Archivio del Tag ‘elezioni’
-
Electrolux, ricatto asimmetrico: addio operai italiani
Nella «lotta di classe asimmetrica» scatenata dalla multinazionale svedese Electrolux, i lavoratori sono ridotti a variabile marginale. Stoccolma, osserva Gad Lerner, ha il potere di giocarsi gli operai polacchi contro gli operai italiani. E inoltre può mettere ogni stabilimento a rischio chiusura in competizione con l’altro, azionando così una corsa al ribasso no limits del costo della manodopera. Libera concorrenza senza regole e su un orizzonte mondiale. Stesso obiettivo, ovunque: svincolarsi dai contratti localmente stipulati con la parte più debole. E quindi si tagliano gli stipendi, anche «se ciò comporta una vera e propria retrocessione di civiltà». Prendere o lasciare. «Parliamoci chiaro: se il ricatto occupazionale dovesse funzionare all’Electrolux, costringendo i sindacati ad accettare per cause di forza maggiore un taglio generalizzato dei salari, dal giorno dopo le ripercussioni si manifesterebbero su tutto il sistema manifatturiero italiano.Decisiva, scrive Lerner su “Repubblica” in un post ripreso da “Megachip”, è «la nuova centralità finanziaria del rapporto creditore/debitore», centralità che «prosciuga le risorse pubbliche necessarie all’esercizio della mediazione nel più antico conflitto capitale/lavoro». Così, «la lotta di classe diviene asimmetrica». E il lavoro, «reso precario, tende a precipitare sempre più spesso nella povertà». Se la casamadre di Stoccolma l’avrà vinta sugli operai italiani, «migliaia di aziende in difficoltà» seguiranno l’esempio del battistrada svedese, «generando un’imponente decurtazione di reddito a danno di lavoratori che già percepiscono salari al di sotto della media europea». È vero che il costo del lavoro pesa in misura eccessiva sui bilanci delle nostre imprese, «ma la scorciatoia escogitata – tagliare i salari, altrimenti chiudiamo gli stabilimenti – sortirebbe effetti sociali ed economici dirompenti».Nessuna indicazione utile dal Pd di Renzi: in questa drammatica circostanza, continua Lerner, «aiuta poco il Jobs Act che si voleva sfoderare in campagna elettorale, perché nulla dice sul bivio cui siamo giunti: cosa deve rispondere, il governo, a una multinazionale che per restare nel nostro paese pretende la sospensione del contratto nazionale e dei patti integrativi vigenti?». La richiesta brutale dell’Electrolux suscita reazioni opposte se la si guarda benevolmente dalla city di Londra, come il finanziere renziano Davide Serra che definisce «razionale» lo scambio fra decurtazioni salariali e salvaguardia occupazionale; o viceversa se la si guarda dal Friuli condannato a perdere 1.100 posti di lavoro, come tocca all’altrettanto renziana Debora Serracchiani, schierata con i “suoi” operai di Pordenone. Forse, Renzi «non si rende conto che il dilemma degli operai polacchi d’Italia, sbattuto in faccia alla politica, non è di quelli aggirabili con dei ghirigori verbali. Al contrario, è la priorità delle priorità».Le statistiche sulla ricchezza nazionale divulgate dalla Banca d’Italia ci confermano che stiamo vivendo una metamorfosi sociale, con l’acuirsi delle disuguaglianze e la diffusione della povertà. Ma ancora non fotografano a sufficienza il dato nuovo rappresentato dall’estendersi dell’area che i sociologi definiscono “labouring poor”: ovvero i titolari di un posto di lavoro fisso, la cui busta paga però non li sottrae all’indigenza. Condizione che verrebbe generalizzata da eventuali accordi consensuali di taglio dei salari, che finirebbero per «suggellare una gigantesca opera di espropriazione di ricchezza ai danni del lavoro dipendente, già in atto da anni in tutto l’Occidente». Se l’Italia dovesse quindi subire il ricatto della multinazionale svedese, le conseguenze sarebbero gravissime. «La lotta di classe asimmetrica produce solo declassati e secerne rancore», conclude Lerner. «Sottoscrivere oggi un taglio dei salari significa mettere a repentaglio una già fragile democrazia».Nella «lotta di classe asimmetrica» scatenata dalla multinazionale svedese Electrolux, i lavoratori sono ridotti a variabile marginale. Stoccolma, osserva Gad Lerner, ha il potere di giocarsi gli operai polacchi contro gli operai italiani. E inoltre può mettere ogni stabilimento a rischio chiusura in competizione con l’altro, azionando così una corsa al ribasso no limits del costo della manodopera. Libera concorrenza senza regole e su un orizzonte mondiale. Stesso obiettivo, ovunque: svincolarsi dai contratti localmente stipulati con la parte più debole. E quindi si tagliano gli stipendi, anche «se ciò comporta una vera e propria retrocessione di civiltà». Prendere o lasciare. «Parliamoci chiaro: se il ricatto occupazionale dovesse funzionare all’Electrolux, costringendo i sindacati ad accettare per cause di forza maggiore un taglio generalizzato dei salari, dal giorno dopo le ripercussioni si manifesterebbero su tutto il sistema manifatturiero italiano.
-
D’Orsi: povera Italia, se resta nelle mani di lorsignori
Ci lamentavamo di Bersani? Becchiamoci Renzi.«Qualcuno annunciava la spaccatura del Pd», e invece «Fassina e Cuperlo hanno appena aderito a tutto», e tace pure «il giovin Civati», mentre Laura Boldrini ha «inferto un colpo quasi mortale alla dialettica parlamentare, con il ricorso alla “ghigliottina”», per bloccare il dibattito in aula e far convertire in legge «il vergognosissimo decreto Imu-Banca d’Italia». Per Angelo d’Orsi, della Boldrini offende il fatto che lei, Napolitano e Grasso «si comportino come parte integrante dell’esecutivo». Ovvero: «Stiamo assistendo alla formazione di un blocco storico, mai visto nella vicenda nazionale, neppure ai tempi bui del fascismo: un blocco che cancella le differenze di ruoli tra le istituzioni (esecutivo e legislativo diventano tutt’uno), che elimina le diversità delle opzioni politiche», visto che Pd-Fi «ormai vanno verso una identità sostanziale», al netto di «leggere sfumature che hanno il mero scopo di preservare una identità ai fini elettorali». Il nuovo blocco di potere «toglie persino il velo alla relazione strettissima tra potentati economico-finanziari e apparati politici».Stesso destino, scrive d’Orsi su “Micromega”, per i sindacati: «Come possiamo ancora distinguere la Cgil dalla voce del padrone?» Di Cisl e Uil «manco vale la pena di parlare, tanto appiattiti sono ormai da anni sulle logiche padronali». C’è il decreto-vergogna per la “ricapitalizzazione” della Banca d’Italia, gigantesco regalo alle grandi banche, e c’è «il silenzio ossequiente verso le scellerate scelte “strategiche” di Marchionne e dell’“azionista di riferimento” Fiat (Agnelli-Elkann), che meriterebbero risposte adeguate», per finire con l’altro scandalo, quello degli F-35 «appena dichiarati pericolosi e costosi dal Pentagono». Mentre il governo Letta, quello “virtuoso”, «persevera nella politica delle commesse alle multinazionali produttrici di questi giocattoli di guerra». E sul tappeto restano inevase le pratiche più scellerate, dall’inutile e mostruoso Tav Torino-Lione della valle di Susa fino al Muos di Niscemi, la piattaforma super-tecnologica siciliana per la guerra totale.«Insomma, un catalogo di orrori – aggiunfe d’Orsi – che sta facendo toccare con mano quanto fossero esatte le funeste previsioni all’ascesa alla guida del Pd del giovane rottamatore, che sta inanellando una vittoria dopo l’altra, nel silenzio complice o inerte degli uni, o nell’adesione convinta o necessitata degli altri». Ma attenzione: «Le vittorie di Renzi sono altrettante sconfitte della democrazia». E il gennaio 2014 sarà ricordato come una “macchia scura” nella vicenda dello stesso sistema liberal-democratico, «per il delitto perfetto che è stato consumato dai “democratici” Renzi e Letta, sotto la regia di Napolitano, con la benevolenza istituzionale dei presidenti delle Camere, e soprattutto la complicità attiva e interessatissima del riesumato Berlusconi e della sua gang». Non paghi di una legge elettorale «persino peggiore della precedente», l’infame “Porcellum”, Pd e Forza Italia mostrano di voler puntare su «uno scenario cimiteriale, dove due partitoni indistinguibili, come sovente sono laburisti e conservatori in Gran Bretagna, democratici e repubblicani negli Usa, occuperanno l’intero panorama politico». E questa sarebbe la “moderna democrazia”?Ma non basta, continua d’Orsi. La nuova «gioiosa macchina da guerra» guidata da Renzi, «il piccolo duce», avanza «nello stupefatto balbettio della minoranza interna», ma anche «nell’entusiasmo di chi lo chiama “Matteo” e lo acclama come la star da opporre finalmente al Berlusconi, e capace di fermare il “fenomeno Grillo”». Ora, guadagnato il fortilizio elettorale, «con un’ultima ignominiosa correzione per impedire che la Lega Nord esca dal giro», la macchina marcia verso la Costituzione, che da almeno tre decenni i soloni del “novitismo”, delle “riforme” e della “governabilità” hanno classificato come “obsoleta”: e in quattro e quattr’otto l’amputazione si farà, «recando una ferita che non sarà più possibile rimarginare, neppure quando ci si liberasse del Berluscone e del Berluschino». Secondo d’Orsi, a quel punto, «occorrerà una rivoluzione per restituire dignità al paese e valore alle sue leggi, rinnovando completamente la sua classe dirigente». Ma questa rivoluzione ancora non si vede: «Si vedono proteste, jacqueries, ribellioni, uno scontento generale e gigantesco che si traduce anche, per fortuna, in atti di resistenza». Episodi numerosissimi e diffusi, che «hanno il solo torto di non essere coordinati e spesso neppure conosciuti». Il che significa che «davanti a questo sfascio, se si prende atto che l’alternativa tra Pd e tutta l’ammucchiata di centrodestra è ormai fasulla, non solo ribellarsi è giusto ma è anche possibile».Purtroppo, sempre secondo d’Orsi, «al di là delle simpatie che si possano provare», il “Movimento 5 Stelle” non è ancora un’alternativa pienamente credibile. Grillo e Casaleggio, «i due capetti», lo tengono tuttora in pugno. Per contro, al di là del «fastidio per tanti suoi ridicoli esponenti (basti pensare a Vito Crimi, degno del senatore Razzi imitato dal comico Crozza», oggi «solo questi ragazzacci», i giovani parlamentari “5 Stelle”, «stanno provando ad alzare la voce contro lo schifo», e certo «è meglio di nulla». E se i colleghi del Pd non provano vergogna nell’intonare “Bella ciao” per difendere il decreto Imu-Bankitalia, Alessandro Gilioli osserva: «È davvero notevole lo sforzo con cui il Pd, Forza Italia, Boldrini e Napolitano stanno trasportando verso il “Movimento 5 Stelle” anche gli italiani meno attratti da Grillo e Casaleggio». Quanto agli antiberlusconiani «schifati di tutte le scelte del Pd» nonché «delusi di un Vendola rimasto capace di affabulare solo se stesso allo specchio», che fare? Rifugiarsi nell’astensionismo? Oppure, viceversa, «connettere le tante isole di opposizione allo schifo», perché «un’altra Italia esiste», e può unire tutti quelli che «sono contro lorsignori».Ci lamentavamo di Bersani? Becchiamoci Renzi.«Qualcuno annunciava la spaccatura del Pd», e invece «Fassina e Cuperlo hanno appena aderito a tutto», e tace pure «il giovin Civati», mentre Laura Boldrini ha «inferto un colpo quasi mortale alla dialettica parlamentare, con il ricorso alla “ghigliottina”», per bloccare il dibattito in aula e far convertire in legge «il vergognosissimo decreto Imu-Banca d’Italia». Per Angelo d’Orsi, della Boldrini offende il fatto che lei, Napolitano e Grasso «si comportino come parte integrante dell’esecutivo». Ovvero: «Stiamo assistendo alla formazione di un blocco storico, mai visto nella vicenda nazionale, neppure ai tempi bui del fascismo: un blocco che cancella le differenze di ruoli tra le istituzioni (esecutivo e legislativo diventano tutt’uno), che elimina le diversità delle opzioni politiche», visto che Pd-Fi «ormai vanno verso una identità sostanziale», al netto di «leggere sfumature che hanno il mero scopo di preservare una identità ai fini elettorali». Il nuovo blocco di potere «toglie persino il velo alla relazione strettissima tra potentati economico-finanziari e apparati politici».
-
Il Fatto: Renzi è stato finanziato con 4 milioni. Da chi?
Tutto in cinque anni. Dal 2009 a oggi. Tanto è durata la scalata al potere di Matteo Renzi che da assistente di Lapo Pistelli, poi insediato nel 2004 dalla coalizione di centrosinistra alla guida della Provincia di Firenze, è riuscito a sfidare tutti. Centrodestra e centrosinistra. E a vincere. In cinque anni Renzi è riuscito a sostenere due campagne nel 2009 (primarie e amministrative a Firenze), una nel 2012 e un’altra nel 2013, entrambe per la segreteria del Pd. Il tutto senza sostegno economico da parte del partito: niente rimborsi elettorali né fondi pubblici. Come c’è riuscito? Grazie ad associazioni, società, comitati e rapporti (alcuni finora sconosciuti) che ruotano attorno a Renzi e ai suoi due “fund raiser”, Marco Carrai e Alberto Bianchi, incaricati di raccogliere soldi. Missione compiuta: oltre 4 milioni di euro per coprire le spese della corsa alla guida del paese. Lo racconta sul “Fatto Quotidiano” Davide Vecchi, che – conti alla mano – ripercorre l’ascesa del rottamatore.«Bianchi e Carrai – scrive Vecchi – oggi fanno parte del consiglio direttivo della Fondazione Open, cioè l’evoluzione della Fondazione Big Bang a cui lo scorso novembre è stato cambiato nome e composizione: Renzi ha azzerato il vecchio consiglio, confermando solo Bianchi e Carrai, inserendo Luca Lotti e Maria Elena Boschi, nominando quest’ultima segretario generale». Nel 2013 la fondazione ha raccolto 980.000 euro di donazioni, 300.000 euro in più rispetto all’anno precedente, quello della sua fondazione. Negli anni precedenti, continua Vecchi, l’attività politica di Renzi era passata attraverso altre due associazioni: Link e Festina Lente, che «non hanno mai avuto siti Internet né rendicontazione pubblica». Ultima iniziativa di Festina Lente: 120.000 euro raccolti a Milano in una cena per Renzi nel gennaio 2012 al Principe di Savoia. «Questa associazione è citata solamente una volta: nel resoconto delle spese elettorali sostenute da Renzi per le amministrative del 2009».Il comitato dell’allora candidato sindaco dichiarò di aver speso 209.000 euro, 137.000 raccolti tra i sostenitori e gli altri 72.000 coperti da un mutuo acceso e garantito dalla Festina Lente. Mutuo concesso dalla banca di credito cooperativo di Cambiano (presieduta dal potente sostenitore Paolo Regini e usata anche per le ultime primarie) con a garanzia una fidejussione firmata da Bianchi. Ben più attiva, invece, la Link, nata nel 2007 quando Renzi era presidente della Provincia di Firenze. Oltre a Carrai, tra i fondatori figura buona parte dell’attuale staff del rottamatore: come Lucia De Siervo, direttore della cultura ed ex capo segreteria di Renzi, nonché figlia di Ugo, presidente della Corte Costituzionale, e moglie di Filippo Vannoni, presidente di Publiacqua. C’è Vincenzo Cavalleri, ora direttore servizi sociali di Palazzo Vecchio, e c’è Andrea Bacci, oggi presidente della Silvi (società pubblica partecipata dal Comune), intercettato nel dicembre 2008 al telefono con Riccardo Fusi (ex patron del gruppo Btp condannato a due anni in primo grado per i lavori alla Scuola marescialli e imputato per il crac del Credito Cooperativo Fiorentino di Denis Verdini e indagato per bancarotta fraudolenta) per organizzare un viaggio in elicottero a Milano per Renzi.Nell’atto costitutivo della Link, aggiunge il “Fatto”, oltre al presidente Marco Seracini compare anche Simona Bonafè, ex assessore e oggi onorevole. L’associazione ha la propria sede in via Martelli 5, dove poi nascerà la fondazione Big Bang. Nei primi due anni di vita la Link ha chiuso in attivo, dopo aver raccolto 200.000 euro. «Tutt’altra musica nel 2009, anno delle primarie e delle amministrative, quindi fondi che vanno ad aggiungersi a quelli dichiarati dal Comitato». Link ha speso 330.000 euro, perdendone 154.000. Perdita «in parte appianata nel 2010 attraverso erogazioni liberali ricevute per 156.350 euro e in parte nel 2011, ultimo anno di vita dell’associazione». Complessivamente, la Link ha sostenuto l’attività politica di Renzi con circa 750.000 euro. «Da dove arrivano queste “erogazioni liberali”?», si domanda Vecchi. «Abbiamo cercato per giorni inutilmente il presidente Marco Seracini sia nel suo studio, dove venne registrata l’associazione, sia al cellulare. Ci siamo rivolti a Carrai che pur rispondendo molto gentilmente al telefono e rendendosi inizialmente disponibile a incontrarci, ha poi preferito non rispondere né in merito alla Link né ad altro». Ha invece risposto Vincenzo Cavalleri, anche che «non alle domande sui donatori – “dei quali”, ha detto, “non so niente”». Però ha spiegato al “Fatto” che l’associazione è una “scatola”, costruita per organizzare incontri. Di che tipo? «Raccolta fondi ma non solo, non faceva attività politica però, erano incontri sociali diciamo». Sociali? «Sì, eventi promozionali per diciamo sviluppare le idee di cui Renzi era portatore». E cene elettorali? «Non ricordo».Nel 2009, continua Vecchi, dopo aver vinto le primarie fiorntine Renzi partecipò ad alcune iniziative organizzate anche da Denis Verdini, all’epoca coordinatore regionale di Forza Italia. Oggi, Verdini è l’uomo che deve scegliere il candidato sindaco da contrapporre a Renzi per le prossime amministrative di maggio. «Nel 2009 – racconta il “Fatto” – l’allora rottamatore sedette al tavolo d’onore insieme a Verdini e consorte alla festa de “Il Giornale della Toscana”, presenti tutti i parlamentari forzisti dell’epoca». Mesi dopo, Renzi partecipò a un evento organizzato dalla signora Verdini, Maria Simonetti Fossombroni. «Molti del Pdl ricordano inoltre che la scelta di candidare sindaco nel 2009 l’ex calciatore Giovanni Galli fu considerato un “regalino” al giovane prodigio Renzi. Che lo asfaltò. Verdini non ha mai negato la propria simpatia per il rottamatore». E dal centrodestra sono mai arrivati fondi alle associazioni di Renzi? «Gentile e disponibile quanto Carrai si dimostra anche Alberto Bianchi, che come Carrai alla domanda non risponde».Domande: da dove arrivano i fondi e come ha coperto il mutuo Festina Lente? E come è riuscito ad appianare il debito della Fondazione e a raccogliere il 30% in più l’anno successivo? «Neanche a queste domande riceviamo risposte», aggiunge Vecchi. «Una cosa è certa: l’imprenditore e l’avvocato fanno benissimo il loro lavoro di fund raiser. Sempre dall’ombra, mai in prima fila. Meno si parla di loro meglio è». La cena di finanziamento di Renzi a Milano nell’ottobre 2012, «che passò come un evento organizzato da Davide Serra», secondo “Il Fatto” «in realtà è stata opera esclusiva di Carrai». L’amico di Renzi «mal sopporta la pubblicità, i suoi interessi sono nel privato». Oggi, Carrai è presidente di Aeroporto Firenze, della C&T Crossmedia, della Cambridge Management Consulting e della D&C, mentre ha appena lasciato la carica di amministratore delegato della Yourfuture srl. Inoltre è socio dell’impresa edile di famiglia Car.im, società che ha realizzato la trasformazione della storica libreria fiorentina Martelli in un negozio Eataly, proprio davanti alla sede della Fondazione Open. «Ma certo, sono affari privati».Tutto in cinque anni. Dal 2009 a oggi. Tanto è durata la scalata al potere di Matteo Renzi che da assistente di Lapo Pistelli, poi insediato nel 2004 dalla coalizione di centrosinistra alla guida della Provincia di Firenze, è riuscito a sfidare tutti. Centrodestra e centrosinistra. E a vincere. In cinque anni Renzi è riuscito a sostenere due campagne nel 2009 (primarie e amministrative a Firenze), una nel 2012 e un’altra nel 2013, entrambe per la segreteria del Pd. Il tutto senza sostegno economico da parte del partito: niente rimborsi elettorali né fondi pubblici. Come c’è riuscito? Grazie ad associazioni, società, comitati e rapporti (alcuni finora sconosciuti) che ruotano attorno a Renzi e ai suoi due “fund raiser”, Marco Carrai e Alberto Bianchi, incaricati di raccogliere soldi. Missione compiuta: oltre 4 milioni di euro per coprire le spese della corsa alla guida del paese. Lo racconta sul “Fatto Quotidiano” Davide Vecchi, che – conti alla mano – ripercorre l’ascesa del rottamatore.
-
Bertani: attaccando Napolitano, Grillo vincerà le elezioni
«Le banche vogliono ancora soldi: tutti hanno capito che col Fiscal Compact l’hanno fatta fuori del vaso, perciò in questo ultimo anno cercheranno di succhiare tutto il sangue che riusciranno, poi abbandoneranno la carogna. Sta a quelli come noi, che hanno compreso la truffa – iniziata con Licio Gelli ed il suo “Piano di Rinascita Democratica” di 30 anni or sono – continuare a strombazzare qual poco di verità della quale siamo certi, perché l’abbiamo vissuta. I ragazzi del M5S – almeno – sappiamo che continueranno». Così la pensa Carlo Bertani, all’indomani del decreto-vergogna Imu-Bankitalia e della richiesta di impeachment per Napolitano: per la messa in stato d’accusa i presupposti giuridici sono fragili, ma quelli politici no. Se oggi non accadrà nulla, i risultati potrebbero arrivare domani: Grillo è l’unico ad aver centrato nel mirino il bersaglio grosso, l’uomo del Colle, massimo garante di un establishment fallimentare, che Pd e Berlusconi saranno costretti a difendere, andando incontro a una disfatta elettorale.«Lo share di Napolitano è uno fra i più bassi del mondo occidentale», scrive Bertani nel suo blog, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «Soltanto la metà dei cittadini lo approva (parecchi sondaggi recano queste cifre)». E questo, per un capo di Stato che ha basato il suo agire sul motto “state tranquilli, qui ci sto io a controllare”, secondo Bertani «è una débacle», tant’è vero che ormai «metà dei cittadini ha capito il trucco». “Sparando” contro Napolitano, Grillo prepara dunque una campagna elettorale nella quale una sola forza politica, il “Movimento 5 Stelle”, si candida a vincere a mani basse, grazie ai voti di chi è «schifato, annichilito, provato dal disgusto» di fronte allo spettacolo che avanza. «Difatti, Napolitano – che è un gran furbacchione – ha dichiarato di non essere preoccupato per la messa in stato d’accusa in merito alla Costituzione, bensì d’esserlo molto per cosa sta succedendo in Parlamento. Là sì che si stanno giocando i futuri equilibri europei! Devono riuscire a tagliar la pelle all’asino senza farlo ragliare! E bene fanno quelli del M5S ad urlare più forte: non si facciano intimorire dalle tigri di camomilla come Letta!».La verità è che il Parlamento «ha raggiunto forse il limite inferiore della sua storia», anche se «in futuro potrà scendere ancora». E tutte le istituzioni, compresa la presidenza della Repubblica, «sono oramai gli zombie di ciò che erano non più di un anno fa». Gli unici ad essere felici «sono gli uomini di Bankitalia, che ringraziano per il generoso regalo di 4 miliardi di euro fatto ai loro azionisti: credevamo che l’Imu servisse per rimettere in sesto il bilancio italiano. No, adesso abbiamo la conferma ufficiale che serviva a rimpinguare i conti degli azionisti privati di Bankitalia». Tutto questo, però, non basta a motivare la messa in stato d’accusa di Napolitano. Primo rilievo: espropriazione della funzione legislativa del Parlamento e abuso della decretazione d’urgenza. «Su questo punto – osserva Bertani – andrebbero processati tutti i presidenti, almeno da Pertini in avanti: le leggi contro il terrorismo sono state la “prova generale” della decretazione d’urgenza. Poi, il diluvio: oggi, si decreta “d’urgenza” anche un finanziamento di 1.000 euro a qualche parente, oppure un ministro entra a gamba tesa nella decisione su quale parente abbia diritto di gestire il bar di un ospedale».Seconda accusa: riforma della Costituzione e del sistema elettorale. Qui invece i grillini hanno ragione, sostiene Bertani: «L’eventuale riforma della Costituzione è argomento staccato dalla legge elettorale, e bene ha fatto il M5S a lottare perché (finora) non avvenisse. C’è il rischio che riescano a raggiungere i 2/3 dei voti, e quindi che riescano ad evitare il referendum confermativo». Napolitano? «E’ chiaro che non considera il M5S un soggetto politico “attivo”: al più, dei divertenti clown». Detto questo, purtroppo, «le leggi elettorali – salvo il proporzionale puro e senza sbarramenti (una testa, un voto) – sono tutte delle truffe: dipende da chi vuoi farti truffare». Più difficile, invece, sostenere la terza accusa, quella del mancato esercizio del potere di rinvio presidenziale: «Se ad esempio Ciampi non rinviò il “Porcellum” alle Camere a fine legislatura (che, quindi, sarebbe caduto immediatamente, ben prima d’essere dichiarato incostituzionale sette anni dopo) in molti casi sarebbe stato opportuno farlo. Già, ma è un potere presidenziale: che succede se non lo si applica?».Idem per il quarto “capo d’accusa”, cioè l’anomala rielezione al Quirinale: sarà una prassi poco opportuna, ma la Costituzione non la vieta. Quanto alla quinta “imputazione”, quella di improprio esercizio del potere di grazia, c’è poco da aggiungere: «Detto fuori dai denti, Sallusti era l’ultima persona da graziare, con tanta gente malata e condannata a pene lievi che ingombrano le nostre carceri», ma tant’è: il potere di grazia resta prerogativa esclusiva del capo dello Stato, e può esercitarlo senza condizioni. Infine, sulla sesta e ultima contestazione – il rapporto con la magistratura nel processo Stato-mafia – è «molto difficile estrapolare la verità». Ipotesi: «Nulla di più probabile che gli apparati dello Stato si siano “attivati” molto “generosamente” in favore del presidente». Ma, anche qui, come motivare l’accusa di “attentato alla Costituzione”? In altre parole, «Grillo sa benissimo che le possibilità di successo dell’iniziativa sono pari a zero»: troppi giuristi e costituzionalisti «al servizio di Re Giorgio», e troppo pochi parlamentari a favore della decadenza. Eppure, secondo Bertani, la mossa (tutta politica) dell’impeachment alla fine avrà successo: «Ovviamente Napolitano non decadrà dall’incarico, ma sarà travolto dalle susseguenti elezioni».Bertani mette a fuoco la nuova legge elettorale confezionata da Renzi e Berlusconi: nessuno dei due schieramenti – centrodestra e centrosinistra – sembra in grado, davvero, di raggiungere il famoso premio di maggioranza, che assomiglia sempre di più «al prosciutto in cima all’Albero della Cuccagna». Il 37% è una soglia alta – Berlusconi si sarebbe accontentato del 35 – perché entrambi i partiti ritengono che saranno loro gli attori al ballottaggio. «Nulla di più falso», sostiene Bertani. In campo ci sono «tre partiti grossomodo equivalenti (ricordiamo le “sorprese” delle scorse elezioni)», ma con una differenza sostanziale: «Grillo agiterà la clava contro il vecchio Re usurpatore», mentre i suoi parlamentari, esasperati «dall’insipienza della Boldrini e della sua “ghigliottina”», ormai «praticano una sorta di guerriglia parlamentare ai limiti del lecito». Sicché, «agli altri, non rimarrà che difendere l’asfittico esistente», cioè le loro tasse, le loro non-riforme e la devastazione socio-economica che dilaga.«C’è però un altro punto a favore del M5S: tutti i sondaggi danno un astensionismo pari a circa il 40%, la metà dei quali deciderà nell’ultima settimana cosa fare». Sono circa 8 milioni d’italiani, dice Bertani. Otto milioni di cittadini decisivi, perché «avranno in tasca la chiavi del nostro futuro». Proprio su questa enorme quota di elettorato – quella che Giulietto Chiesa chiama “la voragine dei non-rappresentati” – oggi «si sperticano gli istituti di ricerca». Ma la notizia è che «non trovano nulla», perché ogni istituto ha un “padrone” politico, e quindi «“taroccherà” le risposte in modo di “adattarle” alle richieste: nulla di utile». Dunque, attenti a quegli 8 (milioni): niente di più facile che, al momento decisivo, scelgano il più convincente “voto contro”, il più chiaro, alla larga da Renzi e dall’amico Silvio. Se l’Italia è in sofferenza da anni, torturata dall’establishment europeo incarnato da personaggi come Monti e Draghi, aprire il fuoco da oggi contro il supremo garante italiano dell’euro-regime, l’anziano Napolitano, potrebbe consentire a Grillo di conquistare addirittura la pole position.«Le banche vogliono ancora soldi: tutti hanno capito che col Fiscal Compact l’hanno fatta fuori del vaso, perciò in questo ultimo anno cercheranno di succhiare tutto il sangue che riusciranno, poi abbandoneranno la carogna. Sta a quelli come noi, che hanno compreso la truffa – iniziata con Licio Gelli ed il suo “Piano di Rinascita Democratica” di 30 anni or sono – continuare a strombazzare qual poco di verità della quale siamo certi, perché l’abbiamo vissuta. I ragazzi del M5S – almeno – sappiamo che continueranno». Così la pensa Carlo Bertani, all’indomani del decreto-vergogna Imu-Bankitalia e della richiesta di impeachment per Napolitano: per la messa in stato d’accusa i presupposti giuridici sono fragili, ma quelli politici no. Se oggi non accadrà nulla, i risultati potrebbero arrivare domani: Grillo è l’unico ad aver centrato nel mirino il bersaglio grosso, l’uomo del Colle, massimo garante di un establishment fallimentare, che Pd e Berlusconi saranno costretti a difendere, andando incontro a una disfatta elettorale.
-
Chiedetevi perché il Pd non vuole aiutare gli italiani
Mistero: ma perché quelli del Pd non propongono mai nessuna vera via d’uscita dalla crisi? Due ipotesi: sono semplicemente cretini, oppure sono stati comprati. Il professor Guido Ortona, che insegna all’università del Piemonte Orientale, propende per la seconda ipotesi: «E’ molto plausibile che il Pd si sia venduto ai padroni», sia pure «padroni di tipo nuovo, diversi dai loschi commendatori di un tempo». E la stessa Sel, ovvero «l’unico partito di sinistra che rimane», dimostra «una analoga mancanza di coraggio nel fare proposte chiare» per uscire dal tunnel. Un critico come Paolo Barnard invita a rileggere lo spietato “memorandum” dell’avvocato d’affari Lewis Powell, incaricato già all’inizio degli anni ‘70 – dalla destra americana – di risolvere il “problema” della sinistra. La ricetta di Powell? Semplicissima: “comprare” i generali nemici costa molto meno che sostenere una guerra contro i loro eserciti. Dunque: stroncare la sinistra radicale – politica e sindacale – e “addomesticare” la sinistra riformista, in modo che rinunci a difendere i diritti sociali.«Nessuna componente del Pd sta mettendo al centro del suo programma politico delle proposte per uscire dalla crisi», premette Ortona in un post su “Goofynomics”. «La cosa è tanto più strana», perché «nella cultura economica della sinistra queste proposte invece non solo esistono, ma sono ovvie». Come spiegare questo silenzio? «Non è sufficiente invocare la stupidità, la corruzione e l’ignoranza dei politici del Pd, che sono peraltro sotto gli occhi di tutti», perchè «essere ignoranti e stupidi può essere non tanto un caso quanto una scelta, come lo è ovviamente essere corrotti». Per Ortona, le conseguenze del massacro sociale in atto – per volere dell’élite oligarchica che regge l’Unione Europea – non sono che «ovvietà storiche ed economiche». La prima: non è mai esistita un’economia capitalistica basata solo sull’efficienza dei mercati. E’ sempre stato necessario un poderoso intervento dello Stato, declinabile in due modi: politica monetaria (espandere l’offerta di moneta e/o operare sui tassi di cambio) o politica fiscale (espandere il debito pubblico e/o trasferire redditi mediante politiche redistributive). Problema: una politica monetaria espansiva «è resa impossibile dalla partecipazione all’euro», mentre una politica fiscale espansiva è bloccata «dal livello del debito pubblico».In queste condizioni, quindi, «non si può uscire dalla crisi». Anzi, «la crisi è destinata ad aggravarsi, perché ogni anno lo Stato sottrae alcune decine di miliardi al circuito economico per pagare gli interessi sul debito». “Sottrae”, perché la maggior parte del debito è sottoscritto dal sistema bancario internazionale; solo per un settimo circa è in mano alle famiglie italiane. «Ciò significa che gli interessi pagati non stimolano la domanda italiana se non in minima parte, a differenza per esempio del Giappone, dove il debito è quasi tutto in mano a cittadini giapponesi, e quindi il pagamento di interessi si traduce quasi solo nella trasformazione di domanda pubblica in domanda privata». Verità palesi, eppure negate – senza timore del ridicolo – da chi, come lo stesso Renzi, continua a sostenere che per uscire dal disastro basti tagliare la spesa pubblica (proprio come vogliono le super-lobby) senza fare alcuna politica monetaria, ovvero senza uscire dall’euro o trasformarlo in moneta sovrana. «Dato che nessuno può sostenere quanto sopra in buona fede, abbiamo un primo indizio per risolvere il mistero: in realtà il Pd non vuole uscire dalla crisi». Già, ma perché?È evidente, continua Ortona, che chi avesse il coraggio di proporre delle soluzioni serie alla crisi avrebbe un cospicuo vantaggio elettorale; e tanto più se queste soluzioni implicassero una seria politica redistributiva ai danni di una minoranza e a favore di una maggioranza. «I ricchi in Italia non sono mai stati così ricchi: difficilmente una politica di perequazione sarebbe impopolare». Per esempio, «un’imposta dell’1% sulla ricchezza finanziaria dei ricchi basterebbe a risolvere il problema della povertà». Eppure, «non solo non lo si fa», ma «non lo si dice nemmeno». Peggio: «Non si vuole redistribuire il reddito mediante politiche fiscali. E poiché è ovvio che questa sarebbe una politica possibile e popolare, è evidente che il Pd come partito di governo è disposto a rinunciare a massimizzare il consenso. A riprova di ciò, il colossale trasferimento di voti ai “5 Stelle” non ha destato particolari preoccupazioni». Sicché, gli “indizi” cominciano ad assumere una direzione precisa. «È evidente che se un partito politico non ha più come obbiettivo quello di massimizzare i voti è perché ne ha qualche altro. Quale può essere?». Seguite i soldi, direbbe l’investigatore. E i soldi dei nuovi super-ricchi sono quelli della finanza, ormai svincolata dall’economia reale. Un vero, mostruoso apparato di dominio.«I padroni del Monte dei Paschi hanno sperperato miliardi, ma ogni euro sperperato da qualcuno è un euro guadagnato da qualcun altro», continua Ortona. «E quei miliardi erano sicuramente abbastanza per creare un enorme sistema di potere. Non solo Mussari e compagni: un sacco di gente ha bisogno che i crediti del sistema bancario vengano pagati. È una lotta di classe. Da una parte i padroni della finanza, e i loro vassalli, vogliono che l’economia reale rimborsi i loro crediti e paghi i loro interessi; dall’altra l’economia reale, dato che è in crisi profonda (sopratutto in Italia) deve sottrarre queste cifre ad altri usi, come le pensioni, i salari e i servizi pubblici. Ciò naturalmente crea ulteriore depressione, e così via: come in Grecia, se vincono i primi ci si fermerà solo quando non ci saranno più ossa da spolpare». Quindi: ci sono delle lobby così ricche e potenti da imporre agli italiani di pagare «col sudore e col sangue i loro crediti». E un sacco di gente «vive dei profitti (meglio, delle rendite) di costoro». Eppure – altro indizio – il Pd non denuncia questa situazione.Mettiamo allora insieme gli indizi, continua Ortona. Il Pd non vuole uscire dalla crisi; dalla crisi si esce solo contrastando il potere del capitale finanziario (per esempio uscendo dall’euro, il che svaluta il debito e rilancia le esportazioni, oppure congelando il debito o facendo default, il che riduce i pagamenti per interessi); il capitale finanziario è potentissimo; il Pd ha obbiettivi diversi dal massimizzare il consenso. «La conclusione sembra chiara: il Partito Democratico è stato comprato dal capitale finanziario». Attenzione: «Non è detto che questo sia sempre stato fatto con il vecchio metodo delle valigette piene di denaro. Fra questo estremo e la perfetta buona fede ci sono infinite gradazioni, e i dirigenti del Pd, a partire dal presidente delle Repubblica, hanno ampiamente dimostrato di sapere venire a patti molto bene con la loro coscienza. Se un dirigente del Pd vuole pagare fior di quattrini per degli inutili F-35 potrà essere perché è stato pagato, o perché è riuscito a convincersi che servono davvero. Sono affari suoi. La sostanza non cambia».Purtroppo, aggiunge Ortina, gli “indizi contrari” non sono attendibili. «Il primo è risibile, ma viene spesso citato: e cioè che la base del Pd è composta perlopiù da persone per bene». L’ovvia obiezione è che «la base del Pd ha ben poco a che fare coi suoi vertici». La seconda obiezione: la crisi sta travolgendo anche gli stessi vertici. In effetti, «sembra difficile che un partito così pasticcione e pasticciato possa essere un buon strumento nelle mani di chi l’ha comprato». Eppure, la contraddizione è solo apparente: «La lotta fra satrapi di partito diventa violenta (nel caso del Pd la si potrebbe definire, con Karl Kraus, una lotta disperata ma non seria) quando la ricollocazione del partito stesso apre da una parte prospettive ricchissime per chi sa posizionarsi bene, e dall’altra una tragica fine per chi sbaglia scelta». Lo slogan del festival nazionale del Pd a Genova era “perché l’Italia vale”. «Non deve essere stato facile trovare una frase così stupida e soprattutto così priva di significato: ma questa mancanza indica appunto quanto sia grande la paura di spaventare qualcuno che domani potrebbe essere vincente».Il terzo controindizio è anche quello a prima vista più convincente: molti esponenti intermedi del Pd sono seri professionisti che fanno il loro mestiere, non sono corrotti e non hanno tempo da perdere con tutte quelle beghe politiche. Ci sono Comuni da gestire, appalti da assegnare, concorsi da indire. Se il partito ha deciso di comprare gli F-35, al sindaco spetta il compito di amministrare i fondi che ne derivano alla sua istituzione. La decisione ormai è presa. Chi riceveva soldi dal Monte dei Paschi non aveva né tempo né interesse a chiedersi da dove venivano. «Ma supponiamo che invece se lo fosse chiesto. Cosa cambiava? Se avesse dato l’allarme avrebbe ottenuto solo di perdere il posto, senza in realtà produrre nessun cambiamento nel sistema. Meglio tacere. Ora, in realtà c’era, e c’è, una soluzione ancora migliore del tacere: non sapere. È molto più rapido e sicuro non porsi le domande piuttosto che dovere gestire delle risposte scomode. Essere ignoranti e apparentemente sciocchi non è quindi necessariamente una caratteristica antropologica (anche se naturalmente in molti casi uno sciocco è più utile di un non sciocco): può benissimo essere una scelta».Così, «l’ignoranza diventa buon senso, la limitatezza delle vedute diventa realismo». Anche il sistema di potere Craxi-Andreotti-Forlani era un sistema di potere “normale” per chi vi operava, «come ha coerentemente e nostalgicamente ricordato Fassino non molto tempo fa». Risultato finale: «La tragica scomparsa del livello reale dei problemi dal dibattito politico», ignorando sempre «il livello in cui la gente normale vive e soffre». Conclusioni: «Parafrasando Sherlock Holmes, “quando tutte le ipotesi assurde devono essere rifiutate, allora rimangono solo quelle plausibili”». Esatto: il Pd è stato “comprato” – secondo la ricetta di Lewis Powell – perché evitasse di disturbare i grandi manovratori del noeliberismo, che in Europa hanno trasformato Bruxelles in una capitale coloniale, mettendo al guinzaglio tutti i governi dell’Eurozona. Altrimenti non si spiega la condotta del Pd: che continua a non voler risolvere nulla e si rassegna persino a perdere voti, dal momento che rinuncia “misteriosamente” a difendere gli italiani. «Voglio sperare che si tratti solo di ignoranza e inadeguatezza», conclude Ortona, «ma non ne sono sicuro».Mistero: ma perché quelli del Pd non propongono mai nessuna vera via d’uscita dalla crisi? Due ipotesi: sono semplicemente cretini, oppure sono stati comprati. Il professor Guido Ortona, che insegna all’università del Piemonte Orientale, propende per la seconda ipotesi: «E’ molto plausibile che il Pd si sia venduto ai padroni», sia pure «padroni di tipo nuovo, diversi dai loschi commendatori di un tempo». E la stessa Sel, ovvero «l’unico partito di sinistra che rimane», dimostra «una analoga mancanza di coraggio nel fare proposte chiare» per uscire dal tunnel. Un critico come Paolo Barnard invita a rileggere lo spietato “memorandum” dell’avvocato d’affari Lewis Powell, incaricato già all’inizio degli anni ‘70 – dalla destra americana – di risolvere il “problema” della sinistra. La ricetta di Powell? Semplicissima: “comprare” i generali nemici costa molto meno che sostenere una guerra contro i loro eserciti. Dunque: stroncare la sinistra radicale – politica e sindacale – e “addomesticare” la sinistra riformista, in modo che rinunci a difendere i diritti sociali.
-
Ttip, fuorilegge Stati e diritti: vogliono ucciderci così
«Negoziato in segreto, questo progetto fortemente sostenuto dalle multinazionali permetterebbe loro di citare in giudizio gli Stati che non si piegano alle leggi del liberismo». Si chiama Trattato Transatlantico ed è l’uragano devastante che minaccia il futuro degli europei, o quel che ne resta. All’allarme – da più parti lanciato nei mesi scorsi – si associa ora anche Lori Wallach, direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, prestigioso osservatorio indipendente di Washington. «Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri».Le fondamenta di questo trattato clamorosamente eversivo – il grande business che emana i propri diktat non più di nascosto, attraverso le lobby e i politici compiacenti, ma ormai alla luce del sole, e addirittura per legge – comparivano già a chiare lettere nel progetto di accordo multilaterale sugli investimenti (Mai) negoziato segretamente tra il 1995 e il 1997 dai 29 stati membri dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, come ricorda la Wallach in un intervento su “Le Monde Diplomatique”, il giornale che divulgò la notizia in extremis, sollevando un’ondata di proteste senza precedenti, fino a costringere i suoi promotori ad accantonare il progetto. Quindici anni più tardi, scrive oggi Lori Wallach sempre sul giornale francese, in un intervento ripreso da “Micromega”, la grande “trappola” fa il suo ritorno in pompa magna, sotto nuove sembianze.L’accordo di partenariato transatlantico (Ttip), negoziato a partire dal luglio 2013 tra Usa e Ue – accordo che dovrebbe concludersi entro due anni – non è che una versione aggiornata del Mai. Prevede infatti che «le legislazioni in vigore sulle due coste dell’Atlantico si pieghino alle regole del libero scambio» stabilite dalle corporations, «sotto pena di sanzioni commerciali per il paese trasgressore, o di una riparazione di diversi milioni di euro a favore dei querelanti». Se dovesse entrare in vigore, aggiunge Lori Wallach, «i privilegi delle multinazionali avrebbero forza di legge e legherebbero completamente le mani dei governanti». Impermeabile alle alternanze politiche e alle mobilitazioni popolari, il trattato «si applicherebbe per amore o per forza, poiché le sue disposizioni potrebbero essere emendate solo con il consenso unanime di tutti i paesi firmatari». Ciò riprodurrebbe in Europa «lo spirito e le modalità del suo modello asiatico», ovvero l’Accordo di Partenariato Transpacifico (Trans-pacific partnership, Tpp), attualmente in corso di adozione in 12 paesi dopo essere stato fortemente promosso dagli ambienti d’affari.«In virtù di numerosi accordi commerciali firmati da Washington, 400 milioni di dollari sono passati dalle tasche del contribuente a quelle delle multinazionali a causa del divieto di prodotti tossici, delle normative sull’utilizzo dell’acqua, del suolo o del legname». Sotto l’egida di questi stessi trattati, le procedure attualmente in corso – nelle questioni di interesse generale come i brevetti medici, la lotta all’inquinamento e le leggi sul clima e sulle energie fossili – fanno schizzare le richieste di danni e interessi a 14 miliardi di dollari. Il Ttip «aggraverebbe ulteriormente il peso di questa estorsione legalizzata». Basta osservare gli attori sul terreno: negli Usa sono presenti 3.300 aziende europee con 24.000 filiali, ciascuna delle quali può ritenere di avere buone ragioni per chiedere, un giorno o l’altro, riparazione per un “pregiudizio commerciale”. Dal canto loro, i paesi dell’Unione Europea si vedrebbero esposti a un rischio finanziario ancora più grande, sapendo che 14.400 compagnie statunitensi dispongono in Europa di una rete di 50.800 filiali. In totale, sono 75.000 le società che potrebbero gettarsi nella caccia ai tesori pubblici.Gli accordi-capestro per Atlantico e Pacifico «formerebbero un impero economico capace di dettare le proprie condizioni al di fuori delle sue frontiere: qualunque paese cercasse di tessere relazioni commerciali con gli Stati uniti e l’Unione Europea si troverebbe costretto ad adottare tali e quali le regole vigenti all’interno del loro mercato comune». E dato che i proponenti «mirano a liquidare interi compartimenti del settore non mercantile», i negoziati si svolgono a porte chiuse. Le delegazioni statunitensi contano più di 600 consulenti delegati dalle multinazionali, che dispongono di un accesso illimitato ai documenti preparatori. «Nulla deve sfuggire. Sono state date istruzioni di lasciare giornalisti e cittadini ai margini delle discussioni: essi saranno informati in tempo utile, alla firma del trattato, quando sarà troppo tardi per reagire». Vana la protesta della senatrice Elizabeth Warren, secondo cui «un accordo negoziato senza alcun esame democratico non dovrebbe mai essere firmato».L’imperiosa volontà di sottrarre il cantiere del trattato all’attenzione del pubblico si comprende facilmente, aggiunge la Lori Wallach: «Meglio prendere tempo prima di annunciare al paese gli effetti che esso produrrà a tutti i livelli: dal vertice dello Stato federale fino ai consigli municipali passando per i governatorati e le assemblee locali, gli eletti dovranno ridefinire da cima a fondo le loro politiche pubbliche per soddisfare gli appetiti del privato nei settori che in parte gli sfuggono ancora». Nulla sfugge alle fauci dei super-privatizzatori: sicurezza degli alimenti, norme sulla tossicità, assicurazione sanitaria, prezzo dei medicinali, libertà della rete, protezione della privacy, energia, cultura, diritti d’autore, risorse naturali, formazione professionale, strutture pubbliche, immigrazione. «Non c’è una sfera di interesse generale che non passerà sotto le forche caudine del libero scambio istituzionalizzato». Fine della democrazia: «L’azione politica degli eletti si limiterà a negoziare presso le aziende o i loro mandatari locali le briciole di sovranità che questi vorranno concedere loro».È già stipulato che i paesi firmatari assicureranno la «messa in conformità delle loro leggi, dei loro regolamenti e delle loro procedure» con le disposizioni del trattato. Non vi è dubbio che essi vigileranno scrupolosamente per onorare tale impegno. In caso contrario, potranno essere l’oggetto di denunce davanti a uno dei tribunali appositamente creati per arbitrare i litigi tra investitori e Stati, e dotati del potere di emettere sanzioni commerciali contro questi ultimi. «L’idea può sembrare inverosimile: si inscrive tuttavia nella filosofia dei trattati commerciali già in vigore». Lo scorso anno, l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), ha condannato gli Stati Uniti per le loro scatole di tonno etichettate “senza pericolo per i delfini”, per l’indicazione del paese d’origine sulle carni importate, e ancora per il divieto del tabacco aromatizzato alla caramella, dal momento che tali misure di tutela sono state considerate degli ostacoli al libero scambio. Il Wto ha inflitto anche all’Unione Europea delle penalità di diverse centinaia di milioni di euro per il suo rifiuto di importare Ogm come quelli della Monsanto, che finanziò l’elezione di Obama.«La novità introdotta dal Ttip e dal Tpp – osserva Lori Wallach – consiste nel permettere alle multinazionali di denunciare a loro nome un paese firmatario la cui politica avrebbe un effetto restrittivo sulla loro vitalità commerciale». Sotto un tale regime, «le aziende sarebbero in grado di opporsi alle politiche sanitarie, di protezione dell’ambiente e di regolamentazione della finanza», reclamando danni e interessi davanti a tribunali extragiudiziari. «Composte da tre avvocati d’affari, queste corti speciali rispondenti alle leggi della Banca Mondiale e dell’Onu «sarebbero abilitate a condannare il contribuente a pesanti riparazioni qualora la sua legislazione riducesse i “futuri profitti sperati” di una società». Questo sistema, che oppone le industrie agli Stati, sembrava essere stato cancellato dopo l’abbandono del Mai nel 1998, ma è stato «restaurato di soppiatto» nel corso degli anni. Di fatto, l’adozione del super-trattato riduce in schiavitù le istituzioni pubbliche, per le quali i cittadini votano, affidando ad esse il compito di governare il proprio paese. Con le mostruose norme in via di approvazione semi-clandestina, i poteri pubblici dovranno mettere mano al portafoglio se la loro legislazione ha per effetto la riduzione del valore di un investimento, anche quando questa stessa legislazione si applica alle aziende locali. In altre parole: la civiltà democratica finisce qui.«Negoziato in segreto, questo progetto fortemente sostenuto dalle multinazionali permetterebbe loro di citare in giudizio gli Stati che non si piegano alle leggi del liberismo». Si chiama Trattato Transatlantico ed è l’uragano devastante che minaccia il futuro degli europei, o quel che ne resta. All’allarme – da più parti lanciato nei mesi scorsi – si associa ora anche Lori Wallach, direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, prestigioso osservatorio indipendente di Washington. «Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri».
-
Suicidio Pd: al ballottaggio solo Grillo e Berlusconi?
Renzi o non Renzi, con il Pd non ci si annoia mai. Puoi pensare che questa volta abbia superato ogni limite e invece no: la prossima volta andrà oltre. «Una delle cose per cui non finirà mai di stupirmi – dice Aldo Giannuli – è l’autolesionismo accoppiato all’assoluta incompetenza quando si parla di leggi elettorali». Nel 1993, l’allora Pds sognò di fare il “colpo grosso” e andare al governo per la liquefazione dei partiti di centro seguita a Mani Pulite. Ma, siccome sapeva di non avere i consensi necessari, fece ricorso all’ortopedia elettorale del maggioritario, così da trasformare in una maggioranza assoluta di seggi la sua maggioranza relativa di voti. Solo che non calcolò che un sistema maggioritario, all’epoca, «avrebbe cancellato i partiti ma solo per aprire la porta ad un populismo plebiscitario contro il quale non era affatto attrezzato». Dettaglio: un certo Berlusconi, proprietario della televisione commerciale, era già pronto a cavalcare l’onda populista scatenata dai suoi telegiornali.Nonostante ciò, «il Pds-Ds-Pd non ha mai cercato di capire in cosa avesse sbagliato». Al contrario, ha continuato imperterrito a «inseguire il suo sogno di centralità governativa sorretta dall’ortopedia elettorale», fino a convertirsi «al mantra berlusconiano del “partito del leader”», per cui «si è messo penosamente alla ricerca di un leader forte che lo portasse alla vittoria». Risultato: 8 segretari di seguito in 20 anni (Occhetto, D’Alema, Veltroni, Fassino, Franceschini, Bersani, Epifani, Renzi) e 4 presidenti del consiglio (Prodi, D’Alema, Amato, Letta) per meno di 8 anni di governo. Motivo: il Pd non è affatto un “partito del leader”, ma «la confederazione di una mezza dozzina di tribù di ceto politico (a loro volta suddivise in un certo numero di sotto-tribù), che ha mantenuto l’impronta di apparato burocratico del vecchio Pci, ma senza il rigoroso costume e le regole del vecchio partito».Il risultato è un partito «troppo burocratico per essere libertario, troppo privo di regole per essere la vecchia falange tebana del Pci, troppo frammentato per essere efficiente e, soprattutto, troppo rissoso». Per cui, alla prima difficoltà, «la congiura dei boiardi disarciona il segretario o il presidente del Consiglio». Dunque un partito «vocato alla sconfitta» che, «anche quando è riuscito per sbaglio a vincere, ha subito rimediato mettendo in crisi il proprio governo appena possibile: di solito il primo avversario di un governo di centrosinistra è il segretario del Pds-Ds-Pd (D’Alema con Prodi, Veltroni con D’Alema, ora Renzi con Letta)». Oggi, continua Giannuli, il Pd si difende (al solito proiettando automaticamente nel futuro i numeri attuali e fidandosi troppo dei sondaggi) ricorrendo di nuovo all’ortopedia elettorale, che dovrebbe «far fuori i piccoli partiti con soglie di sbarramento stellari», ovviamente «rendere irrilevante il M5S con la solita storia del duopolio Pd-Fi (perfetto pendant del duopolio televisivo)» e inoltre «fregare Fi con il doppio turno sulla base di questo calcolo: “Il 20% circa del M5S al secondo turno che fa? Un pezzo si asterrà ed un pezzo voterà per noi, nessuno per Berlusconi, ergo vinciamo sicuro”».Peccato che i piccoli partiti «fatti fuori da clausole di sbarramento così alte» potrebbero non essere interessati a far parte di coalizioni alle quali porterebbero voti per il premio, restando però esclusi dal Parlamento, quindi potrebbero presentarsi in ordine sparso, con risultati imprevedibili. Inoltre, Berlusconi potrebbe raggiungere il 35% da solo al primo turno, mentre il Pd resta sotto anche per pochissimo e il resto va a M5S e liste minori. Senza contare che proprio il Movimento 5 Stelle potrebbe rivelarsi il secondo partito, aprendo nuovi scenari. Il primo, più clamoroso: ballottaggio tra Forza Italia e Grillo, con Pd escluso dai giochi e avviato «ad una rapida disgregazione, per effetto della stessa legge voluta». Si richia anche gli elettori di Forza Italia (come a Parma) di fronte a un derby Pd-M5S votino per i grillini, «in odio al Pd». E se le intenzioni di Renzi sono quelle di far fuori i suoi nemici interni epurando le prossime liste per la Camera, «questo porterebbe facilmente ad una scissione del Pd, per cui tutti i conti andrebbero seriamente rifatti». Ipotesi che «l’ineffabile gruppo dirigente del Pd non prende neppure in considerazione».Dopo di che, bisogna anche vedere che fine farà «questa porcheria di riforma elettorale». Se la commissione resta divisa, in aula si andrà con un testo grezzo, sottoposto alla votazione punto per punto. Risultato: «Tutti contro tutti, in un bagno di sangue generalizzato di emendamenti». Perché Renzi ha sì avuto il 70% dei voti alle primarie, ma i gruppi parlamentari sono quelli formati da Bersani, «per cui occorrerà vedere come voteranno i parlamentari Pd (della cui granitica compattezza si è detto)». Inoltre, la “riforma” disegnata da Renzi e Brlusconi ha senso se contestualmente si abroga il Senato o gli si toglie il voto di fiducia al governo. Peccato che questo lo dovrebbero decidere (a scrutinio segreto) anche i senatori, «che quindi dovrebbero abrogare se stessi».Dopodiché, se restasse in piedi il Senato, ci sarebbe da chiarire con che sistema lo si eleggerebbe: il vecchio Porcellum? Un Porcellum rivisto alla luce della sentenza della Corte Costituzionale? Un nuovo sistema – senza premio di maggioranza – fatto in fretta e furia? E cosa ne penserebbe la Corte? Peraltro, la minoranza interna «non si sente vincolata a difendere una legge per cui non è stata interpellata», e quindi «non assicura affatto di votarla». Per cui, «se alla conta dovessero mancare i voti necessari – o, peggio, dovesse esserci una defezione di massa dei parlamentari Pd – decenza vorrebbe che Renzi si dimettesse», anche perché qualsiasi interlocutore potrebbe dirgli: «Ma tu chi rappresenti e a nome di chi tratti?». Conclude Giannuli: «Cuperlo ha giustamente detto che il Pd non è una caserma. Infatti: è una casa di tolleranza con una maitresse autoritaria».Renzi o non Renzi, con il Pd non ci si annoia mai. Puoi pensare che questa volta abbia superato ogni limite e invece no: la prossima volta andrà oltre. «Una delle cose per cui non finirà mai di stupirmi – dice Aldo Giannuli – è l’autolesionismo accoppiato all’assoluta incompetenza quando si parla di leggi elettorali». Nel 1993, l’allora Pds sognò di fare il “colpo grosso” e andare al governo per la liquefazione dei partiti di centro seguita a Mani Pulite. Ma, siccome sapeva di non avere i consensi necessari, fece ricorso all’ortopedia elettorale del maggioritario, così da trasformare in una maggioranza assoluta di seggi la sua maggioranza relativa di voti. Solo che non calcolò che un sistema maggioritario, all’epoca, «avrebbe cancellato i partiti ma solo per aprire la porta ad un populismo plebiscitario contro il quale non era affatto attrezzato». Dettaglio: un certo Berlusconi, proprietario della televisione commerciale, era già pronto a cavalcare l’onda populista scatenata dai suoi telegiornali.
-
Brancaccio: disastro, la sinistra non osa uscire dall’euro
Uscire dall’euro: sì, ma “da sinistra”. Ipotesi probabilmente richiamata dallo stesso ex viceministro dell’economia, Stefano Fassina, quando ha parlato di un “Piano B” in caso di fallimento del semestre europeo a guida italiana. Minacciare di mollare la moneta della Bce se non si allenta la morsa del rigore? Se il Pd di Renzi non si esprime, il centrodestra si è ormai convertito all’euroscetticismo. Si dice che Berlusconi volesse uscire dall’euro già nel 2011, mentre la Lega sostiene l’abbandono della moneta unica in modo ancora più esplicito. Anche il M5S accarezza questi temi. Attenzione: «Se sommiamo i consensi al centrodestra e quelli al M5S scopriamo che in Italia esiste già una potenziale maggioranza anti-euro», avverte l’economista Emiliano Brancaccio. Secondo il quale l’addio all’Eurozona è ormai inevitabile, ma a precise condizioni: intervento pubblico sulle banche, tutela dei salari e limiti alla circolazione dei capitali per proteggere le aziende (che si svaluterebbero di colpo) dal rischio di essere comprate per quattro soldi.Il professor Brancaccio, docente all’università del Sannio (Benevento), ne riparla con Alessandro D’Amato su “Giornalettismo”, a sette anni di distanza dal primo profetico allarme lanciato nel 2007 sulla rivista “Studi economici”, prefigurando la spirale di crisi provocata dalla deflazione indotta dall’euro: l’esplosione dello spread e l’avvento della spending review di Mario Monti. La situazione, da allora, non ha fatto che peggiorare: «La Bce si dichiara disposta a difendere i paesi in difficoltà solo se in cambio questi proseguiranno con le politiche di austerity: l’idea è che tali politiche dovrebbero risanare i conti pubblici e ripristinare la fiducia dei mercati, fino a rendere superflua la stessa protezione della Bce. Il problema, ormai largamente riconosciuto, è che l’austerity non risana i conti. Anzi, può deprimere i redditi a tal punto da rendere più difficili i rimborsi dei debiti: un circolo vizioso che in prospettiva non riduce ma accresce l’instabilità dell’Eurozona». L’unica ricetta invocata è quella delle “riforme strutturali” del mercato del lavoro: la flessibilità è una costante dell’ultimo ventennio. Tesi smentita dallo stesso Olivier Blanchard, capo economista del Fmi: i paesi che non hanno precarizzato il lavoro se la stanno cavando meglio, perché i lavoratori occupati sostengono i consumi e pagano le tasse.Secondo la Bce, invece, tagliare i salari consente ai paesi periferici dell’Unione di ridurre il divario di competitività con la Germania senza ricorrere all’uscita dall’euro e alla svalutazione. «Il problema – obietta Brancaccio – è che per ridurre in modo consistente quel divario ci vorrebbe una caduta dei salari e dei prezzi di tale portata da provocare un crollo dei redditi rispetto ai debiti, con effetti negativi sulla solvibilità. Ancora una volta un circolo vizioso». Draghi? Ha solo «messo in “coma farmacologico” l’Eurozona malata», e ora sta «suggerendo cure che a lungo andare finiranno per ammazzarla». Le conseguenze sono già sotto i nostri occhi: dal 2008 l’Italia ha perso un milione di posti di lavoro. Spagna, Irlanda, Grecia e Portogallo ne hanno persi altri 5 milioni. In Italia le insolvenze delle imprese sono aumentate del 90%, in Spagna addirittura del 200%. Al contrario, la Germania ha visto aumentare l’occupazione e diminuire i fallimenti.«Queste divergenze sono il sintomo di una “mezzogiornificazione” in atto, cioè di una tendenza alla desertificazione produttiva di vaste aree periferiche dell’Eurozona, a vantaggio del paese più forte». A chi sostiene che un’uscita dall’euro riaprirebbe il vaso di Pandora dei conflitti europei, portando addirittura a nuove guerre, Brancaccio risponde che – al contrario – è proprio l’euro la causa della crisi. L’Eurozona, di fatto, è un particolare regime di cambio fisso: come il gold standard, che fece precipitare l’economia europea fino all’esplosione della Prima Guerra Mondiale. Un altro economista, Barry Eichengreen, ritiene che i tentativi di ripristare il gold standard (valore monetario vincolato a quello dell’oro) favorirono la Grande Depressione, che creò i presupposti per la Seconda Guerra Mondiale. «Sono dunque i pasdaran dell’euro a tutti i costi che dovrebbero fare più attenzione alle conflittualità che stanno alimentando in seno all’Europa».In Italia le posizioni pro-euro a oltranza sembrano già numericamente minoritarie, nonostante una preponderante campagna mediatica a loro favore. «Evidentemente la vuota retorica europeista non basta per governare la crisi», sottolinea Brancaccio. E se un’uscita dall’euro solleva innanzitutto un problema salariale, è importante «ripristinare alcuni meccanismi di tutela dei lavoratori e delle loro retribuzioni, a partire da una nuova scala mobile». Altro rischio: le svendite all’estero delle aziende italiane dopo una eventuale uscita dall’euro, che le svaluterebbe di colpo rendendole appetibili. Ma attenzione: sta già accadendo, con l’euro. «In Italia, negli ultimi cinque anni, i prezzi dei beni capitali e degli immobili sono diminuiti in media del 10%. Alcuni soggetti esteri hanno colto l’opportunità e hanno già iniziato a comprare capitali nazionali». Senza più l’euro, la svalutazione sarebbe ancora più forte e improvvisa: «E’ evidente che molti operatori stranieri aspetteranno proprio quel momento per iniziare lo shopping a buon mercato». Che fare? Proteggere l’economia italiana con moneta sovrana, e con «vincoli alle acquisizioni estere di capitali nazionali, in primo luogo in ambito bancario».Un’uscita disordinata dall’euro – cioè senza protezioni statali – sarebbe «in perfetta continuità con l’ideologia liberista e liberoscambista che ha dominato in questi anni, e che ci ha condotti al disastro». Sarebbe un’uscita “gattopardesca”, «affidata ancora una volta al libero gioco delle forze del mercato». Ovvero: «I salari non verrebbero protetti, le acquisizioni estere non sarebbero limitate, i tassi di cambio sarebbero lasciati alla libera fluttuazione sui mercati dei cambi e sarebbe mantenuta a tutti i costi la libera circolazione dei capitali e delle merci. Inoltre, si continuerebbe a sfruttare i sentimenti anti-politici della popolazione per svuotare lo Stato delle sue funzioni». Per Brancaccio, questa soluzione è tuttora probabile: «Perché il liberismo e il liberoscambismo sono ancora ideologicamente pervasivi, e perché in fondo è quella che tende a salvaguardare gli interessi dei più forti». Per esempio quelli degli speculatori, «che trarrebbero grande vantaggio dal ritorno a un libero mercato europeo delle valute». E poi la Germania. L’associazione degli esportatori tedeschi l’ha detto, più volte: «Noi possiamo fare tranquillamente a meno della moneta unica, ma non possiamo fare a meno della libertà degli scambi sancita dal mercato unico europeo».La seconda possibilità, quella su cui punta Brancaccio, consiste nella messa in discussione dei vecchi dogmi liberisti e liberoscambisti: «Progredire, superare la crisi, significa per esempio riaffermare che gli interessi del lavoro incarnano l’interesse generale. Significa attribuire nuova centralità all’intervento pubblico nell’economia, a partire dal settore bancario. E significa chiarire che se salta la moneta unica bisognerà mettere in discussione, almeno in parte, anche il mercato unico europeo, in primo luogo stabilendo limiti alle acquisizioni estere e alla indiscriminata circolazione dei capitali». La sinistra non ha mai preso in considerazione proposte come lo “standard retributivo europeo”, «rimaste lettera morta a causa dell’irriducibile ostilità tedesca: non solo dei cristiano-democratici, anche dei socialdemocratici». Risultato: «Oggi l’Eurozona è dominata da divergenze che a lungo andare la faranno implodere», grazie all’offensiva delle «nuove destre nazionaliste», che provocherebbe «un arretramento sul terreno dei diritti e delle libertà civili». La sinistra? Non pervenuta. Non ha ancora saputo cogliere «l’estrema gravità della situazione».Uscire dall’euro: sì, ma “da sinistra”. Ipotesi probabilmente evocata dallo stesso ex viceministro dell’economia, Stefano Fassina, quando ha parlato di un “Piano B” in caso di fallimento del semestre europeo a guida italiana. Minacciare di mollare la moneta della Bce se non si allenta la morsa del rigore? Se il Pd di Renzi non si esprime, il centrodestra si è ormai convertito all’euroscetticismo. Si dice che Berlusconi volesse uscire dall’euro già nel 2011, mentre la Lega sostiene l’abbandono della moneta unica in modo ancora più esplicito. Anche il M5S accarezza questi temi. Attenzione: «Se sommiamo i consensi al centrodestra e quelli al M5S scopriamo che in Italia esiste già una potenziale maggioranza anti-euro», avverte l’economista Emiliano Brancaccio. Secondo il quale l’addio all’Eurozona è ormai inevitabile, ma a precise condizioni: intervento pubblico sulle banche, tutela dei salari e limiti alla circolazione dei capitali per proteggere le aziende (che si svaluterebbero di colpo) dal rischio di essere comprate per quattro soldi.
-
Via i parassiti della finanza, e avremo ancora un futuro
Il principale processo storico che sta segnando il nuovo secolo, cioè lo spostamento del baricentro geopolitico dall’Atlantico al Pacifico, condanna l’Europa a diventare sempre più periferica. La crescente proiezione internazionale di una Cina punta chiaramente a diventare potenza navale oltreché commerciale, in Estremo Oriente ma anche in direzione dell’Africa e del Medio Oriente. Questo impegnerà direttamente gli Usa e li obbligherà ad una scelta fondamentale: Cina o ancora Giappone, come alleati strategici? Certo, Russia e India non staranno a guardare. E’ questo lo scenario nel quale Gaetano Colonna invita ad analizzare la grande crisi che sta travolgendo l’Eurozona. Se il vecchio continente perde terreno nel forziere petrolifero mediorientale, l’influenza cinese continua a crescere in teatri strategici per gli Stati Uniti, dall’Iran al Pakistan fino al continente nero, che rappresenta un’enorme riserva di materie prime e terre coltivabili.Di conseguenza, osserva Colonna su “Clarissa”, torna alla ribalta il ruolo del Mediterraneo: decisivo snodo geografico e culturale tra Africa, Vicino Oriente ed Europa, il “mare nostrum” «diverrà, se possibile, ancora più rilevante di quanto non lo sia già stato dalla fine del XIX secolo, quale linea di comunicazione vitale per gli imperi anglosassoni, oltreché frontiera fra il Nord ed il Sud del mondo». Di recente, il protagonismo neo-coloniale della Francia (appoggiato da Usa e Israele) ha relegato l’Italia a «alla semplice condizione di piattaforma logistica dei grandi alleati occidentali». Ma se l’Occidente deve comunque fare il conti con la Cina, questo influisce anche sul nuovo ruolo della Russia di Putin, la cui condizione ricorda quella dell’impero zarista di cent’anni fa, schiacciato a oriente dalla potenza giapponese e ad occidente dall’impero germanico.Oggi, riconosce Colonna, la politica estera russa ha costruito un asse preferenziale con la Cina, dato che in Occidente la pressione della Nato e degli Usa non si è minimamente allentata, né l’Unione Europea ha saputo smarcarsi dalla vecchia politica atlantica ereditata dalla guerra fredda. Smaltita la «passeggera ubriacatura filo-occidentale» del disastroso governatorato di Eltsin, «pur non perseguendo più una politica da superpotenza» la Russia post-sovietica «non rinuncia al suo ruolo di grande potenza sullo scenario mondiale», e per questo non rinuncia «ad una propria forte capacità militare, in grado di tutelare i propri fondamentali interessi strategici». Ora, alla luce della nuova gravitazione del mondo sull’Oceano Pacifico, si tratta di vedere se la Russia di Putin «seguirà la propria vocazione asiatica oppure quella europea».E’ davvero singolare, osserva Colonna, che l’Europa «continui a seguire pedissequamente i desiderata americani, rivolti ad isolare la Russia sul piano internazionale, invece di perseguire una propria assai più realistica politica di avvicinamento ed integrazione con il grande paese che costituisce la sola efficace copertura del nostro continente rispetto a qualsiasi ambizione cinese». Ma il peggio è in assoluto l’Italia: ancora una volta, il nostro paese si “scopre” collocato – dalla geografia e dalla storia – al crocevia delle forze da cui dipende il futuro del pianeta, ma le classi dirigenti italiane non se ne sono accorte. In loro c’è una «evidente mancanza di coscienza» dell’importanza geopolitica dello Stivale. E questo è «uno dei fattori più gravi e preoccupanti della nostra attuale condizione storica». Colonna la definisce «devastante pochezza» di uomini «privi di un sentire vivamente operante e non retorico per la patria». Mezzi uomini, «colpevolmente ignari delle prove che anche l’Italia si troverà presto a dover affrontare».Là fuori, infatti, impazza la grande crisi: ci si muove tra macerie economiche, provocate dall’oligarchia finanziaria che ha devastato la “democrazia del lavoro”. «La lezione del 2007-2008 non è stata compresa: basterebbe questa affermazione per definire lo scenario dell’economia mondiale dei prossimi mesi e anni», sostiene Colonna. «I grandi centri finanziari mondiali, che elaborano le strategie sistemiche dell’economia mondiale, dimostrano di non volere e di non potere rinunciare all’orientamento speculativo che è insieme all’origine della crisi che ha investito il sistema-mondo nell’ultimo quinquennio». Questa avidità cieca è anche «il fondamento stesso del potere dei “padroni dell’universo”, come questi oligarchi amano definirsi». Lo dimostra il fatto che «nessuna delle regolamentazioni statunitensi o europee ha affrontato le tre questioni che avrebbero dovuto essere preliminari all’adozione di qualsiasi modalità di risoluzione della crisi». Ovvero: paradisi fiscali, finanza speculativa fuori controllo e agenzie di rating che si fingono soggetti terzi, ma sono in realtà pilotati e pienamente complici dei grandi speculatori.L’Occidente ha risposto in un solo modo, cioè tutelando i monopolisti del crimine finanziario: negli Usa coi salvataggi delle banche “troppo grandi per fallire”, tenute in piedi coi dollari della Fed, e in Europa spremendo senza pietà paesi interi, con super-tasse e tagli selvaggi alla spesa vitale, cioè “fiscalizzando” le rovinose perdite del sistema finanziario internazionale, il cui conto viene fatto pagare ai lavoratori. Nessuna alternativa in campo, finora, «per il semplice fatto che, da oltre mezzo secolo, sono i centri finanziari mondiali a condizionare gli Stati-nazione dell’Occidente, grazie alla formazione di una vera e propria classe dirigente internazionale che occupa con continuità le posizioni chiave, indipendentemente dalle alternanze di governo e dalle competizioni elettorali». Classe dirigente «cui viene affidata la puntuale esecuzione di strategie economiche, monetarie e legislative costruite a livello globale». Si tratta di «una vera e propria oligarchia economico-politica internazionale, che ha progressivamente svuotato di significato la democrazia parlamentare occidentale», visto che il popolo è stato privato della sua prerogativa essenziale (la sovranità) e anche della sua principale forza politica (il lavoro).La finanziarizzazione dell’economia ha infatti trasformato i sistemi industriali, togliendo al lavoro ogni potere contrattuale: dagli anni ’80 la finanza controlla le aziende, i cui pacchetti azionari sono diventati “merce” sui mercati finanziari mondiali, distogliendo il management dall’economia reale, cioè strategie produttive e commerciali. Conseguenza: progetti dalla vita sempre più breve, anziché investimenti, ricerca e sviluppo. Da parte della proprietà industriale, si è così «accentuata la tendenza a servirsi degli utili per entrare nel grande gioco finanziario, piuttosto che reinvestire nel futuro delle imprese». Per questo, oggi, i grandi gruppi bancari «preferiscono investire i generosi aiuti ottenuti a spese della collettività nell’acquisto di titoli di Stato piuttosto che nel credito alle Pmi». E il peggio è che tutto questo è avvenuto nel silenzio generale della politica, incapace di elaborare un’alternativa «ai dogmi dell’economia speculativa».Risultato: «Si è persa l’occasione per prendere coraggiosamente atto della crisi come di un evento globale e non contingente, esigendo quindi, da parte delle classi dirigenti, un radicale mutamento di rotta». Pre-condizione: l’emancipazione dell’economia reale. «Imprenditori, lavoratori e consumatori» dovrebbero cioè liberarsi «dal controllo dell’oligarchia finanziaria e dalla strumentalizzazione politica dei partiti», prendendo il mano «istituzioni autonome dell’economia reale», in grado di «esigere il controllo, per esempio, della moneta e del credito». Inoltre, la crescente consapevolezza dei “limiti allo sviluppo” «impone anch’essa che le forze dell’economia reale, piuttosto che rincorrere le asticelle statistiche della “ripresa”, si impegnino a riorganizzare la produzione», in tutti i campi: energia, tecnologia, servizi, beni di largo consumo. Servono «prodotti a basso impatto, recuperabili, di elevata qualità e durata». In sostanza, per Colonna, serve una nuova alleanza strategica: imprenditori, lavoratori e consumatori devono accordarsi per sconfiggere la finanza parassitaria, e quindi «liberare l’economia dal peso congiunto del debito e della speculazione, realizzando quella democrazia del lavoro senza la quale la democrazia politica è ormai divenuta un guscio vuoto».Il principale processo storico che sta segnando il nuovo secolo, cioè lo spostamento del baricentro geopolitico dall’Atlantico al Pacifico, condanna l’Europa a diventare sempre più periferica. La crescente proiezione internazionale di una Cina punta chiaramente a diventare potenza navale oltreché commerciale, in Estremo Oriente ma anche in direzione dell’Africa e del Medio Oriente. Questo impegnerà direttamente gli Usa e li obbligherà ad una scelta fondamentale: Cina o ancora Giappone, come alleati strategici? Certo, Russia e India non staranno a guardare. E’ questo lo scenario nel quale Gaetano Colonna invita ad analizzare la grande crisi che sta travolgendo l’Eurozona. Se il vecchio continente perde terreno nel forziere petrolifero mediorientale, l’influenza cinese continua a crescere in teatri strategici per gli Stati Uniti, dall’Iran al Pakistan fino al continente nero, che rappresenta un’enorme riserva di materie prime e terre coltivabili.
-
Flores d’Arcais: a Bruxelles, Tsipras meglio di Grillo
«C’è una strettissima convergenza di interessi fra l’establishment delle istituzioni europee e l’establishment italiano rappresentato da Napolitano e da Letta, ma se la gigantesca opposizione che c’è nel paese trovasse modo di avere anche una sua rappresentanza politica parlamentare la situazione cambierebbe radicalmente». Paolo Flores d’Arcais accetta la scommessa di Barbara Spinelli e punta sul greco Tsipras per costruire un’alternativa europea: dire “no” a Bruxelles significa anche riuscire a mobilitare la “sinistra sommersa” e l’opinione pubblica italiana, quella che gonfia i movimenti e vince i referendum, ma poi alle elezioni non ha chances, diserta le urne o si rassegna a votare “5 Stelle”, cioè l’autocrate Grillo e l’oscuro Casaleggio. Attenzione: il M5S «entrerà in crisi, in due o tre anni». Si tratta quindi di ereditarne le virtù «ma non i suoi gravissimi vizi». Vietato sbagliare, o si spalancherà «lo spazio per una proposta eversiva di destra». La Grecia insegna: «Se non ci fosse Syriza potrebbe dilagare Alba Dorata».Intervistato – come la Spinelli – dal quotidiano ellenico “Avgì” (aurora), il direttore di “Micromega” traccia un’analisi impietosa dell’attuale offerta politica italiana: dilaga la disaffezione perché la casta nazionale si limita ad eseguire i diktat di quella di Bruxelles “suicidando” il paese, ma milioni di italiani – pure attivissimi nei movimenti – non hanno nessuna vera possibilità di rappresentazione, al di fuori del M5S. «L’unica forza di opposizione oggi presente in Parlamento è il “Movimento 5 Stelle” di Beppe Grillo, una grande forza politica di massa (rappresenta grossomodo il 25% dei votanti) ma strutturata in modo debolissimo e soprattutto con un gruppo dirigente fatto di due persone, Beppe Grillo e un personaggio molto inquietante, che si chiama Casaleggio. Il M5S ondeggia perciò a seconda degli umori di questi due capi. Insomma, la vera forza di Letta è la debolezza dell’opposizione». Il governo? «E’ debolissimo nel paese perché inviso alla schiacciante maggioranza dei cittadini». E inoltre Matteo Renzi, «personaggio di destra “alla Blair”», non ha intenzione di appoggiarlo a lungo.Il realtà quello che conta «non è il governo Letta ma il governo Napolitano», dato che l’uomo del Colle «si comporta come un vero e proprio sovrano, attribuendosi poteri che la Costituzione non gli dà». A livello politico organizzato, «la sinistra non esiste», e «da molti anni». La sinistra «esiste invece nella società civile: e la distanza tra una sinistra sempre meno esistente nella politica ufficiale e una sinistra sempre più forte nella società civile continua ad aumentare». Primo problema, il Pd: «Non è più di sinistra», dai tempi di D’Alema e Veltroni, «che hanno realizzato una vera mutazione antropologica del partito, rendendolo parte dell’establishment». Sel e gli altri piccoli partiti? «Non contano più nulla». Ammesso che Sel riesca a superare lo sbarramento del 4%, «il suo leader Vendola sempre di più si trova implicato in inchieste che ormai stanno distruggendo la sua reputazione». Oltre a Sel, il buio: «Rifondazione, i Verdi e gli altri gruppi politici non rappresentano nulla: se non si capisce questo non si capisce la situazione italiana».Per contro, questa “sinistra sommersa” negli ultimi quindici anni è diventata una sinistra di piazza, ricorda Flores d’Arcais. Nel 2002, coi “girotondi”, Nanni Moretti riuscì a portare in piazza San Giovanni a Roma un milione di persone, catalizzando «una voglia di autoorganizzazione che era gigantesca», fino al “popolo viola” e oltre, per arrivare ai referendum del 2011 sul nucleare e sull’acqua pubblica. Ma il problema è che «questa opposizione civile e sociale non ha rappresentanza politica: i suoi militanti si sentono cittadini orfani di rappresentanza». E’ quella che Giulietto Chiesa e i suo movimento, “Alternativa”, chiamano «la voragine dei non-rappresentati», ricordando che alle ultime politiche, quelle del “boom” di Grillo, un italiano su due ha comunque disertato le urne. Elettori mobilitabili da ideali forti, riassumibili nello slogan “giustizia e libertà”? «Nanni Moretti pensava che l’area dell’attuale Pd fosse ancora recuperabile e lo crede anche ora appoggiandolo. Non abbiamo avuto il coraggio di dare un seguito organizzato ai girotondi», ammette Flores d’Arcais, citando anche il caso della Fiom, a cui molti movimenti chiedevano che il sindacato “rosso” mettesse in campo «obiettivi politici molto più espliciti, dicendo che i nemici della Costituzione oggi non sono solo le destre ma anche Letta, il Pd e il presidente Napolitano». In questo caso, l’ultima manifestazione per la difesa della Costituzione «sarebbe stata gigantesca con effetto di mobilitazione straordinario, e oggi non avremmo movimenti sociali ambigui come il movimento dei Forconi».Le europee – maggio 2014 – sembrano davvero l’ultima occasione. Se fossero elezioni nazionali, Flores d’Arcais voterebbe Grillo, «perché non ci sarebbe spazio reale per una lista nuova di “Giustizia e Libertà”». Trattandosi invece di Bruxelles, forse c’è spazio per un’alternativa, dal momento che «con la nuova legge elettorale si può presentare un candidato alla presidenza europea». L’unica carta giocabile è quella del leader greco Alexis Tsipras: «C’è oggi una sola forza politica di sinistra in Europa e si chiama Syriza (negli altri paesi o non sono di sinistra o non sono “forze”). Per questo pensiamo che una lista rigorosamente della società civile con Tsipras potrebbe avere un buon risultato». In Italia, «solo una lista che raccolga esperienze e movimenti della società civile può evitare l’ennesimo fallimento minoritario», a patto che questa lista resti lontana dalle vecchie sigle perdenti: chi si allea con l’ex “sinistra arcobaleno” – Ingroia docet – è condannato a veder dimezzati i propri voti.«Una qualsiasi lista che, poniamo, potenzialmente avesse il 10% dei voti, se si allea anche con Rifondazione o i Verdi o i Comunisti Italiani prenderebbe il 5%», dice Flores d’Arcais. «Una lista autonoma che avesse potenzialmente il 5% dei voti, se si allea con Rifondazione e gli altri prenderebbe il 2%», perché «invece di produrre una somma», oggi «allearsi con uno qualsiasi di questi partitini produce una sottrazione». Poi servono innanzitutto cervelli: quante delle personalità che hanno animato lotte e movimenti sono convinte della necessità di una lista nuova, autonoma? Quanti personaggi pubblici, invece, si illudono ancora che si possa trasformare il Pd dall’interno o recuperare Sel o replicare l’esperienza della lista-Ingroia? «Bisognerà perciò verificare se almeno un centinaio di persone eminenti nei vari campi – scrittori, filosofi, sociologi, scienziati, personalità del cinema e della musica – condividano la nostra ipotesi». Se l’adesione sarà forte, servirà il terzo passo: verificare la disponibilità dei movimenti, per poi promuovere la nascita, a tappeto, di club di sostegno completamente indipendenti. «Per andare al Parlamento Europeo dovremo superare il 4%. Se questa lista prende un risultato intorno al 5% non avrà futuro, sarà una manifestazione di testimonianza». Per Flores d’Arcais, la soglia-verità è quella del 10%.«C’è una strettissima convergenza di interessi fra l’establishment delle istituzioni europee e l’establishment italiano rappresentato da Napolitano e da Letta, ma se la gigantesca opposizione che c’è nel paese trovasse modo di avere anche una sua rappresentanza politica parlamentare la situazione cambierebbe radicalmente». Paolo Flores d’Arcais accetta la scommessa di Barbara Spinelli e punta sul greco Tsipras per costruire un’alternativa europea: dire “no” a Bruxelles significa anche riuscire a mobilitare la “sinistra sommersa” e l’opinione pubblica italiana, quella che gonfia i movimenti e vince i referendum, ma poi alle elezioni non ha chances, diserta le urne o si rassegna a votare “5 Stelle”, cioè l’autocrate Grillo e l’oscuro Casaleggio. Attenzione: il M5S «entrerà in crisi, in due o tre anni». Si tratta quindi di ereditarne le virtù «ma non i suoi gravissimi vizi». Vietato sbagliare, o si spalancherà «lo spazio per una proposta eversiva di destra». La Grecia insegna: «Se non ci fosse Syriza potrebbe dilagare Alba Dorata».
-
Giannuli: il cretino di sinistra e la permanenza del Pd
«Non capisco, ma mi adeguo». Era l’esilarante refrain di Giorgio Ferrini, nei panni di caricatura del militante comunista romagnolo nello zoo televisivo di Renzo Arbore. La cattiva notizia è che, dopo tanti anni, il “cretino di sinistra” – avvistato da Leonardo Sciascia già nel remoto 1963 – ancora oggi vive e lotta accanto a noi, ma non insieme a noi: lotta soprattutto perché nulla cambi, avvinghiato alle sue piccole certezze economiche e alla nomenklatura di partito che le tutela. Questo, sostiene Aldo Giannuli, è il vero motivo per cui un elettorato largamente di sinistra come quello del Pd riesce regolarmente a digerire una leadership imbarazzante e “di destra” come quella di D’Alema, fino al “nuovismo” palesemente neoliberista di Renzi. La base dovrebbe sfiduciare un gruppo dirigente che fa l’opposto di quello che predica? Troppo facile. «Ovviamente non è escluso che una porzione di deficienti giochi un ruolo di supporto alle burocrazie dominanti e senza alcun vantaggio per sé (altrimenti che deficienti sarebbero?)». Ma i “deficienti” non sono la maggioranza.Ben più decisiva, continua Giannuli nel suo blog, è la porzione di persone direttamente legata da rapporti di interesse con il gruppo dirigente: funzionari, consulenti, personale amministrativo, cui si aggiungono i membri di corporazioni garantite e comitati d’affari. «A sinistra questa coda clientelare e burocratica è particolarmente fitta: si pensi agli apparati di partito, al personale politico degli enti locali, alle cooperative, alle corporazioni di accademici, sindacalisti, magistrati, notai, architetti». Beninteso: «Non è affatto detto che questo gruppo di persone condivida o meno gli indirizzi politici del gruppo dirigente che sostiene». Nella maggior parte dei casi «vi è indifferente», eppure «continuerà a votarlo, per il prevalere degli interessi particolaristici o anche solo personali». E familiari: «Queste persone hanno parenti, amici, clienti, dipendenti, che sono spesso interessati indirettamente al mantenimento di quegli stessi assetti di potere».Esempio: «Se un architetto vive della committenza degli enti locali in cui ha amici politici, è interessato alla loro permanenza alla guida dell’ente locale e del partito, ma altrettanto interessati al permanere di quegli equilibri saranno i suoi familiari, la segretaria ed anche il giovane precario del suo studio che vivono di quello stipendio, pur magro». Così come a votare per lo stesso assessore saranno i clientes che hanno ricevuto qualche favore, anche piccolo. Per cui, in questo modo si arriva facilmente a una quota del 15-20% di voti congressuali, che riflettono una quota rilevante dell’elettorato. E anche se oggi l’apparato del Pd è più debole rispetto a quello del Pci, il funzionario di partito resta un dipendente privilegiato. Il suo handicap? E’ licenziabile, per cui «deve assicurarsi un solido ancoraggio nei livelli superiori dell’organizzazione», aderendo a una cordata, di cui si metterà al servizio. Come? Selezionando dirigenti a livello provinciale e regionale, membri di commissioni, candidati negli enti locali. Così nasce un «seguito organizzato», che determina «una catena di consenso che prescinde totalmente dall’adesione ad una determinata linea politica».Succede ovunque. Per esempio: «Il segretario della sezione “Gramsci” è un vecchio militante del Pci, totalmente estraneo alla cultura liberista del gruppo dirigente e che non ama affatto Renzi, ma è stabilmente collegato al gruppo che nella federazione provinciale fa riferimento al signor Bianchi, ex sindacalista Cgil, a sua volta collegato al gruppo regionale dell’on. Neri, che deve la sua candidatura al membro della direzione Rossi che, a sua volta, ha scelto di stare con Renzi. Quel segretario di sezione, dunque, voterà Renzi. E siccome ha un nutrito gruppo di amici ed estimatori, molti di essi, pur pensando cose totalmente diverse, voterà seguendo le indicazioni del segretario del circolo». Facile, no? «Al pari di quanto accade nei mercati finanziari – continua Giannuli – giocano un ruolo molto importante le “asimmetrie informative”», in base alle quali «chi vende sa ciò che vende, ma chi acquista non sa quel che compra». E’ la piramide della “gerarchia informativa”: il capo-cordata avrà il massimo di informazioni, i suoi immediati subordinati ne conosceranno solo una parte, e così via. Alla fine, alla base arriverà una quota minima di informazioni, «in un crescendo di opacità» anche pericoloso: se infatti il capo-corrente «ha stabilito un’ intesa coperta con altro capo-corrente», probabilmente «lo dirà solo ai collaboratori più stretti». Risultato: «La base compie le sue scelte in condizioni di ignoranza più o meno parziale, per cui la scelta basata sulla fiducia personale spesso sopperirà ad una scelta consapevole».Ma perché la base non giudica mai il gruppo dirigente sulla base dei risultati effettivamente conseguiti? Primo problema: «Non tutti i militanti di un partito seguono la vita politica con l’attenzione necessaria», magari anche solo perché non hanno il tempo di documentarsi. Sull’economia, poi, la nebbia è totale: «L’uomo della strada percepisce che l’economia non va, che occupazione e consumi calano e che la pressione fiscale è poco sopportabile». Ma finisce per accontentarsi di spiegazioni del tipo: “E’ l’eredità dei governi precedenti”, “E’ l’effetto della crisi mondiale che sarebbe ancora peggiore se il governo non avesse fatto questo o quello”, “E’ quello che si può fare entro i vincoli dei trattati internazionali”, “E’ colpa della Germania”, oppure “Gli altri avrebbero fatto di peggio”. Nella maggior parte dei casi, il militante del Pd «si fiderà di quello che legge sul giornale», o al massimo «si rivolgerà al suo opinion leader di riferimento (un amico insegnante o professionista o giornalista) che spesso sarà un militante o simpatizzante del partito».Ad aggravare la cecità della base Pd di fronte alla crisi, pesano anche «riflessi psicologici» storici: la tendenza a «confondere i desideri con la realtà, scacciare le notizie sgradite, cercare di giustificare sempre la parte politica per cui si tiene». In più, «la resistenza ad accettare i mutamenti storici in corso» e, ovviamente, «a leggere quel che accade con le lenti del passato». E’ un fatto: a sinistra «il radicamento ideologico è maggiore e con una più spiccata propensione acritica», dal momento che il “patriottismo di partito” ha ragioni antiche. Conta – e parecchio – anche l’anagrafe: «La densità di anziani a sinistra è particolarmente alta: una grossa fetta degli elettori del Pd sono i pensionati. I giovani si astengono o votano il M5S, pochi la destra, ma solo pochissimi Pd». Inoltre, anche là dove la cecità è superata dall’impegno critico, anche i migliori militanti si trovano di fronte a un muro invalicabile: la mancanza di alternative.L’assenza di alternativa, sostiene Giannuli, è prodotta dallo stesso ceto politico al potere. «Quando chiedi a un militante di sinistra perché vota per una certa corrente o perché non reclama le dimissioni immediate di un segretario sconfitto alle elezioni, novanta volte su cento la risposta è: “E chi ci metti al suo posto?”. Ed è vero, perché non c’è un’ offerta alternativa. Ma non c’è perché il ceto politico al potere ha accuratamente fatto in modo che non ci fosse. E un gruppo dirigente alternativo non cade dalle nuvole come un dono del Cielo». E’ evidente: «All’interno dei partiti è la totale assenza di democrazia interna ad impedire qualsiasi ricambio». Vero, «non mancano le liturgie congressuali o le primarie», ma alla linea di partenza «arrivano solo già quanti sono dentro la casta». Così, «la scelta è sempre fra diverse frazioni della stessa burocrazia».Male oscuro: «C’è una viscosità interna che penalizza le novità e punisce le innovazioni», per cui un outsider come Civati non avrà scampo, dopo esser stato preso in considerazione, al massimo, «come una curiosa e divertente anomalia». Poi, «quando si arriverà al congresso o alle primarie, i giochi saranno già fatti: il regolamento provvederà a rendere quasi impossibile ai nuovi arrivati anche solo di presentare una loro mozione e loro candidati». Tutto questo, naturalmente, si rifletterà anche alle urne, dove l’elettore si troverà sempre a scegliere fra le solite offerte politiche. «A scoraggiare la formazione di nuove liste influirà anche la legge elettorale maggioritaria che, con il richiamo al “voto utile” e le soglie di sbarramento, mette fuori gioco eventuali nuovi arrivati». Ecco spiegato, dunque, perché l’impresentabile Pd contini a esistere. E abbia messo in campo – con un’investitura di tipo bulgaro – l’ultimo vero neoliberista italiano, Matteo Renzi. Uno che, sulla crisi, non ha ancora detto una parola: non uno straccio di analisi, e dunque nessuna soluzione.«Non capisco, ma mi adeguo». Era l’esilarante refrain di Giorgio Ferrini, nei panni di caricatura del militante comunista romagnolo nello zoo televisivo di Renzo Arbore. La cattiva notizia è che, dopo tanti anni, il “cretino di sinistra” – avvistato da Leonardo Sciascia già nel remoto 1963 – ancora oggi vive e lotta accanto a noi, ma non insieme a noi: lotta soprattutto perché nulla cambi, avvinghiato alle sue piccole certezze economiche e alla nomenklatura di partito che le tutela. Questo, sostiene Aldo Giannuli, è il vero motivo per cui un elettorato largamente di sinistra come quello del Pd riesce regolarmente a digerire una leadership imbarazzante e “di destra” come quella di D’Alema, fino al “nuovismo” palesemente neoliberista di Renzi. La base dovrebbe sfiduciare un gruppo dirigente che fa l’opposto di quello che predica? Troppo facile. «Ovviamente non è escluso che una porzione di deficienti giochi un ruolo di supporto alle burocrazie dominanti e senza alcun vantaggio per sé (altrimenti che deficienti sarebbero?)». Ma i “deficienti” non sono la maggioranza.
-
Quando la nostra Europa tornerà nelle strade
«Perché l’America è nata nelle strade», recitava il trailer del kolossal di Martin Scorsese, “The gangs of New York”. E l’Europa di Bruxelles dov’è nata, esattamente? In quali fogne? Nello scantinato di quale tenebroso alchimista? L’Europa vera, l’unica che conti, è da sempre interamente privatizzata. Porta il nome di European Roundtable of Industrialists. E detta ogni giorno le sue condizioni, le future leggi che già l’indomani puniranno i sudditi. Li emana, i suoi diktat, sicura di essere obbedita, all’istante, da servitori opachi e zelanti come José Manuel Barroso. Lui, il portoghese venuto dal nulla, che ai potenti di Bruxelles deve tutto. E’ l’uomo che dall’alto del suo palazzo guarda il suo Portogallo bruciare di rabbia e di fame, mentre, en passant, transita negli innocui salotti televisivi, incluso quello italiano di Fabio Fazio, a ricordare che anche l’Italia “può e deve” fare di più per amputare, senza anestesia, tutto quello che resta del suo stato sociale. Il vero benessere diffuso – infrastrutture, stipendi, servizi vitali – non si chiama più neppure welfare, ma direttamente “debito pubblico”. Sottinteso: è una colpa vergognosa, un problema, un male da estirpare. Come del resto il diritto a una vita dignitosa, a uno straccio di futuro.Dopo vent’anni, ci si accorge all’improvviso che l’attuale Unione Europea è nemica, è interprete di una forma di barbarie particolarmente subdola e disonesta perché non urla le sue livide minacce di guerra e non sventola svastiche. Eppure ha tutt’altro scopo che la promozione dell’umanità. E’ un abile artificio autoritario, costruito con l’inganno. E’ la tomba dell’Europa democratica e popolare, assassinata e poi risorta dal nazifascismo. Non è il Parlamento di Strasburgo regolarmente eletto a governare il continente, ma uno sparuto clan di servitori, agli ordini della Ert e delle altre lobby onnipotenti, che infestano l’anonima capitale belga coi loro costosi uffici e i loro budget miliardari con un unico obiettivo: ordinare alla Commissione di ammantare di legalità le regole assolute del loro business oligarchico progettato per la grande crisi, in tempi di coperta corta. E’ il business della globalizzazione totalitaria e recessiva, in base alla quale retrocedere al medioevo quelli che fino a ieri erano cittadini e lavoratori, consumatori ingenui e inguaribilmente ottimisti.Per tutti loro, miseri e volgari untermenschen, la ricreazione è finita: devono abituarsi all’idea. Lo stato di eccezione – la Grecia insegna – deve diventare la nuova, raggelante normalità. L’orizzonte politico finale è chiaro: la definitiva rassegnazione collettiva. Ci saranno proteste iniziali, grida, dimostrazioni. Ma poi sulle prime fiammate di insofferenza calerà la coltre quotidiana della fatica, il sipario del conforto televisivo fatto di favole, la maschera rassicurante dell’ultimo pagliaccio travestito da politico. E ciascuno, lentamente, tornerà alla sua usuale solitudine, al deserto freddo da cui affrontare – senza più aiuti – l’atroce puntualità degli strozzini.Ci saranno ancora grida, là fuori, ma per attutirne l’urto basterà chiudere le finestre, almeno per il momento. Chiudere le finestre e anche gli occhi, di fronte allo spettacolo quotidiano dei negozi che chiudono, delle aziende che licenziano, degli anziani che frugano tra gli scarti del mercato o mendicano smarriti la carità di una prenotazione per esami clinici nell’ospedale di quartiere martoriato dai tagli e trasformato in centro di primo soccorso per rifugiati di guerra. Così, sempre più velocemente, la mala pianta dell’odio concimata dalla paura ricomincerà a germogliare, rispolverando idiomi che credevamo sepolti per sempre nel cimitero della storia – noi incorreggibili italiani, voi maledetti tedeschi, i soliti presuntuosi francesi.Dopo un sonno lunghissimo, molti studiosi e paludati accademici si risvegliano, e persino qualche politico comincia a rialzare la testa, a denunciare l’imbroglio, a segnalare il pericolo che incombe. Negli ultimi due anni – un manciata di mesi – le analisi si sono fatte acuminate, lo sguardo è stato messo a fuoco con crescente lucidità. Si spera nelle elezioni europee del maggio 2014, che forse saranno un primo vero avvertimento sulla necessità di un’inversione di rotta. Si inizia a delineare una meta – dal nome antico: democrazia – ma senza ancora disporre di una strategia per raggiungerla. Cioè strumenti di pressione, azioni politiche determinanti, rapporti di forza e strumenti da impugnare per costringere gli oligarchi a cedere il loro attuale potere assoluto.L’unico leader occidentale disposto a scendere sul terreno della rivendicazione diretta è Marine Le Pen, che minaccia l’uscita della Francia dall’Unione Europea e dalla sua prigione economica, la non-moneta privatizzata chiamata euro. Ma Marine Le Pen si appella alla nostalgia del suo popolo per la celebrata grandeur nazionale, e – per rimarcare identità elettorale e visibilità – non recede di un millimetro dalla antica crociata contro gli stranieri, cioè i poveri del sud e dell’est. Ancora vaga, suggestiva ma del tutto ipotetica, la proposta di candidare (virtualmente) il greco Tsipras alla guida di Bruxelles, per costituire un cartello organizzato, in grado di esprimere finalmente la voce legittima di centinaia di milioni di europei presi al laccio dai signori della crisi.C’è poi un’altra Europa, che per fortuna non ha mai smesso di esistere. E’ l’Europa che sognavano anime isolate e profetiche come quella di Alex Langer, eretico pioniere dell’ambientalismo come frontiera democratica, basata sulla riconversione sostenibile dell’economia partendo dai territori, dalle filiere corte, quelle che possono contrastare i monopoli irresponsabili che oggi stanno facendo a pezzi il mondo, trascinandolo verso una guerra cieca e disperata. Erano sodali di Langer gli ambientalisti della piccola e periferica valle di Susa che lottarono con successo – insieme ai francesi – per bloccare i maxi-elettrodotti destinati a trasferire in Italia l’energia elettrica prodotta dalla vicinissima centrale nucleare di Creys-Malville, pericolosa perché prossima a Torino e continuamente funestata da incidenti.Quei valsusini lottarono con successo, sempre insieme ai francesi, per scongiurare la costruzione di una nuova autostrada e un nuovo traforo che avrebbe devastato l’area alpina del Monginevro e la valle della Clarée, gioiello naturale transalpino al confine con l’Italia. Il comandante in capo, il sommo protettore politico di ogni grande opera infrastrutturale devastante e inutile, sul versante francese era un certo Michel Barnier, allora governatore locale. Le élite economico-finanziarie che ha servito con tanto zelo gli hanno garantito una super-carriera: oggi monsieur Barnier è il potentissimo “ministro delle finanze” della Commissione Europea.Quell’Europa “nata nelle strade”, per la precisione lungo quelle che collegano Torino a Lione, aveva capito in anticipo molte cose. La prima, fondamentale: la politica, qualsiasi politica, non può che camminare sulle gambe delle persone comuni, disposte a battersi con onestà per affermare un’idea irrinunciabile di giustizia. Italiani e francesi manifestano insieme sui sentieri di Chiomonte, nelle piazze di Lione presidiate dalle forze antisommossa, e affrontano insieme la battaglia per salvare l’area naturale di Notre-Dames-des-Landes, in Guascogna, che la super-multinazionale Vinci vorrebbe asfaltare per far posto a un inutile, mostruoso aeroporto. Sono sempre loro, italiani e francesi, ad aver firmato nel 2010 la Carta di Hendaye, nel paese basco, per affermare che la comunità civile non può più tollerare l’abuso del business che devasta la Terra sulla base di ciniche menzogne, solo per arricchire una casta di super-predatori, protetti dalla copertura legale offerta dalla mafia di Bruxelles.Questa Europa esiste, e a volte ha saputo far parlare di sé, nonostante la feroce interdizione dei media. Negare la verità, dice il generale Fabio Mini, è il primo vero atto di guerra contro tutti noi. Impegnarsi a farla circolare, la verità, oggi più che mai è una meta decisiva. Non solo per “fermare il mostro”, ma per costruire umanità e veicolare le idee necessarie a un’economia democratica, orientata al benessere. Pace, democrazia, convivenza, sostenibilità: oggi, nel delirio autistico del mainstream neoliberista, sembrano gli slogan di un programma eversivo e folle, nell’Italia cannibalizzata dai predoni e appaltata ai loro pallidi maggiordomi. Non è difficile, basterebbe dire: per tutti, o per nessuno. Di queste idee dovrà essere armata, la nostra Europa, quando tornerà nelle strade a dire che nessuno sarà mai più lasciato solo.(Giorgio Cattaneo, “Quando la nostra Europa tornerà nelle strade”, da “Megachip” del 27 dicembre 2013).«Perché l’America è nata nelle strade», recitava il trailer del kolossal di Martin Scorsese, “The gangs of New York”. E l’Europa di Bruxelles dov’è nata, esattamente? In quali fogne? Nello scantinato di quale tenebroso alchimista? L’Europa vera, l’unica che conti, è da sempre interamente privatizzata. Porta il nome di European Roundtable of Industrialists. E detta ogni giorno le sue condizioni, le future leggi che già l’indomani puniranno i sudditi. Li emana, i suoi diktat, sicura di essere obbedita, all’istante, da servitori opachi e zelanti come José Manuel Barroso. Lui, il portoghese venuto dal nulla, che ai potenti di Bruxelles deve tutto. E’ l’uomo che dall’alto del suo palazzo guarda il suo Portogallo bruciare di rabbia e di fame, mentre, en passant, transita negli innocui salotti televisivi, incluso quello italiano di Fabio Fazio, a ricordare che anche l’Italia “può e deve” fare di più per amputare, senza anestesia, tutto quello che resta del suo stato sociale. Il vero benessere diffuso – infrastrutture, stipendi, servizi vitali – non si chiama più neppure welfare, ma direttamente “debito pubblico”. Sottinteso: è una colpa vergognosa, un problema, un male da estirpare. Come del resto il diritto a una vita dignitosa, a uno straccio di futuro.