Archivio del Tag ‘elezioni’
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La gioia sinistra di chi vince da solo, rottamate le elezioni
A me non stupisce che Matteo Renzi esalti il successo del Pd alle regionali ignorando, anzi persino valutando con un certo compiacimento, il fatto che in Emilia Romagna abbia votato un elettore su tre, quando solo poco tempo fa votavano in nove su dieci. Nella concezione autoritaria della governabilità e nel decisionismo di cui il segretario presidente è solo l’ultimo esponente, la partecipazione popolare è solo un incomodo o un fastidio. Se votano solo tre persone e si ha la sicurezza di ottenere il consenso di due di esse va bene, in meno si decide è meglio è. Gli altri dovranno solo ubbidire. Mussolini sosteneva che lui del fascismo non aveva inventato nulla, lo aveva semplicemente tirato fuori dagli italiani e organizzato. Per Renzi vale lo stesso. Sono anni che i programmi di governo sono vincolati ai diktat dei mercati, della Ue, della finanza, e anche a quelli del governo di un altro paese, la Germania. Sono anni che i cittadini di questo paese vengono educati alla impotenza e alla inutilità di una democrazia ove le decisioni di fondo son già prese altrove. E quando è lo stesso Presidente della Repubblica che si fa alfiere di questa sottomissione culturale e psicologica, oltre che politica, è evidente che tutto il sistema costituzionale ne risente.La democrazia a sovranità limitata si è congiunta con due spinte che da decenni agiscono nella società italiana. La prima è la banalizzazione e la spoliticizzazione del confronto politico, di cui è stata espressione la Seconda Repubblica berlusconiana. La seconda è lo spirito di vandea contro il lavoro e i suoi diritti che da più di trenta anni si scatena ad ogni difficoltà economica. Il governo Craxi negli anni ‘80 aveva già anticipato il linguaggio e i comportamenti di Matteo Renzi, ma perché il decisionismo liberista diventasse regime occorrevano tutte e tre le condizioni di fondo, e non solo una. Una democrazia ridotta a subire gli ordini esterni sui temi stessi per i quali è nata: il bilancio dello Stato. La distruzione della partecipazione e la riduzione del confronto politico a talk show. La guerra tra i poveri come unico sbocco della impotenza popolare verso le decisioni di fondo. È dalla miscela tra questi tre processi degenerativi della nostra società che nasce il successo di Matteo Renzi, e anche quello del suo omonimo Salvini.I due Matteo si dividono gran parte del consenso dei pochi elettori residui, perché meglio rappresentano l’autodistruzione della nostra democrazia. Essi sono molto simili nel modo di pensare e di proporsi, e forse persino intercambiabili. E questo non solo per il giovanilismo di palazzo, la carriera burocratica oscura trasformata in leadership grazie ai mass media mentre crollava il consenso delle vecchie direzioni, la formazione giovanile nei quiz delle Tv di Berlusconi. Il punto vero che hanno in comune è il trasversalismo reazionario. Renzi è partito volendo battere i pugni in Europa e contro i poteri forti e ora picchia solo contro sindacati, scioperi e diritti del lavoro. Che vengono indicati come i veri ostacoli, o in altre versioni come gli alibi, che fanno sì che le imprese non investano. Per Renzi la ruota della fortuna ha girato a lungo e alla fine si è fermata sul lavoro ancora sindacalizzato e tutelato da qualche diritto residuo. Quello è il nemico dei giovani, dei disoccupati, del merito, della crescita e naturalmente di quelle imprese che finanziano Renzi a 1000 euro a coperto.Anche Matteo Salvini lancia proclami contro banche, euro, finanza. Ma i mass media li buca indirizzando il rebus contro migranti e Rom e alleandosi con forze esplicitamente fasciste e razziste. Renzi e Salvini indicano all’italiano medio l’unico avversario a reale portata di mano, il vicino di casa metalmeccanico, o impiegato pubblico, o migrante. Loro vengono indicati come la causa dei guai e con loro sindacati e centri sociali. Renzi e Salvini alimentano le rispettive guerre dei poveri in competizione l’uno con l’altro, e così si presentano sempre di più come un’alternanza nell’ambito della stessa devastazione democratica. Che la gente non vada più a votare, a parte i loro sostenitori, ai due leader va benissimo. Entrambi sono figli della ideologia liberista, e la privatizzazione della democrazia è la madre di tutte le altre.Non c’è soluzione facile a tutto questo. Crisi economica e degrado democratico si alimentano reciprocamente, e per uscire da entrambi bisogna ricostruire il conflitto con avversari che non sono il vicino di casa. Per questo gli scioperi, i movimenti sociali, le lotte vere fanno così paura ad entrambi i Matteo. Perché se questi dovessero crescere e consolidarsi, loro perderebbero centralità e leadership. Il voto regionale colloca la maggioranza della popolazione italiana in una posizione extraparlamentare. Oggi è un successo per Renzi e Salvini, domani potrebbe essere la loro condanna. Ma perché questo avvenga, tutto ciò che si oppone al regime dei due Matteo deve trovare la stessa determinazione, la stessa dimensione culturale e volontà di vero cambiamento, della Resistenza e della liberazione dal fascismo.(Giorgio Cremaschi, “La resistenza contro il regime dei due Matteo”, da “Micromega” del 24 novembre 2014).A me non stupisce che Matteo Renzi esalti il successo del Pd alle regionali ignorando, anzi persino valutando con un certo compiacimento, il fatto che in Emilia Romagna abbia votato un elettore su tre, quando solo poco tempo fa votavano in nove su dieci. Nella concezione autoritaria della governabilità e nel decisionismo di cui il segretario presidente è solo l’ultimo esponente, la partecipazione popolare è solo un incomodo o un fastidio. Se votano solo tre persone e si ha la sicurezza di ottenere il consenso di due di esse va bene, in meno si decide è meglio è. Gli altri dovranno solo ubbidire. Mussolini sosteneva che lui del fascismo non aveva inventato nulla, lo aveva semplicemente tirato fuori dagli italiani e organizzato. Per Renzi vale lo stesso. Sono anni che i programmi di governo sono vincolati ai diktat dei mercati, della Ue, della finanza, e anche a quelli del governo di un altro paese, la Germania. Sono anni che i cittadini di questo paese vengono educati alla impotenza e alla inutilità di una democrazia ove le decisioni di fondo son già prese altrove. E quando è lo stesso Presidente della Repubblica che si fa alfiere di questa sottomissione culturale e psicologica, oltre che politica, è evidente che tutto il sistema costituzionale ne risente.
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Da Ferguson all’Eternit, la nostra rabbia non li preoccupa
Ferguson come l’Eternit, come Stefano Cucchi e le elezioni in Emilia Romagna. Non è una forzatura. Sono molti i fili che legano quattro episodi lontani tra loro geograficamente, socialmente, per poteri statuali interessati. Il primo, il più evidente, è la logica sostanziale della giustizia, che riguarda i primi tre. Non è una novità che gli industriali vengano assolti per i reati commessi all’interno della propria “attività imprenditoriale”, così come non lo è la salvezza garantita ai poliziotti che ammazzano senza alcun motivo. La novità sta nella dimensione della strage. La sentenza Eternit arriva a cancellare responsabilità per oltre 2.000 morti accertati finora e per le migliaia che si verificheranno nei prossimi anni. E non dovrebbe esistere differenza, in sede giudiziaria, tra un omicidio commesso con un’arma da fuoco o da taglio e uno (un numero indefinibile, in questo caso) realizzato esponendo consapevolmente un’intera popolazione all’azione cancerogena dell’amianto. Un veleno è un veleno; non c’è differenza tra il metterlo nella minestra o sulla catena di montaggio. Cambia solo la dimensione.Ferguson e Cucchi sono molto più simili. Non c’è differenza tra un bianco e un nero, tra Italia e Usa. Lì come qui, i poliziotti che uccidono ritengono di “aver semplimente fatto il nostro lavoro”, o perlomeno si giustificano con questa frasetta usata da tutti i nazisti di seconda schiera (e che non venne accolta nel processo di Norimberga, giustamente). E pretendono l’impunità, minacciando. La novità sta nel ritorno prepotente al passato remoto, all’impunità dichiarata per il potere economico e i suoi guardiani armati. La novità sta dunque nella cancellazione totale delle culture sorte dalla grande sommossa globale degli anni ‘60 e ‘70, che avevano – tra l’altro – spinto decisamente per inverare il principio giuridico astratto “la legge è uguale per tutti”. Processando i criminali economici e militari nelle piazze e spesso anche nei tribunali, portando il barlume della coscienza critica anche tra alcuni magistrati, e persino tra alcuni poliziotti.Sarebbe facile concluderne che si tratta solo della solita “giustizia di classe”, quindi di una riscoperta dell’acqua calda. La definizione è giusta, naturalmente, ma se ripetuta in modo atemporale, per eventi distanti migliaia di chilomentri o alcune decine di anni, diventa uno slogan già sentito, che spiega poco. Che disarma, invece di mobilitare. Intanto: di quale classe? E con quali metodi? Parlare di “borghesia” quando si analizzano le imprese multinazionali o i consigli di amministrazione delle banche d’affari globali restringe la possibilità di capire. Stiamo parlando di un’evoluzione della specie che fa apparire i “padroni” del Novecento come una scimmia a confronto con l’uomo. Non a caso i nostrani “padroncini” italiani si comportano esattamente come residui di un modo di “fare impresa” che era arretrato anche cinquant’anni fa: evasione fiscale, bilanci truccati, appalti pubblici, mazzette, bassi salari e zero diritti, dipendenza dal sistema bancario, familismo amorale.Idem per i metodi, per le “regole di ingaggio” con cui le forze di polizia affrontano qualsiasi situazione da “normalizzare”. Sopravvivono ancora i manganellamenti di massa, l’uso di gas lacrimogeni; anzi, vengono estesi anche a soggetti per 40 anni riconosciuti tra gli interlocutori legittimi (la Fiom e non solo). Ma è impossibile non vedere la militarizzazione delle forze repressive, ovvero il trasferimento dagli eserciti alle polizie di strumenti, armamenti, “regole di ingaggio” proprie delle zone di guerra. Ed altri armamenti, ipertecnologici, sono allo studio da anni, specifici per le “proteste di massa”. Stiamo diventando tutti palestinesi agli occhi di polizie “israelianizzate”. È un modello di governance del capitalismo occidentale che assume rapidamente le caratteristiche del “modello Gaza”.Va bene, direte voi, ma che c’entrano le elezioni emiliane? Un potere così fatto, quello multinazional-finanziario, non ha più bisogno di una relazione costante e biunivoca con la popolazione. Non si può permettere di mantenere in vita “corpi intermedi” che trasformano interessi sociali diversi in proposte legislative, meccanismi di welfare, istituzioni e servizi “costosi” (dalla sanità all’istruzione). Non ha bisogno neppure, dunque, di una legittimazione elettorale vera. Basta una maggioranza qualsiasi, senza alcun riferimento agli aventi diritto. L’astensione è voluta, ricercata, incentivata, spiegata in cento modi. “Lo Stato non è vostro”, ci gridano da palazzo Chigi e dalla Casa Bianca. E i tribunali trasformano questa realtà in sentenze.L’astensione e la rabbia, l’ostilità e i saccheggi, l’estraneità e gli incendi sono messi nel conto. Il giudice che in soli 25 giorni ha deciso che il poliziotto Darren Wilson non andava neppure processato per l’omicidio di Michael Brown, sapeva benissimo che avrebbe scatenato qualcosa del genere. E ha deciso che bisognava far vedere chi comanda, senza mediazioni. Tanto – è la considerazione politico-militare sottostante la decisione – “più di questo non potrete fare”. Che la rabbia esploda pure, dunque. Senza un progetto e una visione, senza organizzazione generale, non potrà danneggiare il potere. Al massimo qualche auto della polizia e qualche negozio. Siamo noi a dover capire che “la rabbia” è sacrosanta, ma è solo una “materia prima”. È come la benzina: se fa marciare una macchina ha una potenza trasformativa, se prende fuoco e basta consuma se stessa e poco altro.(Alessandro Avvisato, “La rabbia corta non fa paura”, da “Contropiano” del 26 novembre 2014).Ferguson come l’Eternit, come Stefano Cucchi e le elezioni in Emilia Romagna. Non è una forzatura. Sono molti i fili che legano quattro episodi lontani tra loro geograficamente, socialmente, per poteri statuali interessati. Il primo, il più evidente, è la logica sostanziale della giustizia, che riguarda i primi tre. Non è una novità che gli industriali vengano assolti per i reati commessi all’interno della propria “attività imprenditoriale”, così come non lo è la salvezza garantita ai poliziotti che ammazzano senza alcun motivo. La novità sta nella dimensione della strage. La sentenza Eternit arriva a cancellare responsabilità per oltre 2.000 morti accertati finora e per le migliaia che si verificheranno nei prossimi anni. E non dovrebbe esistere differenza, in sede giudiziaria, tra un omicidio commesso con un’arma da fuoco o da taglio e uno (un numero indefinibile, in questo caso) realizzato esponendo consapevolmente un’intera popolazione all’azione cancerogena dell’amianto. Un veleno è un veleno; non c’è differenza tra il metterlo nella minestra o sulla catena di montaggio. Cambia solo la dimensione.
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Trotsky e Cia, rivoluzione e golpe: da Kiev alla rivolta Usa
Auto rovesciate da una massa brulicante di manifestanti inferociti, edifici che vomitano denso fumo nero dai vani vuoti delle finestre, manipoli di rivoltosi che al crepuscolo si riscaldano attorno ai copertoni in fiamme, saccheggi dei negozi al calare della notte, pungente odore di lacrimogeni, anonimi poliziotti equipaggiati come truppe d’assalto, decine di arresti e minaccia di incarcerazione di massa per chi occupa i luoghi pubblici. Kiev, Ucraina, novembre 2013? No, Missouri, Stati Uniti, novembre 2014. C’è un parallelismo tra le due rivolte? C’è la possibilità che negli Stati Uniti, come in Ucraina, la piazza arrivi a rovesciare un governo eletto? Oppure gli Usa, il cui establishment è protetto da una pletora di polizie e agenzie segrete, sono ancora troppo opulenti, troppo policés, per cadere sotto i colpi della sollevazione popolare?Altro autunno caldo, quello russo del 1917. Si scontrano due visioni di come portare a compimento la rivoluzione: quella di Vladimir Lenin e quella di Leon Trotsky. Il primo si affida alle circostanze russe in quel preciso momento storico per rovesciare il governo Kerenskij e instaurare la dittatura del proletariato. Il secondo, vera mente grigia della rivoluzione d’ottobre, sostiene che sarebbe in grado di abbattere un governo indifferentemente a Londra, Berna o Amsterdam: le condizioni sociali del paese passano in subordine rispetto alla corretta tecnica di colpo di Stato. Serve una élite di rivoluzionari, vere truppe d’assalto, che colpiscano i gangli dello Stato: la miglior polizia del mondo non potrebbe nulla contro un colpo di mano che esuli dal mantenimento dell’ordine pubblico ed attacchi il sistema nervoso della cosa pubblica. Vince Trotsky, che, espugnato il Palazzo d’Inverno, è premiato con il comando della neonata Armata Rossa: il suo potere crescerà a tal punto da costringere la troika (quella originale, con l’omonimo direttorio neo-sovietico di Bruxelles) a esiliarlo.Morirà nel 1940, ucciso in Messico da un agente sovietico. I suoi insegnamenti continuano però ad essere studiati e siamo certi che alla Cia, dove sono stati coltivate in vitro le rivoluzioni di Libia, Siria, Egitto, Tunisia ed Ucraina, le tecniche del vecchio Trotsky siano ancora accuratamente sviscerate. Torniamo alla domanda di prima: le rivolte che infuocano il Missouri e la periferie della grandi città americane sono i prodromi di una potenziale rivoluzione americana, seguita a ruota da un regime change in stile ucraino? La risposta è sì. La differenze sostanziale è che nel caso di Euromaidan, qualcuno (Washington e Berlino) ha applicato correttamente i vecchi principi di Trotsky, investendo denaro, mezzi e uomini. Nel caso del Missouri, manca una potenza straniera o un partito politico autoctono che abbia la volontà e la capacità di giocare fino in fondo la partita, espugnando la Casa Bianca. Con il denaro e gli uomini giusti, tutto è però possibile, anche l’impensabile. Ci cimenteremo quindi in una partita di fantacalcio sui generis e proveremo a rovesciare il presidente Barack Obama e ad instaurare un governo rivoluzionario, amico delle minoranze colorate e rispettoso della nostra sfera di influenza sullo scacchiere internazionale. Emuleremo quanto fatto dalla Cia in Ucraina, ricordando però che il maestro in materia, diamo a Cesare quel che è di Cesare, rimane sempre Leon Trotsky.Euromaidan e le rivolta di Ferguson: l’antefatto. Ogni rivoluzionario, ieri come oggi, ha come obbiettivo il rovesciamento dell’ordine vigente e dei suoi rappresentanti che, giustamente, si difendendo con le unghie e con i denti prima di soccombere. Di norma i rivoluzionari, se escono vivi e vittoriosi dall’avventura, abbelliscono con un manto di costituzionalità il neonato sistema, ma la loro azione è sempre illegale, finché non assurgono loro stessi a legislatori. Ciascun rivoluzionario, invece, opera in un contesto storico, politico e geografico ben preciso. Vediamo i casi dell’Ucraina e del Missouri. In Ucraina il terreno di coltura per l’insurrezione è rappresentato dalle tensioni tra ucrainofoni dell’ovest e russofoni dell’est, mentre lo scopo della rivoluzione è il posizionamento di Kiev nell’orbita Ue-Nato, sottraendola all’influenza di Mosca e alla nascente Unione Euroasiatica. Il 28 novembre 2013 il presidente ucraino Viktor Yanukovich rifiuta di siglare l’accordo di associazione con l’Unione Europea, firmando così la sua condanna: a Washinton si decide di rovesciarlo contando sulla complicità del governo tedesco guidato da Angela Merkel. Nella piazza centrale di Kiev, ribattezzata Euromaidan dall’emittente radiofonica americana “Radio Free Europe”, compaiono i primi assembramenti. La tensione, giorno per giorno, sale.In Missouri il fattore scatenante della rivolta è l’omicidio dell’afroamericano Michael Brown, ucciso a Ferguson il 9 agosto del 2014 da un agente di polizia bianco dopo un presunto furto di sigari. La morte di Brown riaccende tensioni da sempre latenti negli Usa: la segregazione razziale, il Southern Manifesto, l’assassinio di Martin Luther King, il disagio sociale, etc. Le proteste richiedono un primo intervento delle forze speciali per sedare la rivolta: l’ordine pubblico è “militarizzato”. Poi riesplodono dopo la controversa decisione del gran giurì della contea di St. Louis di non processare il poliziotto per l’omicidio di Michael Brown: i disordini si diffondono a macchia d’olio nelle periferie delle principali città americane ed agli afroamericani si uniscono gli indigenti bianchi. Lo scopo della nostra rivoluzione sarà rovesciare l’establishment americano e istaurare un governo che smantelli la rete di basi americane in giro per il mondo e dirotti sulla spesa sociale le risorse assorbite dal complesso militare-industriale. Sarà una rivoluzione al grido di “più burro e meno cannoni!”Euromaidan e Missouri-maidan: lo svolgimento. Se il congresso dei Soviet avesse fatto affidamento su Lenin e sull’ineluttabilità della dittatura del proletariato, oggi la coppia più glamour sarebbero senza dubbio il rampollo di casa Romanov e un’hostess di San Pietroburgo. Le rivoluzioni non cascano dall’albero come pere mature e, perché siano coronate da successo, insegna Leon Trotsky, servono veri esperti della sovversione. Vediamo come la Cia si è mossa in Ucraina e come agiremo noi negli Usa. Prima regola: niente soldi, niente rivoluzione. Creare un nucleo di professionisti della rivoluzione, pagare loro uno stipendio, studiare e diffondere la propaganda, spostare e istruire gli attivisti, distribuire telefoni, radio, armi ed esplosivo, costa. E tanto. Il Dipartimento di Stato americano, per ammissione di Victoria Nuland, e la “Open Society Foundation”, un’organizzazione Cia di cui probabilmente George Soros è solo un prestanome, hanno investito diversi miliardi di dollari nelle due rivoluzione ucraine: quella arancione del 2004, poi abortita, e quella contro Yakunovich del 2013.Se l’obiettivo della rivoluzione ucraina è disarcionare gli oligarchi filorussi per sostituirli con oligarchi filoamericani, ai media compiacenti e all’opinione pubblica si vende merce più appetibile: lotta contro la corruzione, la cleptocrazia e la brutalità del regime oppressore, poco importa se legittimamente eletto. Quindi, impostata l’insurrezione sulla dialettica “libertà vs. oppressione”, bisogna esacerbare lo scontro di piazza, provocando le forze dell’ordine o addossando loro efferati crimini. Per quest’operazione la Cia si serve dei nazionalisti di “Settore Destro” e degli hooligans con un lungo curriculum di guerriglia alle spalle: i cecchini che aprono il fuoco sulla folla nel febbraio del 2014 e preparano il terreno per la precipitosa fuga di Yakunovich provengono dalle file dei movimenti di estrema destra. Ne parlano in una telefonata intercettata Catherine Ashton ed il ministro degli esteri estone Urmas Peat.Ora, prendiamo in mano la caotica rivolta dei sobborghi afro-americani e trasformiamola in una coesa ed efficiente macchina rivoluzionaria. Dobbiamo per prima cosa dare loro qualche spicciolo per fare la guerriglia. Come il mecenate della Leopolda renziana, David Serra, apriamo una società finanziaria alla Cayman, oppure a Singapore o Abu Dhabi, dove dirottiamo le risorse che il nostro governo destina ai paesi del terzo mondo e alla cooperazione economica. Quindi apriamo tre Ong in altrettanti Stati africani (Etiopia, Sudan, Angola) su cui convogliano i fondi. Le Ong sono scatole vuote e a rappresentarle ci sarà un solo impiegato, seduto in un modesto ufficio, che risponda al telefono e gestisca il sito Internet. Le organizzazioni, infatti, denominate “Amici africani del Missouri”, “Fratelli Etiopi per l’America” e “Marxisti-leninisti d’Africa”, sono solo il paravento dietro cui occulteremo il trasferimento di soldi alla protesta afro-americana negli Usa.I nostri attivisti iniziano quindi una capillare opera di sensibilizzazione e proselitismo tra le minoranze di colore americane: fondazioni, convegni, manifestazioni, giornate della memoria, spettacolari azioni di protesta, campagne virali su Internet, inserzioni pubblicitarie, etc. Due sono i punti su cui ci focalizziamo: la discriminazione delle minoranze e la rapacità del governo federale che, con le insostenibili spese militari, sottrae soldi al welfare. La fascia più ampia possibile della popolazione deve famigliarizzare con il nostro messaggio, in modo che non ci sia ostile quando entreremo in azione, mentre nel frattempo selezioneremo una minoranza che sia politicamente attiva. Quindi, ricordando la massima che la rivoluzione non è un pranzo di gala, ci occorre l’equivalente del “Settore Destro” in Ucraina: la truppa d’assalto che faccia il lavoro sporco. Nel nostro caso, mentre la Cia ha pescato nell’estremismo di destra, noi faremo affidamento sugli eredi dei “Black Panthers”, un movimento di ispirazione socialista che abbracciò anche la lotta armata per difendere i diritti dei negri negli anni ’60 e ‘70. La punta di diamante sarà il redivivo “Black Liberation Army”, il superclan dentro i “Black Panthers”: i nostri istruttori militari ne addestreranno i membri nei campi allestiti in Venezuela e Bolivia. Tutte le pedine sono al loro posto: Viktor Yakunovich e Barack Obama, tremate!Euromaidan e Missouri-maidan: l’epilogo. I colpi di Stato bonapartisti (Napoleone che circondato dai granatieri scioglie il Direttorio, oppure Benito Mussolini che riceve dal Re la guida dell’esecutivo sull’onda della Marcia su Roma) si addicono ormai solo ai dei paesi in via di sviluppo, dove per il presidente di turno controllare l’aeroporto internazionale è ancora di gran lunga più importante che controllare l’account Twitter. In Occidente, oggi, i colpi di Stato si giocano sul concetto di legittimità: il governo in carica può disporre delle forze armate al loro completo, controllare centrali elettriche, acquedotti, snodi ferroviari e stradali, telecomunicazioni e dorsali Internet, ma non può approntare nessuna difesa se la rivoluzione lo ha delegittimato. Privato dell’autorevolezza, il governo è svuotato di ogni potere e, come un novello Cesare, cade senza reagire sotto le pugnalate dei congiurati. Come la Cia ha rovesciato Viktor Yakunovich creando una situazione dove la difesa di un governo democraticamente eletto è resa impossibile da un’opinione pubblica indignata dalle presunte brutalità della polizia, così noi rovesceremo Barack Obama. Serve a poco disporre della Swat, della Sesta Flotta o degli F-35, se l’opinione considera criminale qualsiasi azione compiuta dal governo: la delegittimazione è l’arma del nuovo rivoluzionario occidentale.Nel dicembre del 2013 Viktor Yakunovich, spaventato dai moti di piazza di Kiev, torna sui propri passi e si dice pronto a firmare l’accordo di associazione con la Ue: Washington giudica la mossa un semplice diversivo e procede con il rovesciamento del presidente. A gennaio volano le molotov, si contano i primi morti tra i manifestanti e l’opposizione “politicamente presentabile” chiede le immediate dimissioni di Yakunovich. Il presidente dispiega le teste di cuoio, i Berkut, in Piazza dell’Indipendenza, dove fronteggiano assalti sempre più aggressivi. Il crescendo rossiniano culmina con l’azione dei cecchini che aprono il fuoco sui manifestanti e sulle forze di polizia: è il 20 febbraio. Il 21 febbraio Yakunovich lascia Kiev e il 22 il Parlamento nomina un presidente ad interim, filoamericano, ça va sans rien dire. La tecnica dei cecchini che aprono il fuoco sulla folla è stata largamente impiegata anche in Tunisia, Libia, Egitto e Siria durante la “primavera araba” targata Cia.Vediamo ora come concludere il nostro regime change americano. Per tutto il mese di dicembre la tensione è mantenuta alta attraverso la protesta: i manifestanti reclamano la fine della discriminazione razziale, pari opportunità di lavoro, investimenti per le periferie e più controlli sulla condotta della polizia. Negli Stati dove la presenza di afro-americani è più forte la tensione sale: dal Missouri alla Florida, dal Texas a New York gli scontri con le forze dell’ordine avvengono a cadenza giornaliera. La nostra rete è due volte attiva: da una parte organizza le proteste e alza il tono dello scontro, dall’altro documenta con dovizia di particolari la reazione della polizia, esasperandone l’aspetto brutale e repressivo. Si diffonde il malcontento tra le forze dell’ordine e si ricorre con meno remore alla violenza. Verso la fine di dicembre c’è il salto di qualità: un nostro agente della “Black Liberation Army” piazza una bomba in una stazione di polizia di Atlanta. Si contano decine di morti e gli ambienti politici più oltranzisti evocano misure straordinarie per riportare l’ordine. Il presidente Obama, già politicamente debole, precipita nei sondaggi: pusillanime per i repubblicani e incapace di leggere la realtà per i “liberal”.Quindici gennaio 2015: una grande folla marcia per le vie di Atlanta commemorando la nascita di Martin Luther King. Il corteo è seguito passo a passo dalle forze dell’ordine. La tensione è palpabile. Scoppia un tafferuglio e si sentono spari: i cecchini della “Black Liberation Army” hanno abbattuto due agenti di polizia che si accasciano esanimi al suolo. Le forze dell’ordine, prese dal panico, rispondono al fuoco. È strage. La situazione negli Stati Uniti è fuori controllo. La Casa Bianca è circondata da una folla inferocita che esige giustizia e degne condizioni di vita: la rivolta da razziale è diventata sociale, e alle minoranze di colore si sono aggiunti i giovani disoccupati e il popolo dei padri di famiglia costretti a un lavoro part-time. A Barack Obama, rifugiatosi a Camp David, sottopongono l’ordine esecutivo per la proclamazione della legge marziale. Qualche giorno dopo, un solitario visitatore, camminando negli ambienti spogli e vandalizzati della ex-villa presidenziale, trova sul pavimento l’ordine esecutivo con la firma in calce del presidente. Missouri-maidan si è conclusa con successo. Euromaidan è realtà, Missourimaidan è finzione. Ma come la Cia ha pilotato la “primavera araba” e la cacciata di Yakunovich, non abbiamo nessuno dubbio che un efficiente servizio segreto saprebbe guidare una rivoluzione anche negli Usa. Leon Trotsky insegna che non sono le circostanze a rendere il terreno fertile alla rivoluzione, ma i bravi rivoluzionari che sanno coltivare anche il terreno meno fertile.(Federico Dezzani, “Missouri-Maidan”, da “Come Don Chisciotte” del 27 novembre 2014).Auto rovesciate da una massa brulicante di manifestanti inferociti, edifici che vomitano denso fumo nero dai vani vuoti delle finestre, manipoli di rivoltosi che al crepuscolo si riscaldano attorno ai copertoni in fiamme, saccheggi dei negozi al calare della notte, pungente odore di lacrimogeni, anonimi poliziotti equipaggiati come truppe d’assalto, decine di arresti e minaccia di incarcerazione di massa per chi occupa i luoghi pubblici. Kiev, Ucraina, novembre 2013? No, Missouri, Stati Uniti, novembre 2014. C’è un parallelismo tra le due rivolte? C’è la possibilità che negli Stati Uniti, come in Ucraina, la piazza arrivi a rovesciare un governo eletto? Oppure gli Usa, il cui establishment è protetto da una pletora di polizie e agenzie segrete, sono ancora troppo opulenti, troppo policés, per cadere sotto i colpi della sollevazione popolare?
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Chi tocca muore: fango su chiunque osi avvicinarsi a Putin
Come nel film il “Tocco del male” del 1998, interpretato da Denzel Washington e Donald Sutherland, chiunque viene sfiorato dai russi viene immediatamente posseduto da un demone che trasforma gli uomini in assassini della democrazia, persecutori di gay, violentatori di donne, violatori dei diritti umani e di tutte le altre amenità del politicamente corretto, tanto in voga nelle nostre culture decadenti. Le simpatie del Cremlino nei confronti di singoli personaggi politici europei o di interi raggruppamenti partitici che vengono incoraggiati o aiutati finanziariamente (si tratta di prestiti e non di regalie a fondo perduto) bastano e avanzano per dare la patente di impresentabili, di autoritari, di nemici della civiltà occidentale a tutti costoro. Poco importa se si tratta di amicizie e di legami che nascono da una comune visione del mondo e dalle riflessioni sulla situazione economico-politica in Europa, continente del quale anche Mosca fa parte.Così fan tutti, ma ai russi sono sempre precluse buona fede e sincerità. Qualità che, invece, vengono concesse automaticamente (a prescindere, direbbe Totò) alle Ong, alle fondazioni o alle banche americane che supportano individui, partiti, organismi e movimenti (anche sediziosi) in ogni angolo del pianeta, Italia compresa. Pecunia non olet, a meno che non sia in rubli. In questi giorni lo schema diabolico, questo sì davvero tale, si è ripetuto contro il Fn guidato da Marine Le Pen, colpevole di aver accettato un prestito di nove milioni di euro dalla First Czech Russian Bank, di proprietà di Roman Yakubovich Popov, il quale, si dice, sia vicino a Putin. Il tesoriere del partito non ha negato e, del resto, il Fn non aveva altra scelta, poiché gli istituti di credito francesi si sono rifiutati di concedere mutui ad una organizzazione che si dichiara apertamente contro l’euro e l’Europa dei potenti ed a favore di un recupero di prerogative sovrane.Il presidente dell’istituto di credito russo è stato prontamente definito dai giornali “l’oligarca dello Zar”. Essendo russo, il citato banchiere non può che essere un oligarca, almeno nella zucca vuota dei nostri scribacchini di regime. Nonostante Putin sia stato il primo vero nemico dell’oligarchia speculatrice nel suo paese, da Eltsin in poi, tanto da averla combattuta in ogni ambito, politico, economico, giudiziario e sociale, egli è e resta, per i nostri pennivendoli, il despota amico dei satrapi del denaro e del furto ai danni dello Stato. Invece, l’oligarca Poroshenko, vicino all’Occidente e arrivato al potere dopo un colpo di stato anticostituzionale, è un sincero democratico e liberale. Il tocco del bene, a regia obamiana.In Italia c’è un altro partito che sta seguendo le orme del Front National, almeno in termini di battaglie politiche e di nuove parole d’ordine che cozzano con quelle dei circuiti politici dominanti, spadroneggianti da destra a sinistra. E’ la Lega di Salvini, alla quale sono state repentinamente impresse le stimmate del partito antinazionale foraggiato da una potenza straniera. Salvini ha negato di aver mai preso soldi dall’estero ma poco importa, la campagna denigratoria è già cominciata e non si fermerà finché il movimento del Nord non sarà ridotto a più miti consigli (quelli che non si possono rifiutare, provenienti da Washington e da Bruxelles) o sprofondato nel fango. Fango che sta già sgorgando copiosamente ad ogni passo di avvicinamento che fanno questi leader per intendersi tra loro e per dare vita ad un fronte internazionale capace di produrre quella massa critica necessaria a combattere l’Europa dei banchieri e dei politici asserviti agli Stati Uniti. I delinquenti della stampa l’hanno già ribattezzata l’internazionale dell’odio o dei fasciocomunisti, perché oggi, anche solo parlare di sovranità nazionale e di mutamento dei rapporti di forza mondiali, ancora troppo sbilanciati a favore di una sola potenza, quella d’oltreatlantico, costituisce un reato di lesa maestà che può costare caro (qui penso alla malasorte di Christophe de Margerie).Salvini e Le Pen si guardino le spalle perché hanno toccato dei pericolosi fili scoperti sfidando i signori della prepotenza occidentale. Inoltre, il segretario del Carroccio si tenga pure a distanza dall’endorsement di Berlusconi perché non ha bisogno dell’imprimatur del Cavaliere per scalare un elettorato ormai stufo di questo gioco degli specchi tra schieramenti opposti ma uniti nel governo. Berlusconi ha consentito all’attuale obbrobrio istituzionale di consolidarsi, a nocumento del sistema-paese e dei suoi cittadini. Fa parte del problema, non delle eventuali soluzioni. Potremo anche capire i normali piccoli tatticismi per catalizzare i voti di Forza Italia, ma non un sodalizio organico con quest’ultima che sarebbe ferale per la Lega e per il notevole lavoro di opposizione, in “solitaria tenzone”, finora svolto. (Ps: oggi il “Fatto Quotidiano” è scatenato contro la Lega. Sono apparsi due o tre articoli di fuoco, ordinati espressamente da qualcuno. I giornalisti che li hanno scritti sono membri del “circolo atlantico”. Uno più uno fa ancora due. Uno di questi pezzi cita anche il nostro sito, “Conflitti e strategie”).(Gianni Petrosillo, “Il tocco del male, chi tocca i russi muore, da Salvini alla Le Pen”, da “Conflitti e Strategie” del 27 novembre 2014).Come nel film il “Tocco del male” del 1998, interpretato da Denzel Washington e Donald Sutherland, chiunque viene sfiorato dai russi viene immediatamente posseduto da un demone che trasforma gli uomini in assassini della democrazia, persecutori di gay, violentatori di donne, violatori dei diritti umani e di tutte le altre amenità del politicamente corretto, tanto in voga nelle nostre culture decadenti. Le simpatie del Cremlino nei confronti di singoli personaggi politici europei o di interi raggruppamenti partitici che vengono incoraggiati o aiutati finanziariamente (si tratta di prestiti e non di regalie a fondo perduto) bastano e avanzano per dare la patente di impresentabili, di autoritari, di nemici della civiltà occidentale a tutti costoro. Poco importa se si tratta di amicizie e di legami che nascono da una comune visione del mondo e dalle riflessioni sulla situazione economico-politica in Europa, continente del quale anche Mosca fa parte.
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Craig Roberts: i Clinton? In galera, anziché alla Casa Bianca
Glenn Greenwald ha rivelato che Hillary Clinton è il candidato presidenziale dei bankster e dei guerrafondai. Pam e Russ Martens registrano che Elizabeth Warren è la sua concorrente populista. Dubito però che un politico che rappresenti il popolo possa raccogliere abbastanza fondi per poter competere in una campagna presidenziale. Se comunque la Warren dovesse diventare una minaccia, tutto l’establishment si muoverebbe per costruirle intorno una cornice nella quale la potrebbero dipingere in qualsiasi modo pur di farla fuori. Hillary Clinton come presidente significherebbe guerra alla Russia. Con neocon-nazisti come Robert Kagan e Max Boot a gestire la politica militare e con una Hillary che fa confronti tra il presidente della Russia Putin e Adolf Hitler, la guerra dovrebbe essere una certezza. E, come hanno scritto Michel Chossudovsky e Noam Chomsky, la guerra, stavolta, sarebbe nucleare. Se Hillary fosse eletta presidente, i gangster finanziari e tutti quei criminali che traggono vantaggio dalle guerre riuscirebbero a completare il loro impossessamento del paese. E questo sarebbe per sempre, o almeno fino all’arrivo dell’Armageddon, la resa dei conti finale.Per comprendere a che cosa si andrebbe incontro con Hillary, proviamo a ripensare alla presidenza Clinton. Mise in moto delle trasformazioni che in qualche modo non vengono riconosciute. Clinton distrusse il partito democratico con gli accordi sul “libero commercio”, che regolò il sistema finanziario e inaugurò la politica di Washington – che ancora continua – del “cambio di regime”, con gli attacchi militari illegali su Jugoslavia e Iraq, e il suo regime cominciò ad usare una forza omicida e ingiustificata contro dei civili americani, per poi coprire gli omicidi depistando le indagini, con false investigazioni. Questi quattro grandi cambiamenti sono quelli che hanno gettato il paese in una spirale viziosa che ha portato alla militarizzazione della polizia e ad una ostentata iniquità dei redditi e della ricchezza. Si potrebbe capire perché i repubblicani volevano il “North American Free Trade Agreement”, ma fu Bill Clinton che lo trasformò in legge: è un meccanismo usato dalle multinazionali Usa per esportare la loro produzione di merci e servizi venduti sui mercati americani.Spostando la produzione all’estero, i risparmi sul costo del lavoro fanno aumentare i profitti delle multinazionali e il valore delle loro azioni, producendo dei guadagni di capitale per gli azionisti e dei bonus multimilionari in dollari per i loro dirigenti che hanno contribuito al raggiungimento degli obiettivi. I vantaggi per il capitale sono enormi, ma questi vantaggi sono tutti a spese dei lavoratori della manifattura Usa e delle minori entrate in tasse per le città e per gli Stati. Quando si chiudono gli stabilimenti e si manda il lavoro all’estero, non c’è più lavoro per la classe media. I sindacati delle industrie e della manifattura perdono iscritti, distruggendo così i sindacati dei lavoratori, che sono quelli che finanziano le campagne elettorali dei democratici. Il contrappeso del potere che era costituito dal lavoro contro il capitale, in questo modo era annullato. E i democratici dovettero ricorrere alle stesse fonti di sovvenzionamento dei repubblicani. Il risultato è uno Stato con un solo partito.L’indebolimento della base di tassazione che città e Stati hanno dovuto fronteggiare ha reso possibile un attacco dei repubblicani contro i sindacati del settore pubblico. Oggi il partito democratico non esiste più, visto che la politica del partito non è più finanziata da quei sindacati che rappresentano la gente comune. Oggi entrambi i partiti politici rappresentano gli interessi degli stessi gruppi di potere: il settore finanziario, il complesso militare barra security, le lobby di Israele, le industrie estrattive e l’agro-business. Non c’è più un partito che rappresenti veramente i propri elettori, malgrado il fatto che la gente comune continui a pagare con le proprie tasse tutti i costi dei salvataggi delle finanziarie e delle guerre intraprese, mentre le industrie estrattive e la Monsanto distruggono l’ambiente e portano al degrado la catena alimentare. Le elezioni non hanno più nulla a che vedere con le cose reali, come la perdita della protezione costituzionale da parte dei cittadini o un governo che agisca in base alle leggi esistenti. Al contrario, i partiti si mettono a discutere su argomenti come i matrimoni omosessuali e la raccolta di fondi federali per l’aborto. L’abrogazione della legge Glass-Steagall, firmata da Clinton, fu solo la prima mossa di quello che servì per rimuovere tanti altri vincoli che permisero al sistema finanziario di trasformarsi in un casinò, dove il gioco d’azzardo e le scommesse sono garantiti da fondi pubblici e dalla Federal Reserve. Le conseguenze definitive a cui porterà il paese questa trasformazione restano ancora da vedere.L’attacco del regime Clinton contro i serbi, secondo il diritto internazionale, fu un crimine di guerra, ma invece fu il presidente jugoslavo, che aveva cercato di difendere il proprio paese, che fu messo sotto processo come criminale di guerra. Quando il regime Clinton fece uccidere la famiglia di Randy Weaver a Ruby Ridge e altre 76 persone a Waco, sottoponendo i pochi sopravvissuti ad un processo-farsa, i crimini del regime contro l’umanità sono rimasti impuniti. Lo stesso sistema impostato da Clinton è continuato poi per altri 14 anni con i crimini commessi anche da Bush/Obama contro l’umanità in sette paesi, dove milioni di persone sono state uccise, mutilate e cacciate dalle loro case… ma questo sembra tutto accettabile. E ‘abbastanza facile per un governo fomentare la propria popolazione contro gli stranieri, come ben dimostrano i successi di Clinton, di George W. Bush e di Obama. Ma il regime Clinton riuscì a mettere americani contro altri americani. Quando l’Fbi gratuitamente uccise la moglie di Randy Weaver e il suo figlioletto, le denunce di Randy Weaver furono tacciate di propaganda e non considerate, senza motivo.Quando l’Fbi attaccò la setta dei Davidians – un movimento religioso staccatosi dalla Chiesa cristiana “avventista del settimo giorno” – con carri armati e gas velenosi, provocando un incendio che fece morire bruciate 76 persone, soprattutto donne e bambini, queste uccisioni e questo omicidio di massa furono giustificate dal regime Clinton, che considerò come accuse selvagge e infondate quelle che venivano mosse per chiedere giustizia per il massacro compiuto dal governo. Tutti gli sforzi di attribuire la responsabilità per i crimini compiuti dalla polizia furono bloccati e (purtroppo) cominciarono a costituire dei precedenti che sono serviti a far approvare una normativa che garantisce, in casi simili, l’immunità dalla legge. Questa immunità ora si è estesa a tutte le polizie locali, che possono regolarmente compiere abusi e uccidere cittadini americani sulle loro strade e nelle loro case.La mancanza di rispetto delle leggi internazionali da parte di Washington è un argomento su cui i governi di Russia e Cina si lamentano sempre più, e che ebbe origine con il regime Clinton. Le bugie di Washington su Saddam Hussein e sulle “armi di distruzione di massa” cominciarono durante il regime Clinton, così come l’obiettivo di un “cambio di regime” in Iraq e come i bombardamenti illegali di Washington e gli embarghi che costarono la vita di mezzo milione di bambini iracheni che persero la vita (ma che il segretario di Stato di Clinton disse che erano giustificabili). Il governo degli Stati Uniti aveva già fatto cose malvagie in passato. Ad esempio, la guerra ispano-americana fu un trampolino di lancio per costruire l’impero, e Washington ha sempre tutelato gli interessi delle società americane da qualsiasi oppositore latino-americano, ma il regime Clinton ha globalizzato la criminalità. I golpe per il cambio di regime sono diventati sempre più spericolati fino a rischiare una guerra nucleare, perché ormai non sono più governi come quello di Grenada o dell’Honduras ad essere rovesciati. Oggi si prendono di mira Russia e Cina. E certe zone, che fino a pochi anni fa erano parte integrante della Russia stessa, come Georgia e Ucraina, sono state trasformate in Stati vassalli di Washington.Washington ha finanziato le Ong che organizzano la “lotta studentesca” di Hong Kong, nella speranza che le proteste si diffonderanno fino in Cina e che destabilizzino il governo. L’incoscienza di questi interventi negli affari interni di paesi stranieri, potenze nucleari, è senza precedenti. Hillary Clinton è una guerrafondaia, e la stessa cosa sarà anche il candidato che presenteranno i repubblicani. L’irrigidimento della retorica anti-russa che parte da Washington e dai suoi pessimi Stati-fantoccio della Ue sta mettendo il mondo sulla strada della propria estinzione. Gli arroganti neoconservatori, con la loro esasperante convinzione che gli Stati Uniti siano il paese “eccezionale e indispensabile”, vedrebbero un abbassamento dei toni della loro retorica e una de-escalation delle sanzioni come un passo indietro. Quanto più i neocon e i politici come John McCain e Lindsey Graham salgono nei toni della loro retorica, tanto più ci si avvicina alla guerra.Mentre oggi il governo degli Stati Uniti istiga la polizia agli arresti preventivi e alle incarcerazioni di chiunque potrebbe un giorno commettere un crimine, quella che invece dovrebbe essere arrestata e incarcerata, buttando via la chiave, dovrebbe essere tutta intera la squadra di questi guerrafondai-neocon, prima che riescano a distruggere l’umanità. Gli anni di Clinton hanno prodotto una gran quantità documentazione sui tanti crimini e sulle coperture di fatti come l’attentato di Oklahoma City, Ruby Ridge, Waco, lo scandalo dei laboratori criminali dell’Fbi, la morte di Vincent Foster, il coinvolgimento della Cia nel traffico di droga, la militarizzazione delle forze dell’ordine, il Kosovo… e si può andare avanti finché si vuole. La maggior parte di questi documenti sono stati scritti da persone che non avevano un punto di vista parziale, né liberal, né conservatore, perché nessuno si rendeva ancora conto della natura della trasformazione che stava avvenendo nella governance americana. Quelli che hanno dimenticato e quelli che sono troppo giovani non hanno la capacità di vedersi o di riconoscersi in quello che sono stati gli anni di Clinton. Recentemente ho parlato del libro di Ambrose Evans-Pritchard “The Secret Life of Bill Clinton”. Altro libro con una documentazione importante è “Feeling Your Pain”, di James Bovard.Sia il Congresso che i media hanno lavorato non poco per appoggiare e per dare le opportune coperture a molti eventi importanti avvenuti durante la presidenza Clinton, ma si sono concentrati solo su faccende di poco conto come le vendite immobiliari di Whitewater o la relazione sessuale di Clinton con la stagista della Casa Bianca Monica Lewinsky. Clinton e il suo regime corrotto hanno mentito su molte cose ben più importanti, ma la Camera dei Rappresentanti lo ha messo sotto accusa solo per le bugie raccontate sulla sua relazione con Monica Lewinsky. Ignorando le numerose (e ben più importanti) ragioni che avrebbero potuto portare a un impeachment, si è parlato tanto solo di un fatto inconsistente, e il Congresso e i media sono stati complici nel permettere che crescesse a dismisura un ramo dannoso dell’esecutivo. Questa mancanza di responsabilità ci ha portato alla tirannia in patria e alla guerra all’estero, e sono questi i due mali che ci stanno avviluppando tutti, ogni giorno di più.(Paul Craig Roberts, “Con le prossime presidenziali Usa, la guerra sarà più vicina”, da “Information Clearing House” del 18 novembre 2014, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Glenn Greenwald ha rivelato che Hillary Clinton è il candidato presidenziale dei bankster e dei guerrafondai. Pam e Russ Martens registrano che Elizabeth Warren è la sua concorrente populista. Dubito però che un politico che rappresenti il popolo possa raccogliere abbastanza fondi per poter competere in una campagna presidenziale. Se comunque la Warren dovesse diventare una minaccia, tutto l’establishment si muoverebbe per costruirle intorno una cornice nella quale la potrebbero dipingere in qualsiasi modo pur di farla fuori. Hillary Clinton come presidente significherebbe guerra alla Russia. Con neocon-nazisti come Robert Kagan e Max Boot a gestire la politica militare e con una Hillary che fa confronti tra il presidente della Russia Putin e Adolf Hitler, la guerra dovrebbe essere una certezza. E, come hanno scritto Michel Chossudovsky e Noam Chomsky, la guerra, stavolta, sarebbe nucleare. Se Hillary fosse eletta presidente, i gangster finanziari e tutti quei criminali che traggono vantaggio dalle guerre riuscirebbero a completare il loro impossessamento del paese. E questo sarebbe per sempre, o almeno fino all’arrivo dell’Armageddon, la resa dei conti finale.
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Falchi, Wall Street e Israele: tutti pazzi per Hillary Clinton
Aiuto, arriva Hillary Clinton. Facile fare i cinici, di fronte all’inevitabile e imminente campagna presidenziale dell’ex first lady, avverte Glenn Greenwald, che la definisce «una veterana dei giochi di potere di Washington», una persona «squallidamente senz’anima, priva di principi, assetata di potere». A prenotare la Casa Bianca dopo Obama è «il politico americano più banale che possa esserci». Unica qualità teorica: sarebbe la prima presidente donna. Aspetto che verrà sfruttato al massimo, «per oscurare il suo ruolo di guardiana dello status quo», neoliberista e imperiale. Non è solo amica dei grandi “bankster” di Wall Street: è la loro candidata numero uno. In più è la moglie di Bill: «Che sia la beneficiaria di una successione dinastica la rende ancora più invitante, per un mix di noia e disprezzo». Per il “Washington Post”, lei e il marito hanno “guadagnato” decine di milioni di dollari, «in gran parte parlando a globalisti, gruppi industriali, fondi avvoltoio». Il peggio di Wall Street tifa Hillary, a cominciare dal famigerato boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein.Se la propaganda presenterebbe la candidatura come opportunità di ringiovanimento e simbolo di speranza e cambiamento, ci pensa “Politico Magazine” a chiarire “perché Wall Street ama Hillary”, spiega Greenwald, in un post ruipreso da “Controinformazione”. «Giù a Wall Street non credono alla retorica populista della Clinton neanche per un minuto», scrive il magazine. «Mentre l’industria finanziaria effettivamente odia Warren, i grandi banchieri amano la Clinton e in linea di massima la vogliono a tutti i costi come presidente». Tra i super-banchieri dalla sua parte, oltre a Blankfein, spiccano James Gorman e Tom Nides (Morgan Stanley), nonché i capi di Jp Morgan Chase e Bank of America. «Considerano la Clinton una pragmatica risolutrice di problemi poco propensa alla retorica populista», scrive “Politico Magazine”. «Per loro è una che ha l’idea che tutti beneficiamo se Wall Street e il business americano prosperano». Ardente retorica populista? «Nessuno di loro pensa che lei faccia sul serio». La sostanza: «Wall Street, soprattutto, ama i vincitori, tanto più quelli che difficilmente toccheranno troppo il suo salvadanaio».Altro caposaldo della scalata di Hillary, la lobby israeliana. «Se dovesse diventare presidente, rapporti migliori con Israele sarebbero praticamente garantiti», assicura “Foreign Policy”. «Non dimentichiamo che i Clinton hanno già trattato con Bibi primo ministro». Non è mai stato facile, ma il rapporto con Netanyahu era chiaramente «molto più produttivo di quanto vediamo adesso», con Obama. Hillary? «E’ buona per Israele e si relaziona al paese in un modo in cui questo presidente non fa». La Clinton «è di un’altra generazione, e ha lavorato in un mondo politico in cui essere buoni per Israele era sia obbligatorio che intelligente», cioè conveniente. «Siamo chiari: quando si tratta di Israele, non esiste un Bill Clinton 2.0». L’ex presidente è stato probabilmente “unico”, sia «per la profondità dei suoi sentimenti per Israele» che per «la sua disponibilità a mettere da parte le proprie frustrazioni per certi aspetti del comportamento di Israele, come gli insediamenti». Ma questa intesa vale anche per Hillary, garantisce “Foreign Policy”. «Sia Bill che Hillary sono così innamorati dell’idea di Israele e della sua storia unica che sono propensi a fare certe concessioni sul comportamento del paese, come la continua costruzione di insediamenti».Poi ci sono loro, gli interventisti (ovvero i fanatici della guerra). Come Robert Kagan, il super-falco dell’entourage di Obama, marito di Victoria Nuland, architetto del golpe di Kiev per rovesciare il governo ucraino regolarmente eletto e aprire la sfida anche militare con Mosca. Molti “interventisti” come Kagan ripongono le loro speranze proprio nella Clinton, conferma il “New York Times”. «Mi sento a mio agio con lei in politica estera», ha ammesso Kagan, aggiungendo che il prossimo passo, dopo l’approccio “realista” di Obama, «potrebbe in teoria essere qualsiasi cosa Hillary porti in tavola», se eletta alla presidenza. «Se perseguirà la politica che noi crediamo perseguirà», ha aggiunto Kagan, «è qualcosa che si potrebbe chiamare neoconservatrice, ma chiaramente i suoi sostenitori non la definiranno così, la chiameranno in modo diverso». Di fatto, però, le idee sono quelle dei neo-con. Che sempre il “New York Times” ipotizza siano pronti ad allearsi con Hillary, «dopo quasi un decennio di esilio politico». Ovvero: «Mentre castigano Obama, i neo-con forse si stanno preparando per un’impresa più sfrontata: allinearsi con Hillary Rodham Clinton e la sua nascente campagna presidenziale, nel tentativo di tornare al posto di comando della politica estera americana». Lo conferma Max Boot, membro del Council on Foreign Relations: «Nei consigli dell’amministrazione, Hillary era una voce di principio per una posizione forte su questioni controverse, che fosse a supporto dell’insorgenza afghana o dell’intervento in Libia».Esatto: «La signora Clinton ha votato per la guerra in Iraq, ha supportato l’invio di armi ai ribelli siriani, ha paragonato il presidente russo Putin ad Adolf Hitler», scrive il “New York Times. Tuttora, Hillary «supporta appassionatamente Israele e sottolinea l’importanza di “promuovere la democrazia”». Dunque, «è facile immaginare che la signora Clinton nella sua amministrazione farà spazio ai neo-con. Nessuno la potrebbe incolpare di essere debole, nella sicurezza nazionale, con uno come Robert Kagan a bordo». Nel 1972, il primo a tracciare l’identità trasversale della lobby neo-con fu Robert Bartley, editorialista del “Wall Street Journal”, vicino ai neo-con: Bartley, dice il “New York Times”, «definì acutamente il movimento come “un gruppo altalenante tra i due maggiori partiti”», nonostante la decantata democrazia dell’alternanza bipolare. «Perciò beccatevi questo, cinici», conclude Greenwald. «Ci sono sacche di vibrante eccitazione politica che si stanno entusiasmando nel paese per una presidenza di Hillary Clinton. Si fanno poster, si attaccano distintivi, si preparano assegni, si bramano appuntamenti. I costituenti uniti, alleati, sinergici della plutocrazia e della guerra senza fine hanno la loro beneamata candidata. Ed è davvero difficile argomentare che la loro eccitazione ed affetto non sia giustifica».Aiuto, arriva Hillary Clinton. Facile fare i cinici, di fronte all’inevitabile e imminente campagna presidenziale dell’ex first lady, avverte Glenn Greenwald, che la definisce «una veterana dei giochi di potere di Washington», una persona «squallidamente senz’anima, priva di principi, assetata di potere». A prenotare la Casa Bianca dopo Obama è «il politico americano più banale che possa esserci». Unica qualità teorica: sarebbe la prima presidente donna. Aspetto che verrà sfruttato al massimo, «per oscurare il suo ruolo di guardiana dello status quo», neoliberista e imperiale. Non è solo amica dei grandi “bankster” di Wall Street: è la loro candidata numero uno. In più è la moglie di Bill: «Che sia la beneficiaria di una successione dinastica la rende ancora più invitante, per un mix di noia e disprezzo». Per il “Washington Post”, lei e il marito hanno “guadagnato” decine di milioni di dollari, «in gran parte parlando a globalisti, gruppi industriali, fondi avvoltoio». Il peggio di Wall Street tifa Hillary, a cominciare dal famigerato boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein.
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Via libera al golpe dell’élite, in Italia non vota più nessuno
Basta un pugno di voti, ormai, per eleggere persino il presidente dell’Emilia Romagna, perché gli italiani non vanno più a votare? Perfetto: è il “loro” piano, che si sta realizzando. Lo annunciò Mario Monti, l’uomo della Troika, «l’esponente italiano – dopo e insieme a Mario Draghi – più importante e rappresentativo del compatto fronte neoconservatore, neo-aristocratico e reazionario, che intende portare fino in fondo il piano strategico delle élite privilegiate della finanza, per il definitivo asservimento dei popoli». Monti? E’ «il vero vincitore» delle regionali 2014. Nel febbraio 2012, ricorda Sergio Di Cori Modigliani, ebbe a dire: «E’ il Parlamento che inceppa la via delle riforme strutturali, bisognerebbe aggirarlo per evitare che frenino lo sviluppo». E in un convegno dell’alta finanza a Milwaukee, negli Usa, nel settembre del 2013, spiegava che «il vero problema dell’Italia consiste nel fatto che si vota troppo spesso e sono ancora troppi ad andare a votare». E’ il sogno di ogni oligarca, osserva Di Cori Modigliani. E ora, con Renzi, si sta avverando: via il Senato, abolizione del Titolo V della Costituzione che ancora protegge i servizi pubblici, e legge elettorale che rende inutili gli elettori.«Riuscire a ridurre talmente tanto la percentuale dei votanti», scrive il blogger in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, all’indomani del record di astensionismo registrato alle regionali in Emilia e in Calabria, significa «avere la possibilità di poter effettuare dei veri e propri colpi di Stato senza sparare neppure un colpo, e – ciò che più conta – senza che neppure la gente se ne renda conto: e quando lo capirà, sarà ormai troppo tardi». Se l’obiettivo è riuscire ad arrivare al 65-70% di astensionismo alle politiche, continua Di Cori Modigliani, «su 14 milioni di voti validi, ne saranno sufficienti poco meno di 6 milioni per avere il potere assoluto, con il quale deliberare senza nessun ostacolo». In Emilia gli astenuti sono stati il 63%? «Neppure sanno di aver votato per Mario Monti». E’ il capolavoro della “società del Grande Fratello”, quella che ha vissuto «il più vasto genocidio culturale mai perpetrato in una società colta, evoluta, ricca, com’era un tempo quella italiana». Si affloscia la sfida del M5S? Tutto previsto: «Autostrada preferenziale per l’avanzata della Grande Destra, l’autentico populismo di bassa lega che preannuncia e avverte quale sarà il prossimo e imminente scenario politico internazionale, di qui a pochi mesi, quando esploderà la più grande crisi finanziaria mai esistita in Occidente».Quando l’Italia verrà chiamata alle urne, sarà «travolta e stravolta da nuovi arresti e nuovi scandali, sgomenta e sconcertata dinanzi alle continue denunce di nuove ruberie, di eterni sprechi, di nessuna proposta pragmatica all’orizzonte». La gente «si riverserà avvilita all’interno del proprio bozzolo esistenziale privato, nell’estremo tentativo di salvare il salvabile pur di sopravvivere». Di fatto, gli italiani «non si fideranno più di nessuno, non crederanno più a nessuno, non avranno voglia di seguire più nulla, perché ne avranno tutti le palle strapiene: si saranno arresi dichiarando “fate come vi pare, tanto non cambia mai nulla”». Meno gente va a votare, continua Di Cori Modigliani, e meglio è per «la pattuglia clientelare che gestisce i quotidiani brogli e imbrogli del sistema bancario italiano, ormai giunto al collasso imminente». In mancanza di un’alternativa credibile, «brinda la Destra festeggiando la definitiva dissoluzione della Sinistra italiana, suicidatasi con enfasi». Renzi? Può già incassare in Europa una bella cambiale in bianco: l’Italia è cotta, pronta per essere mangiata.«La fase finale della rivoluzione neo-conservatrice sta iniziando, perché la gente, oltre a non farcela più, davvero non ne può più», scrive Di Cori Modigliani. «Il nuovo presidente dell’Emilia Romagna ha ottenuto il 16,9% dei voti dei residenti nella sua regione: in una realtà come questa, non c’è più bisogno neppure di fantasticare un colpo di Stato». Gli italiani si sono arresi, sono «la carne da cannone della neo-aristocrazia imperiale della società mediatica post-moderna. Ma non lo sanno, neppure se ne accorgono», perché sono stati annientati innanzitutto sul piano della conoscenza, della consapevolezza: «A questo serve il genocidio culturale». Il “caro leader”? «Si lecca i baffi, e ha ragione a farlo. Volevate quest’Italia, quest’Italia avete oggi. Nel 2013 l’indice di lettori in Italia è diminuito del 32% rispetto all’anno precedente. E’ il paese più ignorante d’Europa. Perché mai dovrebbero andare a votare?».Basta un pugno di voti, ormai, per eleggere persino il presidente dell’Emilia Romagna, perché gli italiani non vanno più a votare? Perfetto: è il “loro” piano, che si sta realizzando. Lo annunciò Mario Monti, l’uomo della Troika, «l’esponente italiano – dopo e insieme a Mario Draghi – più importante e rappresentativo del compatto fronte neoconservatore, neo-aristocratico e reazionario, che intende portare fino in fondo il piano strategico delle élite privilegiate della finanza, per il definitivo asservimento dei popoli». Monti? E’ «il vero vincitore» delle regionali 2014. Nel febbraio 2012, ricorda Sergio Di Cori Modigliani, ebbe a dire: «E’ il Parlamento che inceppa la via delle riforme strutturali, bisognerebbe aggirarlo per evitare che frenino lo sviluppo». E in un convegno dell’alta finanza a Milwaukee, negli Usa, nel settembre del 2013, spiegava che «il vero problema dell’Italia consiste nel fatto che si vota troppo spesso e sono ancora troppi ad andare a votare». E’ il sogno di ogni oligarca, osserva Di Cori Modigliani. E ora, con Renzi, si sta avverando: via il Senato, abolizione del Titolo V della Costituzione che ancora protegge i servizi pubblici, e legge elettorale che rende inutili gli elettori.
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Gli italiani non votano più, disertate le urne anche in Emilia
Gli italiani ormai non votano più. Dopo il vasto boicottaggio delle europee, in cui nessuno – salvo la Lega Nord – aveva puntato nettamente contro l’euro-regime dell’austerity, ora scende al 40% la partecipazione al voto, nelle regionali in Calabria e addirittura in Emilia. «L’Emila-Romagna non è solo una Regione, è un simbolo», scrive Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera”. «È la roccaforte della sinistra lungo l’intero arco della storia repubblicana». Quando meno della metà degli elettori si reca alle urne, aggiunge Battista, è un blocco intero che scricchiola, un modello di consenso che vacilla. Per Gad Lerner, è addirittura l’inizio della fine per Matteo Renzi: «Il crollo della partecipazione dei cittadini al voto nella regione che tradizionalmente garantiva l’affluenza più alta d’Italia suona come un de prufundis per la nostra democrazia», scrive Lerner. «Ricorderemo le regionali dell’Emilia Romagna come il punto di non ritorno di una politica ritornata arrogante col trucco del falso rinnovamento renziano». Da Bologna, aggiunge Lerner, «è probabile che prenda avvio la parabola discendente di Matteo Renzi».«Prima la disfatta del “modello emiliano” impersonato da Vasco Errani, poi la sceneggiata delle false primarie, con ritiro decretato dall’alto dell’unico vero concorrente di Stefano Bonaccini. Infine – prosegue Lerner nel suo blog – l’arrembaggio al carro del vincitore presunto, Matteo Renzi, da parte di una moltitudine di trasformisti». Tutto ciò, conclude il giornalista, «rende umiliante il risultato elettorale del Partito Democratico in Emilia Romagna, abbandonato dalla maggioranza dei suoi elettori e perfino insidiato nel suo primato da un leghista divenuto emblema della destra». L’Emilia Romagna in cui crolla la percentuale di chi si reca a votare, sostiene Pierluigi Battista, è il regno dei “corpi intermedi”, dalle cooperative al sindacato al partito di stampo tradizionale, che innervano la società, la integrano, le danno coesione politica. «Matteo Renzi gioca tutto il suo appeal sulla “disintermediazione”, sul rapporto diretto tra il leader e gli italiani, saltando la mediazione dei corpi intermedi. Ma il massiccio astensionismo di ieri in Emilia rappresenta la reazione ritorsiva dei corpi intermedi».Se il sindacato viene messo con le spalle al muro, continua l’editorialista del “Corriere”, chi si identifica con la cultura e la politica che si sono insediati nel sindacato decide di disertare le elezioni. Mai la rinuncia alle urne aveva raggiunto livelli tanto allarmanti: «Si dice anche che l’astensionismo è una sindrome molto diffusa già da tempo e che pure il sindaco di Roma l’anno scorso è stato votato da meno della metà dei romani», scrive Battista, «però in Emilia si è assistito a un crollo». Inoltre, «mai avremmo potuto immaginare che l’Emilia si potesse dimostrare più astensionista della Calabria». Per Battista, «si tratta inoltre di un fenomeno privo di un colore sicuro», che coinvolge «l’elettore di destra deluso da Berlusconi», che è sfiduciato e non va a votare, e pure «l’elettore di Grillo, che vede la carica del “Movimento 5 Stelle” spenta e incapace di indicare un’alternativa». Di fatto,la sfiducia si abbatte su tutto il sistema, «percepito come un blocco indistinto, che spreca i soldi dei contribuenti». Un rigetto «disilluso e indiscriminato», un campanello d’allarme «per tutti i partiti, per le Regioni, per il premier e anche per i suoi avversari». Si chiede una politica radicalmente diversa, democratica, equa, che non arriva mai. Così, la rappresaglia degli elettori va avanti. E travolge persino la “rossa” Emilia.Gli italiani ormai non votano più. Dopo il vasto boicottaggio delle europee, in cui nessuno – salvo la Lega Nord – aveva puntato nettamente contro l’euro-regime dell’austerity, ora scende al 40% la partecipazione al voto, nelle regionali in Calabria e addirittura in Emilia. «L’Emila-Romagna non è solo una Regione, è un simbolo», scrive Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera”. «È la roccaforte della sinistra lungo l’intero arco della storia repubblicana». Quando meno della metà degli elettori si reca alle urne, aggiunge Battista, è un blocco intero che scricchiola, un modello di consenso che vacilla. Per Gad Lerner, è addirittura l’inizio della fine per Matteo Renzi: «Il crollo della partecipazione dei cittadini al voto nella regione che tradizionalmente garantiva l’affluenza più alta d’Italia suona come un de prufundis per la nostra democrazia», scrive Lerner. «Ricorderemo le regionali dell’Emilia Romagna come il punto di non ritorno di una politica ritornata arrogante col trucco del falso rinnovamento renziano». Da Bologna, aggiunge Lerner, «è probabile che prenda avvio la parabola discendente di Matteo Renzi».
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Contrordine, rinnegare l’euro (da Fitto al club di Bersani)
Raffaele Fitto che organizza un seminario anti-euro con Savona, Rinaldi e Barra Caracciolo? «Non stupisce. In fin dei conti, a chiacchiere il partito di Berlusconi è sempre stato su posizioni variamente euroscettiche», annota il blog “Mainstream”. Stupisce di più, ma anche qui fino a un certo punto, il fatto che a posizioni timidamente anti-euro stiano approdando anche diversi esponenti della sinistra Pd. «Già conosciamo le posizioni di Stefano Fassina, e qualcuno ha anche parlato di un pronunciamento anti-euro di Gianni Cuperlo», ma la vera novità sarebbe rappresentata da quanto viene pubblicato dal sito “Idee Controluce”, «una specie di ripostiglio per nostalgie ex-Pci», da Togliatti a Bersani. Di recente, l’associazione ha pubblicato la seguente monografia: “A quali condizioni può sopravvivere l’euro?”. Un’ipotesi “da esorcizzare”, sostiene Vladimiro Giacché, pensando all’atteggiamento generale verso lo spettro dell’euro-catastrofe. Molto esplicito il saggio di Claudio Sardo, che esorta a rompere finalmente il “tabù” della Bce.«Forse, discutere apertamente della crisi dell’euro è diventato per noi un tabù proprio perché non riusciamo neppure a immaginarci in uno scenario di fallimento. Eppure il tabù va infranto», scrive Sardo. Per togliere ogni dubbio, “Idee Controluce” ha pubblicato un pezzo di Alberto Bagnai. E come se non bastasse, aggiunge “Mainstream”, scende in campo persino Alfredo D’Attorre, «colonnello bersaniano e fiero oppositore di Renzi», che ha concesso al “Foglio” la seguente intervista: «Caro Renzi, occhio, con questa Europa tornerà presto la Lira». Nientemeno: «Perché il problema dell’Italia, inutile prendersi in giro, è più complesso del gioco sui decimali, e coincide con la parola euro». D’Attorre prosegue il suo ragionamento: «Mi stupisco che un presidente del Consiglio che ha fatto del coraggio la sua cifra politica non abbia messo a tema il vero problema dell’Italia e più in generale dell’Europa. L’euro così com’è oggi non è più sostenibile e sono convinto che non possa continuare a esistere una moneta unica senza che dietro questa ci siano un governo politico e uno economico capaci di gestire il bilancio dell’Eurozona».Domanda: uscire dall’euro è una sciocchezza o è diventata una possibilità? «Non credo alla tesi dei due euro», risponde D’Attorre. «Credo ci siano due alternative concrete: o avviare un percorso federale che consenta alla nostra moneta di restare in piedi, oppure si torna indietro alle monete nazionali ripristinando quella sovranità politica che gli attuali meccanismi europei oggettivamente non ci consentono». Inutile negarlo ancora: «La situazione oggi non è sostenibile. E questo deficit democratico è ovviamente alla base delle manifestazioni di dissenso che, in varie forme, stiamo osservando tutti in molti paesi della zona euro». Tutto ciò, detto da chi fino a ieri – con Enrico Letta – si dichiarava pronto a “morire per Maastricht”. E non è tutto, continua “Mainstream”: «Beppe Grillo, il cui movimento ha ormai abbandondato qualsiasi precauzione sulla polemica contro l’euro, ha dimostrato un anno e mezzo fa che le posizioni euroscettiche potevano incontrare un consenso di massa». Oggi, persino Renzi prova a forzare – almeno in modo dimostrativo – la rigidità dell’establishment europeo. «In queste fessure del muro di gomma del sostegno ad euro e Ue – conclude il blog – stanno passando tutti gli esponenti più rilevanti del ceto politico nazionale. E’ ormai finita l’era del “ce lo chiede l’Europa”. E’ iniziata la stagione del trasformismo neo-patriottico».Raffaele Fitto che organizza un seminario anti-euro con Savona, Rinaldi e Barra Caracciolo? «Non stupisce. In fin dei conti, a chiacchiere il partito di Berlusconi è sempre stato su posizioni variamente euroscettiche», annota il blog “Mainstream”. Stupisce di più, ma anche qui fino a un certo punto, il fatto che a posizioni timidamente anti-euro stiano approdando anche diversi esponenti della sinistra Pd. «Già conosciamo le posizioni di Stefano Fassina, e qualcuno ha anche parlato di un pronunciamento anti-euro di Gianni Cuperlo», ma la vera novità sarebbe rappresentata da quanto viene pubblicato dal sito “Idee Controluce”, «una specie di ripostiglio per nostalgie ex-Pci», da Togliatti a Bersani. Di recente, l’associazione ha pubblicato la seguente monografia: “A quali condizioni può sopravvivere l’euro?”. Un’ipotesi “da esorcizzare”, sostiene Vladimiro Giacché, pensando all’atteggiamento generale verso lo spettro dell’euro-catastrofe. Molto esplicito il saggio di Claudio Sardo, che esorta a rompere finalmente il “tabù” della Bce.
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L’intoccabile: scalare l’Italia in pochi anni, con l’aiuto di chi?
«Solo gli ingenui possono pensare che un boy scout di provincia, noto fra gli amici come “il Bomba” per la spiccata attitudine a spararle grosse, possa scalare il potere in un paese come l’Italia con una tale rapidità e facilità, e soprattutto da solo». A spiegarne la strepitosa arrampicata, scrive Marco Travaglio, non bastano le sue innegabili doti di coraggio, prontezza, velocità, abilità comunicativa e sintonia con la pancia del paese, dopo il faticoso ventennio berlusconiano. «Il self-made man è roba americana, non italiana. Il nostro italianissimo selfie mad man ha, dietro le spalle, robusti appoggi. La qual cosa non sarebbe affatto uno scandalo, se fosse tutto dichiarato e alla luce del sole. Purtroppo non lo è». Al “mistero” dell’ascesa di Renzi è dedicato “L’intoccabile”, l’ultimo libro-indagine di Davide Vecchi, reporter del “Fatto Quotidiano”. Punto di partenza: Matteo Renzi non è soltanto il più giovane presidente del Consiglio della storia d’Italia, davanti a Benito Mussolini. È anche il più osannato e soprattutto il più misterioso. «Nessuno sa davvero come il giovanotto di Rignano sull’Arno abbia costruito il suo sistema di relazioni e protezioni nell’attesa di metter fuori il periscopio e uscire allo scoperto».Dalla sua prima vera campagna elettorale, quella del 2003-2004 che lo portò alla presidenza della Provincia di Firenze, fino sulle poltrone di sindaco della sua città, poi segetario del Pd e infine di capo del governo. «Quando Matteo era sindaco di Firenze – scrive Travaglio su “Micromega” – l’amico Marco Carrai gli metteva gentilmente a disposizione, a titolo gratuito, un pied-à-terre in via degli Alfani, senza neppure fargli pagare l’affitto e in palese conflitto d’interessi, visti i numerosi incarichi pubblici che Carrai ricopre». Altra «affettuosa amicizia», quella col berlusconiano Denis Verdini, «che nessuno sa di preciso quando sia cominciata né perché». Il libro di Vecchi rievoca il fallimento di una società del padre, Tiziano Renzi, e l’inchiesta della Procura di Genova per bancarotta fraudolenta: «Salta fuori un groviglio di aziende che passano di mano in mano, fra soci effettivi e prestanome, e che soprattutto usano con disinvoltura contratti atipici di precariato e addirittura impiegano extracomunitari clandestini in nero, con strascichi di cause di lavoro che almeno in tre occasioni certificano violazioni dello Statuto dei lavoratori. Altro che articolo 18».Centrale, ovviamente, l’atipico rapporto con Berlusconi, ovvero «l’unico politico della “vecchia guardia” che il polemicissimo Renzi non attacca, non sfancula, non critica, non sfida, non contraria, non scontenta mai». Secondo Vecchi, il forte legame tra i due non è mediato da Verdini: «E’ diretto, profondo, antico e naturalmente misterioso», annota Travaglio. Nel libro, Vecchi risale allo zio di Renzi, Nicola Bovoli, fratello della madre di Matteo, che fu dirigente del gruppo Rizzoli e poi entrò in affari con Fininvest, «al punto da raccomandare il nipote prediletto per la famosa e fruttuosa (un bottino di 48 milioni di lire in cinque puntate) comparsata alla “Ruota della fortuna” nel 1994», condotto da Mike Bongiorno. «Poi, certo, arrivarono gli incontri ufficiali e ufficiosi: quello del 2005 fra il Caimano e il presidente della Provincia alla Prefettura di Firenze, con Verdini a fare da sensale. E quello del 2010, già con la fascia tricolore di sindaco, nella villa di Arcore: Matteo – scrive Travaglio – si credeva così furbo da riuscire a tenerlo segreto, ma a divulgarlo provvide l’entourage del Cavaliere, costringendolo a imbarazzate e imbarazzanti spiegazioni».Ora, Berlusconi e Renzi «si vedono di continuo e dappertutto: dal Nazareno a Palazzo Chigi, senza neppure nascondersi». Il Cavaliere «considera Matteo il suo unico erede: populista, bugiardo e gattopardesco», infatti «ne fiancheggia con entusiasmo e spudoratezza il governo (che peraltro completa la sua opera lasciata a metà)», compreso il sogno del “partito unico della nazione”. «Basta il fatto che lo Spregiudicato di Rignano abbia sdoganato il Pregiudicato di Arcore a spiegare tanta corrispondenza di amorosi sensi? O c’è qualcosa nel loro passato che dobbiamo ancora scoprire?». Una pista americana, per esempio: «Che ci faceva un uomo delle operazioni riservate Cia come Michael Ledeen al matrimonio di Carrai, in mezzo a banchieri, prelati, alti magistrati, imprenditori, nobiluomini, giornalisti, editori, top manager, finanzieri, faccendieri, oltre naturalmente a Matteo, premier e testimone dello sposo, impegnato proprio in quei giorni a dipingersi come vittima inerme e piagnucolante dei “poteri forti”?». Domanda fondamentale: «Oltre alla squadra di governo che tutti purtroppo vediamo, formata da ragazzotti e fanciulle tanto mediocri e ignoranti quanto pretenziosi e arroganti, ce n’è un’altra che dirige il traffico da dietro le quinte?».(Il libro: Davide Vecchi, “L’intoccabile. Matteo Renzi, la vera storia”, Chiarelettere, 188 pagine, euro 13,90).«Solo gli ingenui possono pensare che un boy scout di provincia, noto fra gli amici come “il Bomba” per la spiccata attitudine a spararle grosse, possa scalare il potere in un paese come l’Italia con una tale rapidità e facilità, e soprattutto da solo». A spiegarne la strepitosa arrampicata, scrive Marco Travaglio, non bastano le sue innegabili doti di coraggio, prontezza, velocità, abilità comunicativa e sintonia con la pancia del paese, dopo il faticoso ventennio berlusconiano. «Il self-made man è roba americana, non italiana. Il nostro italianissimo selfie mad man ha, dietro le spalle, robusti appoggi. La qual cosa non sarebbe affatto uno scandalo, se fosse tutto dichiarato e alla luce del sole. Purtroppo non lo è». Al “mistero” dell’ascesa di Renzi è dedicato “L’intoccabile”, l’ultimo libro-indagine di Davide Vecchi, reporter del “Fatto Quotidiano”. Punto di partenza: Matteo Renzi non è soltanto il più giovane presidente del Consiglio della storia d’Italia, davanti a Benito Mussolini. È anche il più osannato e soprattutto il più misterioso. «Nessuno sa davvero come il giovanotto di Rignano sull’Arno abbia costruito il suo sistema di relazioni e protezioni nell’attesa di metter fuori il periscopio e uscire allo scoperto».
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L’Ungheria sovrana disobbedisce all’Ue e fa crescere il Pil
«Noi non crediamo nell’Unione Europea, crediamo nell’Ungheria, e consideriamo l’Ue dal punto di vista secondo cui, se facciamo bene il nostro lavoro, allora quel qualcosa in cui crediamo, che si chiama Ungheria, avrà il suo tornaconto». Nelle parole del premier ungherese Viktor Orbán si può cogliere l’essenza di una diversa visione dell’Europa, immaginata come un insieme di Stati autonomi e indipendenti che traggono beneficio dalla loro reciproca collaborazione. Dopo aver sperimentato tra il 2002 e il 2010, durante il governo di socialisti e liberali, gli effetti delle fallimentari politiche europeiste di austerità e privatizzazione, come il dilagare della disoccupazione, emigrazione di massa, enorme perdita di potere d’acquisto, tagli a pensioni e tredicesima, tracollo del Pil e impennata del debito pubblico dal 55% all’82%, nel 2010 il popolo magiaro vota in maggioranza assoluta il partito conservatore “Fidesz” guidato da un Viktor Orbán completamente nuovo rispetto al precedente mandato 1998-2002, il quale, abbandonate le posizioni filo-occidentali e liberiste, strizza l’occhio a Putin e si riscopre un fervente sostenitore dell’intervento statale nell’economia.Il nuovo governo cerca in ogni modo di spezzare le catene, imposte dall’Europa della finanza internazionale e accettate dai precedenti governi, tentando di riportare sotto il controllo dello Stato tutti i settori strategici dell’economia. La nomina del keynesiano ministro dell’economia Gyorgy Matolcsy a governatore della banca nazionale ungherese provoca al governo innumerevoli critiche da parte della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e della Commissione Europea, la quale lo definisce «un rischio per i mercati», critica alla quale Orbán risponde: «Se è un rischio per i mercati allora per noi è il rischio minore». Oltretutto fa sì che la maggioranza del consiglio monetario della banca centrale sia nominata dal governo, in modo da poter effettuare politiche monetarie espansive, di sostegno alla spesa pubblica, mirate a convertire in fiorini ungheresi i prestiti contratti in valuta straniera e a finanziare a tasso zero istituti di credito impegnati a erogare finanziamenti a piccole e medie imprese ad un interesse inferiore al 2%.Nel campo della finanza pubblica rinazionalizza i fondi pensionistici privati per 10 miliardi di euro, butta fuori il Fmi saldando il debito di 2,2 miliardi di euro, tassa i profitti delle multinazionali energetiche, telefoniche, della distribuzione alimentare e i principali istituti bancari, multandone 35 stranieri per aver fatto ricadere sui correntisti l’onere della maggiore tassazione e dedicando il gettito di tali imposte alla riduzione delle bollette elettriche per privati ed enti pubblici. Nei settori industriali strategici, il governo ha istituito la commissione di controllo televisivo finalizzata a limitare le ingerenze straniere nella propaganda mediatica; ha annunciato che saranno rinazionalizzate le reti di distribuzione elettrica, idrica e verranno costituite la compagnia pubblica per l’energia pulita e l’ente nazionale per il trattamento rifiuti.Per aumentare l’indipendenza energetica della nazione, in totale contrasto con le filo-atlantiche direttive europee, Viktor Orbán stipula accordi commerciali con Putin. Ottiene un prestito di 11 miliardi di euro da Mosca, secondo il ministro Lazar ad un tasso molto più conveniente di quello offerto dai mercati, per dedicarlo alla costruzione e al rinnovamento delle pur discutibili centrali nucleari che, oltre a fornire commissioni per 3 miliardi ad imprese ungheresi ed entrate fiscali per 1 miliardo di euro, copriranno il 50% del fabbisogno energetico della nazione. Oltretutto, in data recente, il 23 settembre 2014 il leader di “Fidesz” ha concordato a Budapest, con il numero uno di Gazprom, Alexei Miller, il tracciato ungherese del gasdotto Southstream, progetto al quale anche la nostra Eni partecipa al 25%, destinato a portare in Europa 63 miliardi di metri cubi di gas l’anno, in risposta al “corridoio meridionale” voluto dalla Commissione Europea, per trasportare in europa il più caro gas statunitense dell’Azerbaijan attraverso Georgia, Turchia, Grecia, Albania.Anche le riforme in campo giudiziario sono state indirizzate a diminuire l’influenza dei potentati internazionali nel Csm ungherese. Ma il carattere nazionale della visione orbanista si esprime al meglio nella nuova Costituzione, totalmente basata sulla preservazione della cultura magiara, contro l’americanizzazione e la globalizzazione dei valori. Entrata in vigore il primo gennaio 2012, sancisce l’ufficialità della religione cattolica, il ruolo centrale della famiglia e la fondamentale importanza della tradizione e dell’etica nella vita quotidiana. Con l’adozione di queste politiche Orbán si è posto al centro del mirino della comunità internazionale occidentale; demonizzato mediaticamente, definito dittatore, autoritario, fascista e antisemita, risponde venendo rieletto democraticamente nel 2014 con il 44,57% dei consensi. Potendosi vantare di aver portato in Europa qualcosa di davvero molto raro, la ripresa dell’economia, con il calo della disoccupazione dall’11,8% al 7,6% e una crescita del Pil del 2,7% nell’ultimo trimestre del 2013 e del 3,7% nel primo trimestre 2014 Viktor Orbán ha mostrato al mondo intero che gli Stati nazionali contano ancora e sono molto più efficaci nel risolvere le crisi rispetto al divino liberismo di mercato.(Luca Pinasco, “Un modo diverso di strare in Europa”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 2 ottobre 2014).«Noi non crediamo nell’Unione Europea, crediamo nell’Ungheria, e consideriamo l’Ue dal punto di vista secondo cui, se facciamo bene il nostro lavoro, allora quel qualcosa in cui crediamo, che si chiama Ungheria, avrà il suo tornaconto». Nelle parole del premier ungherese Viktor Orbán si può cogliere l’essenza di una diversa visione dell’Europa, immaginata come un insieme di Stati autonomi e indipendenti che traggono beneficio dalla loro reciproca collaborazione. Dopo aver sperimentato tra il 2002 e il 2010, durante il governo di socialisti e liberali, gli effetti delle fallimentari politiche europeiste di austerità e privatizzazione, come il dilagare della disoccupazione, emigrazione di massa, enorme perdita di potere d’acquisto, tagli a pensioni e tredicesima, tracollo del Pil e impennata del debito pubblico dal 55% all’82%, nel 2010 il popolo magiaro vota in maggioranza assoluta il partito conservatore “Fidesz” guidato da un Viktor Orbán completamente nuovo rispetto al precedente mandato 1998-2002, il quale, abbandonate le posizioni filo-occidentali e liberiste, strizza l’occhio a Putin e si riscopre un fervente sostenitore dell’intervento statale nell’economia.
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Un tedesco (di destra) nuovo presidente della Romania
Una volta Berlino si “limitava” a imporre ai paesi della periferia europea uomini di provata fiducia. A colpi di lettere segrete della Bce, di picchi dello spread e di minacce neanche tanto velate, negli ultimi anni a guidare i governi e i parlamenti di vari paesi “non in linea” con i parametri dettati dalla Troika sono stati paracadutati dei veri e propri commissari eterodiretti o fortemente condizionati da Berlino. Basti citare Mario Monti ed Enrico Letta, solo per rimanere in patria. Poi, quando si trattava di destabilizzare il governo ucraino per imporne uno più fedele, la signora Merkel non si è limitata a foraggiare e sostenere politicamente e diplomaticamente un vasto arco di forze nazionaliste e di destra che poi avrebbero dato vita ad EuroMaidan e partecipato al golpe. La Cdu tedesca, tramite la Fondazione Adenauer, si è addirittura inventata un partito politico ucraino, Udar, affidando la sua creatura a un ex campione di pugilato che aveva il doppio pregio di condividere “i valori europei” e di avere anche la cittadinanza tedesca e la residenza in una splendida villa in Germania.Ma a vedere i risultati delle recenti elezioni presidenziali in Romania, non si può notare un nuovo salto di qualità nell’intervento dei poteri forti tedeschi nella gestione dell’Unione Europea in quanto polo attivo della competizione globale e dei singoli paesi della periferia.E così, incredibilmente, a vincere il ballottaggio di domenica che vedeva favorito l’esponente di centrosinistra Victor Ponta è stato invece “il tedesco” Klaus Iohannis. Tedesco per due motivi: in quanto esponente della minoranza tedesca che vive nei territori della Transilvania – e su questo nulla da ridire, anzi – ma soprattutto perché di fatto Iohannis è un pupillo di Frau Merkel e un ammiratore delle politiche di rigore e conservatrici della Cdu tedesca. Se prima a Berlino bastava controllare il telecomando, oggi pare proprio che la classe dirigente tedesca si stia adoperando per manovrare direttamente il guinzaglio. Un particolare, l’identità etnica e politica del nuovo presidente romeno, così eclatante che non è sfuggito neanche alla normalmente distratta stampa italiana.L’esponente della minoranza tedesca ha fatto della lotta alla corruzione e dell’apertura del paese agli investitori stranieri (che naturalmente richiedono stabilità, agevolazioni fiscali, basso costo del lavoro e zero conflittualità sindacale) i suoi cavalli di battaglia, sbaragliando al ballottaggio un Victor Ponta che al primo turno lo aveva battutto con ben dieci punti di differenza, 40% contro 30%. Il suo piglio prussiano e la denuncia delle inefficienze del governo socialdemocratico che stavano impedendo a molti emigrati romeni di poter votare all’estero ha mobilitato un gran numero di elettori in patria (l’affluenza è passata dal 53% del primo turno al 63,5% del ballottaggio) permettendogli di ribaltare il risultato della prima tornata delle presidenziali. Ora il fisico 55enne, sindaco di Sibiu e protestante (in un paese in cui il 90% degli abitanti è cristiano ortodosso) dovrà tentare di portare ordine in un paese economicamente allo sbando, governato da un premier socialdemocratico debole, uscito dalla inaspettata sconfitta delle presidenziali e oggetto di forti contestazioni politiche e sociali. Soprattutto, Iohannis dovrà tentare di riportare Bucarest sotto il pieno controllo della Germania e dell’Unione Europea, sottraendo il paese alle fortissime influenze degli Stati Uniti.(Marco Santopadre, “Un tedesco, di destra, presidente della Romania”, da “Contropiano” del 19 novembre 2014).Una volta Berlino si “limitava” a imporre ai paesi della periferia europea uomini di provata fiducia. A colpi di lettere segrete della Bce, di picchi dello spread e di minacce neanche tanto velate, negli ultimi anni a guidare i governi e i parlamenti di vari paesi “non in linea” con i parametri dettati dalla Troika sono stati paracadutati dei veri e propri commissari eterodiretti o fortemente condizionati da Berlino. Basti citare Mario Monti ed Enrico Letta, solo per rimanere in patria. Poi, quando si trattava di destabilizzare il governo ucraino per imporne uno più fedele, la signora Merkel non si è limitata a foraggiare e sostenere politicamente e diplomaticamente un vasto arco di forze nazionaliste e di destra che poi avrebbero dato vita ad EuroMaidan e partecipato al golpe. La Cdu tedesca, tramite la Fondazione Adenauer, si è addirittura inventata un partito politico ucraino, Udar, affidando la sua creatura a un ex campione di pugilato che aveva il doppio pregio di condividere “i valori europei” e di avere anche la cittadinanza tedesca e la residenza in una splendida villa in Germania.