con il quale guarderebbero al Labour i simpatizzanti dei piccoli partiti pro-Ue, cioè Verdi e Liberaldemocratici. Il leader Jeremy Corbyn, osserva Genovese, si trova in una situazione delicatissima, «stretto tra le smanie europeiste dei settori centristi del suo partito» (71 parlamentari del Labour sostengono apertamente la campagna per un secondo referendum) e la necessità di «rassicurare l’elettorato tradizionale laburista che, soprattutto nel Nord dell’Inghilterra, ha votato in maniera consistente per la Brexit». Fallita la mozione di sfiducia al governo May (che è rimasto in piedi) e incassata l’indisponibilità dei Liberal-Democratici a sostenere simili tentativi in futuro, l’obiettivo di portare il paese a elezioni anticipate appare lontano. La sua strategia, ricorda Genovese, Jeremy Corbyn l’aveva messa a punto lo scorso settembre a Liverpool: «Superare in avanti le divisioni causate dalla Brexit (da assumere come dato acquisito pur preservando l’accesso all’Unione Doganale), tramite un programma socialmente avanzato col quale parlare alla maggioranza della popolazione, provando a mettere in crisi, nel gioco parlamentare, Theresa May, e a guadagnare le urne anticipate».La strada di Corbyn si fa stretta, secondo “Contropiano”: l’inizio dei colloqui parlamentari ha anche segnalato l’avvio di grandi manovre per riunire Conservatori, Nazionalisti, Centristi e la destra interna laburista intorno ad un nuovo accordo sulla Brexit. Un accordo che, per gli oppositori interni del segretario del Labour, «potrebbe anche avere l’utilità di azzoppare un leader sgradito e del tutto eccentrico rispetto alla recente tradizione del partito, completamente genuflessa ai diktat neoliberisti». A Corbyn guarda anche il variegato panorama – piuttosto disperso – dei progressisti europei che avevano tifato per il “Remain”, nella speranza che proprio il partito laburista (radicalmente rinnovato da Corbyn in senso socialista) potesse fare da contrappeso, nell’ambito dell’Unione Europea, allo strapotere del patto mercantilista franco-tedesco, al quale si sono incresciosamente allineati sia i socialisti francesi che l’Spd tedesca e il Pd italiano. Con la Brexit, i progressisti europei hanno perso – in Corbyn – un alleato potenzialmente strategico. Che ora, come scrive il “Guardian”, dovrà provare a sopravvivere, politicamente, tra le mille insidie (anche interne) innescate dal tormentato divorzio da Bruxelles.Un sondaggio riservato, commissionato dalla campagna pro-Ue “Best for Britain” (che vede tra i suoi finanziatori principali lo speculatore George Soros) suggerisce che gli elettori britannici sarebbero meno propensi a sostenere il Labour qualora il partito dovesse impegnarsi in maniera decisa a fermare la Brexit. Lo rivela il “Guardian”: quasi un terzo degli intervistati avrebbe dichiarato che, in questa circostanza, voterebbe con meno probabilità i laburisti. Un numero simile di cittadini ha affermato che la posizione sul tema non muterebbe l’atteggiamento verso la formazione guidata da Corbyn. Solo il 25% del campione, scrive Andrea Genovese su “Contropiano”, ha dichiarato che un impegno “europeista” del Labour costituirebbe una maggior motivazione per sostenere la compagine. “Best for Britain”, che sta spingendo per un secondo referendum Ue, ha commissionato il sondaggio prima che i parlamentari votassero sull’accordo negoziato da Theresa May con l’Ue (poi clamorosamente respinto dalla Camera dei Comuni). Quanto ai flussi elettorali, il sondaggio afferma che una svolta in favore del secondo referendum ad opera del Labour potrebbe far guadagnare al partito il 9% degli elettori conservatori, ma causerebbe la perdita dell’11% degli attuali sostenitori laburisti.
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Galloni, euro-suicidio 2020. Paracadute: moneta parallela
Se tutto resta com’è, in Europa, entro il 2020 l’insostenibilità sociale diverrà assoluta, con esiti imprevedibili. Lo afferma l’economista post-keynesiano Nino Galloni, in un’analisi su “Scenari Economici” nella quale fotografa i possibili sviluppi: potremmo assistere a un accordo tra Stati per metter fine alla disastrosa Eurozona prima che la moneta unica imploda, oppure è possibile che sia proprio il maggior paese europeo, la Germania, a salutare la compagnia. Alternative? Una: attrezzarsi con moneta statale parallela per aggirare le forche caudine della finanza “privatizzata” che ricatta il sistema pubblico. Fuori discussione, in ogni caso, l’aggravarsi della crisi generale se perdurasse la situazione attuale. In caso di “invarianza”, dice Galloni, faremmo i conti – sempre di più – con l’insostenibile architettura dell’euro, introdotto per un modello economico orientato alla ricerca di competitività, con un obiettivo preciso: deflazione salariale e compressione della domanda interna, e quindi disoccupazione e precarizzazione del lavoro, pagato sempre meno. «Se si fosse voluta una maggiore competitività dei mercati – osserva Galloni – si sarebbe dovuto partire dalla convergenza tributaria, non dalla moneta unica».Siamo ai fondamentali della macroeconomia: se si punta tutto sull’export «anche a costo di sacrificare i salari e l’occupazione, vale a dire la domanda interna», non si può fingere di non sapere che «le esportazioni di un paese sono le importazioni di un altro». Quindi il modello scelto «presuppone l’esistenza di uno squilibrio, nella bilancia commerciale, che spinge sia all’aumento della remunerazione del capitale finanziario (per attirare capitali dall’estero, onde riallineare la bilancia dei pagamenti), sia a perseverare nella deflazione salariale e occupazionale». In questo modo, scrive Galloni, si ottiene un duplice effetto negativo sui conti pubblici, «dovuto all’aumento dei tassi di interesse sul debito pubblico e all’esigenza di aggravare la pressione fiscale sui ceti meno abbienti e più numerosi, già provati dalla deflazione». La società, dunque, «si divide tra una maggioranza che si impoverisce sempre più per effetto della deflazione, dell’aumento del carico tributario e del peggioramento dei servizi pubblici, e una minoranza che può scaricare sulla clientela i maggiori oneri, compresi gli stessi incrementi di tasse». Non deve stupire, quindi, se questa maggioranza cerchi di esprimere il proprio disagio nei vari modi possibili: dalle elezioni alle proteste di piazza, fino alla prospettiva della disobbedienza civile.Dentro l’attuale cornice dell’euro e dell’Unione Europea, ribadisce Galloni, lo scenario sociale «può esser definito solo come insostenibile in maniera assoluta». Sul fronte finanziario, benché i dati disponibili siano più che allarmanti, «il sistema internazionale appare ancora in grado di resistere». Motivo? «Non hanno limiti, le risorse monetarie producibili dalle banche centrali per gestire le incredibili tossicità debitorie create dai grandissimi intermediari: è sempre possibile “collateralizzare” un titolo, magari allungandone la scadenza, se la banca centrale lo accetta a garanzia in cambio di moneta a corso legale e a “costo zero”». L’attuale capitalismo ultra-finanziario ha superato la scarsità dei mezzi di pagamento, e la sua sostenibilità (relativa) si basa sul fatto che «l’immensa liquidità non arriva all’economia reale». Infatti, precisa Galloni, il credito bancario verso le aziende è bloccato dalle regole vigenti. Lo stesso credito, virtualmente illimitato, resta però ampiamente disponibile per le operazioni speculative, e così la giostra continua. Potrà essere fermata solo «da un cambiamento delle regole imposto dalla politica», e dall’atteggiamento delle banche centrali: nella seconda metà del 2019 la Bce dovrebbe allinearsi alla condotta più restrittiva della Fed (a meno che Trump non le faccia cambiare indirizzo, e sempre che la Germania confermi di voler chiudere i rubinetti della Bce, quando ne sarà alla guida).Nel frattempo, aggiunge Galloni, l’acuta insostenibilità sociale dell’Eurozona «sarà confermata dai necessarissimi – ma mancati – superamenti del paradigma capitalistico e di quello della scarsità». Nei comparti produttivi ad elevata redditività, infatti, la domanda di lavoro è decrescente: sempre meno addetti garantiranno i beni materiali e i servizi ad alto valore aggiunto di cui abbiamo bisogno. L’aumento dei profitti sarà consistente, ma inferiore all’effetto di riduzione del Pil dovuto al calo occupazionale, dove le retribuzioni possono essere più elevate, e sarà anche inferiore alla necessità di investimenti tecnologici. «La soluzione, almeno parziale, sarebbe la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, ma gli stessi percettori di profitti vi si oppongono perché ne percepiscono solo l’effetto reditributivo a loro avverso». In più «non ne percepiscono neanche l’effetto di insostenibilità sull’economia complessiva, sicché si può considerare storicamente esaurita la spinta sociale del capitalismo stesso».Morale: crescono solo i profitti, non l’occupazione e nemmeno il Pil. E resta scarsamente conveniente investire in tecnolgia, perché l’industria è meno redditizia della speculazione finanziaria. «Ciò vuol dire che, presto, lo Stato dovrà riprendere a fare investimenti non solo “strategici”, ma anche industriali». Invece, nei comparti dove l’occupazione deve crescere (servizi di cura delle persone, dell’ambiente, del patrimonio esistente) il paradigma capitalistico «non può essere applicato, perché il fatturato – che dipende dal reddito disponibile dei cittadini – è inferiore al costo (il lavoro necessario, appunto)». Che fare, dunque? Possibile che i membri dell’Ue si mettano d’accordo per riformare le regole, ovvero abbandonare – finalmente – il catastrofico euro? «Scenario molto teorico, visti gli interessi di chi ha continuato a prosperare alle spalle degli altri consociati». Unica speranza: la politica potrebbe «raggiungere la consapevolezza di un modello economico sostenibile, vale a dire caratterizzato dal comune obiettivo di sostituire importazioni», ovvero: favorire le economie locali, «restituendo alla crescita della domanda interna il suo fondamentale ruolo di traino». Le elezioni europee di fine maggio 2019 ci diranno qualcosa, in proposito. Ma per ora, ammette Galloni, questo scenario appare decisamente il più improbabile.Più realistico invece il terzo scenario: l’esplosione-implosione dell’euro-sistema. Una calamità, se l’evento fosse accidentale, per la quale – come già ipotizzato da Paolo Savona – sarebbe fondamentale «essersi dotati tempestivamente di un “Piano B” in grado di realizzare, in tempi e modi accettabili, un ritorno improvviso alla valuta nazionale». E se invece – quarto scenario – fosse un grande paese europeo a lasciare l’Eurozona? «Premesso che l’abbandono di Italia, Francia o Germania porterebbe quasi sicuramente al crollo dell’euro», scrive Galloni, se c’è uno Stato che potrebbe essere tentato dalla “fuga” è proprio la Germania: Berlino infatti «ha già capitalizzato tutti i vantaggi della situazione». E adesso «avrebbe più ragioni di guardare verso la Russia, soprattutto se l’Unione Europea dovesse continuare a manifestare una scarsa indipendenza internazionale dagli Usa». Ma gli Stati Uniti lo vorrebbero davvero, uno sfaldamento dell’Ue? O piuttosto, si domanda Galloni, temono un allargamento dell’Europa – ma non certo di questa Ue – alla Federazione Russa?Resta, in compenso, una soluzione alternativa: quella della moneta parallela. «Un qualsiasi tipo di abbandono dell’euro – ragiona Galloni – non porrebbe più problemi di quanti ne risolverebbe». Eppure, nell’opinione pubblica «prevale il disagio», di fronte all’ipotesi del ritorno alla valuta nazionale. «Vi sono, invece, molte buone ragioni per proporre una soluzione più pratica e di facile applicazione: vale a dire l’introduzione di una valuta parallela statale, a sola circolazione nazionale, non convertibile ma a corso legale, con cui sarebbe possile, soprattutto, pagare le tasse». La moneta parallela non è contemplata (e quindi, nemmeno proibita) dal Trattato di Lisbona – dove si parla, appunto, di banconote e non di “statonote”. «La competenza sottratta alle banche nazionali per essere attribuita alla Bce, infatti, riguarda la sola “moneta a debito”, non la sovranità monetaria dello Stato, che può essere o non essere esercitata per sola volontà amministrativo-politica interna».Il vantaggio di una simile soluzione? Presto detto: un’immissione di mezzi di pagamento “alternativi” per una quota non superiore al 3% del Pil basterebbe a finanziare spese pubbliche necessarie (come le assunzioni nella pubblica amministrazione) senza aggravare disavanzi o debito. Sarebbero risorse a costo zero: «Avrebbero lo stesso segno algebrico delle tasse e si sommerebbero ad esse, controbilanciando il livello della spesa». Riassumendo: l’intera impalcatura dell’Unione risulta in crisi. Le tensioni tra Italia e Francia (dall’affaire Gheddafi ai Gilet Gialli) sono persino più gravi degli eccessi del capitalismo ultrafinanziario internazionale, considerate le “luci” dei paesi emergenti come Cina e India. Quello che manca è la convergenza su un “programma minimo”. Cioè: meglio rinunciare alle parole d’ordine più nette, «giuste ma divisive» (“fuori dall’Unione, fuori dall’euro”). Secondo Galloni, conviene innanzitutto trovare un primo e fondamentale elemento di coagulo. Il paradigma capitalistico della scarsità è già in crisi. E può essere superato proprio «attraverso l’introduzione di una valuta parallela», capace di finanziare investienti e occupazione, ma «senza creare ulteriore debito».Se tutto resta com’è, in Europa, entro il 2020 l’insostenibilità sociale diverrà assoluta, con esiti imprevedibili. Lo afferma l’economista post-keynesiano Nino Galloni, in un’analisi su “Scenari Economici” nella quale fotografa i possibili sviluppi: potremmo assistere a un accordo tra Stati per metter fine alla disastrosa Eurozona prima che la moneta unica imploda, oppure è possibile che sia proprio il maggior paese europeo, la Germania, a salutare la compagnia. Alternative? Una: attrezzarsi con moneta statale parallela per aggirare le forche caudine della finanza “privatizzata” che ricatta il sistema pubblico. Fuori discussione, in ogni caso, l’aggravarsi della crisi generale se perdurasse la situazione attuale. In caso di “invarianza”, dice Galloni, faremmo i conti – sempre di più – con l’insostenibile architettura dell’euro, introdotto per un modello economico orientato alla ricerca di competitività, con un obiettivo preciso: deflazione salariale e compressione della domanda interna, e quindi disoccupazione e precarizzazione del lavoro, pagato sempre meno. «Se si fosse voluta una maggiore competitività dei mercati – osserva Galloni – si sarebbe dovuto partire dalla convergenza tributaria, non dalla moneta unica».