Archivio del Tag ‘Egitto’
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Magaldi: ipocrita De Bortoli, bussò alla super-massoneria
«Ferruccio De Bortoli dimostra ancora una volta una grande ipocrisia: conosce benissimo i mondi massonici, sia quelli caserecci che quelli sovranazionali. Lui stesso, come Renzi, ha cercato più volte, senza riuscirci, di essere ammesso ai salotti massonici di alto profilo». Parola di Gioele Magaldi, gran maestro del Grande Oriente Democratico nonché presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), che rivela l’esistenza di 36 Ur-Lodges, superlogge internazionali, che funzionano da “back-office” del vero potere. «Sia chiaro, non è affatto un disonore cercare di essere accolti in quei circoli», premette Magaldi, intervistato da Gianluca Fabi ai microfoni di “Radio Cusano Campus”. Il problema, semmai è la mancanza di franchezza: nel suo libro “Poteri forti, o quasi”, l’ex direttore del “Corriere della Sera” e del “Sole 24 Ore” parla di massoneria e banche, da Mps a Banca Etruria, da cui la polemica su Maria Elena Boschi, che avrebbe interessato Unicredit per tentare di salvare la banca toscana di cui il padre era vicepresidente. «Giusto parlare di conflitto d’interessi quando si compie qualcosa di sbagliato, non quando si cerca di tutelare risparmiatori e posti di lavoro», taglia corto Magaldi, che rimprovera a De Bortoli di “fare le pulci” ai toscani senza però rivelare nulla sui suoi rapporti con la vera massoneria di potere, il mondo delle Ur-Lodges.Massoneria e banche? Mps, per esempio: «Tra massoni veri e presunti», dichiara Magaldi, «gli unici due che avrebbero dovuto essere ben vigilati sono due massoni di altissimo grado: Mario Draghi, all’epoca governatore di Bankitalia, e Anna Maria Tarantola», poi ministro del governo Monti, «allora a capo della vigilanza di Bankitalia, che non vigilò affatto sulle operazioni Antonveneta e Mps». Esponenti entrambi non della piccola massoneria nazionale, «provinciale», ma del vero circuito del grande potere, quello delle superlogge. La massoneria oggi chiamata in causa perché ne parla De Bortoli? «Qui entriamo nel paradosso, nella surrealtà», continua Magaldi, ricordando che a suo tempo il direttore del “Corriere” parlò di “odore stantio di massoneria” per descrivere i rapporti intorno a Renzi. Errore ottico: «Non era importante indagare tra i rapporti caserecci e di piccolo calibro del padre di Renzi in Toscana, ma andavano cercate altre aree: Renzi si muoveva a New York e bussava alle porte di ben altri templi». Lo stesso Magaldi ne parlò apertamente a “Linkiesta” già nel settembre 2014: «Nessuno ha notato la coincidenza tra la pubblicazione dell’editoriale di De Bortoli e la contemporanea presenza di Matteo Renzi alla sede newyorkese del Council on Foreign Relations».Il potente Cfr, “santuario” dell’élite atlantica, è definito «solidissimo sodalizio paramassonico istituito nel 1921, mentre nel 1920 era stato fondato il suo omologo britannico, il Royal Institute of International Affairs o Chatham House». Entrambe queste associazioni paramassoniche, rivela Magaldi, furono create su iniziativa della Ur-Lodge “Leviathan”, espressione dei circuiti supermassonici reazionari. Entrambe, sia il Cfr che il Riia, «continuano ad essere controllate e gestite da massoni, con la presenza ancillare e subalterna di paramassoni servizievoli, ossia di membri “profani” del jet-set politico, economico-finanziario, mediatico, diplomatico, militare e culturale internazionale, i quali ancora non hanno avuto un’iniziazione massonica presso il circuito elitario ed ambitissmo delle Ur-Lodges, ma aspirano ad averla». In gergo si chiamano “bussanti”: ruolo che, secondo Magaldi, accomuna Renzi e De Bortoli, entrambi lasciati – per ora – fuori dalla porta. Naturalmente De Bortoli non ne fa cenno, però torna a evocare il tema della massoneria “casereccia” anche in televisione, da Lilli Gruber, per poi essere richiamato alla franchezza da Massimo Cacciari, che gli risponde: ma vogliamo parlare allora dei reticolati massonici francesi e internazionali che hanno costruito in modo artificiale l’operazione Macron?Il neo-inquilino dell’Eliseo, che ha voluto celebrare la vittoria elettorale «ai piedi della piramide del Louvre fatta erigere dal massone Mitterrand», è senz’altro figlio di un’operazione massonica raffinata, conferma Magaldi: si tratta però di capire di quale segno sia, anche se la storia del suo mentore, il supermassone reazionario Jacques Attali, tra gli architetti dell’oligarchia Ue, si è finora mosso in una direzione non certo progressista. Che Macron sia massone, comunque, non è un segreto (né un problema) per nessuno, in Francia, dove la massoneria – dai tempi di Napoleone, che importò da Charleston il Rito Scozzese e dall’Egitto la simbologia delle piramidi – si confronta apertamente con la politica: «I candidati alle presidenziali vanno tranquillamente a fare audizioni nella sede del Grande Oriente di Francia, e una volta eletti – quando non sono massoni – tributano il loro omaggio ai vertici delle comunioni massoniche francesi, talvolta dichiarando di essersi consultati con loro anche per decisioni importanti dal punto di vista geopolitico, strategico, economico». Il tutto, alla luce del sole: «Negli Usa, nel Regno Unito e in altre democrazie occidentali, il discorso pubblico sulla massoneria è molto più sereno e pacato». Il problema, ribadisce Magaldi, è l’Italia: «Da noi c’è questo verminaio, perché l’opinione pubblica di massoneria non sa nulla, i giornalisti ancor meno, e gli intellettuali, gli editori, i direttori di giornali – che invece ne sanno – fanno finta di non sapere».«Ferruccio De Bortoli dimostra ancora una volta una grande ipocrisia: conosce benissimo i mondi massonici, sia quelli caserecci che quelli sovranazionali. Lui stesso, come Renzi, ha cercato più volte, senza riuscirci, di essere ammesso ai salotti massonici di alto profilo». Parola di Gioele Magaldi, gran maestro del Grande Oriente Democratico nonché presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), che rivela l’esistenza di 36 Ur-Lodges, superlogge internazionali, che funzionano da “back-office” del vero potere. «Sia chiaro, non è affatto un disonore cercare di essere accolti in quei circoli», premette Magaldi, intervistato da Gianluca Fabi ai microfoni di “Radio Cusano Campus”. Il problema, semmai è la mancanza di franchezza: nel suo libro “Poteri forti, o quasi”, l’ex direttore del “Corriere della Sera” e del “Sole 24 Ore” parla di massoneria e banche, da Mps a Banca Etruria, da cui la polemica su Maria Elena Boschi, che avrebbe interessato Unicredit per tentare di salvare la banca toscana di cui il padre era vicepresidente. «Giusto parlare di conflitto d’interessi quando si compie qualcosa di sbagliato, non quando si cerca di tutelare risparmiatori e posti di lavoro», taglia corto Magaldi, che rimprovera a De Bortoli di “fare le pulci” ai toscani senza però rivelare nulla sui suoi rapporti con la vera massoneria di potere, il mondo delle Ur-Lodges.
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La fine del mondo c’è già stata: lo dice la stele dell’Avvoltoio
Undicimila anni prima di Cristo uno sciame di comete colpì la Terra devastandola, modificando l’inclinazione dell’asse di rotazione del pianeta, provocando l’estinzione di molte specie come quella dei mammut e causando un’era glaciale che durò mille anni. Lo afferma un gruppo di ricercatori dell’università di Edimburgo, che ha trovato la narrazione di questo cataclisma nel più antico libro di storia esistente: i bassorilievi portati alla luce nel 1995 nel sito archeologico di Gobekli Tepe, nel Sud della Turchia. All’annuncio della scoperta, i sostenitori della teoria secondo la quale antiche civiltà avanzate sono state distrutte da eventi catastrofici hanno esultato, e sono pronti a scrivere nuovi libri di successo. Una stele in particolare, quella chiamata “dell’avvoltoio”, ha attratto l’attenzione degli scienziati di Edimburgo. Riproduce attraverso simbolismi animali una serie di costellazioni, indicandone la posizione nel cielo. Grazie all’aiuto di un computer, è stato possibile stabilire che le stelle si trovavano in quel punto esattamente nel 10.950 a.C., alla fine del Pleistocene. Altri bassorilievi riproducevano la caduta dello sciame di comete e un uomo senza testa indicava la perdita di molte vite umane.La stele è importante perché conferma eventi che già conoscevamo, come il periodo glaciale noto come Dryas Recente (dal nome di un fiore della tundra) e l’anomalia dell’iridio osservata in Nord America, risalente all’11-10.000 a.C.: l’iridio è poco presente nel suolo e quando in uno strato geologico se ne trova molto di più, vuol dire che un meteorite o una cometa lo hanno portato sulla Terra, come avvenne nell’estinzione dei dinosauri. Per il professor Martin Sweatman, direttore della ricerca pubblicata su “Mediterranean Archaeology”, «questa scoperta, insieme all’anomalia dell’iridio, chiude il caso in favore dell’impatto di una serie di comete». Gobekli Tepe è il tempio più antico dell’umanità e pare fosse dedicato all’osservazione delle comete e dei meteoriti. I bassorilievi che narrano la catastrofe dell’11.000 a.C. erano tenuti in grande considerazione e conservati con cura, come se fosse importante non perderne la memoria. Inspiegabilmente, in epoca preistorica, il sito venne abbandonato e completamente ricoperto di terra, perché nessuno lo potesse individuare.Archeologi e antropologi collocano nel Dryas Recente l’inizio della civiltà umana, con le prime coltivazioni e i primi villaggi del Neolitico. Ma per altri ricercatori, che il mondo accademico non tiene in alcuna considerazione, la caduta delle comete ha causato la fine di una civiltà che già esisteva sulla Terra e ha costretto gli esseri umani sopravvissuti a un nuovo e faticosissimo inizio. Graham Hancock, nato a Edimburgo, ha scritto molti libri su questo tema e nell’ultimo, “Maghi degli dei: la saggezza dimenticata delle civiltà perdute”, ha sostenuto proprio la tesi che intorno al 12.000 a.C. l’impatto di una cometa abbia posto fine a una società molto evoluta, che ha lasciato tracce di sé nella perfezione delle piramidi di Giza e in altri inspiegabili monumenti ciclopici sparsi per il pianeta. Se l’asse della Terra si è davvero spostato a causa di quella catastrofe, forse l’Antartide era all’epoca libera da ghiacci e nasconde segreti che non tarderemo a scoprire, vista la progressione del riscaldamento globale.Hancock ha visitato il sito di Gobekli Tepe, giudicandolo uno dei grandi misteri dell’antichità. Se uno sciame di comete era in arrivo sulla Terra, gli astronomi del tempio le hanno sicuramente individuate in anticipo e forse quelle scie luminose arrivate nel Sistema solare interno sono state una presenza costante nel cielo per molti anni prima del loro devastante impatto. Forse da allora ci è stata tramandata la convinzione che tutte le comete (ma per lo meno bisogna salvare quella di Natale) portino sfortuna e siano messaggere di lutti e devastazioni. La teoria che grandi civiltà del passato siano state distrutte da eventi catastrofici è suggestiva e spiegherebbe le grandi costruzioni le cui rovine sono state trovate sui fondali dell’Oceano, dove Platone collocava Atlantide, così come la “piramide” sommersa che si trova vicino all’isola di Yonaguni, in Giappone. Ma c’è da sperare che i cultori delle civiltà perdute non abbiano ragione: gli sciami di comete sono infatti periodici e secondo Hancock quello descritto nella stele di Gobekli Tape potrebbe tornare nell’arco di qualche decennio. Meglio che l’autorevole e più rassicurante mondo accademico si affretti a rimettere ogni pietra, e ogni data, al suo posto.(Vittorio Sabadin, “La fine del mondo c’è gia stata: lo svela la stele dell’Avvoltoio”, da “La Stampa” del 24 aprile 2017).Undicimila anni prima di Cristo uno sciame di comete colpì la Terra devastandola, modificando l’inclinazione dell’asse di rotazione del pianeta, provocando l’estinzione di molte specie come quella dei mammut e causando un’era glaciale che durò mille anni. Lo afferma un gruppo di ricercatori dell’università di Edimburgo, che ha trovato la narrazione di questo cataclisma nel più antico libro di storia esistente: i bassorilievi portati alla luce nel 1995 nel sito archeologico di Gobekli Tepe, nel Sud della Turchia. All’annuncio della scoperta, i sostenitori della teoria secondo la quale antiche civiltà avanzate sono state distrutte da eventi catastrofici hanno esultato, e sono pronti a scrivere nuovi libri di successo. Una stele in particolare, quella chiamata “dell’avvoltoio”, ha attratto l’attenzione degli scienziati di Edimburgo. Riproduce attraverso simbolismi animali una serie di costellazioni, indicandone la posizione nel cielo. Grazie all’aiuto di un computer, è stato possibile stabilire che le stelle si trovavano in quel punto esattamente nel 10.950 a.C., alla fine del Pleistocene. Altri bassorilievi riproducevano la caduta dello sciame di comete e un uomo senza testa indicava la perdita di molte vite umane.
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Buoni e Cattivi, la fiaba della guerra per il Fatto Quotidiano
«Uno spettro si aggira in Medio Oriente. E’ quello della tentazione. La tentazione, cioè, della guerra. Non più “prove di Terza Guerra Mondiale”, come è stato detto. Lo scenario è drammatico, i primi a capirlo sono i mercati finanziari che infatti hanno cominciato a soffrire». A scrivere è Leonardo Coen, sul “Fatto Quotidiano”, all’indomani del raid missilistico ordinato da Trump sulla base area siriana da cui, secondo gli Usa, sarebbero decollati aerei con bombe al gas Sarin destinate a far strage della popolazione di Idlib. Non ci sono ancora prove certe: per il “Fatto Quotidiano” non è importante? Poi, continua Coen, «ad inquietare e ricordare come certe situazioni di oggi assomiglino molto all’inanità del 1938 verso Hitler e alle sue mire d’espansione, c’è il silenzio di Cina ed Europa, che sembrano convitati di pietra». Suggestivo parallelismo: il giornalista del “Fatto” paragona nientemeno che Adolf Hitler, fondatore del nazismo e capo dell’allora maggior potenza militare europea, al presidente di un piccolo paese mediorientale come la Siria, che – come è a tutti noto (tranne che al “Fatto Quotidiano”?) – da cinque anni tenta di sopravvivere all’assalto di sanguinarie milizie terroriste finanziate e protette dall’Occidente.Cina ed Europa, i “convitati di pietra”, secondo Coen «si accontentano di formali condanne appellandosi ai diritti umani». Mosca e Washington? «Per ora si confrontano, ma ancora non si affrontano. Non possono. E’ un braccio di ferro troppo rischioso. E forse, sia per gli Stati Uniti, sia per la Russia, è venuto il tempo di liquidare il dittatore di Damasco e il suo regime criminale». Voilà: il presidente (eletto) diventa “dittatore”, naturalmente a capo di un “regime criminale”: nulla a che vedere con gli altri regimi, amici dell’Occidente, notoriamente campioni in tema di diritti umani: Giordania, Arabia Saudita, Qatar, Turchia e via inorridendo. Ma forse non è il caso di ricordarlo ai lettori del “Fatto”. Meglio il perfido Bashar Assad, che «per la Russia, è un alleato che la scredita e la impiomba». E per l’America, è «l’occasione buona per ricollocarsi in Medio Oriente, e dimostrare che non si è abbassata la guardia». Ricollocarsi in Medio Oriente? Viene da chiedersi dove fosse, Leonardo Coen, quando si scatenavano le “rivoluzioni colorate” in tutti i paesi arabi dopo lo storico discorso di Obama al Cairo. Dov’era, Coen, quando gli americani spianavano la Libia e facevano scannare Gheddafi? Non l’hanno vista, alla redazione del “Fatto”, la foto-ricordo di John McCain in Siria, in intimità con il “califfo” Al-Baghdadi?La narrazione che il “Fatto” offre in questo caso sembra di tipo lunare, genere fantasy. «Così, Trump minaccia. E agisce. Putin minaccia, ma non può agire. Entrambi, giocano una mano di poker: per capire chi bluffa di più. Il magnate americano rischia il salto nel buio. Putin sventola il pericolo del suo “ombrello” militare in Siria. La flotta del Mar Nero è in preallarme. Quella del Baltico, pure. I missili di Kaliningrad, l’enclave russa tra Polonia e Lituania – cioè in piena Unione Europea – sono puntati sulle capitali del Vecchio Continente. L’Alleanza Atlantica è già in allerta». E’ tutto vero, naturalmente. Ma è come spiegare la pioggia senza citare le nuvole. Primo round: nel 2013 gli Usa cercano di far cadere Assad per poter poi minacciare direttamente l’Iran, ma Putin glielo impedisce schierando la flotta russa a difesa della Siria. Secondo round: Washington “risponde” organizzando il golpe in Ucraina con l’intento di sfrattare Mosca dal Mar Nero, ma – di nuovo – Putin riesce a tenersi la Crimea. Terzo round: furioso per le sconfitte a catena, Obama dispone un mostruoso dispiegamento militare in Est Europa a ridosso della frontiera russa, senza precedenti nella storia recente. Al che, ai russi non resta – come contromossa difensiva – che la base missilistica di Kalilingrad. Missili russi puntati sull’Europa? Mai quanto quelli che l’America ha puntato contro la Russia, trasformando la Romania in una rampa di lancio. Possibile che ai lettori del “Fatto” non interessi?«In verità», continua Coen, «Trump ha riscoperto – o meglio, il Pentagono – il ruolo di gendarme globale degli Stati Uniti». Trump, il Pentagono: i Buoni. E Putin, il Cattivo? «E’ rimasto platealmente vittima delle sue ambizioni imperiali», scrive Coen, come se, evidentemente, le uniche “ambizioni imperiali” ammissibili – e davvero imperiali, lontane mille miglia dalle proprie frontiere – fossero quelle americane. Il presidente russo è rimasto addirittura «invischiato nelle complesse trame che ha tessuto per riassegnare al suo paese il ruolo di superpotenza perduto dopo la caduta del Muro di Berlino e lo sbriciolamento dell’Unione Sovietica». Non si premura di rammentare ai suoi lettori, il giornalista del “Fatto”, che – prima di mettere il naso fuori dalla Russia – Putin ha dovuto innanzitutto spegnere l’incendio della Cecenia, acceso dalla Cia, e poi quello dell’Ossezia del Sud, devastata dalla Georgia su mandato di George W. Bush. Due focolai micidiali: uno nella Federazione Russa, l’altro sulla porta di casa. Succedeva nel 2008: non così tanto tempo fa, specie se si hanno a cuore le fatali vicende del lontano 1938.“Il Fatto”, però, non è prodigo di spiegazioni. Sembra preferire il racconto lineare, unilaterale e semplificato, rassicurante. «In apparenza, dunque, l’imprevedibile Donald ha cambiato di colpo tattica nei confronti dell’amico Vladimir. E ha ritirato la mano tesa, che tanto aveva turbato i sonni dei patrioti Usa». I missili di Trump, continua Coen, «hanno sparigliato le carte della grande partita internazionale: il mondo si è diviso in due, come ai tempi della Guerra Fredda. “Sostegno totale” degli alleati degli Stati Uniti. Condanna dei suoi avversari. Le cancellerie hanno rispolverato il lessico dei blocchi contrapposti». Leonardo Coen sembra pefettamente al corrente dell’accaduto: «Assad, insistono i russi, è innocente (per forza: sono loro che l’armano e lo proteggono). I gas, una balla. I russi negano l’evidenza e le testimonianze: tutto il mondo ha visto gli effetti del gas. E questo li ha moralmente isolati». Ecco, infatti: tutto il mondo ha visto gli effetti dei gas, ma nessuno al mondo, per ora, può provare che li abbia sganciati Assad. Solo che, a quanto pare, l’identità del vero killer non è importante. Nemmeno se, come già accadde nel 2013, poi si scoprisse che l’assassino non è “il dittatore”, ma i suoi avversari?«Certo – concede Coen – la politica e la guerra se ne fregano dell’etica e della morale. Ma al tempo dell’informazione istantanea e globale, la menzogna tanto può essere utile – vedi in caso di elezioni – quanto può diventare micidiale, con le immagini cruente ed atroci dei bimbi sarinizzati». Vero, anche questo: tutto dipende però da chi la impugna, “la menzogna”. Quanto al «nuovo repentino cambio d’atteggiamento di Trump», anche su questo Leonardo Coen ha le idee chiarissime: il presidente americano «ha dovuto arrendersi allo stato delle cose: gli interessi geopolitici Usa non collimano con quelli russi». Perlomeno, «non fin quando al Cremlino ci sarà il clan putiniano, nemico della libertà d’opinione, e il potere resterà saldo in mano agli ex uomini del Kgb». E così l’album dei Cattivi è al completo. E se i russi – quasi 150 milioni di persone – sostengono all’85% un capoclan del Kgb, significa semplicemente che sono cretini? Centocinquanta milioni di cretini?Ma non è tutto: Coen informa i suoi lettori che «Trump ha cozzato contro il mondo reale: quello dei fatti, non delle verità truccate dal suo guru Stephen Bannon, ed ex direttore del sito dell’ultradestra suprematista Breitbart News, messo (finalmente) in un angolo». Bannon, altro membro d’onore del club dei Cattivi, era – per inciso – lo stratega della distensione con Mosca: via lui, infatti, ecco i missili (buoni, ovviamente). Ma, “sistemato” Bannon, l’offensiva (giornalistica) nei confronti di Putin non è ancora esaurita: «Pensava di essere il più astuto del reame, di poter contare per quel che riguardava la Siria di una certa libertà di manovra, forte anche del fatto che in Occidente c’erano movimenti estremisti anti-Ue a lui favorevoli. Invece – scrive Coen – è rimasto intrappolato dalla sua sicumera». Ben gli sta: «I gas che hanno ammazzato decine di bimbi a Khan Sheikhoun hanno dissipato in pochi minuti il paziente lavorìo militare e diplomatico del presidente russo». Non solo: «Persino il nuovo alleato turco Erdogan lo ha clamorosamente contraddetto, invocando addirittura la collera di Allah per l’ignobile azione attribuita ad Assad, o a qualche suo generale, il che non cambia la sostanza». Erdogan, cioè la Turchia (Nato) che ha protetto l’Isis nell’invasione della Siria: nemmeno questo ai lettori interessa?In più, Coen esibisce altre granitiche certezze sul bombardamento con i gas: «Gli americani avevano acquisito le prove – stavolta non inventate da Bush e Blair come al tempo della guerra in Iraq ma documentate dai satelliti – che l’attacco chimico proveniva da un aereo siriano». Le prove, ecco: ma dove sono? Ok, le hanno “acquisite gli americani”. Come le altre volte, in Siria e in Iraq? No, stavolta sono prove vere, “documentate dai satelliti”. Garantisce il “Fatto Quotidiano”. Che si diverte, ancora, a spese di Putin: mentre i Buoni “acquisivano le prove”, dunque, «lo zar si affannava a dire che si trattava di “fake news”, di balle». Chiosa Coen: «Beffardo contrappasso, l’ex tenente colonnello del Kgb che denuncia la disinformatija americana…». E ancora: «Assad è il responsabile di tutto ciò». Chi lo sostiene? Lo dicono «all’unisono» Hollande e la Merkel. Una garanzia: Hollande ha silenziato le indagini su Charlie Hebdo imponendo il segreto militare, dopo che erano emersi collegamenti tra il commando dell’Isis e i servizi francesi, mentre la Merkel, risultata coinvolta nel golpe neonazista di Kiev, ha approvato il piano Obama per militarizzare le frontiere europee con la Russia.«I missili Usa – scrive ancora Coen – sono “un avvertimento”, e pure una forma di “condanna” del “regime criminale” di Assad». La situazione: «Con Washington stanno Arabia Saudita e Giappone, Israele offre il suo “totale” sostegno, sperando che “questo messaggio forte” possa essere inteso da Teheran e da Pyongyang, ha dichiarato il premier Benyamin Netanyahu», campione del mondo in carica riguardo all’uso di armi di distruzione di massa sulla popolazione civile, il fosforo bianco sganciato su Gaza (oltre 1.300 morti, secondo l’Onu, inclusi donne e bambini). E la Turchia, cioè la base logistica settentrionale dell’operazione-Isis contro Damasco? «Ankara vorrebbe una zona “d’esclusione aerea” in Siria, considera che i missili siano stati una buona medicina». Meglio tornare al lessico calcistico: «Il Pentagono ha battuto il Cremlino? La “punizione” americana per la strage provocata dall’attacco chimico che ha un valore soprattutto dimostrativo, trova consenso nella pubblica opinione statunitense e anche in quella mondiale, scossa dall’atrocità del tiranno di Damasco. Assad si è scavato la fossa». Vinceranno i Buoni, è ovvio. E buonanotte, a tutti i lettori. Sogni d’oro.«Uno spettro si aggira in Medio Oriente. E’ quello della tentazione. La tentazione, cioè, della guerra. Non più “prove di Terza Guerra Mondiale”, come è stato detto. Lo scenario è drammatico, i primi a capirlo sono i mercati finanziari che infatti hanno cominciato a soffrire». A scrivere è Leonardo Coen, sul “Fatto Quotidiano”, all’indomani del raid missilistico ordinato da Trump sulla base area siriana da cui, secondo gli Usa, sarebbero decollati aerei con bombe al gas Sarin destinate a far strage della popolazione di Idlib. Non ci sono ancora prove certe: per il “Fatto Quotidiano” non è importante? Poi, continua Coen, «ad inquietare e ricordare come certe situazioni di oggi assomiglino molto all’inanità del 1938 verso Hitler e alle sue mire d’espansione, c’è il silenzio di Cina ed Europa, che sembrano convitati di pietra». Suggestivo parallelismo: il giornalista del “Fatto” paragona nientemeno che Adolf Hitler, fondatore del nazismo e capo dell’allora maggior potenza militare europea, al presidente di un piccolo paese mediorientale come la Siria, che – come è a tutti noto (tranne che al “Fatto Quotidiano”?) – da cinque anni tenta di sopravvivere all’assalto di sanguinarie milizie terroriste finanziate e protette dall’Occidente.
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Nuovo disordine mondiale: morti gli Stati, c’è solo il denaro
L’attuale situazione internazionale desta in molti preoccupazione e sorpresa: non esiste un ordine mondiale, stiamo scivolando verso l’anarchia internazionale e questo fa temere l’approssimarsi di nuove guerre, sino all’esplosione di un nuovo grande conflitto mondiale. Passi per la preoccupazione: in effetti c’è un allargamento delle aree di scontro con archi di crisi di migliaia di chilometri, dalla Libia all’Afghanistan, dalla Siria all’Ucraina e forse l’Estonia, dalla Corea alle isole Senkaku-Diaoyu che potrebbe allungarsi sino alle Paracel; per non dire dell’iperterrorismo. In effetti il timore di una escalation che porti ad un conflitto generalizzato è plausibile. Quello che, invece, è strano è la sorpresa della quale ci sorprendiamo. L’ordine mondiale è sempre stato pensato come equilibrio fra Stati; ma, con l’avvento della globalizzazione neoliberista, ci è stato spiegato che gli Stati nazionali erano solo una reliquia del passato destinata a rapida scomparsa; comunque, dovevano astenersi da qualsivoglia politica economica, che non fosse nell’ambito della più stretta ortodossia mercatista. Nello stesso tempo è iniziata una frenetica delocalizzazione di gran parte della manifattura dai paesi occidentali a quelli di Asia, Africa ed America Latina, che ha modificato fortemente il Pil di quei paesi consentendo loro una spesa militare senza precedenti. E tutto questo ha provocato un marcato riallineamento dei rapporti di forza fra i diversi paesi.Quanto alle sconclusionate avventure degli Usa nei paesi mediorientali e della loro misera conclusione non è neppure il caso di dire. E, date queste premesse, perché mai sarebbe dovuta andare diversamente? E’ andata come era logico che andasse. L’idea che la globalizzazione sarebbe stata un’epoca di stabile “ordine mondiale”, nonostante il deperimento degli Stati nazionali, si basava essenzialmente sulla convinzione che di Stato ne bastasse uno, quello Usa, di cui tutti gli altri sarebbero stati solo pallide agenzie locali. Molto successo ebbe chi (Negri) parlava di un mitico Impero acefalo, di cui gli Usa erano solo il principale braccio esecutivo, non si capisce al servizio di quale cervello, una sorta di Impero-processo che superava definitivamente l’ordine westfalico verso non si sa bene cosa. E c’era anche chi (Huntington) parlava, con maggiore realismo, di un ordine mondiale fondato su sette o otto modelli di civiltà, raccolti intorno ad una nazione guida, ma pur sempre basato sull’egemonia occidentale, se non proprio americana e basta. Ma le cose non sono andate in questo senso, e la realtà si è dimostrata molto più fantasiosa dei progettisti del nuovo ordine mondiale.L’esperienza storica dimostra che, quando emerge un credibile disegno egemonico, si forma una coalizione dei soggetti più deboli (o comunque di quanti se ne sentono aggrediti) contro di esso e, non di rado, la coalizione vince. Waterloo, Stalingrado, Verdun, stanno lì a dimostrarlo. E’ accaduto anche questa volta, prima con la Comunità di Shanghai, a guardia dello spazio strategico cino-russo, e poi con la formazione del Bric, che alleava una ex grande potenza in via di ripresa (la Russia) con tre emergenti (Cina, India, Brasile), e cui, poco dopo, si aggiungeva il Sud Africa. Nasceva così l’embrione di un incerto ordine mondiale basato su una sola grande potenza ed un certo numero di grandi potenze regionali. La prima era l’unica in grado di intervenire in ogni angolo del pianeta, grazie alle sue 745 basi militari, alle sue 7 flotte e al predominio satellitare, ma le altre in grado di difendere militarmente il proprio spazio strategico. Per di più la globalizzazione moltiplicava i piani di scontro rendendoli insieme interdipendenti (economia, finanza, guerra cognitiva, soft power, guerra coperta, iperterrorismo) e la stessa dimensione spaziale acquisiva tre nuove sfere (sottosuolo marino, cyber-spazio e spazio satellitare) per cui la difesa del predominio assoluto, in ogni dimensione e su ciascun piano di scontro, comporta costi proibitivi, e questo rende sempre più imperfetto quel predominio unilaterale che sembrava destinato a durare a lungo nel tempo.Negli interstizi di questo ordine ineguale, si inserivano man mano nuovi attori di minore peso (Indonesia, Messico, Turchia, Egitto, Arabia Saudita, Argentina, Venezuela, Vietnam, Pakistan, le due Coree, eccetera), ma che iniziavano a giocare in autonomia una propria partita nella sfera di appartenenza. Nello stesso tempo, i pilastri delle alleanze occidentali iniziavano a indebolirsi, mostrando vistose crepe: l’Unione Europea, priva di un progetto strategico di sé, iniziava a naufragare con il riemergere dei protagonismi nazionali, la Nato andava perdendo senso, sotto i colpi dell’unilateralismo americano voluto da Bush e poi solo parzialmente smentito da Obama, nel Fmi iniziava a sentirsi la pressione dei nuovi soggetti (Cina in testa) e fra Usa ed Europa iniziavano a manifestarsi i sintomi di una guerra commerciale e monetaria. E il mondo ha iniziato a dividersi in tre aree, così come lo descrive la copertina del libro di Di Nolfo: quella verde del blocco occidentale (Usa, Ue, Australia, Giappone), quella gialla dell’area Bric (India, Russia, Cina, Brasile, cui aggiungeremmo il Sud Africa e i paesi intermedi fra Russia e Cina) e quella viola, che definiremmo “della turbolenza”, che include l’America Latina ispanofona, l’Africa, i paesi islamici e singole aree asiatiche come il Vietnam. Il tutto in un equilibrio precario pronto a far pendere un piatto della bilancia o l’altro.Inizialmente la sfida degli emergenti venne taciuta o avanzata con grande timidezza, tanto che, ancora nel 2012, Kupchan poteva illudersi che il predominio americano, vuoi per i rapporti di forza militari, vuoi per quelli finanziari, non era destinato ad affievolirsi, per cui l’odine mondiale sarebbe rimasto lo stesso ancora per un tempo indefinito, e che eventuali sfidanti potevano al massimo sperare ciascuno di ottenere un rapporto preferenziale con gli Usa. Ma le cose non sono andate in questo modo e la presidenza Trump è solo una brusca accelerazione su una traiettoria precedente, che vede gli Usa come unica superpotenza, ma assediata dai suoi sfidanti e con un rapporto di forse sempre meno favorevole. Contrariamente a quello che la teoria delle relazioni internazionali ha sempre sostenuto, non sempre il peggior pericolo di guerra viene dall’anarchia internazionale; qualche volta è proprio l’ordine a generare il massimo disordine.(Aldo Giannuli, “Elogio del nuovo disordine mondiale”, dal blog di Giannuli del 30 marzo 2017; il post sintetizza un intervento di Giannuli su “Limes”).L’attuale situazione internazionale desta in molti preoccupazione e sorpresa: non esiste un ordine mondiale, stiamo scivolando verso l’anarchia internazionale e questo fa temere l’approssimarsi di nuove guerre, sino all’esplosione di un nuovo grande conflitto mondiale. Passi per la preoccupazione: in effetti c’è un allargamento delle aree di scontro con archi di crisi di migliaia di chilometri, dalla Libia all’Afghanistan, dalla Siria all’Ucraina e forse l’Estonia, dalla Corea alle isole Senkaku-Diaoyu che potrebbe allungarsi sino alle Paracel; per non dire dell’iperterrorismo. In effetti il timore di una escalation che porti ad un conflitto generalizzato è plausibile. Quello che, invece, è strano è la sorpresa della quale ci sorprendiamo. L’ordine mondiale è sempre stato pensato come equilibrio fra Stati; ma, con l’avvento della globalizzazione neoliberista, ci è stato spiegato che gli Stati nazionali erano solo una reliquia del passato destinata a rapida scomparsa; comunque, dovevano astenersi da qualsivoglia politica economica, che non fosse nell’ambito della più stretta ortodossia mercatista. Nello stesso tempo è iniziata una frenetica delocalizzazione di gran parte della manifattura dai paesi occidentali a quelli di Asia, Africa ed America Latina, che ha modificato fortemente il Pil di quei paesi consentendo loro una spesa militare senza precedenti. E tutto questo ha provocato un marcato riallineamento dei rapporti di forza fra i diversi paesi.
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L’impero del terrore fatto in casa, il lungo sonno della verità
Un vecchio gioco sporco, sempre uguale. Guerra, o surrogati: crisi, esodi, dittature amiche, terrorismo. Cambia l’identità delle vittime – ieri militari, oggi civili – nonché la scala di grandezza dei danni collaterali, la quantità di morte e di paura, una capitale europea militarizzata o città come Gaza, come Fallujah, rase al suolo insieme ai loro abitanti, donne e bambini, bruciati vivi con il fosforo bianco. L’importante, poi, è dimenticare tutto. Alla fine, la colpa deve ricadere sul terrorista, ormai esclusivamente islamico, “radicalizzato”, immancabilmente sfuggito all’occhiuta sorveglianza della Cia, dell’Fbi, del Mossad, dell’Mi6 inglese, della Dgse francese. Il mostro è l’ex delinquente “coltivato” perché ricattabile, o addirittura spedito al fronte, armi in pugno. Non importa se poi si impone il segreto militare (Charlie Hebdo) bloccando le indagini dopo la scoperta del legame tra il commando, l’armaiolo e i servizi segreti. Non importa se salta in aria un ambasciatore americano (Bengasi) insieme alle ombre imbarazzanti sul trasferimento in Siria di guerriglieri e armi chimiche, all’epoca in cui gli ordini partivano da Hillary Clinton, che poi cancellò migliaia di email. Non importa, ai media mainstream, ricordare quello che è appenna successo: il pubblico, semplicemente, non deve ricordare, non deve fare collegamenti.Non deve ricordare, il pubblico, che l’abominevole Isis nasce nell’Iraq spianato dalle bombe e interamente controllato dagli Usa. Non si deve ricordare che il fantomatico “califfo” Al-Baghdadi venne stranamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione di Camp Bucca, per ordini superiori, tra lo sconcerto dei carcerieri. Né si devono riproporre le foto che, qualche anno dopo, lo ritraggono in Siria in compagnia del senatore John McCain, inviato speciale di Obama per sostenere la “resistenza democratica” contro il brutale regime di Assad, resistenza affidata ai “moderati” tagliagole libici, sauditi, giordani, iracheni e anche caucasici, ceceni, cioè quasi mai siriani, tutti terroristi di professione, fraternamente accuditi, armati e protetti dalla Nato, attraverso la Turchia e Israele, nonché le petro-dittature del Golfo. No, il pubblico non deve ricordare chi ha fabbricato l’Isis, come e quando, sulla base di quali macerie, con quali soldi, con quale logistica, con quali armamenti, dopo quali rivoluzioni colorate.Il pubblico occidentale deve solo tremare di paura davanti al fantasma del commando kamikaze con passaporto al seguito da lasciare in bella vista, deve tremare davanti al pericolo incombente del lupo solitario che colpisce con il Tir, il camion, il Suv, per poi essere immediatamente ucciso e quindi messo a tacere, in attesa del killer seguente, già in agguato, pronto a colpire ancora, alla cieca, la folla inerme – mai un obiettivo “nemico”, solo e sempre la folla inerme, cioè noi. La cattiva notizia, tra le tante, è che il mondo ormai «è in mano a cinquanta pazzi, che continuano a giocare col fuoco, fabbricando nemici di comodo telecomandati, senza più capire che il gioco si va facendo pericoloso, fuori controllo, perché gli altri – tutti gli altri, a cominciare da Russia e Cina – non consentiranno più che il gioco duri all’infinito, sulla nostra pelle». Lo ha ripetuto Giulietto Chiesa a Londra, in un dibattito con Gioele Magaldi sulla natura eversiva del potere oligarchico che domina in pianeta ormai da decenni, spingendo sette miliardi di persone in un vicolo cieco – militare, energetico, economico, finanziario, ecologico, climatico.Uno scenario che è tragicamente sotto gli occhi di chi vuol vederlo: dove non cadono bombe, piovono i missili di una crisi senza fine, la finanza impazzita e l’economia in pezzi, l’Europa devastata dall’euro e presa d’assalto da milioni di disperati, sotto la regia di un pugno di banchieri e multinazionali. Mentre Magaldi scommette su una riscossa democratica dell’Occidente fondata sulla riconquista della sovranità impugnando le armi del socialismo liberale roosveltiano, Chiesa fa un’altra proposta, preliminare: costruire un think-tank internazionale, un trust di cervelli, che metta insieme le migliori menti del mondo, non solo americane ed europee ma anche russe, cinesi, indiane, africane, per avere una fotografia diversa da quella, unilaterale e integralmente falsa, proposta dal mainstream occidentale. Una lettura diversa della crisi, un’ottica multipolare, come unica possibilità per poi trovare, domani, soluzioni praticabili, lontano dalla “guerra infinita” che Giulietto Chiesa vide arrivare all’indomani del «colpo di Stato mondiale chiamato 11 Settembre».Uno spartiacque fatale, quello dell’attacco alle Torri: da allora, l’élite neocon ha imboccato la via della strategia della tensione, senza più abbandonarla. Iraq, Afghanistan, Yemen e Sudan, Somalia, Georgia, Egitto, Libia, Siria. Una strategia sanguinosa, stragista, preparata dalle “fake news” di regime: le bugie sulle Torri Gemelle, le favole sulle armi di distruzione di Saddam, le stragi inesistenti attribuite a Gheddafi, l’attacco coi gas attribuito ad Assad. Una strategia feroce, fondata sulla grande menzogna del terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, da Al-Qaeda all’Isis, per innescare campagne militari destinate a mettere le mani sull’intero pianeta, abrogando diritti in Occidente e scatenando una guerra dopo l’altra nel resto del mondo. Ora siamo all’epilogo evocato dal Pnac, il piano per il Nuovo Secolo Americano, che prima ancora del Duemila annunciò che nel 2017 il nemico strategico degli Usa sarebbe stata la Cina. Quando cadde il Muro di Berlino, Gorbaciov sognava ad occhi aperti un mondo diverso, finalmente pacificato. Oggi siamo all’autismo del terrore fabbricato in casa, da un’élite che occulta le notizie e fa spiare miliardi di persone tramite Google, Facebook e le app dello smartphone. Un’oligarchia globale decisa a tutto, pronta a investire ormai solo sull’arma più antica, quella della paura, che nasce dalla manipolazione delle notizie, dal sonno della verità.Un vecchio gioco sporco, sempre uguale. Guerra, o surrogati: crisi, esodi, dittature amiche, terrorismo. Cambia l’identità delle vittime – ieri militari, oggi civili – nonché la scala di grandezza dei danni collaterali, la quantità di morte e di paura, una capitale europea militarizzata o città come Gaza, come Fallujah, rase al suolo insieme ai loro abitanti, donne e bambini, bruciati vivi con il fosforo bianco. L’importante, poi, è dimenticare tutto. Alla fine, la colpa deve ricadere sul terrorista, ormai esclusivamente islamico, “radicalizzato”, immancabilmente sfuggito all’occhiuta sorveglianza della Cia, dell’Fbi, del Mossad, dell’Mi6 inglese, della Dgse francese. Il mostro è l’ex delinquente “coltivato” perché ricattabile, o addirittura spedito al fronte, armi in pugno. Non importa se poi si impone il segreto militare (Charlie Hebdo) bloccando le indagini dopo la scoperta del legame tra il commando, l’armaiolo e i servizi segreti. Non importa se salta in aria un ambasciatore americano (Bengasi) insieme alle ombre imbarazzanti sul trasferimento in Siria di guerriglieri e armi chimiche, all’epoca in cui gli ordini partivano da Hillary Clinton, che poi cancellò migliaia di email. Non importa, ai media mainstream, ricordare quello che è appenna successo: il pubblico, semplicemente, non deve ricordare, non deve fare collegamenti.
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Eurocrati a Roma, Isis a Londra: tutto in famiglia
Un attentato proprio a Londra, in pieno calendario Brexit, alla vigilia del summit romano per celebrare l’Ue, da cui la Gran Bretagna sta scappando. «La gente in Occidente deve capire che se l’informazione che riceve tocca gli interessi del complesso militar-securitario, quell’informazione è dettata dalla Cia. La Cia serve quegli interessi, non gli interessi del popolo o della pace», dice Paul Craig Roberts, già sottosegretario al Tesoro Usa. «E’ snervante scrivere per anni le stesse cose», fa eco Fulvio Grimaldi sul suo blog, mettendo in parallelo l’ennesimo euro-attentato targato Isis (a Londra, stavolta) e l’euro-meeting di Roma. Come dire: il terrorismo “a orologeria” è spesso l’alibi perfetto per qualcosa di ancora peggiore, una guerra di sterminio o – come in questo caso – la celebrazione della burocrazia Ue, mostruosa macchina (istituzionale) di spoliazione e trasferimento di ricchezza, dal basso verso l’alto, come vogliono le multinazionali finanziarie cui risponde Bruxelles. Una storia infinita, per Grimaldi, che risale addirittura a Pearl Harbour, «dove Roosevelt sollecitò i giapponesi a bombardare la sua flotta», per poi arrivare alla “Pearl Harbour 2.0”, cioè il Golfo del Tonchino, dove «inesistenti barchini nordvietnamiti hanno permesso agli Usa di bruciare viva mezza Indocina», fino alla recente «tragicommedia dell’11/9, quando missili Cia e Mossad travestiti da aerei di linea hanno bucato torri a suo tempo dinamitate dall’interno».Il giornalista cita anche «la farsa di Londra 2005, in cui a uno zainetto lasciato nella carrozza del Tube è stato attribuita la voragine causata da un ordigno posto sotto la carrozza», quindi il triplice attentato di Amman, sempre nel 2005, «preceduto dall’evacuazione dei cittadini israeliani e coronato dall’uccisione di dirigenti palestinesi riuniti con militari cinesi». E poi «Bali, Mumbai, Madrid, Charlie Hebdo, dove certi terroristi camuffati ma identificati grazie all’esibizione ex-post dei documenti in macchina, hanno operato liberamente sotto lo sguardo di pattuglie di polizia». E poi Bruxelles, dove l’attentato all’aeroporto «è stato mostrato utilizzando un vecchio video di Mosca». E Monaco, dove «il più sofisticato armamentario antiterrorista germanico ha lasciato un tizio passeggiare e sparacchiare in un centro commerciale per quattro ore, prima di rinvenirlo e seccarlo mentre se la filava lontano dal luogo». E Nizza, dove «il giro della morte del Tir non lascia un’ammaccatura sulla carrozzeria e un’immagine nelle venti telecamere lungo il percorso (o meglio le ha lasciate tutte, ma il governo ha deciso che non servivano e andavano distrutte). E’ successo anche con quelle del Bataclan».Incongruenze che, per Grimaldi, diventano «lacerazioni smisurate nel tessuto dello storytelling delle stragi», subito «rammendate da tutti i cerimonieri mediatici turibolanti ai piedi degli Alti Sacerdoti, mentre sull’altare dei sacrifici umani celebrano il trionfo dell’arma finale contro classi e popoli subalterni e potenzialmente sovversivi». Ogni giorno, sui media, «viene fatta sparire la verità», tra chiacchiere assortite sulla ipotetica “guerra all’Occidente”, «ora transitata dalla trincee ai ponti di Londra e domani a piazza San Pietro». Facili profezie? «L’avevano già detto, ripetuto, ribadito: “Ci saranno attentati del terrorismo islamico. La questione è solo il quando e il dove”. Veggenti». I talk-show sono assordati da «latrati antislamici di energumeni di una Weltanschauung decerebrata dove, dopo i comunisti che mangiano i bambini, siamo ai musulmani che mangiano le donne». Ricompaiono anche «fossili» come Daniela Santanchè, Maria Giovanna Maglie, Antonio Caprarica, Alessandro Meluzzi.Guerra all’Occidente? Suvvia: «La Nsa, ci è stato rivelato da Snowden e Assange e confermato da Trump, e le altre sorelle depravate dedite al voyeurismo, ascoltano tutto, vedono tutto, ti spiano dallo smartphone, dallo schermo di tv e computer, dal citofono, dall’asciugacapelli. Incamerano un miliardo di dati al minuto». Possono davvero non sapere ciò che si andrebbe preparando? Ora Renzi, «per interposto Gentiloni, gli vende pure (all’Ibm) tutti i nostri dati sanitari. Non ne hanno scampo né la cancelliera tedesca, né la presidente brasiliana, né gli ultimi ruotini del carro, che siamo tutti noi». Eppure, «vigliacco se gli capitasse una volta di intercettare il malvivente che si fa mandare da Al Baghdadi a massacrare gente, proprio là dove non c’è comunicazione, o apparizione, che non siano controllate dal più sofisticato apparato tecnologico mai visto, neppure da quelli di StarTrek». Evidentemente abbiamo a che fare con autrentici supereroi oscuri, «in grado, a distanza, di prendere i comandi di un aereo, come quelli dell’11 Settembre decollati e scomparsi per sempre, l’altro tedesco sui Pirenei, o di un camion, come quello di Nizza, o di un Suv, come quello di Westminster, e fargli fare quello che gli pare».Supereroi neri e «disturbati, manipolati, fuori di testa, che pensano di assaltare il Parlamento britannico con forchetta e coltello, tanto poi tutti quanti muoiono: capitasse mai che ne esca vivo uno che ci racconti, magari senza waterboarding, chi lo manda». Ma a noi, a quanto, pare, non interessa: ormai «ci accontentiamo della firma». E così, «anche la scorribanda del presunto Imam radicale di nome Brooks, dopo un po’ di suspence per un migliore ascolto, ha avuto la sua rivendicazione tradizionale». Scotland Yard, la migliore polizia antiterrorismo del mondo, «s’era scordata che quell’Imam era ancora in galera (che ridere: Caprarica, a “La Gabbia”, aveva giurato di riconoscerlo!) e quindi ha dovuto degradare l’attentatore a milite ignoto del terrorismo, pur sempre islamico». Tale Massud, «come sempre noto delinquente, dunque ricattabile, dunque soggetto debole», come quello, «cocainomane etilizzato, dell’aeroporto parigino». L’uomo perfetto per “indossare” la firma dell’Isis. «Uno col coltello a Parigi, un altro che a Londra assalta con due coltelli il più poderoso schieramento di sicurezza del paese, quello attorno alle massime istituzioni. Due abbattuti senza pensarci su mezza volta. Senza pensare quanto sarebbe stato facile e utile bloccarlo, magari con uno spruzzo al peperoncino, e arrivare tramite lui alla centrale operativa alla tana del mostro», aggiunge Grimaldi.Noi però continuiamo a non vedere che «l’Isis, come la carta di ricambio Al Qaida e tutti i terroristini aggregati, sono addestrati, armati, finanziati, riforniti, vestiti e nutriti, medicati (in Israele), da Usa, Nato, Israele e relativi azionisti, affittuari e sicari tra Turchia e Golfo». Ma visto che Barack Obama «soleva mandare un McCain a lisciargli il pelo, a rinnovargli l’affetto», allora «quando l’Isis dice “siamo stati noi”, è logica stringente, e ragion pura anche per Kant, che sono stati loro: gli sponsor, i padrini, i committenti». Troppo facile? «I nostri “esperti” da cento euro al grammo di islamofobia, queste ovvietà banali non le prendono neanche in considerazione», continua Grimaldi. «Interessante l’evoluzione del terrorismo a uso domestico», comunque. «Finite, nella fase, le grandi operazioni da laboriose pianificazioni e con risultati epocali, coinvolgenti apparati di Stato e complesse e numerose componenti professionali, con relativi rischi di gole profonde, errori, sovrapposizioni e trascuratezze, come quelle grandiose dell’11 Settembre, si è passati a progetti realizzabili con mezzi e numeri più modesti».I colpi grandi, «tipo aerei tirati giù o palazzi fatti saltare», ormai «si sono lasciati ai paesi “arretrati”, dove non si fa tanto caso alle toppate». Da noi «si è passati alle coppie di terroristi e ai minigruppi, rigorosamente islamici, visti a Parigi e Bruxelles e, con Wuerzburg, Nizza, Monaco, fino a Londra oggi, ai terribilissimi “lupi solitari”». Ovvero: «Poca spesa, impegno minimo, soggetti adulterati e manovrabili ed effetti anche migliori, più diffusi, capillari, terrificanti. Il panico del vicino, del passante, della vettura qualsiasi, dello sconosciuto, o conosciuto, della porta accanto. Meravigliosa invenzione: insicurezza totale, irrimediabile e, di contro, Stato di polizia, società securitaria, lotta di classe o di liberazione annientate». E pazienza se la privacy non c’è più: tanto, ad archiviarla, «ci hanno già pensato i sicari principi della Cupola, i terrroristi soft: i Tim Cook, Steve Jobs, Bill Gates, Mark Zuckerberg». Tra «Grande Fratello, ciarle private strepitate al telefonino, selfie in Facebook, ti hanno ridotto a un demolitore pubblico della tua identità, alla mercè di tutti», e soprattutto «dello Stato spione e gendarme e del suo golpe strisciante». Sicché, data «l’enormità della mazzata Brexit» inflitta «alla cosca atlantica fin dagli anni ‘50 installata dalla Cia in Europa, per conto Rockefeller e Rothschild, utilizzando fiduciari come Davignon e Monnet, per fare a pezzi nazioni sovrane e costituzionalmente antifasciste», oggi «a Londra, che aveva appena fissata la data per lo scioglimento degli ormeggi, andava mandato un segnalino». Beninteso: «Poca roba, rispetto al potenziale e all’arsenale di Isis». Un Suv e due coltelli: «Un primo avviso».Osserva Grimaldi: «A Westminster è successo, mica a Canterbury. Al Parlamento dove stanno quelli che brexitano. E sul ponte di Westminster, immancabile per ogni turista eurifero e dollaroso. Come quelli di Sharm el Sheik e di Luxor, che non ci vanno più da quando, nel fedifrago Egitto di Al Sisi che ha fregato i cari Fratelli Musulmani, l’Isis (si fa per dire) fa saltare in aria la gente». Grimaldi teme «quei necrofori che, sabato e domenica a Roma, contro Brexit e altri Exit che girovagano per l’aere europeo, cercheranno di insufflare nel corpaccio in putrefazione dell’Ue quanto basta per fargli fare un po’ di scatti mesmerici». Il pericolo è che, «nel nome dell’Europa ricucita da sarte di palazzo come Laura Boldrini», noi popolo «ci si lasci fregare ancora una volta: prima, prendendo le mazzate perché osiamo ancora andare in piazza, e poi accettando che, anche solo a sollevare le sopracciglia sull’onnicomprensivo e onnipotente tasso di criminalità della classe dirigente, si finisca fuori. O piuttosto dentro. Come amici dei terroristi». E conclude: «Visto cosa si può combinare con una macchina e due coltellini svizzeri?».Un attentato proprio a Londra, in pieno calendario Brexit, alla vigilia del summit romano per celebrare l’Ue, da cui la Gran Bretagna sta scappando. «La gente in Occidente deve capire che se l’informazione che riceve tocca gli interessi del complesso militar-securitario, quell’informazione è dettata dalla Cia. La Cia serve quegli interessi, non gli interessi del popolo o della pace», dice Paul Craig Roberts, già sottosegretario al Tesoro Usa. «E’ snervante scrivere per anni le stesse cose», fa eco Fulvio Grimaldi sul suo blog, mettendo in parallelo l’ennesimo euro-attentato targato Isis (a Londra, stavolta) e l’euro-meeting di Roma. Come dire: il terrorismo “a orologeria” è spesso l’alibi perfetto per qualcosa di ancora peggiore, una guerra di sterminio o – come in questo caso – la celebrazione della burocrazia Ue, mostruosa macchina (istituzionale) di spoliazione e trasferimento di ricchezza, dal basso verso l’alto, come vogliono le multinazionali finanziarie cui risponde Bruxelles. Una storia infinita, per Grimaldi, che risale addirittura a Pearl Harbour, «dove Roosevelt sollecitò i giapponesi a bombardare la sua flotta», per poi arrivare alla “Pearl Harbour 2.0”, cioè il Golfo del Tonchino, dove «inesistenti barchini nordvietnamiti hanno permesso agli Usa di bruciare viva mezza Indocina», fino alla recente «tragicommedia dell’11/9, quando missili Cia e Mossad travestiti da aerei di linea hanno bucato torri a suo tempo dinamitate dall’interno».
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Piramidi hi-tech 30.000 anni fa, la Storia è da riscrivere
«Non vedo l’ora che la verità venga esposta e che i falsi libri di storia vengano bruciati». Per l’antropologo Semir Osmanagich, fondatore del Parco Archeologico Bosniaco, «i mass-media sono complici di un insabbiamento di proporzioni epiche». Osmanagich, scopritore del sito archeologico più attivo del mondo, dichiara che le prove scientifiche, “inconfutabili”, venute alla luce, sull’esistenza di antiche civiltà con tecnologia avanzata, non ci lasciano altra scelta se non quella di riscrivere la nostra storia, la storia dell’umanità sulla Terra. L’attento esame delle strutture emerse nella valle del fiume Visoko, 40 chilometri a nord-ovest di Sarajevo, attraverso la datazione al radiocarbonio rivela definitivamente che quelle grandi piramidi «sono state costruite da civiltà avanzate di oltre 29.000 anni fa», scrive “Il Sapere”. Questo, aggiunge il ricercatore bosniaco, «costringe il mondo a riconsiderare totalmente la sua comprensione sullo sviluppo della civiltà attuale e della sua storia», spiega il dottor Osmanagich. Ormai si scava da otto anni nel sito bosniaco, che si estende sui sei chilometri quadrati attorno a 4 piramidi, collegate da tunnel sotterranei. La colossale Piramide del Sole è la più grande al mondo: è alta 420 metri, contro il 146 di quella di Cheope.«Il dottor Osmanagich – rileva “Il Sapere” – ha stupito l’intera comunità scientifica e archeologica con la raccolta e formazione di un team di ingegneri interdisciplinari, fisici e ricercatori da tutto il mondo per condurre un’indagine aperta e trasparente del sito e per cercare di scoprire la vera natura e il vero scopo di questo complesso piramidale». Per uno scienziato come Tim Moon, «questa è una cultura sconosciuta che ci presenta arti e scienze altamente avanzate, in grado di formare strutture veramente enormi, dimostrando una capacità di sfruttare le risorse energetiche pure». In un tunnel che conduce verso la Piramide del Sole, la squadra ha portato alla luce una enorme pietra megalitica da 25 tonnellate a circa 400 metri di profondità. «Inoltre abbiamo individuato muri di fondazione lungo tutto il suo perimetro formati da blocchi di pietra tagliata», aggiunge Moon. Grandi quantità di reperti sono state recuperati dalle gallerie: effigi, dipinti su pietra, oggetti d’arte e una serie di geroglifici e “testi” antichi, «scavati nelle pareti dei tunnel». La datazione al radiocarbonio è stata effettuata a Kiev su materiale organico presente nel sito della piramide, costruita in calcestruzzo. Mona Haggag, archeologa dell’università di Alessandria, dice che è come «scrivere nuove pagine della storia europea e mondiale».A sbalordire i tecnici, anche la presenza di una fonte di “energia misteriosa” che emanerebbe dalla grande piramide, dalla cui profondità proviene anche un’emissione radio. «I popoli antichi che hanno costruito queste piramidi conoscevano i segreti della frequenza e dell’energia», conclude Osmanagich. «Hanno usato queste risorse naturali per sviluppare tecnologie e per intraprendere la costruzione di scale che non abbiamo visto in nessun altro posto della terra». Non solo: «Le prove dimostrano chiaramente che le piramidi furono costruite allineandole con la griglia energetica della Terra, ed erano come macchine che fornivano energia al potere della guarigione». Ma non è solo dalla Bosnia che giungono rivelazioni sconcertanti, sostiene sempre “Il Sapere”: «Studiosi di storia antica negli Stati Uniti hanno notizie altrettanto sorprendenti su qualcosa trovato negli angoli più lontani del globo. Per esempio la scoperta di Rockwall al di fuori di Dallas, Texas, è solo un esempio di come stiamo riesaminando antichi misteri che rivelano molto sul nostro passato». Il sito texano è un complesso e poderoso muro di dieci miglia di diametro, costruito oltre 20.000 anni fa e coperto dal suolo sette piani sotto terra. «La domanda è: da chi è stata costruita questa struttura e per quale scopo e, soprattutto, la conoscenza data da queste civiltà del passato, in che modo può aiutarci a comprendere il nostro futuro?».Ne parla anche il “National Geographic”, interrogandosi nel 2013 sui “100 più grandi misteri rivelati delle civiltà antiche”: «A volte le culture si lasciano dietro misteri che confondono coloro che vengono dopo di loro, dai menhir ai manoscritti codificati, ci indicano che gli antichi hanno avuto uno scopo profondo». Michal Cremo, nel suo libro “Forbidden Archeology”, teorizza che la conoscenza dell’avanzato homo sapiens sia stata soppressa o ignorata dalla comunità scientifica perché contraddirebbe le attuali opinioni sulle origini umane, che non vanno d’accordo con il paradigma dominante. I recenti risultati, invece, «indicano chiaramente che simili civiltà avanzate erano presenti in tutto il mondo in quel momento storico», cioè 30.000 anni fa. Che alle nostre origini ci sia “tutt’un’altra storia” lo suggerisce anche il Gobekli Tepe, scoperto nel 1995 nella Turchia orientale: un vasto complesso di enormi cerchi di pietre megalitiche, con un raggio tra i 10 e i 20 metri, molto più grandi di quelle di Stonehenge in Gran Bretagna. I test al carbonio radiofonico rivelano che la struttura risale almeno a 11.600 anni fa. Lo conferma l’archeologo tedesco Klaus Schmidt, dell’Istituto Archeologico Tedesco di Berlino, che ha diretto gli studi con il supporto dell’ArchaeoNova Institute di Heidelberg.«Gobekli Tepe è uno dei più affascinanti luoghi neolitici del mondo», sostiene Schmidt. Ma, come spiega in un recente rapporto, per capire le nuove scoperte, gli archeologi hanno bisogno di lavorare a stretto contatto con gli specialisti di religioni comparate, con i teorici dell’architettura e dell’arte, con i teorici della psicologia evolutiva, con i sociologi che utilizzano la teoria delle reti sociali, ed altri ancora. «È la complessa storia delle prime, grandi comunità insediate, la loro vasta rete, e la loro comprensione comune del loro mondo, forse anche delle prime religioni organizzate e delle loro rappresentazioni simboliche del cosmo». Oltre alle strutture megalitiche, sono state scoperte figure e sculture, raffiguranti animali preistorici, come i dinosauri. E lo scavo non è concluso: si pensa che ci siano ancora fino a 50 ambienti nascosti sottoterra, tra gli enormi monoliti svettanti, alti 7 metri e pesanti 25 tonnellate. «L’obiettivo della ricerca archeologica – precisa Schmidt – è soprattutto quello di cercare di capire la loro funzione». Dalla Bosnia, il dottor Osmangich non ha dubbi: è giunto il momento di condividere liberamente la conoscenza, in modo che si possa scoprire il nostro autentico passato. «È tempo per noi di aprire le nostre menti alla vera natura della nostra origine», dice. «La nostra missione è quella di riallineare la scienza con la spiritualità, al fine di progredire come specie. E questo richiede un chiaro percorso di conoscenza condivisa».«Non vedo l’ora che la verità venga esposta e che i falsi libri di storia vengano bruciati». Per l’antropologo Semir Osmanagich, fondatore del Parco Archeologico Bosniaco, «i mass-media sono complici di un insabbiamento di proporzioni epiche». Osmanagich, scopritore del sito archeologico più attivo del mondo, dichiara che le prove scientifiche, “inconfutabili”, venute alla luce, sull’esistenza di antiche civiltà con tecnologia avanzata, non ci lasciano altra scelta se non quella di riscrivere la nostra storia, la storia dell’umanità sulla Terra. L’attento esame delle strutture emerse nella valle del fiume Visoko, 40 chilometri a nord-ovest di Sarajevo, attraverso la datazione al radiocarbonio rivela definitivamente che quelle grandi piramidi «sono state costruite da civiltà avanzate di oltre 29.000 anni fa», scrive “Il Sapere”. Questo, aggiunge il ricercatore bosniaco, «costringe il mondo a riconsiderare totalmente la sua comprensione sullo sviluppo della civiltà attuale e della sua storia», spiega il dottor Osmanagich. Ormai si scava da otto anni nel sito bosniaco, che si estende sui sei chilometri quadrati attorno a 4 piramidi, collegate da tunnel sotterranei. La colossale Piramide del Sole è la più grande al mondo: è alta 420 metri, contro il 146 di quella di Cheope.
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La caverna dei 7 ladri: Gelli, il Pci e il tesoro di Jugoslavia
Belgrado, 17 marzo 1941. Su 57 autocarri sono caricate 1.300 cassette di legno, sulle quali è stampigliata la scritta Banque Nationale Royame de Jugoslavie, Caisse Centrale. Ciascuna cassetta è numerata in rosso e contiene 55 chili d’oro fino in lingotti, per un totale presunto di 60 tonnellate. Su altri otto autocarri viaggia un altro tesoro: fondi neri di generali e ministri jugoslavi in fuga al seguito del re, per un totale di 64,494.177 dinari, 223 mila franchi francesi, 175 mila corone, 76.675 mila dollari. Poi c’è un terzo tesoro, quello della corona: sacchi di ruvida tela che contengono 500 milioni di dinari in biglietti da mille, e un imprecisato numero di casse piene di gioielli e monete d’oro. Il 14 aprile, sotto la scorta di cento uomini, il convoglio arriva a destinazione nei pressi di Cattaro, ma nel frattempo la situazione militare crolla: fra il 9 e il 13 aprile l’Italia occupa la Dalmazia fino alle bocche di Cattaro. Il 15 aprile il tenente di stato maggiore che comanda il prezioso convoglio, riceve l’ordine, in attesa dell’imbarco per l’Egitto, di nascondere il tesoro in una caverna naturale a due chilometri dalla città di Niksic, sulla strada per Podgoriza, vicino alla base navale di Cattaro: la caverna dei sette ladri, così chiamata per via di sette banditi che nell’Ottocento vi nascondevano il frutto delle loro scorrerie.Il giovane re Pietro volle però che il tesoro della corona fosse nascosto nelle grotte del monastero del patriarca Gavrilov, sul monte Ostrog. Tenne per sé 15 milioni di dinari per le spese personali e per la fuga. Intanto il 17 aprile l’Italia con le divisioni Centauro, Messina e Marche, occupa l’intero Montenegro, e improvvisamente, il piano del governo jugoslavo e dell’ambasciatore inglese per imbarcare il tesoro, diventa impraticabile. Entrano in scena i servizi segreti militari italiani. Il generale Mario Roatta localizza l’oro jugoslavo attraverso il generale Riccardo Pentimalli, comandante della divisione Marche, e fa piantonare la caverna. Entra in scena Licio Gelli, che all’epoca è in Jugoslavia al seguito di un ex federale di Pistoia, Luigi Alzona, diventato rappresentante del Servizio Informazione Militari (Sim). E’ proprio Gelli a proporre l’idea di un falso treno ospedale diretto a Trieste, per trasportare il tesoro jugoslavo. Con questo stratagemma il tesoro raggiunge l’Italia, i cinque vagoni che lo trasportavano furono parcheggiati in un binario morto dopo la stazione di Trieste. Lì, Alzona e Gelli lo consegnarono ad altri agenti del Sim.A questo punto, il bottino si divise: otto tonnellate d’oro furono consegnate alla Banca d’Italia, le altre per la maggior parte furono nascoste dagli stessi funzionari della Banca d’Italia in varie località segrete, dove restarono fino alla liberazione di Roma sotto il controllo del governatore Azzolini, di Roatta e di Pentimalli. In questo quadro si inserirebbe un incontro tra Licio Gelli e Palmiro Togliatti, nella sede romana del Pci, dove Gelli sarebbe giunto scortato da tre ex partigiani comunisti, incaricati dal Cln, al comando di Bruno Tesi. Perché ci sarebbe stato questo incontro? Gelli voleva un appoggio per far sbiadire i suoi trascorsi fascisti? Forse voleva parlare del malloppo jugoslavo, barattando l’informazione con protezioni politiche? Di certo si sa che in questo periodo del presunto colloquio con Togliatti, Gelli ebbe vari contatti con esponenti responsabili del Pci. Nel 1945, via mare e in gran segreto, 27 tonnellate d’oro del tesoro jugoslavo furono restituite a Tito. Solo nel 1947, ufficialmente, furono restituite le otto tonnellate conservate nelle casseforti della Banca d’Italia.Nel frattempo i protagonisti della vicenda dell’oro jugoslavo, Roatta, Pentimalli, Azzolini e Gelli, approdano con pochi danni dal regime fascista a quello democratico. La scure dell’epurazione non colpì nessuno dei quattro protagonisti, che alla fine furono tutti riabilitati nel secondo grado di giudizio, perché “ingiustamente” condannati. Secondo Gianfranco Piazzesi, autore del libro “La caverna dei sette ladri” (Baldini & Castoldi, 1996), dopo l’incontro con Togliatti, Gelli poté entrare nell’isola della Maddalena sotto la tutela degli americani, dove lo raggiunse la moglie e il resto della famiglia, tutti al sicuro da eventuali vendette partigiane. Il suo iter giudiziario fu davvero poco drammatico. Fu spedito nelle carceri di Cagliari e di Napoli. A Regina Coeli, poi, condivise la cella con Junio Valerio Borghese, il principe nero, ex comandante della X Mas. Nel 1947 fu in carcere a Pistoia, poi a Firenze con l’accusa di collaborazionismo. Nel 1947 Togliatti, ministro della giustizia, promulga l’amnistia, dalla quale sono esclusi solo i colpevoli di sevizie particolarmente efferate. Gelli ha collaborato con i nazisti, ma si è fatto anche vedere a fianco dei partigiani e i documenti del Cln sono tutti a suo favore. Gelli rientra a pieno titolo nei casi previsti dall’amnistia. E il tesoro? Oltre venti tonnellate d’oro restarono in mani misteriose.(Lara Pavanetto, “La caverna dei sette ladri, ovvero come l’esercito italiano trafugò l’oro jugoslavo grazie a Licio Gelli. Cattaro 1941”, dal blog della Pavanetto, 5 ottobre 2014).Belgrado, 17 marzo 1941. Su 57 autocarri sono caricate 1.300 cassette di legno, sulle quali è stampigliata la scritta Banque Nationale Royame de Jugoslavie, Caisse Centrale. Ciascuna cassetta è numerata in rosso e contiene 55 chili d’oro fino in lingotti, per un totale presunto di 60 tonnellate. Su altri otto autocarri viaggia un altro tesoro: fondi neri di generali e ministri jugoslavi in fuga al seguito del re, per un totale di 64,494.177 dinari, 223 mila franchi francesi, 175 mila corone, 76.675 mila dollari. Poi c’è un terzo tesoro, quello della corona: sacchi di ruvida tela che contengono 500 milioni di dinari in biglietti da mille, e un imprecisato numero di casse piene di gioielli e monete d’oro. Il 14 aprile, sotto la scorta di cento uomini, il convoglio arriva a destinazione nei pressi di Cattaro, ma nel frattempo la situazione militare crolla: fra il 9 e il 13 aprile l’Italia occupa la Dalmazia fino alle bocche di Cattaro. Il 15 aprile il tenente di stato maggiore che comanda il prezioso convoglio, riceve l’ordine, in attesa dell’imbarco per l’Egitto, di nascondere il tesoro in una caverna naturale a due chilometri dalla città di Niksic, sulla strada per Podgoriza, vicino alla base navale di Cattaro: la caverna dei sette ladri, così chiamata per via di sette banditi che nell’Ottocento vi nascondevano il frutto delle loro scorrerie.
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E se poi, un bel giorno, scopri che non era vero niente?
Perché l’oro è così importante? L’oro, non il ferro, l’argento, altri metalli. Perché si è scoperto che l’oro, incorruttibile, può isolare al 100% da radiazioni pericolose, provenienti da tecnologie avanzate. Lo affermano i controversi studiosi della cosiddetta paleo-astronautica, che si interrogano sul singolare interesse manifestato, per l’oro, da tutti gli “dèi” dell’antichità, chiamati Viracochas sulle Ande nel regno Inca, Túatha Dé Dànann in Irlanda, Elohim in Palestina, Annunaki in Mesopotamia, Theòi in Grecia, Vimana in India. E ancora: Kachinas in Arizona, Muxul nello Yucatan presso i Maya, Dogu in Giappone, Wakinyan in Nord America presso i Lakota Sioux, Nommo in Mali presso i Dogon. Una cosa è sicura: a un certo punto, nella storia, l’oro viene improvvisamente apprezzato e ricercato, estratto, lavorato, tesaurizzato, utilizzato come valore di scambio. Tutti quegli esseri appassionati all’oro, spesso chiamati Figli delle Stelle perché comparsi a bordo di formidabili mezzi volanti, raffigurati in sculture e altorilievi ancora oggi visibili un po’ in tutto il mondo, instaurarono dominazioni di tipo coloniale, imponendo sempre – alle popolazioni assoggettate – lo stesso “sacrificio” quotidiano: bruciare, per loro, il grasso (inizialmente dei neonati primogeniti, poi solo di agnelli) presente in prossimità di certi organi, fegato e reni.Grasso che, una volta bruciato, produce un fumo inebriante e “calmante”, come spiegano nella Bibbia i sudditi di Jahwè, uno degli Elohim dell’area palestinese, divenuto celebre attraverso il drammatico racconto biblico – Jahwè (o anche Jeohwà o Jihwì, a seconda delle vocalizzazioni convenzionali introdotte solo nel medioevo dai biblisti ebrei della scuola masoretica) era il dispotico, temutissimo padrone della famiglia di Giacobbe-Israele, poi successivamente trasformato, dalla teologia, addirittura in “Dio unico”. Nell’antica Roma, quello stesso grasso era chiamato “omentum”. Stesse disposizioni: era la parte “sacra”, cioè riservata esclusivamente agli “dèi”, perché fosse bruciata (quindi “sacrificata”) solo per loro, pena la morte dei trasgressori. Quel particolare grasso che sovrasta gli organi interni non è come l’adipe, provvisorio e accumulato con l’alimentazione, ma è un grasso stratificato fin dall’infanzia, addirittura dalla nascita. Se bruciato, confermano i chimici, produce un fumo che sprigiona molecole pressoché identiche a quelle delle endorfine, fortemente psicotrope, il cui odore ricorda il profumo appetitoso che si libera dal barbecue durante una grigliata.L’astronauta italiana Samantha Cristoforetti, di ritorno dallo spazio, ha dichiarato che, lassù, aleggia un odore di carne bruciata. Gli scienziati spiegano che quell’odore si diffonde, anche in un’astronave, man mano che si prolunga la missione, perché le condizioni ambientali all’interno del veicolo spaziale accelerano la morte di milioni di cellule epiteliali – morte che, appunto, produce quell’odore. Di recente, poi, ricercatori hanno scoperto che il vino rosso contiene una sostanza particolarissima, il resveratrolo, che protegge le ossa da svariate complicazioni, inclusa la “friabilità” che colpisce lo scheletro negli astronauti esposti a lunghi soggiorni orbitali. La Bibbia racconta che Jahwè beveva vino spesso e volentieri (fece impiantare una vigna a Noè, subito dopo lo sbarco dall’Arca), mentre i testi sumero-accadici riferiscono che gli Annunaki gradivano molto la birra. Elohim, Vimana e tutti gli altri: Figli delle Stelle? “Vimàn” era il nome di una compagnia aerea del Bangladesh, ricorda Mauro Biglino. “In India voliamo da tremila anni”, era uno slogan pubblicitario dell’Air India. El-Al è invece il nome della celebre compagnia israeliana.Se la tradizione rabbinica racchiusa nel Talmud ammette con assoluta tranquillità la presenza della manipolazione genetica nella Genesi – basta vedere come vennero al mondo Adamo ed Eva, disse il professor Safran, rabbino e docente universario di etica medica in Israele, all’epoca della clonazione della pecora Dolly – è davvero impossibile trascurare gli studi più recenti dei genetisti, che mettono in crisi l’evoluzionismo darwiniano: è come se fosse intervenuto qualcosa a “correggere” l’evoluzione, accelerandola – non solo per il Sapiens, ma anche per la pecora e la mucca, la patata, il grano. Cioè gli animali e i vegetali che popolavano il Gan Eden di cui parla la Bibbia, da cui i primi ibridi – Adamo ed Eva, appunto – furono allontanati preventivamente, prima cioè che potessero approfondire “le pratiche dell’albero della vita”, acquisendo cioè le medesime conoscenze, dunque il medesimo potere, dei loro “creatori”, gli Elohim, veri specialisti in genetica sperimentale, a quanto sembra.Emerge un’altra verità, dunque, sui cosiddetti “testi sacri”, da cui discende un impianto di pensiero – e di potere – almeno bimillenario. Non stupisce, quindi, il grande successo dei bestseller di Biglino, pubblicati anche da Mondadori, né l’entusiasmo delle centinaia di persone che affollano le sue frequentissime conferenze. Di Biglino si può apprezzare innanzitutto la correttezza, nella sua impostazione preliminare: non metto in discussione l’esistenza di Dio, ripete, perché non ho le certezze degli atei; mi limito a dimostrare che quella della Bibbia non è una divinità ma solo un Elohim, di cui la stessa Bibbia nomina almeno 20 “colleghi”, di equivalente status, senza peraltro mai spiegare il significato della parola Elohim, che nessuno al mondo conosce. Inoltre, nella Bibbia non sono presenti, mai, i concetti-chiave del monoteismo: creazione, eternità, immortalità, divinità. Il verbo tradotto con “creare” è Baraa, che significa dividere, separare (i cieli dalle acque, le acque dalle terre – Genesi). E della parola Olàm, ancora e sempre tradotta con “eternità”, e che in realtà significa “tempo molto lungo”, i dizionari raccomandano: non tradurla mai con il termine “eternità”.Lo scorso marzo, Biglino è stato protagonista, a Milano, di un importante confronto con eminenti teologi: un importante sacerdote e docente di teologia dell’università cattolica, un arcivescovo ortodosso, il rabbino capo della comunità ebraica di Torino e un insigne biblista, pastore valdese, co-autore di alcuni tra i più importanti dizionari di ebraico e aramaico antico. Nessuno ha messo in discussione le sue tesi. Tutti, al contrario, hanno ammesso che la Bibbia è stata ampiamente travisata. Ma lì si fermano: non denunciano, cioè, il fatto che venga ancora oggi regolarmente travisata. Dice Biglino: nel 95% dei casi, chi professa e propaga le grandi religioni monoteiste che si pretendono originate da quel libro (e quindi: Papi, vescovi, parroci, catechisti, pastori) non conosce neppure la lingua in cui quel libro è scritto. Pretende di “far dire” a quel libro determinate verità, per di più “sacre”, ma non conosce – alla lettera – il testo, nella lingua originaria. Senza contare, poi, che la Bibbia resta una raccolta (non uniforme) di testi di epoche diverse, tutti senza fonte: non è possibile risalire con certezza neppure a un autore; nessuno dei testi biblici ha una chiara paternità – tantomeno i libri più famosi e celebrati, come quello attribuito all’ipotetico profeta Isaia.Anche per questo, mezzo secolo fa, i biblisti ebraici hanno varato il “Bible Project” con il compito, entro 200 anni, di ricostruire una Bibbia più attendibile. L’unica certezza, dicono, è che la Bibbia di oggi – riveduta e corretta per l’ultima volta dai masoreti all’epoca di Carlomagno – non è l’originale. Inoltre mancano una decina di libri, pure citati qua e là: quei libri sono scomparsi. E le incongruenze sintattiche presenti nella versione masoretica dimostrano il grado di manipolazione cui quei testi sono stati sottoposti, nel corso dei secoli. Biglino dice: mi si rimprovera di offrire una lettura letterale del testo, anziché allegorica, simbologica, esoterica, teologica. Va bene, teniamo pure conto di tutte le interpretazioni possibili. Ma aggiunge: perché privarci della versione letterale, sia pure di un testo che sappiamo essere così pesantemente rimaneggiato? Non si sa neppure in che lingua fosse scritto, l’originale: all’epoca della prima stesura della Genesi, per esempio, la lingua ebraica non esisteva ancora. Dunque non sappiamo in che lingua fosse scritto, quel libro, né tantomeno come venissero pronunciate, le parole in esso contenute. Poi intervenne la traduzione in ebraico, ma con le sole consonanti; le vocali furono introdotte solo fra il VI e l’XVIII secolo dopo Cristo, quando appunto “Yhw” divenne finalmente “Jahwè” (ma aJahwènche “Jihwì” e “Jeohwah”).Nonostante tutto ciò, insiste Biglino, perché non provare a leggere il testo così com’è, dando per buona – per un attimo – l’idea che racconti fatti realmente accaduti? Si scoprirebbe, conclude, che la storia narrata – vera o falsa che sia – non è priva di coerenza. Ed è, tra l’altro, la fotocopia perfetta di molti altri libri antichi preesistenti, “sacri” e non, come la trilogia fondativa di un popolo geograficamente contiguo a quello ebraico, i sumero-babilonesi. Quei testi mesopotamici sono l’Atrahasis, l’Enuma Elish e l’Epopea di Gilgamesh. Raccontano tutti la stessa storia: e cioè l’arrivo (da cielo?) di individui potentissimi ma non onnipotenti, molto longevi ma non immortali, in possesso esclusivo di tecnologie fantascientifiche, decisi a colonizzare territori imponendo la loro legge (i comandamenti di Jahwè non sono 10, ma oltre 600) e stabilendo alleanze con singole tribù, in lotta perenne tra loro per la spartizione di piccoli territori. Il patto: voi lavorate per me (mi servite, mi nutrite, mi bruciate quel famoso grasso e mi obbedite in tutto) e io vi aiuto a conquistare “terre promesse”. Se disobbedite, vi stermino. Jahwè, è scritto nella Bibbia, arrivò a uccidere in massa 24.000 sudditi disobbedienti.Quello che Biglino contesta è che, nonostante le evidenze e le conferme provenienti dagli ambiti di studio più disparati (dall’esegesi ebraica all’autorevole École Biblique dei domenicani di Gerusalemme) le traduzioni erronee continuino a essere presenti nelle Bibbie attualmente stampate. In sintesi, il primo problema è Dio. Nella Bibbia, semplicemente, non c’è, dice Biglino. C’è Jahwè, che però è sempre in compagnia dei “colleghi” Milkòm, Kamòsh, e tanti altri. Viene tradotto con “Altissimo” il nome Eliòn, che invece è un individuo «chiaramente indicato come il capo degli Elohim: è scritto nel testo biblico che ne presiede un’assemblea, nientemeno». E addirittura è tradotto coi termini “eterno” e “onnipotente” il nome El Shaddai, letteralmente “signore della steppa”, cioè l’Elohim nel quale si imbatté Abramo. Allo stesso modo, altri termini vengono sempre tradotti in modo consapevolmente inappropriato e fuorviante: Kavod, per esempio. Il contesto biblico lo presenta come un’arma da guerra, un oggetto volante e pericoloso, dotato di armanenti micidiali. Viene tradotto: “gloria”. Così, il “Kavod di Jahwè” diventa la “gloria di Dio”.Quando appare, il Kavod solleva un gran vento, il Ruach – che viene tradotto “spirito”. Sotto il Kavod sono fissati 4 Cherubini. Mezzi meccanici volanti, secondo i rabbini: robot, monoposto. Per l’esegesi teologica cristiana, invece, i Cherubini sono “angeli”, così come gli altri “angeli”, incorporei e alati, che la Bibbia invece chiama Malachìm, presentandoli come individui in carne e ossa, di cui gli umani hanno paura – sono soldati, ufficiali degli Elohim, portaordini pericolosi, molesti, inquietanti. «L’angelo apparve alla vista di Gedeone, volando con leggerezza», e poi «scomparve», scrive la traduzione cristiana della Bibbia, che invece nell’originale, in ebraico, scrive che «il Malach» si fece vedere da Gedeone, e poi «se ne andà camminando». Pura invenzione, il volo, così come l’attraversamento miracoloso del Mar Rosso: «Nel testo c’è scritto che Mosè e i suoi attraversarono solo uno Yam Suf, un canneto. Nessun mare, tantomeno Rosso».Quanto agli “angeli”, più tardi, il fondatore del cristianesimo, Paolo di Tarso, raccomanda alle giovani donne di coprirsi il capo con il velo, se partecipano ad assemblee, e di farlo «a motivo degli angeli», poiché sono sessualmente eccitabili e poco raccomandabili, violenti. Biglino “corregge” anche l’interpretazione della comparsa dell’Arcangelo Gabriele, quello dell’Annunciazione: «Gabriele non è un nome proprio ma solo un termine comune, funzionale: deriva da Ghevèr-El, e essere “il Ghevèr di un El”, per di più “arcangelo”, significa essere un potente ufficiale di alto grado». Dallo studio condotto da Biglino appare evidente la fabbricazione artificiale di un culto, la cui radice viene attribuita a un libro debitamente leggendario, in quanto antico, scritto in una lingua sconosciuta ai più. Lo studioso contesta chi ritiene obbligatoria una lettura necessariamente cifrata: «Quando furono scritti, i testi biblici, a saper leggere e scrivere erano in pochissimi: che motivi avrebbero avuto per dover nascondere il loro racconto sotto il velo simbolico-allegorico?».La prima versione della Bibbia divulgata nel Mediterraneo oltre la Palestina, detta “Bibbia dei Settanta”, fu tradotta in greco ad Alessandria d’Egitto, secondo Biglino ricorrendo a una massiccia interpolazione interpretativa ispirata dal pensiero platonico, che – a differenza della Bibbia – contempla le nozioni filosofiche di trascendenza, divinità, creazione, eternità. Gli ebrei considerano la “Bibbia dei Settanta”, letteralmente, «una tragedia per l’umanità». Eppure, sottolinea lo stesso Biglino, è proprio quella Bibbia in greco ad aver poi originato quella in latino, che è alla base della teologia cattolica e quindi delle Bibbie in italiano per le famiglie. Il lavoro del ricercatore torinese non mette in crisi solo la teologia ufficiale su cui si basano le istituzioni religiose, ma anche l’esegesi alternativa fornita dall’esoterismo, acutamente suggestiva, fondata sulla lettura allegorica e simbolica del testo – lettura che, come quella cattolica, non mette mai in discussione la presenza della divinità nell’Antico Testamento. Diversa ancora l’interpretazione offerta dalla Cabala, che dal testo originario ricava essenzialmente relazioni, assai criptiche, tra valori numerico-simbolici, come se la Bibbia fosse in realtà una complessa trama numerica, velata dalla narrazione superficiale di eventi di per sé non così importanti quanto invece il tessuto ermetico sottostante.Certo è singolare la produzione, negli ultimi anni, di una tale quantità di informazioni, ormai di pubblico dominio, che riguardano in particolare l’interpretazione della storia antica, sacra e non, ma anche una radicale rilettura dell’approccio scientifico alla conoscenza, rivalutando sia i testi sacri, fondativi delle grandi religioni, sia l’opera di esoteristi particolarmente illuminanti – filosofi, medici, artisti, alchimisti, proto-scienziati – che tendono a fornire chiavi di interpretazione delle “leggi universali” i “leggi di natura” molto simili a quelle cui oggi pervengono i settori più avanzati della scienza stessa, a cominciare dalla fisica, dall’astrofisica, dalla geofisica, dalla meccanica quantistica, con le recenti indagini sulla reale consistenza della materia, in cui si suppone che il visibile e l’invisibile rispondano alle stesse leggi, essendo costituiti della medesima energia. Da qui le riflessioni sulla percezione del tempo e della vita stessa, sulla cosiddetta Energia Oscura, sulla Materia Bianca cerebrale di cui i neurologi ammettono di non sapere praticamente nulla.Fisici come Vittorio Marchi e Giuliana Conforto sostengono che la realtà sensibile non sia altro che rappresentazione, e che il nostro cervello non percepisca che il 2% di quanto ci circonda, sulla Terra – per non parlare dell’universo, di cui sappiamo ben poco, al di là del nostro minuscolo sistema solare. Un numero sempre maggiore di storici e antropologi sospetta che la storia sia interamente da riscrivere: a quanto pare non furono gli egizi a erigere le piramidi; quelle scoperte in Bosnia sono più antiche e più grandi di quelle dell’Egitto. Né tantomeno conosciamo la storia misteriosa dei Sumeri, che sorsero all’improvviso come civiltà già formata, in possesso di conoscenze evolute (architettura, agricoltura, scrittura). Forse, ipotizza Biglino sempre prendendo la Bibbia alla lettera, i Sumeri erano la discendenza di Caino, che – essendo cresciuto nel Gan Eden – era stato formato e istruito dagli Elohim.L’esegesi ebraica ritiene ormai in modo unanime che Abramo, storicamente, non sia mai esistito. Quantomeno, il personaggio biblico rispondente a quel nome era evidentemente un sumero, spinto dagli Elohim a vagare “lungi dalla casa di padre mio”, viaggiando fino in Palestina. Poi, i Sumeri scomparvero di colpo, in coincidenza con la distruzione delle città ribelli di Sodoma e Gomorra, operata dagli Elohim impiegando “l’arma dei terrore”, che sprigionò nell’atmosfera una nube letale – i venti dovettero sospingerla fino alla regione di Babilonia, dove è documentata la strage della popolazione (con sintomi da contaminazione nucleare) e la fuga precipitosa degli “dèi” locali, gli Annunaki, che presero il largo a bordo dei loro “carri celesti”, in tutto simili al Kavod di Jahwè.Perché l’oro è così importante? L’oro, non il ferro, l’argento, altri metalli. Forse perché si suppone che l’oro, incorruttibile, possa isolare al 100% da radiazioni pericolose, provenienti da tecnologie avanzate? Lo affermano i controversi studiosi della cosiddetta paleo-astronautica, che si interrogano sul singolare interesse manifestato, per l’oro, da tutti gli “dèi” dell’antichità, chiamati Viracochas sulle Ande nel regno Inca, Túatha Dé Dànann in Irlanda, Elohim in Palestina, Annunaki in Mesopotamia, Theòi in Grecia, mentre Vimana è il nome che in India designa le antiche, ipotetiche astronavi dei Veda. E ancora: i semi-dei “venuti dal cielo” prendono il nome di Kachinas in Arizona, Muxul nello Yucatan presso i Maya, Dogu in Giappone, Wakinyan in Nord America presso i Lakota Sioux, Nommo in Mali presso i Dogon. Una cosa è sicura: a un certo punto, nella storia, l’oro viene improvvisamente apprezzato e ricercato, estratto, lavorato, tesaurizzato, utilizzato come valore di scambio. Tutti quegli esseri appassionati all’oro, spesso chiamati Figli delle Stelle perché comparsi a bordo di formidabili mezzi volanti, raffigurati in sculture e altorilievi ancora oggi visibili in diverse parti del mondo, instaurarono dominazioni di tipo coloniale, imponendo sempre – alle popolazioni assoggettate – lo stesso “sacrificio” quotidiano: bruciare, per loro, il grasso (inizialmente dei neonati primogeniti, poi solo di agnelli) presente in prossimità di certi organi, fegato e reni.
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Caso Regeni, colpire l’Italia: l’Eni, ma anche Hacking Team
«Quella dell’Hacking Team è l’ennesima prova avuta in questi dodici mesi che l’omicidio Regeni non è la storia di un brutale interrogatorio della polizia finito in tragedia, ma un vero e proprio attacco all’Italia e al sistema-paese, condotto con efficienza americana e puntualità inglese». Federico Dezzani, analista geopolitico, mette a fuoco la singolare “sincronicità” fra l’atroce morte del giovane Giulio Regeni e l’ostracismo “atlantico” scattato contro un’assoluta eccellenza italiana, la società Hacking Team, partecipata della Regione Lombardia e un tempo fornitrice anche dell’Fbi. «Nelle settimane successive al ritrovamento del corpo di Regeni – ricorda Dezzani – il fuoco mediatico è diretto contro il “regime egiziano”, il “dittatore Al-Sisi” e i rapporti italo-egiziani, da interrompere tassativamente finché il Cairo non fornirà “la verità” sul caso». Per Dezzani, il povero Regeni (reclutato dall’università di Cambridge in una struttura contigua all’intelligence britannica) fu ucciso su ordine di Londra per sabotare l’asse strategico Roma-Cairo, dopo la scoperta da parte dell’Eni del più grande giacimento mediterraneo di gas nel mare egiziano. Ma, a quanto pare, nell’affare-Regeni andrebbe aggiunta anche l’azienda tecnologica milanese, colpita anch’essa per punire l’Italia.Il nome quell’azienda rimbalza spesso sulla stampa in quei giorni bollenti, a fianco dell’Eni, ricorda Dezzani nel suo blog: si tratta di Hacking Team, una piccola società informatica milanese. «Tra i clienti di Hacking Team c’era anche l’Egitto», scrive il “Corriere della Sera” il 9 febbraio 2016. «Amnesty: basta con l’hacking di Stato, denunciamolo», attacca a ruota la “Repubblica” citando la società. «L’ombra di Hacking Team sull’omicidio Regeni», insiste “La Stampa”. All’interno di quest’ultimo articolo, si legge: «Le tensioni con l’Egitto per l’uccisione di Giulio Regeni hanno lambito anche Hacking Team, l’azienda italiana che vende software di intrusione e sorveglianza a numerosi governi. Il 31 marzo infatti il ministero dello sviluppo economico (Mise) ha revocato con decorrenza immediata l’autorizzazione globale per l’esportazione che era stata concessa alla società milanese, dallo stesso Mise, circa un anno fa». La ragione del ripensamento? «Lo scontro (per alcuni troppo debole da parte italiana) tra il nostro paese e l’Egitto sul caso Regeni». L’Egitto sarebbe stato infatti un cliente di Hacking Team.Software di intrusione e sorveglianza, blocco con decorrenza immediata dell’autorizzazione ad esportare, contesto geopolitico difficile, contatti con l’Egitto nazionalista di Al-Sisi, misteriosi attacchi informatici che riversano in rete la lista dei clienti della società? «Si direbbe che questo piccolo produttore italiano di software, pur fatturando solo 40 milioni di euro rispetto ai 70 miliardi dell’Eni, non sia finito accidentalmente nella bufera Regeni», scrive Federico Dezzani. Secondo l’analista, «gli stessi attori coinvolti nell’operazione per danneggiare i rapporti italo-egiziani», tra i quali Dezzani include «il gruppo “L’Espresso”, Amnesty International, Human Rights Watch», cioè le Ong «dietro cui si nascondono le diplomazie e i servizi segreti angloamericani», avrebbero «sfruttato la morte del giovane friulano per colpire anche una piccola ma scomoda realtà economica». Ma di cosa si occupa esattamente l’Hacking Team? E perché è finita nel mirino dell’establishment atlantico?Nata nel 2003, ricorda Dezzani, l’Hacking Team produce programmi per sorvegliare telefoni e computer, con una peculiarità che la rende pressoché unica a livello mondiale: anziché decifrare i dati criptati, li legge direttamente “in chiaro” sul supporto fisico, introducendo virus sugli apparecchi elettronici. «Partecipata anche dalla Regione Lombardia, l’Hacking Team non è però un nido di pirati informatici: tra i suoi clienti figurano soltanto governi e forze di sicurezza, anche di un certo calibro, se si considera che si annovera anche il Federal Bureau of Investigation». Essendo così ben introdotta negli apparati di sicurezza Nato, l’Hacking Team avrebbe dovuto dormire sonni tranquilli: la situazione, invece, si deteriora mese dopo mese a partire dal 2014, sino a culminare con l’accusa di essere complice del sequestro e l’uccisione di Regeni, con conseguente revoca dell’autorizzazione ad esportare. «Se la società milanese fosse stata “sensibile” agli inequivocabili messaggi che le erano lanciati, avrebbe dovuto da tempo capire di essere finita nei radar dei servizi angloamericani (gli stessi dell’“operazione Regeni”) e avrebbe dovuto notare come l’umore nei suoi confronti stesse velocemente cambiando».Siamo infatti nel febbraio 2014 quando Citizen Lab, un laboratorio interdisciplinare dell’università di Toronto specializzato in sicurezza delle telecomunicazioni e difesa dei diritti umani, accusa la società italiana di aver venduto un sofisticato sistema di monitoraggio di pc e telefoni a decine di paesi. Stati americani (Colombia, Panama e Messico), europei (Ungheria e Polonia), asiatici (Malesia, Thailandia, Corea del Sud). Ma anche a governi “autoritari” come quelli di Azerbaijan, Etiopia, Sudan Kazakhstan, Uzbekistan, Sudan. Nella lista figurano anche paesi “amici” ma non certo democratici come Marocco, Nigeria, Arabia Saudita, Oman, Emirati Arabi Uniti. Più la Turchia, imbarazzante “democratura” Nato, e lo stesso Egitto. «Che uso fanno, questi paesi di dubbia democraticità, dei programmi acquistati?», si domanda il Citizen Lab. Ovvio: li usano per sorvegliare «attivisti e difensori dei diritti umani», ossia lo stesso humus dove sono state coltivate le “rivoluzioni colorate” che hanno sconquassato il Medio Oriente nel 2011. Sono, per inciso, gli stessi ambienti “studiati” anche dai docenti di Cambridge del defunto Giulio Regeni.A distanza di un mese, continua Dezzani, nel marzo 2014 il rapporto canadese è prontamente ripreso da Privacy International, un’organizzazione non governativa inglese ruotante nell’orbita della London School of Economics. Privacy International prende carta e penna e scrive al Parlamento italiano: non solo, dicono gli inglesi, l’Hacking Team viola i diritti umani, ma riceve addirittura fondi pubblici dalla Regione Lombardia. Che lo Stato italiano intervenga subito, per «indagare e prendere provvedimenti per garantire che la sua attività invasiva e offensiva non sia esportata dall’Italia e utilizzata in violazione dei diritti umani». Già in questa fase, come accadrà due anni dopo col caso Regeni, entra in campo il gruppo “L’Espresso”: «Privacy International chiede chiarimenti al governo sull’attività di Hacking Team, una delle più importanti organizzazioni internazionali per la difesa della privacy chiama in causa il governo italiano». Per Dezzani, «è quasi una prova generale dell’attacco che, di lì a due anni, sarà sferrato contro la società milanese, arrivando a revocarle l’autorizzazione ad esportare, sull’onda dell’omicidio Regeni».Ma perché l’Hacking Team, un tempo cliente persino dell’Fbi, è diventata improvvisamente d’intralcio ai servizi angloamericani? Risposta: «E’ una società italiana, e il nostro paese non fa parte della ristretta cricca di spioni anglofoni nota come “Five Eyes”». L’Hacking Team è quindi “un’arma tecnologica” che per gli angloamericani sarebbe meglio inglobare o neutralizzare. Tanto più che «opera in un lucroso mercato dove esistono pochi altri concorrenti (inglesi, americani e israeliani)». E la storia dell’Olivetti, osserva Dezzani, «insegna che le eccellenze tecnologiche in un paese a sovranità limitata, come l’Italia, sono spesso uccise in fasce». Infine, i suoi programmi per la sorveglianza delle telecomunicazioni venduti a “governi autoritari” (Turchia, Nigeria, Uzbekistan, Kazakhstan, Egitto e Malesia) e impiegati per monitorare “dissidenti e attivisti”, di fatto «ostacolano le solite “rivoluzioni colorate” fomentate da George Soros, Mi6 e Cia». Nel 2015, l’assedio attorno ad Hacking Team si stringe: «Nel mese di luglio un attacco informatico in grande stile scardina le difese della società milanese e, svuotatone gli archivi, riversa su Wikileaks (la piattaforma usata dai diversi servizi segreti per lanciarsi fango a vicenda) 400 Gb di dati: clienti, fatture, email», racconta Dezzani.«Wikileaks pubblica un milione di email aziendali rubate ad Hacking Team», scrive “Repubblica”, evidenziando le zone grigie dell’azienda, mentre la stampa inglese attacca ancora più pesantemente: «I documenti – scrive il “Guardian” – dimostrano che l’azienda ha venduto strumenti di spionaggio a regimi repressivi». Il battage della stampa insiste, infatti, sulla natura “autoritaria e repressiva” dei clienti della società milanese: Azerbaijan, Kazakhstan, Uzbekistan, Russia, Bahrein, Arabia Saudita «ed altri “regimi” che gli angloamericani rovescerebbero con piacere». Del caso si occupa anche il “Fatto Quotidiano”, che nell’aprile 2016 titola: «Hacking Team, revocata l’autorizzazione globale all’export del software spia: stop anche per l’Egitto dopo il caso Regeni». Al che, la società milanese vacilla. E per alcune settimane sembra che debba chiudere i battenti: poi, passata la tempesta mediatica, riprende la normale attività. «L’operazione con cui è ucciso Giulio Regeni ha, senza dubbio, come principali obbiettivi l’Eni e la politica estera tra Egitto e Libia, ma il fatto che anche l’Hacking Team fosse un fornitore del Cairo è prontamente sfruttato per revocare alla società l’autorizzazione ad esportare, così da chiuderle i mercati di sbocco, come auspicato da Londra e Washington», sintetizza Dezzani.«Quella dell’Hacking Team è l’ennesima prova avuta in questi dodici mesi che l’omicidio Regeni non è la storia di un brutale interrogatorio della polizia finito in tragedia, ma un vero e proprio attacco all’Italia e al sistema-paese, condotto con efficienza americana e puntualità inglese». Federico Dezzani, analista geopolitico, mette a fuoco la singolare “sincronicità” fra l’atroce morte del giovane Giulio Regeni e l’ostracismo “atlantico” scattato contro un’assoluta eccellenza italiana, la società Hacking Team, partecipata della Regione Lombardia e un tempo fornitrice anche dell’Fbi. «Nelle settimane successive al ritrovamento del corpo di Regeni – ricorda Dezzani – il fuoco mediatico è diretto contro il “regime egiziano”, il “dittatore Al-Sisi” e i rapporti italo-egiziani, da interrompere tassativamente finché il Cairo non fornirà “la verità” sul caso». Per Dezzani, il povero Regeni (reclutato dall’università di Cambridge in una struttura contigua all’intelligence britannica) fu ucciso su ordine di Londra per sabotare l’asse strategico Roma-Cairo, dopo la scoperta da parte dell’Eni del più grande giacimento mediterraneo di gas nel mare egiziano. Ma, a quanto pare, nell’affare-Regeni andrebbe aggiunta anche l’azienda tecnologica milanese, colpita anch’essa per punire l’Italia.
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Bufale giganti: per seppellire indizi sui “giganti” veri?
Scheletri di giganti alti 4 metri, scoperti in America e subito occultati: scoperta clamorosa, ma “insabbiata” da una autorevolissima istituzione scientifica come la Smithsonian Institution, un glorioso organismo scientifico finanziato dal governo degli Stati Uniti. Una sentenza della Corte Suprema americana, si legge sul web in diversi blog, avrebbe «costretto la Smithsonian Institution a rilasciare i documenti classificati risalenti agli inizi del 1900 che dimostrano che l’organizzazione è stata coinvolta in una grande, storica copertura di prove». Documenti che proverebbero «la scoperta di migliaia di scheletri di giganti umani rinvenuti in tutta l’America: fu ordinato di distruggerli dagli amministratori di alto livello per proteggere la principale cronologia corrente dell’evoluzione umana». Davvero? Niente affatto: quegli scheletri non sono mai stati distrutti. E per un semplice motivo: non sono mai esistiti. Lo ripetono in coro altre fonti, sempre su Internet, secondo cui la storia rientrerebbe tra le classiche “fake news”, sempre più in voga per gettare discredito sulle vere notizie che circolano sul web, disturbando gli omertosi silenzi del mainstream.Le accuse sarebbero state mosse «dall’istituzione americana di Alternative Archeology (Aiaa)», che affermerebbe che la Smithsonian Institution «aveva distrutto migliaia di scheletri di giganti umani nei primi anni del 1900», scrive il blog “Compl8”. «E questa accusa non è stata presa alla leggera da parte della Smithsonian, che ha risposto facendo causa all’organizzazione per diffamazione», visto che l’iniziativa finirebbe per danneggiare la reputazione di un istituto culturale che ha da 168 anni di storia: basato a Washington ma con 19 musei, negli Usa e non solo, lo Smithsonian dispone di 142 milioni di pezzi, nelle sue collezioni, che ne fanno il più grande complesso di musei al mondo. La storia degli scheletri dei giganti, tenuta nascosta fino alla denuncia avallata dalla Corte Suprema? Tutto falso, assicurano siti come “ThatsFake.com” e “BadSatireToday.com”: una vicenda inventata, di sana pianta, da un’unica fonte, il sito “World News Daily Report”, che si definisce «giornale ebreo sionista americano basato a Tel Aviv, specializzato in archeologia biblica e altri misteri della Terra». Il newsmagazine, attivo dal 1988 e con alle spalle oltre 200.000 edizioni, dichiara di essere gestito da giornalisti pluri-premiati «cristiani, musulmani ed ebrei», nonché da «ex agenti del Mossad e veterani dell’esercito israeliano». Il sito però non ne riporta i nomi, e lo stesso “scoop” sugli scheletri extra-large non è firmato.La tesi sostenuta: durante «la causa in tribunale», sarebbero stati «portati alla luce molti elementi», tanto da costringere «molti informatori della Smithsonian» ad ammettere l’esistenza di documenti che, «presumibilmente», comprovavano «la distruzione di decine di migliaia di scheletri di giganti». Esseri decisamente fuori misura, «che raggiungevano un’altezza tra i 6 e 12 piedi (fra circa 2 metri e 4 metri)». Il “World News Daily Report” cita un nome, quello di James Churward, definito «il portavoce Aiaa», associazione archeologica che “UnveilingKnowledge.com” definisce «immaginaria»: sul web non esiste proprio, non dispone di un sito. Nessuna traccia nemmeno del James Churward, citato dal newsmagazine israeliano. L’accusa: «C’è stata una copertura importante dalle istituzioni archeologiche occidentali, fin dai primi anni del 1900, per farci credere che l’America è stata colonizzata da popolazioni asiatiche che migrarono attraverso lo stretto di Bering circa 15.000 anni fa, quando in realtà, ci sono centinaia di migliaia di sepolture e tumuli in tutta l’America, che i nativi affermano che esistevano già prima di loro, e che mostrano tracce di una civiltà altamente sviluppata, con un uso complesso di leghe metalliche, e in cui si trovano gli scheletri di giganti umani, ma ancora non vengono denunciati dai media e dalle agenzie di stampa».Si cita anche l’enorme femore che sarebbe stato scoperto in Ohio nel 2011, ma il “World News Daily Report” va oltre: sostiene che in sede giudiziaria sarebbe stato esibito «un osso lungo 1,3 metri» che, nientemeno, sarebbe stato «rubato dalla Smithsonian da uno dei loro stessi curatori di alto livello a metà degli anni ’30, che aveva conservato l’osso per tutta la vita, e che sul letto di morte aveva ammesso per iscritto che ci furono operazioni sotto copertura dello Smithsonian per far sparire questi scheletri di giganti definitivamente». E ancora: «Stiamo nascondendo la verità sui progenitori dell’umanità, i nostri antenati, i giganti che popolavano la terra come ricordato anche nella Bibbia e nei testi antichi del mondo». Il sito “ThatsFake” smentisce tutto e dichiara falsa l’intera ricostruzione: la denuncia, la causa legale, tutto quanto. «L’intero articolo è una bufala», scrive. «Non è mai stata effettuata alcuna ammissione di quel genere da parte dello Smithsonian». L’esistenza di esseri umani giganti, quelli che la stessa Bibbia chiama “Nephilim”, oppone da lungo tempo evoluzionisti e creazionisti, aggiunge “ThatsFake”. «Ciò ha portato a molte teorie del complotto, che sostengono lo Smithsonian ed enti governativi abbiano coperto l’esistenza di esseri umani giganti per “proteggere la teoria dell’evoluzione umana”».Sempre il sito anti-bufale ammette che il web pullula di foto che ritraggono persone accanto a ossa gigantesche, in apparenza umane, ma sostiene che «è dimostrato che la maggior parte di queste sono state manipolate digitalmente». I giganti, comunque, appassionano: “Esoterya.com” riferisce del ritrovamento di «resti scheletrici di un essere umano di dimensioni fenomenali» scoperto nel 2004 nel nord dell’India da ricercatori di “National Geographic”, subito però “blindati” «dall’esercito indiano». Molti hanno dato la notizia per falsa, aggiunge “Esoterya”, che però cita «il femore di un gigante» che sarebbe stato «spedito in Spagna da Hernán Cortés durante la conquista del Messico». Tracce di altri “giganti” sarebbero state avvistate da esploratori come Magellano, Drake, Hernández , mentre «alcuni soldati a Lampock Ranch, in California, rinvennero lo scheletro di un gigante», ma purtroppo «un frate cattolico ordinò loro di sotterrarlo nuovamente perché i nativi locali erano adirati da tale profanazione», attribuendo quei resti «a un antico dio». Non c’è odore di “fake news”, invece, nel Gigante di Castelnau, cioè i tre frammenti ossei fossili (probabilmente omero, tibia e femore) scoperti dall’antropologo Georges Vacher de Lapouge nel 1890, in Francia.Quei resti affiorarono da un tumulo relativo a una sepoltura dell’Età del Bronzo, databile probabilmente al Neolitico. «Secondo de Lapouge – si legge su Wikipedia – le ossa fossili potrebbero appartenere ad uno dei più grandi esseri umani mai esistiti. Sulla base della dimensione dei frammenti, egli riteneva che l’uomo potesse essere alto circa 3,5 metri». Sui frammenti ossei del presunto gigante, aggiunge Wikipedia, non sono stati pubblicati studi moderni con revisione paritaria. Però il Gigante di Castelnau fu studiato all’università di Montpellier da Sabatier e Delage, professori rispettivamente di zoologia e paleontologia, oltre ad altri anatomisti. «Nel 1892, i frammenti furono approfonditamente studiati dal dottor Paul Louis André Kiener, professore di anatomia patologica presso la Scuola di Medicina di Montpellier». Kiener concluse che i frammenti «rappresentavano “una razza molto alta”, non trovandoli però anomali nelle dimensioni». Due anni dopo, notizie di stampa riportarono un’ulteriore scoperta di ossa umane “giganti” rinvenute nel corso dello scavo di un’area cimiteriale preistorica a Montpellier, ad appena 5 chilometri da Castelnau, individuata durante scavi per opere idriche. «Si rinvennero teschi che misuravano “28, 31 e 32 pollici di circonferenza”, assieme ad altre ossa di proporzioni gigantesche che indicavano l’appartenenza a una popolazione umana alta “tra 10 e 15 piedi” (circa 3-4,5 metri)».Sono le stesse dimensioni, che ricorrono praticamente ovunque. Quelle ossa, scrive ancora Wikipedia, furono poi trasmesse all’Accademia delle Scienze a Parigi per ulteriori studi, di cui non si precisano gli esiti. Ma la curiosità per queste ipotetiche, misteriose creature – di cui non parla solo la Bibbia, ma anche l’Odissea (Polifemo) – non accenna a scemare: l’ultima notizia viene dalla Sardegna, dove un paio d’anni fa è emerso uno scheletro di grandi dimensioni nel complesso nuragico di Barru, tra i comuni di Guamaggiore e Guasila. «Ha un femore enorme», disse il sindaco di Guamaggiore, Nello Cappai, citato dal quotidiano “L’Unione Sarda”, parlando di un osso risultato poi lungo 60 centimetri. Tempo fa fece il giro del web la storia, diffusa dal giornale tedesco “Blid”, del dito mummificato, lungo 38 centimetri, che sarebbe stato scoperto da un tombarolo egiziano vicino alla piramide di Giza e fotografato dallo svizzero Gregory Spoerri.Per Zecharia Sitchin, il padre della paleo-astronautica, la controversa teoria basata sulla reinterpretazione degli antichi testi sumeri, proprio nei giganti sarebbero riscontrabili le tracce dei nostri veri progenitori. In libri come “Il pianeta degli dei” e “Quando i giganti abitavano la Terra”, il ricercatore azero-statunitense sostiene che gli Elohim biblici che dissero “Creiamo Adamo a nostra immagine e somiglianza” siano stati gli dei della Sumeria e di Babilonia, gli Anunnaki giunti sulla Terra dal loro pianeta, Nibiru. Secondo Sitchin, Adamo fu geneticamente progettato circa 300.000 anni, quando i geni degli Anunnaki vennero uniti a quelli di un ominide. Poi, secondo la Bibbia, vennero celebrati matrimoni misti: sulla Terra abitarono i Giganti, che presero in moglie le discendenti di Adamo, dando alla luce “uomini eroici”, figure che l’autore riconduce ai semidei delle tradizioni sumere e babilonesi, tra cui il famoso re mesopotamico Gilgamesh, colui che rivendicò il diritto all’immortalità, e Utnapishtim, l’eroe babilonese del Diluvio. Ma allora tutti noi discendiamo da semidei? Lo storico romano Giuseppe Flavio, nel 79 dopo Cristo, scrive: «Vi erano dei giganti. Molto più grandi e di forma diversa rispetto alle persone normali. Terribile a vedersi. Chi non ha visto con i miei occhi, non può credere che siano stati così immensi».Un sito che si occupa di aspetti scientifici poco noti, “Il Navigatore Curioso”, rievoca la storia di 18 scheletri giganti scoperti nel Wisconsin nel maggio del 1912 da un team di archeologi del Beloit College. Una notizia accolta con enorme risalto dai grandi giornali: uno scavo realizzato presso il lago Delavan «portò alla luce oltre duecento tumuli con effigie che furono considerate come esempio classico della cultura Woodland», una ascendenza preistorica americana che si crede risalga al primo millennio avanti Cristo. «Ma ciò che stupì i ricercatori fu il ritrovamento di diciotto scheletri dalle dimensioni enormi e con i crani allungati, scoperta che non si adattava affatto alle nozioni classiche contenute nei libri di testo. Gli scheletri erano veramente enormi e, benchè avessero fattezze umane, non potevano appartenere a esseri umani normali. La notizia – aggiunge il “Navigatore Curioso” – ebbe una grande eco e fece molto scalpore, tanto che il “New York Times” riportò la notizia tra le sue pagine. Forse, a quei tempi, c’era più libertà e meno paura rispetto alle scoperte che potevano cambiare le consolidate credenze scientifiche fondate solo su teorie». L’unica certezza che abbiamo, ripete Mauro Biglino, noto per la rilettura letterale della Bibbia, è che la nostra storia è interamente da scrivere. E se qualcuno ha davvero “paura” di possibili verità scomode, forse non c’è niente di meglio che qualche bufala “gigante”: l’ideale, per seppellire nel ridicolo qualsiasi pista alternativa a quella ufficiale.Scheletri di giganti alti 4 metri, scoperti in America e subito occultati: scoperta clamorosa, ma “insabbiata” da una autorevolissima istituzione scientifica come la Smithsonian Institution, un glorioso organismo scientifico finanziato dal governo degli Stati Uniti. Una sentenza della Corte Suprema americana, si legge sul web in diversi blog, avrebbe «costretto la Smithsonian Institution a rilasciare i documenti classificati risalenti agli inizi del 1900 che dimostrano che l’organizzazione è stata coinvolta in una grande, storica copertura di prove». Documenti che proverebbero «la scoperta di migliaia di scheletri di giganti umani rinvenuti in tutta l’America: fu ordinato di distruggerli dagli amministratori di alto livello per proteggere la principale cronologia corrente dell’evoluzione umana». Davvero? Niente affatto: quegli scheletri non sono mai stati distrutti. E per un semplice motivo: non sono mai esistiti. Lo ripetono in coro altre fonti, sempre su Internet, secondo cui la storia rientrerebbe tra le classiche “fake news”, sempre più in voga per gettare discredito sulle vere notizie che circolano sul web, disturbando gli omertosi silenzi del mainstream.
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Mishra: l’età della rabbia, nell’Occidente senza più futuro
Un’arma letale nel cuore e nella mente di una gioventù cosmopolita smarrita e senza radici, in cerca di un senso alla sua esistenza, mentre scivoliamo verso quella che probabilmente sarà la più lunga tra le guerre mondiali. Ogni tanto ecco che esce un libro che strappa e rapisce lo spirito del tempo, che risplende con un diamante pazzo: “L’età della Rabbia” (The Age of Anger) di Pankaj Mishra, autore del ‘precursore’ “Dalle rovine dell’Impero”, potrebbe anche essere l’ultimo avatar. Considerate questo libro come l’ultima (concettualmente parlando) arma letale nei cuori e nelle menti di una gioventù smarrita cosmopolita alla ricerca di una vera ‘chiamata’, mentre scivoliamo verso la più lunga (“infinita”, direbbe il Pentagono) tra le guerre mondiali, una guerra civile globale (che nel mio libro del 2007 “Globalistan” definivo “guerra liquida”). In sostanza, Mishra (prodotto perfetto dell’Est che incontra l’Ovest) sostiene che è impossibile comprendere il presente se prima non riconosciamo quel malessere nostalgico di fondo che contraddice l’ideale del liberalismo cosmopolita – «la società commerciale cosmopolita di individui razionali egoisti» concettualizzata originariamente dall’Illuminismo di Montesquieu, Adam Smith, Voltaire e Kant.Alla fine il vincitore nella Storia è uno sterile concetto di bonario Illuminismo. Nella norma, avrebbero dovuto prevalere il razionalismo, l’umanesimo, l’universalismo e la democrazia liberale. Ma sarebbe stato «chiaramente troppo sconcertante», scrive Mishra, «riconoscere che la politica totalitaria abbia cristallizzato le correnti ideologiche (razzismo scientifico, razionalismo sciovinista, imperialismo, tecnicismo, politica estetizzata, ingegnerie sociali)» che già scuotevano l’Europa alla fine del 19 ° secolo. Quindi, evocando T.S. Eliot, per poter inquadrare «quel mezzo sguardo all’indietro, sopra la spalla, verso il terrore primivito» che alla fine ha condotto all’Ovest contro il Resto del Mondo, dobbiamo tornare ai precursori. “Distruggi il palazzo di cristallo”. Prendete Pushkin, “Eugene Onegin”, «il primo di molti ‘uomini superflui’ della narrativa russa», con il suo cappello Bolivar, che tiene stretti a sé una statua di Napoleone e un ritratto di Byron, come la Russia, che tenta di recuperare il suo ritardo con l’Occidente, «gioventù senza radici, prodotto di massa con una concezione quasi “byroniana” di libertà, gonfiata ulteriormente dal romanticismo tedesco».I migliori critici dell’Illuminismo dovevano per forza essere tedeschi o russi, in ritardo nella modernità politico-economica. Dostoevsky: la società dominata dalla guerra di tutti contro tutti, dove la maggioranza era condannata a perdere. Due anni prima di pubblicare il sorprendente “Memorie dal Sottosuolo” Dostoevskij, durante il suo viaggio in Europa occidentale, aveva già osservato una società dominata da una guerra di tutti contro tutti, dove la maggior parte era condannata a perdere. A Londra, nel 1862, al Salone Internazionale al Crystal Palace, Dostoevskij ebbe un’illuminazione («E ti arriva un’idea colossale…che il trionfo e la vittoria erano lì. Quasi inizi a temere qualcosa»). Per quanto stupito, Dostoevskij fu molto acuto nell’osservare quanto la civiltà materialista si nutrisse non solo del suo proprio fascino, ma anche della sua potenza militare e marittima.La letteratura russa finì con il cristallizzare il crimine casuale come il paradigma dell’individualità che assapora l’identità e afferma la propria volontà (che poi ritroviamo nel 20° secolo nell’icona beat William Burroughs, il quale sosteneva che sparare a caso sulla folla fosse per lui il massimo del brivido). La pista era aperta: le orde di “mendicanti dissoluti” (Beggars Banquet) potevano iniziare a bombardare il Crystal Palace – anche se, ci ricorda Mishra, «gli intellettuali al Cairo, a Calcutta, a Tokyo e a Shanghai leggevano Jeremy Bentham, Adam Smith, Thomas Paine, Herbert Spencer e John Stuart Mill», per comprendere il segreto in eterna espansione della borghesia capitalistica. E questo dopo che Rousseau, nel 1749, aveva posto la prima pietra della rivolta moderna contro la modernità, ora ridotta in mille schegge, in un deserto di echi contrastanti, mentre ritroviamo il Crystal Palace riflesso in mille ghetti luccicanti in tutto il mondo.“Illuminato: sei morto”. Mishra attribuisce l’idea del suo libro a Nietzsche che commentava l’epica querelle tra l’invidioso plebeo Rousseau e il sereno aristocratico Voltaire – il quale salutò la London Stock Exchange, quando divenne pienamente operativa, come una realizzazione secolare dell’armonia sociale. Ma alla fine fu Nietzsche che si oppose in maniera esemplare, come feroce detrattore sia del capitalismo liberale che del socialismo, rendendo l’allettante promessa di Zarathustra un magnetico Santo Graal agli occhi dei bolscevichi (Lenin, tuttavia, lo detestava), della sinistra di Lu Xun in Cina, dei fascisti, degli anarchici, delle femministe e delle orde di esteti scontenti. Mishra ci ricorda anche come «gli antimperialisti asiatici e i baroni ladroni americani hanno attinto a piene mani da Herbert Spencer, il primo pensatore veramente globale», che dopo aver letto Darwin coniò il mantra della “sopravvivenza del più adatto”. Nietzsche fu l’ultimo cartografo del Risentimento. Max Weber inquadrò profeticamente il mondo moderno come una “gabbia di ferro” da cui può sfuggire solo un leader carismatico. E l’icona anarchica Michail Bakunin, da parte sua, nel 1869 aveva già concettualizzato il “rivoluzionario” come colui che recide «ogni legame con l’ordine sociale e con l’intero mondo civilizzato… Lui è il suo nemico più spietato e continua ad esistere per un unico scopo: distruggerlo».Sfuggendo all’Incubo della Storia del Modernista Supremo James Joyce – dalla gabbia di ferro della modernità, appunto – è scoppiata in modo incontrollato e ben al di fuori dei confini dell’Europa una secessione militante viscerale, «da una civiltà fondata sul progresso graduale controllato da fiduciari liberal-democratici». Ideologie anche radicalmente contrarie sono comunque sorte in simbiosi dal vortice culturale del tardo 19° secolo, dal fondamentalismo islamico al sionismo, dal nazionalismo indù al bolscevismo, dal nazismo al fascismo e al rinnovato imperialismo. Non solo la seconda guerra mondiale, ma anche l’attuale finale di partita è stato brillantemente visualizzato nel 1930 dal tragico Walter Benjamin, quando già metteva in guardia contro l’auto-alienazione del genere umano, finalmente in grado di «provare nella propria distruzione il massimo piacere estetico possibile». Gli jihadisti di oggi in streaming fai-da-te non sono altro che la sua versione pop, mentre l’Isis tenta di proporsi come negazione estrema delle miserie della modernità (neo-liberale).“L’era del Risentimento”. Tessendo flussi coloriti di politica e di impollinazioni incrociate letterarie, Mishra si prende il suo tempo per impostare la scena del Grande Dibattito tra quelle masse del mondo in via di sviluppo – la cui esistenza è stata etichettata dall’Occidente Atlantista («storie di violenza ancora largamente riconosciuta») e dalle élite della modernità liquida (Bauman) che hanno ceduto alla quella selezionata parte del mondo a cui si attribuiscono, dopo l’Illuminismo, le più grandi scoperte e innovazioni scientifiche, filosofiche, artistiche e letterarie. Questo va ben al di là di un semplice dibattito tra Est e Ovest. Non riusciremo a comprendere l’attuale guerra civile globale, questo «mix intenso di invidia e senso di umiliazione ed impotenza» post-modernista, e post-verità, se non tentiamo di «smantellare l’architettura concettuale e intellettuale dell’Occidente vincitore nella storia», che deriva dalla storia ipertrionfalista dei successi americani. Anche al culmine della guerra fredda, il teologo statunitense Reinhold Niebuhr si beffava dei «tiepidi fanatici della civiltà occidentale» e della loro fede cieca nel fatto che ogni società è destinata ad evolversi come hanno fatto, a volte, una manciata di paesi occidentali. E questo – ironia! – mentre il culto liberale internazionalista del progresso scimmiottava platealmente il sogno marxista della rivoluzione internazionale.(Pepe Escobar, “L’erà della rabbia”, da “Asia Times” del 4 febbraio 2017, tradotto da “Skoncertata63” per “Come Don Chisciotte”).Un’arma letale nel cuore e nella mente di una gioventù cosmopolita smarrita e senza radici, in cerca di un senso alla sua esistenza, mentre scivoliamo verso quella che probabilmente sarà la più lunga tra le guerre mondiali. Ogni tanto ecco che esce un libro che strappa e rapisce lo spirito del tempo, che risplende con un diamante pazzo: “L’età della Rabbia” (The Age of Anger) di Pankaj Mishra, autore del ‘precursore’ “Dalle rovine dell’Impero”, potrebbe anche essere l’ultimo avatar. Considerate questo libro come l’ultima (concettualmente parlando) arma letale nei cuori e nelle menti di una gioventù smarrita cosmopolita alla ricerca di una vera ‘chiamata’, mentre scivoliamo verso la più lunga (“infinita”, direbbe il Pentagono) tra le guerre mondiali, una guerra civile globale (che nel mio libro del 2007 “Globalistan” definivo “guerra liquida”). In sostanza, Mishra (prodotto perfetto dell’Est che incontra l’Ovest) sostiene che è impossibile comprendere il presente se prima non riconosciamo quel malessere nostalgico di fondo che contraddice l’ideale del liberalismo cosmopolita – «la società commerciale cosmopolita di individui razionali egoisti» concettualizzata originariamente dall’Illuminismo di Montesquieu, Adam Smith, Voltaire e Kant.