Archivio del Tag ‘editoria’
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Magaldi: Salvini abbaia ma non morde, proprio come l’Italia
Povera patria, cantava Battiato, ai tempi in cui il radar stava per inquadrare lo sfacelo di Tangentopoli e i rottami delle auto di Falcone e Borsellino, mentre su RaiTre i vari Ghezzi e Guglielmi scavavano tra le macerie civili nella vana speranza di rintracciare qualcosa che potesse somigliare a un umanesimo post-comunista. Nel frattempo – lontano dagli occhi, e dal cuore – l’altra sinistra, quella di potere, si accingeva a svendere segretamente l’Italia, impiccandola al “vincolo esterno” di Maastricht che l’avrebbe ridotta a colonia minore, docile preda dell’asse franco-tedesco. Quasi trent’anni dopo, sostituiti gli attori, il copione ripropone la stessa canzone. Povera patria, e povero Salvini: ridotto a farsi applaudire da un antagonista da salotto come Diego Fusaro per la ridicola crociata contro la cannabis light, dopo aver lisciato il pelo, a Verona, ai cultori dell’archeologia familistica pre-moderna, reazionaria, ottusamente tradizionalista. «Non ne azzecca più una, il leader della Lega». E dove sarebbe la notizia? Perché mai dovrebbero interessarci, le avvisaglie di declino che sfiorano il Capitano? Semplice: perché è stato l’unico, in questi anni, a mettere a fuoco il problema del paese, il vero avversario. Ma il suo attuale smarrimento fotografa alla perfezione la fragilità del sistema-Italia di fronte all’ostacolo – sempre lo stesso – che condanna la penisola alla depressione sociale ed economica.Non si smuove di un millimetro l’impero abusivo di Bruxelles, dominato da lobbisti travestiti da statisti. L’altra notizia è che la situazione sta peggiorando a vista d’occhio. E il governo gialloverde non sa che pesci pigliare, non avendo osato sfidare gli oligarchi tenendo duro almeno sulla richiesta di deficit. Povero Salvini, comunque: tacciato di xenofobia, pur essendo stato l’unico a far eleggere un senatore di origine africana. Lo hanno anche accusato di fascismo per il libro pubblicato dall’editrice vicina a CasaPound, sfrontatamente cacciata dal Salone del Libro di Torino – strano posto, dove si fa la guerra (elettorale) a un’azienda, anziché eventualmente lasciar procedere i magistrati (nel caso, per apologia di fascismo) contro la discutibile sortita verbale, individuale, di uno dei suoi responsabili. E a proposito di Torino: quante volte il Salone dell’Ipocrisia ha ospitato editori e autori dichiaratamente comunisti, quindi teoricamente altrettanto ostili, sulla carta, all’orizzonte culturale e antropologico della democrazia liberale? Ne ha per tutti, Gioele Magaldi, nell’osservare il caos che domina la vigilia delle europee: «Elezioni perfettamente inutili», sostiene il presidente del Movimento Roosevelt, che annuncia che diserterà le urne. Motivo: impossibile sperare in un voto utile. Tutto resterà come prima, nelle mani del neoliberismo di regime incarnato da Ppe e Pse.Da una parte c’è il mostruoso e grottesco Juncker, che – in spregio di qualsiasi etica e decenza democratica – già annuncia che “i populisti” saranno tenuti lontani dai ruoli-chiave, a prescindere dal risultato della consultazione. All’ombra di Juncker siede l’altrettanto imbarazzante Moscovici, il “signor no” del deficit italiano, in conferenza stampa con l’ectoplasmatico Gentiloni, alter ego dell’impalpabile Zingaretti. A loro va bene così: con l’Italia che “subisce ancora”, come Fantozzi, votata – per una assurda maledizione – a non crescere, a restare sottomessa e depressa, a non guarire mai. Ma chi fronteggia l’impostura? In campo ci sono (rumorosamente) soltanto loro, i cosiddetti sovranisti, cioè la pessima compagnia che si è scelto Matteo Salvini: «I primi a opporsi all’Italia quando chiedeva più deficit sono stati proprio Polonia e Ungheria, gli alleati teorici della Lega», fa notare Magaldi, che nel bestseller “Massoni” ha disegnato la mappa segreta del potere mondialista, interamente massonico, che ha progettato questa globalizzazione senza diritti che stiamo tutti scontando, italiani senza lavoro e giovani senza futuro, aziende sull’orlo del fallimento, professionisti costretti a mendicare pagamenti che non arrivano mai.Sovranismo contro globalismo? Falsa dicotomia, checché ne pensi l’ex ideologo grillino Paolo Becchi: non contano le dimensioni del sistema, le sue frontiere, ma le modalità di gestione – democratiche oppure oligarchiche, progressiste o conservatrici (alzi la mano chi vorrebbe vivere nella Corea del Nord, paese teoricamente ultra-sovranista). E il nostro Salvini? S’è perso per strada, prima ancora di cominciare: «Abbaia, ma non morde», dice Magaldi. In questo, ricorda sinistramente l’altro Matteo, il Renzi che – a parole – sembrava sul punto di resuscitare l’Italia, opponendosi agli abusi della subdola tecnocrazia europea. In un attimo, è passato dal 40% agli scantinati della politica, tra gli ex. Potrebbe succedere anche al condottiero leghista: l’imboscata sleale di Di Maio e Conte – decapitare Armando Siri, per offrire una stampella moralistica ai 5 Stelle in pieno panico pre-elettorale – è già costata un 6% di consensi, alla Lega, almeno stando ai sondaggi. Su Siri, Magaldi è indignato: il sottosegretario doveva restare al suo posto, essendo solo indagato. «Salvini doveva difenderlo a oltranza. E invece cosa ha fatto? Al solito: ha abbaiato, minacciando sfracelli, ma poi ha ingoiato il rospo anche stavolta, incassando una sconfitta bruciante». Un guerriero di latta, il cui consenso si sta mostrando pericolosamente effimero e friabile.«Salvini sa benissimo che è Bruxelles, che dovrebbe mordere, e non i negozi di cannabis terapeutica: queste battaglie tragicomiche le lasci a Fusaro, e spenda meglio il suo tempo. Pensi all’Italia, alla crisi che sta azzannando il paese». Già, la grande crisi che tutti fingono di non vedere. Fino a ieri, se non altro, Salvini la indicava senza ipocrisie: è riuscito a piazzare al Senato un economista keynesiano come Alberto Bagnai. Dopodiché, nebbia in Val Padana. «Oltre ad aver ceduto di fronte al diktat di Bruxelles sul deficit, che avrebbe fatto crescere il Pil riducendo l’incidenza del debito – argomenta Magaldi – il governo gialloverde non ha neppure preso in considerazione la proposta che l’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, avanza da anni: creare moneta parallela, non a debito e perfettamente ammessa dal Trattato di Lisbona, per aggirare la scarsità artificiosa di liquidità che affligge l’Eurozona e creare quei posti di lavoro di cui l’Italia ha drammaticamente bisogno».Infrastrutture strategiche, servizi, welfare, sicurezza del territorio. Servono soldi, che però l’élite neo-feudale non vuole che si spendano: la fine della crisi sarebbe anche la fine dell’attuale potere oligarchico, basato sulla precarizzazione del lavoro. Il piano avanza da anni, implacabile: tagliare i viveri allo Stato per costringerlo ad alzare le tasse, comprimere i salari e colpire i consumi. Amputare il welfare significa spremere il paese, spingendolo a erodere i risparmi. Il cielo si chiude: rassegnazione. Meno opportunità, meno diritti. Le elezioni? Non contano: lo dice Juncker, spettrale tecnocrate al quale Fabio Fazio, sulla Rai, stende il tappeto rosso. Se la ride, l’oligarca del Lussemburgo (rinomato paradiso fiscale, per decenni), già sapendo che l’alleanza di piombo tra popolari e socialisti europei ridurrà le elezioni del 26 maggio a una lugubre barzelletta. Ci vuole ben altro, per rovesciare questi cialtroni: un programma rivoluzionario, radicale, che smonti le loro menzogne travestite da scienza economica e vendute al popolo bue come dogma di fede. Salvini, almeno lui, lo sa benissimo. Ed è per questo che è imperdonabile, oggi, il suo ostinarsi ad abbaiare – contro falsi obiettivi – senza mai decidersi a mordere davvero.(Il pensiero di Magaldi è sintetizzato in due interventi su YouTube, l’11 maggio in video-chat con Marco Moiso, vicepresidente del Movimento Roosevelt, e il 13 maggio con Fabio Frabetti, conduttore di “Border Nights”. Dopo il recente convegno di Londra sul New Deal rooseveltiano di cui avrebbe bisogno l’Europa, i temi esposti da Magaldi – come risolvere la crisi italiana, affrontando finalmente l’oligarchia di Bruxelles – saranno alla base dell’assemblea che il 14 luglio, a Roma, darà vita al “Partito che serve all’Italia”, laboratorio politico che si candida a smascherare le ipocrisie e la mancanza di coraggio della politica italiana di fronte alle reali cause del malessere del paese).Povera patria, cantava Battiato, ai tempi in cui il radar stava per inquadrare lo sfacelo di Tangentopoli e i rottami delle auto di Falcone e Borsellino, mentre su RaiTre i vari Ghezzi e Guglielmi scavavano tra le macerie civili nella vana speranza di rintracciare qualcosa che potesse somigliare a un umanesimo post-comunista. Nel frattempo – lontano dagli occhi, e dal cuore – l’altra sinistra, quella di potere, si accingeva a svendere segretamente l’Italia, impiccandola al “vincolo esterno” di Maastricht che l’avrebbe ridotta a colonia minore, docile preda dell’asse franco-tedesco. Quasi trent’anni dopo, sostituiti gli attori, il copione ripropone la stessa canzone. Povera patria, e povero Salvini: ridotto a farsi applaudire da un antagonista da salotto come Diego Fusaro per la ridicola crociata contro la cannabis light, dopo aver lisciato il pelo, a Verona, ai cultori dell’archeologia familistica pre-moderna, reazionaria, ottusamente tradizionalista. «Non ne azzecca più una, il leader della Lega». E dove sarebbe la notizia? Perché mai dovrebbero interessarci, le avvisaglie di declino che sfiorano il Capitano? Semplice: perché è stato l’unico, in questi anni, a mettere a fuoco il problema del paese, il vero avversario. Ma il suo attuale smarrimento fotografa alla perfezione la fragilità del sistema-Italia di fronte all’ostacolo – sempre lo stesso – che condanna la penisola alla depressione sociale ed economica.
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Torino, il Salone della Censura anticipa il governo Pd-M5S?
Torino, la città più inquinata d’Italia – aria irrespirabile – ha una sinistra caratteristica: da decenni tende a sottrarre, anziché aggiungere. Comicamente, Juventus City cadde ai piedi di Sergio Marchionne: bagno di folla per il lancio della nuova Cinquecento, gioiellino-simbolo del manager che avrebbe trasferito a Detroit e nel resto del mondo quel che rimaneva della Fiat, svuotando Mirafiori. L’ex sindaco Sergio Chiamparino, poi presidente della potentissima Compagnia di San Paolo e ora governatore del Piemonte, ha riempito le piazze del capoluogo con le gloriose “madamine”, che invocano posti di lavoro fingendo di credere alla panzana siderale della linea Tav Torino-Lione. La città che in trent’anni – successi della Juve a parte – ha fatto sorridere il paese solo per la pronuncia televisiva di Luciana Littizzetto (e di Piero Chiambretti, per fortuna) generalmente riesce a fare notizia così, con i manifestanti NoTav aggrediti e malmenati al corteo del Primo Maggio. E con vicende fantozziane e imbarazzanti come la censura “antifascista” imposta all’editrice Altaforte al Salone del Libro, stanca kermesse editoriale che celebra la finta rinascita, mai davvero avvenuta, dell’ex capitale industriale e sindacale.Torino è sempre tristemente bella, misteriosamente inerte, lievemente depressiva. Ha inanellato un piccolo record italiano di sciagure altamente evocative, dalla tragedia del Grande Torino al rogo del cinema Statuto, fino alla carneficina in piazza San Carlo scatenata dal panico tra la folla che assisteva, dal maxischermo, a una partita della squadra bianconera (ancora lei). A due passi dall’ex cinema, nell’omonima piazza, torreggia il lugubre monumento che commemora i lavoratori caduti nell’800 al cantiere del Traforo del Fréjus voluto da Cavour. Il Fréjus esiste ancora, ci passa il velocissimo Tgv francese sulla linea valsusina Torino-Modane, ma forse i torinesi se ne dimenticano. Non sanno che esiste già, una Torino-Lione, e che l’Italia ha appena speso quasi mezzo miliardo di euro per ammodernare quel traforo, rendendolo perfettamente adatto al transito dei treni con a bordo i Tir e i grandi container navali? Dove hanno la testa, i torinesi, quando si lasciano trasformare in docile gregge (sotto la guida carismatica delle “madamine” di Chiamparino) da chi ha tutta l’aria di volersi aggrappare, come un parassita senza speranza, al miraggio miliardario dell’inutile ferrovia-doppione in valle di Susa? E’ lontanamente immaginabile che qualcosa del genere possa accadere nella vicinissima Milano, che dopo l’Expo è balzata al secondo posto (dietro a Roma) tra le mete turistiche italiane?A illuminare indirettamente il male oscuro di Torino ha provveduto, di recente, un giornalista di razza come Gigi Moncalvo, autore di saggi esplosivi (“Agnelli segreti” e “I lupi e gli agnelli”) subito spariti, misteriosamente, dalle librerie. In due diverse puntate della trasmissione web-radio “Forme d’Onda”, una sugli Agnelli e l’altra sui Caracciolo, Moncalvo si domanda come sia possibile che la grande stampa italiana ignori completamente le notizie-bomba che provengono dalla collina torinese, dove gli eredi dell’Avvocato si lacerano in guerre all’ultimo sangue per contendersi il tesoro dell’ex patron della Fiat: miliardi di euro “riparati” all’estero, lontano dal fisco italiano (nonostante i fiumi di denaro statale concessi per la cassa integrazione). C’è anche il forziere – 9 miliardi in lingotti d’oro – custodito nel blindatissimo Freeport di Ginevra, insieme ai “risparmi” – dice sempre Moncalvo – dei migliori galantuomini del pianeta, narcos sudamericani e oligarchi russi. Possibile che nessuno ne parli? Ebbene sì: solo in Italia il kolossal tratto dal romanzo “The silence of the lambs” uscì col titolo taroccato (il silenzio degli innocenti, anziché degli agnelli) per un riflesso di autocensura preventiva, nel timore che la parola proibita – agnelli – potesse turbare la quiete sabauda della real casa.E se ora Torino fa notizia come sempre, cioè con qualcosa di sgradevole (il conformismo da parata, in salsa “antifascista”, per mettere al bando un editore che lo Stato considera perfettamente legale), c’è chi si mette addirittura in sospetto: vuoi vedere che dietro la manfrina anti-Salvini, inscenata da Chiamparino in tandem con la sindachessa pentastellata Chiara Appendino, si nascondono i prodromi della prossima, possibile manovra di palazzo per “sposare” i 5 Stelle con l’incolore Pd di Zingaretti? Non che ne manchino le premesse, dopo le entrate a gamba tesa di Roberto Fico sui migranti, l’allineamento di Giulia Grillo sul decreto Lorenzin (obbligo vaccinale), quindi la genuflessione di Di Maio alla Merkel e, soprattutto, la clamorosa cacciata di Armando Siri dal governo Conte. In compenso, Salvini – nel mirino – risponde da par suo, aprendo la più tragicomica caccia alle streghe della storia, quella contro i negozi di cannabis “light”. Con buona pace delle speranze dell’Italia gialloverde, morte e sepolte dopo la resa a Bruxelles. Nel 2008, Veltroni scelse proprio Torino per lanciare il formidabile Pd, il partito che avrebbe sorretto il governo Monti e varato la legge Fornero e il pareggio di bilancio in Costituzione. Sarà ancora l’ambigua e depressa Torino, capitale della censura, a inaugurare l’ennesima non-svolta concepita per consegnare il paese all’orizzonte dell’austerity eterna?(Giorgio Cattaneo, “Fatale Torino, capitale della censura: il bavaglio a CasaPound (contro Salvini) prepara un’intesa di governo tra Pd e 5 Stelle?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 12 maggio 2019).Torino, la città più inquinata d’Italia – aria irrespirabile – ha una sinistra caratteristica: da decenni tende a sottrarre, anziché aggiungere. Comicamente, Juventus City cadde ai piedi di Sergio Marchionne: bagno di folla per il lancio della nuova Cinquecento, gioiellino-simbolo del manager che avrebbe trasferito a Detroit e nel resto del mondo quel che rimaneva della Fiat, svuotando Mirafiori. L’ex sindaco Sergio Chiamparino, poi presidente della potentissima Compagnia di San Paolo e ora governatore del Piemonte, ha riempito le piazze del capoluogo con le gloriose “madamine”, che invocano posti di lavoro fingendo di credere alla panzana siderale della linea Tav Torino-Lione. La città che in trent’anni – successi della Juve a parte – ha fatto sorridere il paese solo per la pronuncia televisiva di Luciana Littizzetto (e di Piero Chiambretti, per fortuna) generalmente riesce a fare notizia così, con i manifestanti NoTav aggrediti e malmenati al corteo del Primo Maggio. E con vicende fantozziane e imbarazzanti come la censura “antifascista” imposta all’editrice Altaforte al Salone del Libro, stanca kermesse editoriale che celebra la finta rinascita, mai davvero avvenuta, dell’ex capitale industriale e sindacale.
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Torino, Auschwitz: vergognosa censura contro CasaPound
Osservavo in silenzio, con disgusto ormai antico, l’eterno ripetersi della Discriminazione Antifascista anche in quel carnevale del libro che è diventato il Salone di Torino. Liste di proscrizione, scomuniche, dimissioni, presìdi, mobilitazioni. Il solito repertorio che ormai conosciamo e vediamo ogni giorno. È una coazione a ripetere, gli antifascisti coatti sono forzati ai loro esorcismi, non possono farne a meno anche se sanno di sortire l’effetto opposto. Ho cercato di superare la nausea per studiare con distacco la loro pantomima e per cogliere la molla che scatta in questi casi: cos’è, da dove nasce, a che scopo, per poi manifestarsi col solito rituale. E ho scoperto che al fondo agisce una legge logico-matematica con un inquietante risvolto medico-sanitario: alla base di tutto c’è l’applicazione della proprietà transitiva. Seguitemi nel ragionamento, vi propongo lo schema generale. Se sei ritenuto a torto o ragione di destra, sei inevitabilmente colluso con la destra estrema, altrimenti ti dissoceresti in modo netto e vistoso. E se sei colluso o perlomeno contiguo all’estrema destra, sei in odore di fascismo, altrimenti ti dichiareresti antifascista; ma se sei in odore di fascismo, sei automaticamente in odore di nazismo e di razzismo. Ergo, sei il terminale di una filiera che parte da casa tua e arriva diritto ad Auschwitz.È quel che è accaduto a Torino: per la proprietà transitiva sono partiti dall’editore vicino a Casa Pound per censurare a cascata editori e autori di destra. Con me si sono evitati il problema in partenza: sono escluso da anni, sono fuori salone. Se gli inviti ricevuti ti allietano, gli inviti negati ti onorano. Comunque, ammetto, non ne soffro la mancanza. In realtà l’obbiettivo finale è oggi Salvini, il Gatto Mammone di turno. Immaginate cosa accadrebbe se la proprietà transitiva si applicasse anche a sinistra? Arriveremmo dalle Br e i gulag a Zingaretti e “La Repubblica”. Follia. E si caccerebbe, per citarne solo uno, un grande storico come Luciano Canfora perché è comunista. Discriminazione che nessuno a destra ha mai auspicato. La stessa progressione si pratica verso chi ritiene che si debbano frenare i flussi migratori, verso chi simpatizza per Salvini o si definisce patriota, conservatore e via dicendo. Dallo stop ai migranti al campo di sterminio c’è un filo conduttore, anzi un filo spinato, come hanno mostrato i propagandisti dell’Eterno Nazismo, utilizzando una foto di Salvini con Orban sui confini. La proprietà transitiva qui è condita con la frase: così cominciò Hitler. E allora se Hitler cominciò la sua rivoluzione in birreria mettiamo fuori legge tutte le birrerie?La proprietà transitiva applicata al tempo si chiama “sequenza fatale”; si comincia così, da un filo spinato, e poi si sa dove si va a finire. E io che continuavo a identificare il filo spinato con la cortina di ferro dei regimi comunisti, da cui non si poteva uscire… La proprietà transitiva regala sorprese; per esempio se sei di destra, per i vasi comunicanti suddetti, ti trovi complice di due sciagurati ragazzi di CasaPound che hanno violentato una ragazza. T’illumini d’infamia per la proprietà transitiva: se l’editore Altaforte, vicino a Casa Pound, pubblica un libro-intervista con Salvini, allora Salvini è dalla parte del nazifascismo, del terrorismo e dei due violentatori. La stessa proprietà transitiva vale in senso verticale come ereditarietà: tu puoi essere alla quarta generazione, ma se ti chiami Mussolini – per la proprietà transitiva che risale dal figlio al padre, al nonno e al bisnonno – non puoi candidarti, sei contaminato, di stirpe maledetta; sei criminale nel sangue. L’ereditarietà della pena è l’applicazione biologico-giuridica della proprietà transitiva. Indipendentemente da quello che sei e che hai fatto in vita tua, in quanto pronipote di Mussolini, sei colpevole per ragioni di sangue, di nome e dna: ma questo non è razzismo allo stato “puro”?Come si può capire, la proprietà transitiva sottintende un criterio medico-sanitario: se A è vicino a B e B è vicino a C che a sua volta è vicino a D, allora A ha contaminato D. È una catena di infetti. E’ necessario isolare A, B, C, D e tutti coloro che sono vicini a loro o solo d’accordo; è necessario metterli in quarantena, espellerli, escluderli. Sono intoccabili nel senso dei paria indiani, la casta infame da tenere separata per non contaminarsi. Dunque è necessario allestire un cordone sanitario per isolare gli infetti e i loro stand e al contempo esercitare a scopo di profilassi una discriminazione razziale a cascata. Un effetto perverso di questa proprietà, già sperimentato con successo da diversi decenni, è istigare a spezzare la catena per immunizzarsi: è così accaduto che i moderati, i liberali, i democristiani, spaventati dall’accusa di collusione e contagio, siano stati costretti a erigere muri verso la destra.E questa chiusura ha beneficiato i loro avversari: infatti era possibile il centro-sinistra ma non il centro-destra, l’agibilità del centro poteva allargarsi a sinistra fino alla sinistra estrema e ai comunisti, ma non poteva allearsi con la destra, perché – in virtù della proprietà transitiva – ti allei di fatto con l’estrema destra, razzista e xenofoba e quindi coi nazifascisti. Berlusconi, va detto, spezzò questa catena e questo interdetto, così il centro-destra diventò maggioranza e andò al governo. Ma Hitler non andò al potere… L’effetto più curioso che produce la proprietà transitiva, con la relativa sequenza fatale, è l’applicazione dell’effetto farfalla: come il battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano in un’altra parte del mondo, così un saluto romano a Canicattì può provocare un uragano su Salvini e paraggi. La fisica al servizio del delirio partigiano produce queste assurde scemenze.(Marcello Veneziani, “Censurati per proprietà transitiva”, da “La Verità” del 9 maggio 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Osservavo in silenzio, con disgusto ormai antico, l’eterno ripetersi della Discriminazione Antifascista anche in quel carnevale del libro che è diventato il Salone di Torino. Liste di proscrizione, scomuniche, dimissioni, presìdi, mobilitazioni. Il solito repertorio che ormai conosciamo e vediamo ogni giorno. È una coazione a ripetere, gli antifascisti coatti sono forzati ai loro esorcismi, non possono farne a meno anche se sanno di sortire l’effetto opposto. Ho cercato di superare la nausea per studiare con distacco la loro pantomima e per cogliere la molla che scatta in questi casi: cos’è, da dove nasce, a che scopo, per poi manifestarsi col solito rituale. E ho scoperto che al fondo agisce una legge logico-matematica con un inquietante risvolto medico-sanitario: alla base di tutto c’è l’applicazione della proprietà transitiva. Seguitemi nel ragionamento, vi propongo lo schema generale. Se sei ritenuto a torto o ragione di destra, sei inevitabilmente colluso con la destra estrema, altrimenti ti dissoceresti in modo netto e vistoso. E se sei colluso o perlomeno contiguo all’estrema destra, sei in odore di fascismo, altrimenti ti dichiareresti antifascista; ma se sei in odore di fascismo, sei automaticamente in odore di nazismo e di razzismo. Ergo, sei il terminale di una filiera che parte da casa tua e arriva diritto ad Auschwitz.
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Tra CasaPound e NoTav, a Torino il Salone dell’Ipocrisia
Centomila persone alla camera ardente dell’Avvocato, ma solo duemila al funerale di Primo Levi. Due lutti che in qualche modo fotografano Torino: folla oceanica per il patron della Fiat e dalla Juventus, di cui ora si scoprono i miliardi di euro “riparati” all’estero, lontano dal fisco italiano. Molto più intime, invece, le esequie dell’autore di “Se questo è un uomo”, massimo capolavoro della memorialistica mondiale sulla Shoah. Unico paese in cui il libro non fu tradotto, per decenni: Israele. Motivo tutto politico: Primo Levi non tollerava gli abusi del sionismo contro i palestinesi. Il regime di Tel Aviv fu costretto a “sdoganarlo” solo dopo la spettacolare operazione di Philip Roth, che finalmente presentò il chimico-scrittore al pubblico statunitense negli anni ‘80, tributandogli gli onori di un eroe civile e di una grande firma della letteratura internazionale. Ebrei e antifascismo? Torino non smentisce la sua ambivalenza: scatena l’inferno per mettere al bando CasaPound dal Salone del Libro, ma tace sul brutale pestaggio inflitto, pochi giorni prima, ai NoTav che sfilavano pacificamente per le strade del centro, al corteo del Primo Maggio.La città che esibisce la sua ostilità militante verso l’apologia del fascismo (nostalgia ostentata da Francesco Polacchi, presidente della casa editrice Altaforte), poi non riesce a tollerare il popolo della vicina valle di Susa, che resiste da vent’anni contro un progetto-monstre dalla comprovata inutilità, imposto al territorio da tutte le forze politiche (tranne una, i 5 Stelle) ridotte a cinghie di trasmissione del potere neoliberista europeo che lucra in modo imperiale e feudale sulle grandi opere, impedendo alla politica di far emergere la voce dei cittadini. Tecnicamente: sospensione della democrazia. Destra o sinistra, è uguale: sul Tav Torino-Lione, Giorgia Meloni e Matteo Salvini (e pure CasaPound) la pensano come il Pd. Che i centomila valsusini siano contrari all’opera, a loro non importa. In questi anni, con l’aiuto dei migliori tecnici universitari, i NoTav hanno demolito sistematicamente qualsiasi ragione a supporto dell’infrastruttura, ma invano. L’Italia ha un bisogno disperato di infrastrutture utili, eppure Torino preferisce svenare il bilancio nazionale per una ferrovia desolatamente inutile. E tace, la città, se la polizia carica i manifestanti al corteo del Primo Maggio, colpevoli di sventolare bandiere NoTav.Perché il Pd torinese aveva tanta paura dei valsusini, nel giorno della festa del lavoro? Ovvio: avrebbero contestato i sindacati-fantasma che – Cgil in testa – il lavoro se lo sono lasciato sfilare di mano a colpi di controriforme neoliberali convalidate dai funesti governi di centrosinistra. Precarizzazione, flessibilità, delocalizzazioni, cancellazione dei diritti sociali. Arresasi su ogni fronte, la Cgil però tiene duro sul Tav, un feticcio ridicolo – poche centinaia di addetti, a tempo determinato – per il quale però Sergio Chiamparino s’è inventato le “madamine”, pronte a scendere dalle residenze in collina (zona Agnelli) per invocare il ritorno dell’occupazione (e soprattutto seppellire mediaticamente gli insopportabili NoTav). Così piovono manganellate sugli inermi, che il Primo Maggio avrebbero contestato l’ignavia dei sindacati italiani di fronte allo sfacelo del paese, culminato con la strage sociale messa in atto dai tecnocrati di Monti, coadiuvati dalla torinese Fornero, fino al pareggio di bilancio inserito nella Costituzione anche con i voti delle anime morte del Pd guidate da Bersani.A salvare la situazione – ripulendo le cattive coscienze – ora ci pensano i brutti e cattivi di CasaPound: che fortuna, per molti torinesi, potersela vedere con loro, rispolverando (piuttosto abusivamente) l’identità antifascista della città di Gobetti, la capitale operaia dove Gramsci e Togliatti studiavano da rivoluzionari nel biennio rosso, quasi cent’anni prima che gli stessi torinesi applaudissero Marchionne, il manager venuto dalla finanza per smontare la Fiat per portarla lontano da Torino. Sfila l’orgoglio antifascista, al Salone dell’Ipocrisia, tra i cerotti e i lividi dei manifestanti ai quali, il Primo Maggio, è stato fisicamente impedito di presenziare in piazza, sotto il palco dei sindacalisti che hanno svenduto i diritti del lavoro e puntellato la guerra sociale dell’élite contro il popolo lavoratore. Il primo a denunciarlo fu l’ennesimo grande torinese, il sociologo Luciano Gallino, anch’esso scomparso senza che la sua città se ne accorgesse.Centomila persone alla camera ardente dell’Avvocato, ma solo duemila al funerale di Primo Levi. Due lutti che in qualche modo fotografano Torino: folla oceanica per il patron della Fiat e dalla Juventus, di cui ora si scoprono i miliardi di euro “riparati” all’estero, lontano dal fisco italiano. Molto più intime, invece, le esequie dell’autore di “Se questo è un uomo”, massimo capolavoro della memorialistica mondiale sulla Shoah. Unico paese in cui il libro non fu proposto nelle scuole, per decenni: Israele. Motivo tutto politico: Primo Levi non tollerava gli abusi del sionismo contro i palestinesi. Il regime di Tel Aviv fu costretto a “sdoganarlo” solo dopo la spettacolare operazione di Philip Roth, che finalmente presentò il chimico-scrittore al pubblico statunitense negli anni ‘80, tributandogli gli onori di un eroe civile e di una grande firma della letteratura internazionale. Ebrei e antifascismo? Torino non smentisce la sua ambivalenza: scatena l’inferno per mettere al bando CasaPound dal Salone del Libro, ma tace sul brutale pestaggio inflitto, pochi giorni prima, ai NoTav che sfilavano pacificamente per le strade del centro, al corteo del Primo Maggio.
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Guai a chi parla: l’arresto di Assange minaccia i giornalisti
L’immagine di Julian Assange trascinato fuori dall’ambasciata ecuadoriana a Londra è un emblema dei tempi. Il potere contro il diritto. La forza contro la legge. L’indecenza contro il coraggio. Sei poliziotti hanno malmenato un giornalista malato, con gli occhi che si contraevano alla prima luce naturale dopo quasi sette anni. Che questo oltraggio si sia verificato nel cuore di Londra, nella terra della Magna Carta, dovrebbe far vergognare e arrabbiare tutti quelli che temono per la “democrazia”. Assange è un rifugiato politico protetto dal diritto internazionale, che gode del diritto di asilo secondo una precisa convenzione di cui la Gran Bretagna è firmataria. Le Nazioni Unite lo hanno chiarito nella sentenza del loro Working Group sulla detenzione arbitraria. Ma al diavolo. Che i criminali vadano avanti. Diretta dai semi-fascisti della Washington di Trump, in combutta con l’ecuadoriano Lenin Moreno, un ebreo latinoamericano bugiardo che cerca di nascondere il suo regime marcio, l’élite britannica ha abbandonato il suo ultimo mito imperiale: quello dell’equità e della giustizia. Immaginate Tony Blair trascinato fuori dalla sua casa da diversi milioni di sterline in Connaught Square, a Londra, in manette, pronto per la spedizione all’Aia. Secondo le regole di Norimberga, il “massimo crimine” di Blair è la morte di un milione di iracheni. Il crimine di Assange è il giornalismo: chiamare in causa i responsabili, esporre le loro bugie ed emancipare il popolo in tutto il mondo attraverso la verità.L’arresto scioccante di Assange porta con sé un avvertimento per tutti coloro che, come scrisse Oscar Wilde, «seminano il seme del malcontento [senza il quale] non ci sarebbe alcun progresso verso la civiltà». L’avvertimento è esplicito nei confronti dei giornalisti. Quello che è successo al fondatore ed editore di WikiLeaks può capitare a voi su un giornale, in uno studio televisivo, alla radio, quando fate un podcast. Il principale persecutore mediatico di Assange, il “Guardian”, un collaboratore dello Stato segreto, questa settimana ha dimostrato il suo nervosismo con un editoriale che ha raggiunto vette finora inviolate di subdola astuzia. Il “Guardian” ha sfruttato il lavoro di Assange e WikiLeaks in quello che il suo precedente direttore chiamava «il più grande scoop degli ultimi 30 anni». Il giornale ha decantato le rivelazioni di WikiLeaks e ha rivendicato i riconoscimenti e le ricchezze che gliene sono derivate. Senza che un solo penny sia andato a Julian Assange o a WikiLeaks, un libro pubblicato dal “Guardian” ha portato poi a un fruttoso film di Hollywood. Gli autori del libro, Luke Harding e David Leigh, hanno abusato della loro fonte rivelando la password segreta che Assange aveva dato in confidenza al giornale, il quale avrebbe dovuto proteggere un file digitale contenente documenti trapelati dell’ambasciata Usa.Mentre Assange era intrappolato nell’ambasciata ecuadoriana, Harding ha raggiunto la polizia che stava là fuori e ha gongolato sul suo blog, dicendo che «Scotland Yard potrebbe essere quello che ride per ultimo». Da allora il “Guardian” ha pubblicato una serie di falsità su Assange, non ultimo una dichiarazione poi smentita che un gruppo di russi e l’uomo di Trump, Paul Manafort, avevano fatto visita ad Assange nell’ambasciata. Gli incontri non sono mai avvenuti; era falso. Il tono ora è cambiato. «Il caso Assange è una intricata questione morale», commenta il giornale. «Lui (Assange) crede nella pubblicazione di cose che non si dovrebbero pubblicare… Ma ha sempre gettato luce su cose che non avrebbero mai dovuto essere nascoste». Queste “cose” sono la verità sul sistema omicida con cui l’America conduce le sue guerre coloniali, le menzogne del Foreign Office britannico sulla privazione dei diritti delle persone vulnerabili, come gli Chagos Islanders, l’esposizione di Hillary Clinton come sostenitrice e beneficiaria dello jihadismo in Medio Oriente, la descrizione dettagliata da parte degli ambasciatori americani su come riuscire a rovesciare i governi in Siria e in Venezuela, e molto altro ancora. È tutto disponibile sul sito WikiLeaks.Il “Guardian” è comprensibilmente nervoso. La polizia segreta ha già visitato il giornale e ha chiesto e ottenuto la distruzione rituale di un disco rigido. Su questo, il giornale ha il documento della richiesta. Nel 1983, un funzionario del Foreign Office, Sarah Tisdall, fece trapelare alcuni documenti del governo britannico che mostravano quando sarebbero arrivate in Europa le armi nucleari Cruise americane. Il “Guardian” fu inondato di elogi. Quando un’ingiunzione del tribunale chiese di conoscere la fonte, non è stato il direttore a farsi arrestare in nome del fondamentale principio di proteggere la sua fonte, ma la Tisdall è stata tradita, perseguita e ha scontato sei mesi in carcere. Se Assange viene estradato in America per aver pubblicato ciò che il “Guardian” definisce “cose” veritiere, cosa impedisce che lo segua l’attuale direttore, Katherine Viner, o il precedente direttore, Alan Rusbridger, o il prolifico propagandista Luke Harding? Che cosa deve impedire [che lo seguano] i direttori del “New York Times” e del “Washington Post”, che hanno anche loro pubblicato pezzi di quella verità che ha avuto origine da WikiLeaks, e il direttore di “El Pais” in Spagna, e “Der Spiegel” in Germania e del “Sydney Morning Herald” in Australia? L’elenco è lungo.David McCraw, legale del “New York Times”, ha scritto: «Penso che l’azione penale [contro Assange] sarebbe un pessimo precedente per gli editori… a quanto posso capire, egli si trova in qualche modo nella stessa posizione di un editore classico e sarebbe molto difficile da un punto di vista legale distinguere tra il “New York Times” e WikiLeaks». Anche se i giornalisti che hanno pubblicato i documenti trapelati da WikiLeaks non sono stati convocati da un gran giurì americano, l’intimidazione di Julian Assange e Chelsea Manning sarà sufficiente. Il vero giornalismo viene criminalizzato da delinquenti alla luce del sole. Il dissenso è diventato una debolezza. In Australia, l’attuale governo filo-americano sta perseguendo due informatori che hanno rivelato che delle spie di Canberra hanno installato microspie nella sala delle riunioni del nuovo governo di Timor Est, con il preciso scopo di sottrarre con l’inganno alla piccola e povera nazione la sua giusta quota di petrolio e le risorse di gas nel mare di Timor. Il loro processo si terrà in segreto. Il primo ministro australiano, Scott Morrison, è tristemente famoso per aver contribuito alla creazione di campi di concentramento per rifugiati nelle isole del Pacifico di Nauru e Manus, dove i bambini si feriscono e si suicidano. Nel 2014, Morrison ha proposto campi di detenzione di massa per 30.000 persone.Il vero giornalismo è il nemico di queste disgrazie. Una decina di anni fa, il ministero della difesa a Londra ha prodotto un documento segreto che descriveva le tre «principali minacce» all’ordine pubblico: terroristi, spie russe e giornalisti investigativi. Questi ultimi erano considerati la minaccia più grave. Il documento è stato debitamente divulgato da WikiLeaks, che lo ha pubblicato. «Non avevamo scelta», mi ha detto Assange. «È molto semplice: le persone hanno il diritto di sapere e il diritto di mettere in discussione e sfidare il potere: questa è la vera democrazia». Cosa succederebbe se Assange e Manning ed altri sull’onda – se ce ne fossero altri – fossero messi a tacere e «il diritto di conoscere, mettere in discussione e sfidare» fosse eliminato? Negli anni ’70 incontrai Leni Reifenstahl, intima amica di Adolf Hitler, i cui film contribuirono a lanciare l’incantesimo nazista sulla Germania. Mi disse che il messaggio nei suoi film, la propaganda, non dipendeva da «ordini dall’alto», ma da quello che lei chiamava la «vuota sottomissione» del pubblico. «Questa vuota sottomissione include la borghesia liberale e istruita?», le chiesi. «Certamente», disse lei, «specialmente l’intellighenzia… Quando le persone non si pongono più domande serie, diventano sottomesse e malleabili. Tutto può succedere». Ed è successo. Il resto, avrebbe potuto aggiungere, è storia.(John Pilger, “L’arresto di Assange è un avvertimento della storia”, dal blog di Pilger del 13 aprile 2019; articolo tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).L’immagine di Julian Assange trascinato fuori dall’ambasciata ecuadoriana a Londra è un emblema dei tempi. Il potere contro il diritto. La forza contro la legge. L’indecenza contro il coraggio. Sei poliziotti hanno malmenato un giornalista malato, con gli occhi che si contraevano alla prima luce naturale dopo quasi sette anni. Che questo oltraggio si sia verificato nel cuore di Londra, nella terra della Magna Carta, dovrebbe far vergognare e arrabbiare tutti quelli che temono per la “democrazia”. Assange è un rifugiato politico protetto dal diritto internazionale, che gode del diritto di asilo secondo una precisa convenzione di cui la Gran Bretagna è firmataria. Le Nazioni Unite lo hanno chiarito nella sentenza del loro Working Group sulla detenzione arbitraria. Ma al diavolo. Che i criminali vadano avanti. Diretta dai semi-fascisti della Washington di Trump, in combutta con l’ecuadoriano Lenin Moreno, un ebreo latinoamericano bugiardo che cerca di nascondere il suo regime marcio, l’élite britannica ha abbandonato il suo ultimo mito imperiale: quello dell’equità e della giustizia. Immaginate Tony Blair trascinato fuori dalla sua casa da diversi milioni di sterline in Connaught Square, a Londra, in manette, pronto per la spedizione all’Aia. Secondo le regole di Norimberga, il “massimo crimine” di Blair è la morte di un milione di iracheni. Il crimine di Assange è il giornalismo: chiamare in causa i responsabili, esporre le loro bugie ed emancipare il popolo in tutto il mondo attraverso la verità.
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Finti nemici, già finti amici: la recita di Salvini e Di Maio
«Io e Matteo Salvini abbiamo fatto grandi cose insieme» (Luigi Di Maio). Leghisti e grillini, il governo Grilloverde ha due facce. Entrambe come il culo. Infatti i Gemelli Diversi che adesso fingono di litigare, per gli stessi squallidi motivi opportunistici per i quali prima fingevano d’andare d’accordo, sono entrambi prodotti della stessa linea commerciale. Secondo la propaganda, Salvini è un leader naturale, sorto dal popolo per mano del popolo. È una stronzata. Salvini è al 100% un prodotto della propaganda. Fin da quando ha ereditato la Lega dal clan Bossi, è stato sistematicamente ospitato tutte le sere da tutti i talk show esistenti, e lasciato padrone di sparare qualsiasi cazzata per ore senza contraddittorio, fra gli applausi scroscianti della claque. Intanto, politologi ed editorialisti già elogiavano in coro il suo “acume politico” e il suo “irresistibile carisma”, definendolo l’unica alternativa possibile a Renzi. Salvini è stato costruito come “fail safe” di Renzi. È un Renzi riuscito. Finora. È la faccia (semi)nuova del solito vecchio sistema di potere politico-affaristico.Mentre lui secerne le sue stronzate quotidiane sui social, malcelati dietro il suo faccione ghignante tutti gli affari continuano esattamente come prima. Il Movimento 5 Stelle finora ha fatto finta di niente solo per restare al governo. Se adesso Pupazzetto Di Maio, prodotto dalla Casaleggio come Ken dalla Mattel, improvvisamente sembra essersene accorto, è nel tentativo di recuperare qualche punto nei sondaggi. Mentre l’Ilva, che il M5S aveva promesso di riconvertire, continua a intossicare e uccidere peggio di prima. Ignorata finora dai media mainstream e dall’opposizione, perché quello firmato da Di Maio per l’llva è il piano Calenda. Del Pd, che sta recuperando qualche punto nei sondaggi.Il consenso si controlla coi media. I media si controllano col denaro. In un regime capitalista, la democrazia non può funzionare. Può soltanto sfornare prodotti, pupazzi acchiappavoti, diversi solo nella maschera, nel rivestimento, nell’etichetta, identici nella sostanza. Senza principi, senza ideali, senza neanche idee proprie che non siano decise da un algoritmo Facebookinaro, o da un generatore automatico di motti del Duce. “Noi molleremo dritto”. “Molti nemici, molti boia”. Contractor di governo, complici e/o nemici a seconda delle convenienze del momento. Droni, smontabili e rimontabili fra loro come pezzi d’un ingranaggio. Un ingranaggio che uccide. Prodotti d’un sistema di potere e di pensiero che tutto considera, e tutto punta a trasformare in un prodotto di consumo. Per consumarlo.(Alessandra Daniele, “Caino e Caino”, da “Carmilla” del 28 aprile 2019).«Io e Matteo Salvini abbiamo fatto grandi cose insieme» (Luigi Di Maio). Leghisti e grillini, il governo Grilloverde ha due facce. Entrambe come il culo. Infatti i Gemelli Diversi che adesso fingono di litigare, per gli stessi squallidi motivi opportunistici per i quali prima fingevano d’andare d’accordo, sono entrambi prodotti della stessa linea commerciale. Secondo la propaganda, Salvini è un leader naturale, sorto dal popolo per mano del popolo. È una stronzata. Salvini è al 100% un prodotto della propaganda. Fin da quando ha ereditato la Lega dal clan Bossi, è stato sistematicamente ospitato tutte le sere da tutti i talk show esistenti, e lasciato padrone di sparare qualsiasi cazzata per ore senza contraddittorio, fra gli applausi scroscianti della claque. Intanto, politologi ed editorialisti già elogiavano in coro il suo “acume politico” e il suo “irresistibile carisma”, definendolo l’unica alternativa possibile a Renzi. Salvini è stato costruito come “fail safe” di Renzi. È un Renzi riuscito. Finora. È la faccia (semi)nuova del solito vecchio sistema di potere politico-affaristico.
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Vietato svelare la verità: con Assange muore il giornalismo
La data – 11 aprile 2019 – vivrà nell’infamia negli annali dei “valori” occidentali e della “libertà di espressione”. L’immagine è desolata. Un giornalista ed editore ammanettato è stato trascinato fuori con la forza dall’interno di un’ambasciata, mentre stringeva un libro di Gore Vidal sulla storia dello Stato di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Il meccanismo è brutale. Il co-fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, è stato arrestato perché gli Stati Uniti lo pretendevano dal governo britannico dei Tory, che per parte sua ha sostenuto di non aver fatto pressione sull’Ecuador per revocare l’asilo ad Assange. Gli Stati Uniti cancellano magicamente i problemi finanziari dell’Ecuador, ordinando al Fmi di rilasciare un provvidenziale prestito di 4,2 miliardi di dollari. Subito dopo, i diplomatici ecuadoriani “invitano” la polizia metropolitana di Londra a entrare nella loro ambasciata per arrestare il loro ospite di lungo termine. Andiamo al sodo. Julian Assange non è un cittadino statunitense, bensì australiano. WikiLeaks non è un’organizzazione di media basata negli Stati Uniti. Se il governo Usa dovesse ottenere che Assange sia estradato, processato e incarcerato, legittimerebbe il suo diritto di perseguire chiunque, comunque, ovunque, in qualsiasi momento. Chiamatelo l’Uccisione del Giornalismo.Il caso del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (Doj) contro Assange è fragile, nel migliore dei casi. Tutto ha a che fare essenzialmente con la pubblicazione di informazioni classificate nel 2010: 90mila file militari in Afghanistan, 400mila file sull’Iraq e 250mila cablogrammi diplomatici diffusi su gran parte del pianeta. Assange è accusato di aver aiutato Chelsea Manning, l’ex analista dell’intelligence statunitense, ad ottenere questi documenti. Ma la faccenda diventa più complicata. È anche presumibilmente colpevole di “incoraggiare” Manning a raccogliere più informazioni. Non c’è altro modo di interpretarla. Ciò equivale, senza più alcuna esclusione di colpi, alla criminalizzazione totale della pratica giornalistica. Per il momento, Assange è accusato di “cospirazione volta a commettere intrusioni informatiche”. L’accusa sostiene che Assange ha aiutato Manning a decifrare una password memorizzata sui computer del Pentagono collegati al Secret Internet Protocol Network (SiprNet). Nei registri delle chat del marzo 2010 ottenuti dal governo Usa, Manning parla con qualcuno chiamato alternativamente “Ox” e “associazione di stampa”. Il Doj è convinto che questo interlocutore sia Assange. Ma devono dimostrarlo definitivamente.Manning e questa persona, presumibilmente Assange, si sono impegnati in “discussioni”. «Durante uno scambio, Manning disse ad Assange che ‘dopo questo upload, è tutto quello che mi è rimasto’. Al che Assange rispose: ‘degli occhi curiosi non sono mai rimasti all’asciutto nel corso della mia esperienza’». Tutto questo non regge. I grandi media privati statunitensi pubblicano regolarmente fughe illegali di informazioni classificate. Manning offrì i documenti che aveva già scaricato sia al “New York Times” che al “Washington Post” – e fu respinto. Solo allora si avvicinò a Wikileaks. L’accusa secondo cui Assange abbia cercato di aiutare a decifrare la password di un computer è in giro dal 2010. Il Dipartimento di Giustizia sotto Obama ha rifiutato di avallarla, consapevole di ciò che significherebbe in termini di potenziale messa al bando del giornalismo investigativo. Non c’è da stupirsi che i media privati statunitensi, spogliati di uno scoop della massima importanza, abbiano successivamente iniziato a denunciare WikiLeaks come agente russo.Il grande Daniel “Pentagon Papers” Ellsberg aveva già avvertito nel 2017: «Obama ha aperto la campagna legale contro la stampa andando alle radici dei rapporti investigativi sulla sicurezza nazionale – le fonti – e Trump andrà dietro agli stessi raccoglitori/giardinieri (e i loro capi, gli editori). Per cambiare metafora, un’accusa ad Assange è il “primo uso” dell’opzione nucleare contro la protezione che il Primo Emendamento assicura alla stampa libera». Le attuali accuse del Dipartimento di Giustizia – essenzialmente il furto di una password del computer – sono appena l’inizio della valanga. Almeno per ora, la pubblicazione non è un crimine. Eppure, qualora sia estradato, Assange potrebbe essere accusato anche di ulteriori cospirazioni e persino della violazione della Legge sullo Spionaggio del 1917. Quantunque debba ancora chiedere il consenso di Londra per avanzare ulteriori accuse, al Dipartimento di Giustizia non mancano gli avvocati in grado di applicare sofismi per evocare un crimine dal nulla.Jennifer Robinson, l’abilissimo avvocato di Assange, ha giustamente sottolineato che il suo arresto è «un problema di libertà di parola» perché «riguarda i modi in cui i giornalisti possono comunicare con le loro fonti». L’inestimabile Ray McGovern, che conosce una o due cose sulla comunità di spionaggio degli Stati Uniti, ha evocato un requiem del quarto potere. Il contesto completo dell’arresto di Assange viene alla luce una volta esaminato che risulta conseguente al fatto che Chelsea Manning ha trascorso un mese in isolamento in una prigione della Virginia per aver rifiutato di denunciare Assange di fronte a un gran giurì. Non c’è dubbio che la tattica del Dipartimento di Giustizia sia quella di spezzare Manning con ogni mezzo disponibile. Ecco cosa dice la squadra legale di Manning: «L’atto d’accusa contro Julian Assange, dissigillato oggi, è stato ottenuto un anno prima che Chelsea comparisse davanti al Gran Giurì e si fosse rifiutato di rendere testimonianza. Il fatto che questa incriminazione sia esistita da oltre un anno sottolinea quanto la squadra legale di Chelsea e la stessa Chelsea hanno detto da quando è stata emessa una citazione per comparire di fronte ad un Gran Giurì federale nel distretto orientale della Virginia: che convincere Chelsea a testimoniare avrebbe duplicato le prove già in possesso del Gran Giurì e questo non era necessario affinché gli avvocati statunitensi ottenessero un’accusa contro Assange.»La palla è ora presso un tribunale del Regno Unito. Assange rimarrà indubbiamente in prigione per alcuni mesi per evitare la cauzione mentre procede l’estradizione secondo il dossier statunitense. Il Dipartimento di Giustizia ha verosimilmente discusso con Londra su come un giudice “adatto” possa fornire il risultato desiderato. Assange è un editore. Di suo non ha fatto trapelare assolutamente nulla. Anche il “New York Times” e il “Guardian” hanno pubblicato ciò che Manning aveva scoperto. “Collateral Murder”, tra le decine di migliaia di prove, dovrebbe essere sempre in prima linea nell’intera discussione: si tratta di crimini di guerra commessi in Afghanistan e in Iraq. Quindi non c’è da meravigliarsi che lo Stato Profondo americano non perdonerà mai Manning e Assange, benché il “New York Times”, in un altro lampante esempio di due pesi e due misure, potrebbe ottenere un lasciapassare. Il dramma alla fine avrà bisogno di essere chiuso nell’Eastern District della Virginia perché la sicurezza nazionale e l’apparato dell’intelligence hanno lavorato per anni a questa sceneggiatura, a tempo pieno.In qualità di direttore della Cia, Mike Pompeo è andato dritto al punto: «È tempo di chiamare Wikileaks per quello che è realmente: un servizio di intelligence ostile non statale spesso favorito da attori statali come la Russia». Quel che di fatto equivale a una dichiarazione di guerra sottolinea quanto in realtà sia pericoloso Wikileaks, per il solo fatto di aver praticato del giornalismo investigativo. Le attuali accuse del Dipartimento di Giustizia non hanno assolutamente nulla a che fare con l’ormai demistificato Russiagate. Ma aspettatevi che il successivo calcio politico sia roboante. Il campo di Trump al momento è diviso. Assange è sia un eroe pop che combatte contro la palude dello Stato Profondo, sia un umile scagnozzo del Cremlino. Allo stesso tempo, Joe Manchin, un senatore democratico del Sud, gioisce, stando agli atti, come un proprietario di una piantagione del diciannovesimo secolo, sul fatto che Assange sia ora “nostra proprietà”. La strategia democratica sarà quella di usare Assange per arrivare a Trump. E poi c’è l’Unione Europea, di cui alla fine la Gran Bretagna potrebbe non far parte, più tardi piuttosto che più presto. L’Unione Europea sarà molto vigile sul fatto che Assange venga estradato nell’“America di Trump”, poiché lo Stato Profondo si assicura che i giornalisti di tutto il mondo abbiano effettivamente il diritto: di rimanere sempre in silenzio.(Pepe Escobar, “Hai il diritto di rimanere sempre in silenzio”, da “Asia Times” del 13 aprile 2019; articolo tradotto da Costantino Ceoldo per “Megachip”).La data – 11 aprile 2019 – vivrà nell’infamia negli annali dei “valori” occidentali e della “libertà di espressione”. L’immagine è desolata. Un giornalista ed editore ammanettato è stato trascinato fuori con la forza dall’interno di un’ambasciata, mentre stringeva un libro di Gore Vidal sulla storia dello Stato di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Il meccanismo è brutale. Il co-fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, è stato arrestato perché gli Stati Uniti lo pretendevano dal governo britannico dei Tory, che per parte sua ha sostenuto di non aver fatto pressione sull’Ecuador per revocare l’asilo ad Assange. Gli Stati Uniti cancellano magicamente i problemi finanziari dell’Ecuador, ordinando al Fmi di rilasciare un provvidenziale prestito di 4,2 miliardi di dollari. Subito dopo, i diplomatici ecuadoriani “invitano” la polizia metropolitana di Londra a entrare nella loro ambasciata per arrestare il loro ospite di lungo termine. Andiamo al sodo. Julian Assange non è un cittadino statunitense, bensì australiano. WikiLeaks non è un’organizzazione di media basata negli Stati Uniti. Se il governo Usa dovesse ottenere che Assange sia estradato, processato e incarcerato, legittimerebbe il suo diritto di perseguire chiunque, comunque, ovunque, in qualsiasi momento. Chiamatelo l’Uccisione del Giornalismo.
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Guerra a Di Bella, l’angelo dei malati: tentarono di ucciderlo
“Il poeta della scienza”, vita di Luigi Di Bella: il volume, minuziosamente documentato e ricco di indicazioni delle fonti, dipana la complessa figura del professor Di Bella esaminandola sotto il profilo scientifico, morale, intellettuale e umano. Difficile non giungere alla conclusione che sono state proprio queste qualità e virtù a procurargli, per buona parte della vita, un’ostilità incessante che non di rado si è fatta autentica persecuzione. Il lettore rimane, oltre che indignato e amareggiato, anche stupefatto per la capacità dell’uomo di non farsi annichilire da un’opposizione tanto indiscriminata e violenta e di riuscire a compiere egualmente la sua opera. Luigi Di Bella, siciliano, classe 1912, era nato in una famiglia numerosa e di assai disagiate condizioni economiche, non in grado quindi di sostenere le spese per fare studiare quel ragazzo, nonostante avesse precocemente dimostrato rare doti d’ingegno e di forza di volontà. Luigi sopportò sacrifici di ogni genere per soddisfare la sua sete di sapere e superare le ristrettezze della povertà, arrivando anche a studiare la sera in piedi, sotto la luce del lampione della strada, per sopperire alla penuria di petrolio per la lampada.Fornisce ben presto le prove di un ingegno straordinario: avendo frequentato le scuole complementari che, non contemplando l’insegnamento del latino, non consentivano l’accesso al liceo scientifico, in due mesi apprende il latino, lasciando increduli i commissari durante la prova di idoneità prescritta. Per rendersi economicamente indipendente ed aiutare i fratelli, parteciperà anche ai concorsi nazionali riservati agli studenti poveri e meritevoli, vincendo tutti quelli che affronta. Divenuto studente della facoltà di medicina a Messina, la sua abitudine di studiare oltre che sui libri di testo anche su ponderose ed ostiche monografie (oltre ovviamente alle sue rare capacità di assimilazione), gli procura un “pubblico” di docenti universitari che corrono ad assistere ai suoi esami. Viene notato dal professor Pietro Tullio, considerato il più autorevole fisiologo del tempo – due volte candidato al Nobel per la medicina nel 1930 e nel 1932 (1) – che gli propone di diventare allievo interno presso l’Istituto di Fisiologia. Attraverso il suo maestro, Luigi Di Bella si forma nell’ambito di quella scuola medica che il mondo ci invidiava, annoverando luminari come Augusto Murri e Pietro Albertoni, considerati i più grandi medici dei tempi moderni.Non potendo soffermarci troppo su queste due figure di medici e professori universitari, ci limitiamo a riferire che raggiungevano percentuali elevatissime di diagnosi esatte, 92% Murri e 98% Albertoni (2), in un’epoca nella quale gli esami ematochimici erano ben più rudimentali di quelli odierni, e non esistevano Tac e risonanze magnetiche. A quel tempo l’insegnamento e la ricerca nell’ambito della medicina non erano disgiunti dalla pratica clinica, l’eccessiva specializzazione non aveva ancora contaminato ogni settore, e la fisiologia era ancora considerata la materia cardine di tutto il sapere medico, non essendo altrimenti possibile comprendere ed applicare razionalmente tutte le altre. Questo consentiva il raggiungimento di livelli di eccellenza diagnostica attualmente inarrivabili. Se pensiamo ai pazienti che oggi sono costretti a peregrinare tra specialisti e ospedali, spesso orfani di diagnosi – e quindi di efficace terapia – nonostante l’elefantiasi di esami di ogni genere, non si può rimanere che sconcertati.Luigi Di Bella è stato senza dubbio l’epigono di quella mentalità e cultura medico-scientifica che ha annoverato eccellenze quali Antonio Cardarelli, Pietro Lussana, Giuseppe Moscati, oltre che i luminari prima citati. E’ a quest’ultimo, il medico santo di Napoli, che Luigi Di Bella più si avvicina, oltre che per mentalità clinica, per umanità e condotta di vita cristiana. Il primo lavoro scientifico che riporta il nome di Luigi Di Bella (oltre ovviamente a quello del maestro) risale all’inizio del 1932, quando è ancora diciannovenne e studente del secondo anno di università. Lo stesso Tullio, qualche anno dopo, dichiarerà in un attestato di essersi limitato a curarne la bibliografia. Nel luglio 1936 si laurea in medicina con 110 e lode, dopo aver sostenuto 12 esami in più rispetto a quelli regolamentari. Subito dopo la laurea riceve una proposta di assunzione da parte di Guglielmo Marconi – allora presidente del Cnr – perché continui le ricerche in campo chimico che gli erano valse l’ultimo premio nazionale (è ancora disponibile il carteggio intercorso). Luigi Di Bella declina l’invito, dichiarando che desidera continuare le sue ricerche nell’ambito della medicina. Riceverà dal grande fisico una borsa di studio.Quando nel 1938 consegue le lauree in farmacia e in chimica, già da due anni, dopo avere superato brillantemente il previsto concorso, è incaricato dell’insegnamento della fisiologia e della chimica organica presso l’università di Parma. Durante questo periodo pubblica un libro di chimica organica. Il 3 settembre 1939 sposa Francesca Costa, e prende servizio nel ruolo di aiuto incaricato presso l’università di Modena, città nella quale si trasferisce con la famiglia. Dall’unione nasceranno Giuseppe (maggio 1941) che intraprenderà anche lui la professione di medico, e Adolfo (dicembre 1947). Il 3 settembre 1941, con il grado di capitano medico, viene inviato in Grecia, dove dirigerà due ospedali militari. Qui si sottopone ad ogni sacrificio pur di aiutare i malati, arrivando a donare loro il suo pasto da ufficiale e a dormire in piedi, appoggiato a una colonna, per poter accorrere più velocemente alle richieste d’aiuto. Raccontando anni dopo questi particolari, si limiterà a commentare: «Dopo un po’ ci si abitua». Alla fine, le immani fatiche sostenute presenteranno il conto: la salute degrada sempre più e all’inizio del 1943 rientra in Italia per una breve licenza. Le condizioni però peggiorano ulteriormente e viene ricoverato all’ospedale militare di Bologna per epatite, anemia e malaria.Posto in “licenza speciale in attesa di trattamento di quiescenza”, si riprende gradualmente e riesce a iniziare l’insegnamento per l’anno accademico 1943-44. A seguito dei bombardamenti alleati su Modena della prima metà del 1944, la famiglia Di Bella trova ospitalità in una casa colonica a Bastiglia, paese ad una dozzina di chilometri dalla città. Anche qui non sta con le mani in mano: visita gli abitanti dei dintorni che hanno bisogno e, nonostante i pericoli, si reca quotidianamente all’università in bicicletta. Nell’immediato dopoguerra iniziano a delinearsi le prime ricerche che lo porteranno anni dopo all’ideazione del suo metodo di cura per i tumori. In questo periodo si scatena una persecuzione durissima da parte dell’ambiente accademico, quantomeno nella facoltà di medicina, che non gli perdona limpidezza morale, superiorità d’intelletto e di cultura che lo caratterizzano. Gli studenti al contrario lo idolatrano, affollando le sue lezioni, a tal punto che durante l’occupazione studentesca del 1968 Luigi Di Bella sarà l’unico professore che gli studenti autorizzeranno ad entrare nell’università per svolgere le lezioni.Inizia a diffondersi anche la sua fama di medico capace di fare diagnosi di un’esattezza inarrivabile, e di risolvere situazioni ritenute senza speranza dai medici più blasonati. Anche questo contribuirà ad alimentare quelle invidie e quella persecuzione che non gli daranno tregua fino all’ultimo dei suoi giorni. Dirà un giorno: «A questo mondo, è rigorosamente proibito fare del bene». I malati, che per tutta la vita visiterà gratis arrivando a regalare loro le medicine, giungono sempre più numerosi, grazie al “meccanismo di passaparola”. Spesso sarà costretto a visitarli la sera – già sfinito da una intera giornata di lavoro – o la domenica presso la propria abitazione. Intervistato nel 1998 per la Rai da don Giovanni D’Ercole, alla domanda «ma lei non si fa pagare?» risponderà: «No, mi ripugna: uno viene qui perché ha bisogno, e io dovrei guadagnare sul bisogno di un altro?» (3).Inflessibile con se stesso, fa dell’umiltà e dell’autocritica una regola di vita, chiedendosi sempre se ha davvero fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità e il proprio dovere di medico e di uomo (3). Così come il denaro, anche il lusso gli ripugna: «La povertà e l’essenzialità sono più vicine alla realtà di tutto. Il lusso per me è una sovrapposizione all’essenziale, e quindi il mezzo migliore per deviare dalla retta via… la rinuncia è la dote essenziale di un uomo per progredire e per realizzare. Bisogna saper rinunciare a tutto quello che non è essenziale» (3). Quando, decenni dopo, durante una intervista gli verrà chiesto come ha fatto a trovare la cura per il cancro senza avere dietro un’università o un centro di ricerca iperfinanziato, risponderà: «In una maniera semplice: rinunciando a tutto quello che non è necessario per vivere. In questa maniera le spese le ho ridotte al minimo, e tutto quello che potevo risparmiare l’ho dedicato alla ricerca» (4).I “baroni” dell’università di Modena lo relegano in un’angusta stanzetta dell’istituto di fisiologia e gli impediscono, di fatto, di compiere ricerche, negandogli i fondi accademici a cui avrebbe diritto ad accedere. Lo scienziato sarà per questo costretto a indebitarsi per costruirsi un suo laboratorio privato che, una volta portato a termine nel 1952, gli consentirà di proseguire la sua attività di ricercatore. Intensifica anche la partecipazione a congressi medici e scientifici in Italia e all’estero, mentre continua a pubblicare i risultati delle sue ricerche. Al termine della sua vita, si conteranno 215 pubblicazioni e un centinaio di comunicazioni in congressi. Al rigore scientifico unisce sempre la sensibilità per il bello. Per lui queste due dimensioni sono inscindibili. Non c’è solo la bellezza delle arti figurative e della musica, che ama profondamente, ma anche l’infinita bellezza del Creato e degli intimi meccanismi che rendono possibile la vita. Ogni volta che, da ricercatore qual è, riesce a far luce su qualcuno di questi meccanismi, prova un profondo rapimento spirituale per la bellezza e la perfezione che vi intravede. In altre parole, è la meraviglia e lo stupore di chi giunge a scorgere quella particella di eternità che l’uomo incorpora in sé.Soltanto un poeta della scienza può arrivare a dire: «Un medico può considerarsi tale solo se ama l’ammalato ed è affascinato dall’ignoto, se cerca di far luce sui misteri del Creato e di confrontarsi con questi». E agli ammalati dona tutto se stesso, prendendo parte alle loro sofferenze: «Lei non immagina la sofferenza che mi viene ad ascoltare le sofferenze del prossimo, ad essere incapace di togliere queste sofferenze, almeno subito» (3). Quando visita, veste i panni di sacerdote in camice bianco. Molti pazienti avvertono istintivamente il bisogno di confidargli le loro pene interiori o i loro problemi familiari, e non pochi escono dalla visita letteralmente sconvolti nell’anima. Riportiamo per brevità solo un paio di esempi. Una signora, afflitta nel corpo e nello spirito, afferma: «E’ come se mi avessero messo una telecamera dentro al cuore e all’anima. Ha letto in me cose che non sa e non capisce nessun altro, e addirittura mi ha spiegato cose di me stessa che non riuscivo a comprendere. Un’esperienza sconvolgente, che non dimenticherò finché avrò vita». Un’altra, arrivata in uno stato di prostrazione profonda, esce trasformata: «Mi ha ridato la voglia di vivere. Non me ne frega niente se mi salvo o se muoio tra un mese o una settimana… Avere conosciuto un uomo così vale la vita. Sono serena».Nel 1963 Maria Teresa Rossi, una sua studentessa, gli si avvicina al termine di una lezione per chiedergli un consiglio sulla grave malattia che la affligge, il “lupus eritematosus”, a causa del quale i medici le hanno prospettato al massimo due anni di vita. Lo scienziato la visita e le prescrive una terapia. La ragazza, da tutti chiamata Deda, ne ricava presto netti benefici e in pochi anni diventerà una valida collaboratrice nelle ricerche del professore, il quale arriverà ad amarla come una figlia. E i due anni di vita residua, grazie a Luigi Di Bella, diventeranno ventiquattro. Dopo un complesso e faticoso iter sperimentale, il 6 dicembre 1973, invitato a tenere una conferenza presso la sede della Società Medico Chirurgica di Bologna dal professor Domenico Campanacci, il più illustre clinico italiano del dopoguerra, presenta il razionale e i primi risultati clinici della metodologia messa a punto per patologie ematologiche (successivamente perfezionata ed estesa ai tumori solidi).Riceve l’appoggio e la considerazione, oltre che del professor Domenico Campanacci, dell’illustre ematologo Edoardo Storti, del fisiologo Giuseppe Moruzzi e di Emilio Trabucchi, famoso farmacologo. Ma neanche costoro, dall’alto della loro autorevolezza, possono vincere il montante potere delle aziende farmaceutiche e l’ostilità di un’onco-ematologia che, invece di offrire collaborazione, si sente scavalcata e surclassata da quello scienziato che aveva osato dare concrete possibilità di salvezza a malati altrimenti condannati. Vale ricordare che nel 1973 si conoscevano solo 500 casi di leucemia in tutto il mondo sopravvissuti per più di 5 anni. Gli unici interessamenti genuini gli arrivano dall’estero: medici e istituzioni ospedaliere di ogni parte del mondo lo contattano e si informano sui princìpi della sua cura. Il numero dei pazienti che accorrono da lui, grazie anche alle testimonianze dei malati curati e ad alcuni articoli pubblicati su diversi periodici, aumenta fino a livelli insostenibili. Anche perché non cura solo i tumori: la sua impostazione squisitamente fisiologica della medicina, unita a un raro ingegno e alla conoscenza profonda di tutte le branche della scienza medica, gli consentono di curare con successo diverse patologie, specialmente neurologiche e neuromotorie.Vale la pena soffermarsi brevemente sul valore delle ricerche che lo hanno condotto a formulare il suo metodo di cura dei tumori. Già nel 1969 aveva relazionato (Alghero, congresso della Società Italiana di Biologia Sperimentale) sugli esperimenti con cui aveva dimostrato l’influenza del sistema nervoso centrale sulla crasi ematica (si trattava della stimolazione, nei ratti, di una determinata zona del cervello vicina alla ghiandola pineale, che portava a forti aumenti delle piastrine in circolo). Fino a quel momento nessuno aveva intuito che il sangue, e quindi le concentrazioni delle sue componenti, potessero essere influenzate e determinate a livello cerebrale. Già solo tale scoperta, che porterà lo scienziato a introdurre la melatonina (prodotta principalmente dalla ghiandola pineale) come uno dei cardini della sua cura, avrebbe meritato, come osservarono alcuni studiosi, il Premio Nobel per la Medicina. L’estensione della cura ai tumori solidi risale alla metà degli anni ’70, quando nel suo metodo introduce la somatostatina. E’ il primo al mondo a proporre l’uso di questa sostanza per le patologie tumorali. Ancora oggi il suo impiego terapeutico in oncologia è limitato ai soli tumori neuroendocrini, nonostante migliaia di pubblicazioni, tra le quali quelle di premi Nobel come Viktor Schally (5), che ne dimostrano l’efficacia in un’amplissima varietà di patologie neoplastiche.Nel frattempo, già un anno dopo la presentazione della sua cura, era stato vittima, mentre era nell’istituto di fisiologia, di un tentativo di avvelenamento – da cui riuscì a salvarsi intuendo la causa dei gravi sintomi che avvertiva e prendendo le opportune contromisure. Poco tempo dopo subirà diversi inspiegabili incidenti per le strade di Modena, mentre era in sella alla sua inseparabile bicicletta. L’ultimo attentato avverrà nel 1996 mentre, ormai ottantaquattrenne, si reca in bici al suo laboratorio per visitare i malati: colpito alle spalle con un sacco di sabbia, finirà a terra e si risveglierà in ospedale con un trauma cranico, una commozione cerebrale e la compromissione dell’udito ad un orecchio. Nonostante ciò, appena riavutosi ha un’unica preoccupazione: chiede di essere dimesso, si fa accompagnare in laboratorio e, con ancora le bende macchiate di sangue, inizia a visitare i malati che lo attendevano all’ingresso. Intervistato negli anni ’90 da un canale televisivo, lascia a bocca aperta la giornalista che gli chiedeva, viste le mille difficoltà attuali e quelle incontrate nella sua vita, quali fossero le sue gratificazioni: «Non ho bisogno di gratificazioni. Sono arrivato ad una semplice morale che a volte meraviglia anche i miei figli: ringrazio il Padreterno per la sofferenza che m’ha dato, perché attraverso la sofferenza ho imparato cos’è la vita» (6).La famigerata sperimentazione del 1998 richiederebbe una trattazione troppo lunga. Quello che è importante sottolineare è che non fu Luigi Di Bella a chiederla, ritenendo egli che l’ampia letteratura scientifica disponibile e la casistica raccolta avrebbero da tempo dovuto consentirne l’adozione. Il ministero dalla sanità preferì ignorare tali pubblicazioni, decidendo di organizzare una sperimentazione che, per i presupposti di partenza e poi per la sua conduzione, aveva l’esito già scritto. Basandosi esclusivamente su documenti ufficiali (Rapporti Istisan 98/17 e 98/24), si rileva infatti che condizione fondamentale per l’arruolamento fosse «essere non suscettibili, o non più suscettibili di trattamento»: in parole semplici, dovevano essere malati tanto gravi da far considerare inattuabile qualsiasi tentativo terapeutico (chirurgia, radioterapia, ormonoterapia, chemioterapia). La sopravvivenza stimata dagli sperimentatori andava da un minimo di 11 giorni (!) ad un massimo di 90. E’ un ben curioso criterio quello di ritenere efficace una terapia solo se riesce a replicare il miracolo di Lazzaro, salvando malati terminali e candidati all’assistenza domiciliare!Sempre sulla base della documentazione ufficiale si rileva un altro inquietante “mistero”: ad onta della reiterata affermazione che il professor Di Bella avesse accettato queste condizioni ostative, non esiste un documento ufficiale che attesti dove e quando lo scienziato avrebbe firmato i protocolli della sperimentazione; e anzi risulta agli atti uno schema autografo e da lui firmato il 31 gennaio 1998, totalmente incompatibile con gli schemi terapeutici praticati. L’esito così precostituito venne ulteriormente presidiato con numerose altre anomalie, costituenti obiettivamente e autonomamente cause di invalidazione (7): 3-4 farmaci previsti sui 10 del sopra richiamato schema autografo; interruzione del trattamento nell’86% dei casi; galenici somministrati dopo la data di scadenza o resi tossici dalla presenza di acetone (soluzione di retinoidi); somatostatina somministrata senza indispensabile impiego di siringa temporizzata, ecc. Ma, a parte quanto sopra, la demolizione della validità di questo studio fu fatta da uno scioccante editoriale comparso su quella che dai più è ritenuta la più autorevole rivista scientifica del mondo, il “British Medical Journal” (Marcus Mullner: “Di Bella’s therapy: the last word?” – Bmj, 1999, 318, 208).L’editoriale, dopo alcune severe critiche (mancanza di randomizzazione e di gruppo di controllo), conclude: «E’ proprio il progetto scadente di questo studio a non essere etico… Il progetto di questa sperimentazione è fallace». Il vero miracolo (mai comunicato all’opinione pubblica) fu che, nonostante quanto osservato, il 48% dei pazienti risultava in vita al termine della sperimentazione (Rapporti Istisan: 167 pazienti in vita al 31 ottobre 1998 su 347 pazienti ‘valutabili’), nonostante che la prognosi di massimo 90 giorni (la prova iniziò nel marzo 1998 e si concluse il 31 ottobre dello stesso anno) facesse prevedere il decesso di tutti i 347 pazienti arruolati. Nel follow-up del giugno 1999 risultavano ancora in vita 88 arruolati (25%).Malgrado le amarezze, le perfidie subìte e le delusioni, Luigi Di Bella continuerà la sua attività di medico fino al termine della sua vita, vincendo la stanchezza ed i crescenti problemi di salute. A chi tenta di farlo desistere almeno dalle visite ai malati che si presentano senza appuntamento, lui risponde con semplicità disarmante: «Se vengono qui, è perché hanno bisogno». Per tutta l’esistenza ha combattuto la “buona battaglia”. E ai figli, che in uno dei momenti di maggiore ostilità e attacchi crescenti, gli avevano chiesto se non fosse il caso di ritirarsi cercando di badare alla sua salute, aveva risposto: «Non capite che io sono sempre stato un lottatore?». Lascerà questo mondo il 1° luglio 2003, a pochi giorni dal suo 91° compleanno. Qualche mese prima aveva scritto: «Sono degno? Lo diranno gli altri. L’animo mi dice tuttavia che non sono vissuto inutilmente, perché ho fatto del bene ed ho gioito per il bene fatto».Infine, qualche osservazione sul Metodo Di Bella: si tratta di una cura squisitamente fisiologica, impostata cioè sui princìpi della fisiologia, la disciplina che studia il funzionamento degli organismi viventi, dai fenomeni macroscopici fino ai più piccoli legami molecolari. Per dirla in breve, è la scienza che studia la vita e i meccanismi con cui essa si esprime. E’ una materia fondamentale e alla base di tutte le altre discipline mediche, e non a caso, nel degrado voluto e pianificato della medicina attuale che va di pari passo col degrado di tutta la civiltà, essa è stata ridotta e svilita nei programmi universitari a tal punto che lo studente arriva a laurearsi in medicina capendone poco o nulla. Il tumore, inoltre, è una malattia sistemica e multifattoriale, per cui non potrà mai essere guarita da un unico rimedio. Non a caso, il metodo Di Bella comprende un numero ben nutrito di diverse sostanze fisiologiche, farmaci e princìpi vitaminici, la cui composizione è stata studiata per avere azione sinergica e fattoriale, per cui l’effetto di ognuno è impressionato e potenziato dall’assunzione di tutti gli altri. Per ciascuna di queste componenti sono comparsi negli anni un’infinità di studi sulle riviste scientifiche (attualmente ammontano a qualche decina di migliaia) che ne dimostrano l’efficacia antitumorale.Un altro fatto significativo sono i circa 1.000 casi documentati di efficacia del metodo Di Bella pubblicati su riviste scientifiche accreditate e “peer review”, rintracciabili agevolmente sul portale www.pubmed.gov. Tra le pubblicazioni più recenti, quelle sui pazienti con tumore alla prostata e alla mammella, molti dei quali hanno avuto remissione della malattia senza chirurgia, senza radioterapia e senza chemioterapia, ma unicamente con il Metodo Di Bella. Si tratta peraltro di casi documentati nella maniera più scrupolosa, con diagnosi e successivi accertamenti strumentali effettuati in strutture pubbliche o private. Per comprendere l’eccezionalità della pubblicazione, occorre evidenziare che in tutta la letteratura scientifica mondiale non esiste un solo caso pubblicato di tumore solido guarito con qualsivoglia strumento farmacologico o radiante. Considerando che circa 180.000 persone in Italia muoiono ogni anno a causa di patologie tumorali, quante vite si sarebbero potute salvare se la sperimentazione del 1998 fosse stata condotta in maniera corretta? Tanti altri aspetti del metodo, della pseudo-sperimentazione e della vita dello scienziato, oltre ad una ricca documentazione fotografica, sono riportati nel volume “Il poeta della scienza” scritto da Adolfo Di Bella, che ha voluto affidare a questa biografia una testimonianza unica: quella di una vita trascorsa accanto ad un genio e benefattore dell’umanità.(Luca Iezzi, “Il poeta della scienza: vita del professor Luigi Di Bella”, da “Coscienze in Rete” del 9 aprile 2019. Il libro: Adolfo Di Bella, “Il poeta della scienza. Vita del professore Luigi Di Bella”, Mattioli editore, 444 pagine, 28 euro).Note:(1) I dettagli delle candidature al Nobel del professor Pietro Tullio sono disponibili sul sito ufficiale del prestigioso premio: https://www.nobelprize.org/nomination/archive/show_people.php?id=9395Dal libro Si può guarire? La mia vita. Il mio metodo. La mia verità (Luigi Di Bella e Bruno Vespa, ediz. Mondadori, 1998, pag.34)(2) Intervista di Mons. Don Giovanni D’Ercole a Luigi Di Bella, trasmessa il 14 marzo1998 su Raidue nel programma “Prossimo tuo”: https://www.youtube.com/watch?v=IjexHtSSvlc.(3) Programma “Moby Dick” trasmesso il 6 novembre 1997 su Italia Uno e condotto da Michele Santoro: https://www.youtube.com/watch?v=T65W48zYxPo.(4) Si veda ad esempio, tra i tanti lavori di Schally: Barabutis N, Siejka A, Schally AV. Effects of growth hormone releasing hormone and its agonistic and antagonistic analogs in cancer and non-cancerous cell lines. International Journal of Oncology 2010 May;36(5):1285-9 (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20372804).(5) Intervista fatta a Luigi Di Bella nella primavera 1996: https://www.youtube.com/watch?v=uQJDUmwkugg.(6) La sperimentazione del 1998 – motivi e prove della sua invalidità: http://www.metododibella.org/la-sperimentazione-truffa-sul-metodo-di-bella.html .Un’enorme mole di dati e documenti che demolisce completamente la sperimentazione ministeriale è raccolta nel volume “Un po’ di verità sulla terapia Di Bella” (Vincenzo Brancatisano, ediz. Travel Factory, 1999).“Il poeta della scienza”, vita di Luigi Di Bella: il volume, minuziosamente documentato e ricco di indicazioni delle fonti, dipana la complessa figura del professor Di Bella esaminandola sotto il profilo scientifico, morale, intellettuale e umano. Difficile non giungere alla conclusione che sono state proprio queste qualità e virtù a procurargli, per buona parte della vita, un’ostilità incessante che non di rado si è fatta autentica persecuzione. Il lettore rimane, oltre che indignato e amareggiato, anche stupefatto per la capacità dell’uomo di non farsi annichilire da un’opposizione tanto indiscriminata e violenta e di riuscire a compiere egualmente la sua opera. Luigi Di Bella, siciliano, classe 1912, era nato in una famiglia numerosa e di assai disagiate condizioni economiche, non in grado quindi di sostenere le spese per fare studiare quel ragazzo, nonostante avesse precocemente dimostrato rare doti d’ingegno e di forza di volontà. Luigi sopportò sacrifici di ogni genere per soddisfare la sua sete di sapere e superare le ristrettezze della povertà, arrivando anche a studiare la sera in piedi, sotto la luce del lampione della strada, per sopperire alla penuria di petrolio per la lampada.
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Rai e cultura restano al Pd: nessuno “racconta” i gialloverdi
Ma dov’è la rivoluzione culturale di un governo che si è presentato come una svolta radicale rispetto all’establishment, alle “élite” e ai poteri precedenti? Dieci mesi sono pochi per cambiare ma sono abbastanza per indicare una direzione, per delineare almeno un’intenzione, l’avvio di un nuovo percorso. E invece non s’intravede l’accenno di un inizio. Né sul piano delle idee e dei programmi né sul piano degli uomini e dei criteri di selezione. Totale continuità, piatta prosecuzione dell’ancien régime, conformità al politically correct, permanenza dell’egemonia culturale precedente. Vedete la Rai, vedete le istituzioni e i luoghi della cultura, vedete il clima generale. Come già accadde al tempo del centro-destra, oltre l’ossequio formale al governo in carica, magari l’intervista-marchetta al leader di turno e il trattamento di favore ad personam ai personaggi governativi, la narrazione generale è sempre la stessa, gli uomini che la somministrano sono pressoché gli stessi, i criteri e le priorità sono rimasti invariati. Nei telegiornali la musica non è cambiata, l’impostazione è la stessa.Sembra che al Tg1 il carneade che ne ha assunto la guida vada a lezioni private dal predecessore. Ad eccezione del Tg2 diretto da Gennaro Sangiuliano, sembra che tutto sia rimasto invariato in tutte le testate, a partire dalla linea, salvo lo spazio inevitabile alle iniziative del governo e un minuto di celebrità ai suoi esponenti. Il linguaggio è lo stesso e la suddivisione degli spazi risulta sbilanciata ancora a favore della sinistra: in generale le voci filogovernative vengono di solito sommerse e doppiate dal coro invariante e polemico delle opposizioni. In media: due opinioni governative contro quattro antigovernative. La formula è stanca e si ripete in modo meccanico, le dichiarazioni dei microfonisti di partito suonano come nenie e mantra, testi imparati a memoria da foche ammaestrate. Non diverso è il clima che si respira nelle reti televisive, dove l’immagine della Rai resta ancorata a personaggi-simbolo, come Fabio Fazio che cercando il martirio ha perfino aumentato le dosi del suo sinistrismo becero e untuoso per rimarcare la sua gloriosa opera di Dissidente Eroico, pagato pochi milioni di euro per dire, fare, invitare tutto ciò che è contrario a quel che dice, pensa e fa l’opinione “salviniana” oggi prevalente in Italia.Ma il coro resta lo stesso ed è linciaggio se qualcuno osa dire qualcosa di buon senso, come per esempio, restituire la compagnia di giro della sinistra televisiva a un suo canale dedicato, come era RaiTre, evitando lo sconfinamento che ferisce la maggioranza degli utenti non allineati al loro catechismo. Pagano un canone e non vogliono subire un canone ideologico. Ma il discorso sulla Rai fa il paio con le istituzioni culturali rimaste invariate nei loro assetti. Un esempio tra tanti, la Dante Alighieri in cui è stato confermato il fondatore della comunità di sant’Egidio ed ex-ministro dei governi di sinistra, Andrea Riccardi; ma la stessa cosa accade nelle direzioni dei musei e degli istituti culturali in Italia e all’estero, rimasti d’impronta renziana e franceschiniana, o all’Enciclopedia italiana, il cui direttore generale, il dalemiano Massimo Bray, è anche presidente della Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura. Per non dire del ruolo dell’Anpi e di altri organismi politicamente orientati a sinistra nelle scuole, nelle istituzioni pubbliche e nelle ricerche finanziate con denaro pubblico.Non basta l’egemonia culturale nelle università o nell’editoria, i festival del libro, gli organismi culturali ma anche ciò che dipende direttamente dal governo, resta tutto invariato. Certo, alcuni ruoli non sono in scadenza, altri non dipendono direttamente dal governo, ma tutto resta come prima. Qualcosa faticosamente si muove a livello locale, ma la spiegazione di questa diversità è semplice: nei governi locali non ci sono i grillini che sono il cavallo di troia del politically correct, i portatori sani di cultura radical-progressista. Oltre l’acquiescenza e la complicità dei grillini quali sono i motivi di questa neutralità o remissività sul piano culturale? Paura di attacchi e quieto vivere; ignoranza della materia; assenza di nomi e conoscenze alternative; penuria di visione culturale, di strategia e lungimiranza. Non capiscono, i governativi, che nessuna rivoluzione sarà mai possibile se non parte e non passa dalle idee, dai luoghi chiave in cui si forma e si stratifica il consenso, dai messaggi, dalla cultura e dalla mentalità.Pensare di cambiare un paese solo a colpi di tweet e boutade, appelli di pancia e grandi annunci di leggi e riforme, senza nessun racconto, nessuna profonda trasformazione, nessun cambiamento di verso e di simboli, è una puerile, rovinosa illusione. Così facendo e persistendo, passeranno senza lasciar traccia quando il vento cambierà e gli umori si sposteranno su altri temi e altre facce. Non è bastata la lezione del centro-destra che non ha lasciato eredità di alcun tipo sul piano culturale-istituzionale? Tutto questo accade mentre Zingaretti e gli altri esponenti della sinistra, con sprezzo del ridicolo, continuano a denunciare la spartizione dei posti e l’occupazione vorace delle poltrone da parte del governo. Col supporto e la risonanza della stampa e propaganda fiancheggiatrice. Se lo occupano loro è norma, se lo fanno gli altri è anomalia. Ma il ridicolo è che nemmeno lo fanno, e restano quasi dappertutto le tanto detestate “élite” del precedente establishment. Accusati di spartirsi le poltrone che restano saldamente sotto i glutei sinistri…(Marcello Veneziani, “La rivoluzione apparente”, da “La Verità” del 4 aprile 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Ma dov’è la rivoluzione culturale di un governo che si è presentato come una svolta radicale rispetto all’establishment, alle “élite” e ai poteri precedenti? Dieci mesi sono pochi per cambiare ma sono abbastanza per indicare una direzione, per delineare almeno un’intenzione, l’avvio di un nuovo percorso. E invece non s’intravede l’accenno di un inizio. Né sul piano delle idee e dei programmi né sul piano degli uomini e dei criteri di selezione. Totale continuità, piatta prosecuzione dell’ancien régime, conformità al politically correct, permanenza dell’egemonia culturale precedente. Vedete la Rai, vedete le istituzioni e i luoghi della cultura, vedete il clima generale. Come già accadde al tempo del centro-destra, oltre l’ossequio formale al governo in carica, magari l’intervista-marchetta al leader di turno e il trattamento di favore ad personam ai personaggi governativi, la narrazione generale è sempre la stessa, gli uomini che la somministrano sono pressoché gli stessi, i criteri e le priorità sono rimasti invariati. Nei telegiornali la musica non è cambiata, l’impostazione è la stessa.
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Così l’Unione Europea ha soffocato la libertà di Internet
Addio link facili, fine della libertà di circolazione dei contenuti sul web. Il Parlamento Ue ha infatti approvato la direttiva europea sul copyright. Con 348 voti a favore e 274 contrari, gli articoli 11 e 13 sono diventati realtà. «Non vi è stata nemmeno la possibilità di votare per gli emendamenti che avrebbero proposto la rimozione dei singoli articoli – possibilità persa per soli 5 voti contrari», scrive Riccardo Coluccini su “Motherboad”. Gli sforzi dei cittadini, degli attivisti e degli esperti di Internet – culminati con la pubblicazione di una lettera contraria agli articoli 11 e 13, firmata dagli accademici di tutta Europa che si occupano di diritto informatico e proprietà intellettuale – non sono bastati a convincere la maggioranza degli europarlamentari a votare contro una direttiva «che introduce una macchina della censura preventiva, che dovrà filtrare ogni contenuto caricato online». Alcuni politici, aggiunge Coluccini, hanno intenzionalmente avvitato la discussione sulla direttiva copyright intorno alle sole posizioni delle grandi poattaforme e dei detentori dei diritti d’autore, «che non sempre combaciano con gli autori e i creatori dell’opera». Ignorate «le richieste dei cittadini, degli artisti e dei creatori di contenuti». Per “Motherboard”, «i colpi bassi in questi mesi hanno ricordato più una stagione di Game of Thrones che un processo democratico».Come sottolineato dalla parlamentare tedesca Julia Reda, del Partito dei Pirati, abbiamo assistito probabilmente a una delle più grandi mobilitazioni cittadine degli ultimi anni su un tema digitale. «Dall’altra parte, però – scrive Coluccini – alcuni europarlamentari si sono ostinati a svilire ogni critica liquidandola come “fake news”, bollando i cittadini come “bot”, o persino alludendo alla possibilità che i critici fossero stati assoldati dai colossi digitali». Tutto questo, «tacendo completamente, però, le pressioni portate avanti dalle lobby editoriali e del mondo della musica». Alla vigilia del voto, quasi 200.000 persone hanno manifestato in diverse città europee. «La petizione online che chiedeva la rimozione dei due articoli ha raggiunto il record di oltre 5 milioni di firme», aggiunge Coluccini. «Migliaia di cittadini hanno contattato telefonicamente i propri rappresentanti per chiedere di opporsi agli articoli 11 e 13». Inoltre, il 21 marzo Wikipedia ha oscurato completamente il proprio sito web in Estonia, Danimarca, Germania, e Slovacchia. Wikipedia in italiano si è unita al blackout il 25 marzo.Di cos’è fatto, il dispositivo ammazza-web? L’articolo 13 prevede che tutti i siti e le app che permettono l’accesso o la condivisione di materiali protetti dal diritto d’autore – e ne traggono una qualche forma di profitto economico – siano considerati responsabili per eventuali violazioni. Ogni piattaforma, spiega sempre “Motherboard”, sarà quindi obbligata a stringere accordi con tutti i detentori dei diritti. E dovrà garantire che queste licenze siano rispettate, prevedendo quindi sistemi e meccanismi per evitare che vengano caricati nuovamente contenuti vietati. Secondo molti esperti, tale richiesta può essere soddisfatta solo introducendo dei filtri per gli upload, già ampiamente criticati. David Kaye, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla promozione e la tutela del diritto alla libertà di opinione e di espressione, sottolinea come «una fiducia mal riposta nelle tecnologie di filtraggio aumenterebbe il rischio di errore e censura». Purtroppo i parlamentari europei hanno deciso di far finta di nulla. «L’articolo 13 – riassume Coluccini – esclude solamente una piccola categoria di aziende: quelle che hanno meno di tre anni di attività in Europa, un fatturato minore di 10 milioni di euro e meno di 5 milioni di visitatori unici al mese».L’articolo 11, invece, prevede il diritto per gli editori di obbligare tutte le aziende che operano su Internet a stringere accordi per pubblicare brevi estratti degli articoli e notizie – i cosiddetti snippet, che sono oramai diventati onnipresenti nella nostra navigazione quotidiana. Sono esclusi unicamente “l’utilizzo di singole parole e brevi estratti” (definizione alquanto vaga). «Così com’è, la nuova legge sul copyright minaccia la libertà di Internet per come la conosciamo: gli algoritmi non sono in grado di distinguere tra effettive violazioni del copyright e riusi perfettamente legali come nel caso delle parodie», commenta Julia Reda: «Obbligare le piattaforme a usare i filtri di caricamento implicherà un maggior numero di blocchi di contenuti legali e renderà più difficile la vita delle piattaforme più piccole che non possono concedersi costosi software per filtrare». Aggiunge la parlamentare tedesca: «Il relatore dell’Unione Cristiano-Democratica di Germania (Cdu) Axel Voss e la maggioranza dei parlamentari europei hanno perso l’opportunità di garantire all’Unione Europea una legge sul copyright moderna che protegge sia gli artisti che gli utenti». Oggi è davvero un giorno buio per la libertà di Internet, scrive la stessa Reda su Twitter. E avverte: «Continueremo la battaglia, contro i filtri di caricamento e contro questa nuova legge europea».Addio link facili, fine della libertà di circolazione dei contenuti sul web. Il Parlamento Ue ha infatti approvato la direttiva europea sul copyright. Con 348 voti a favore e 274 contrari, gli articoli 11 e 13 sono diventati realtà. «Non vi è stata nemmeno la possibilità di votare per gli emendamenti che avrebbero proposto la rimozione dei singoli articoli – possibilità persa per soli 5 voti contrari», scrive Riccardo Coluccini su “Motherboad”. Gli sforzi dei cittadini, degli attivisti e degli esperti di Internet – culminati con la pubblicazione di una lettera contraria agli articoli 11 e 13, firmata dagli accademici di tutta Europa che si occupano di diritto informatico e proprietà intellettuale – non sono bastati a convincere la maggioranza degli europarlamentari a votare contro una direttiva «che introduce una macchina della censura preventiva, che dovrà filtrare ogni contenuto caricato online». Alcuni politici, aggiunge Coluccini, hanno intenzionalmente avvitato la discussione sulla direttiva copyright intorno alle sole posizioni delle grandi piattaforme e dei detentori dei diritti d’autore, «che non sempre combaciano con gli autori e i creatori dell’opera». Ignorate «le richieste dei cittadini, degli artisti e dei creatori di contenuti». Per “Motherboard”, «i colpi bassi in questi mesi hanno ricordato più una stagione di Game of Thrones che un processo democratico».
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Si fa scudo dei bambini, la sinistra sconfitta dagli elettori
Ramy e Adam, Greta, Nora, la bambina di dieci anni usata come testimonial contro la legge Pillon, Marius, il bambino protagonista del film “C’è tempo” di Walter Veltroni (che aveva già realizzato un film infantile intitolato “I bambini sanno”); e “La paranza dei bambini”, il film-libro di Roberto Saviano, ma soprattutto i bambini esibiti nei congressi, nelle manifestazioni di piazza del Pd, usati nelle scuole o nei programmi alla Fazio per campagne anti-mafia, cortei anti-razzismo, anti-omofobia, anti-inquinamento, meglio se neri, rom, migranti o disabili. È finita in mano ai ragazzini l’utopia di un mondo migliore. Se vogliono far sbarcare immigrati o sostenere lo ius soli, mostrano le immagini di un bambino, raccontano una storia straziante, come quella del bambino annegato con la pagella cucita sul petto; cercano di far passare gli sbarchi e i flussi migratori tramite il caso pietoso, la storia struggente, la tenerezza a cui è da bestie dire di no. Si fanno scudo dei bambini, li usano come cavalli di Troia. La sinistra italiana sarà abortista, poco incline verso la famiglia naturale e la maternità, propenderà per le coppie omosessuali, strizzando l’occhio agli uteri in affitto, ma da qualche tempo si è data alla puericultura e all’uso dei bambini come testimonial delle sue battaglie o di quelle che vuole strumentalizzare.In quel modo vuol confermare la sua superiorità sul piano morale, civile e sentimentale e la sua sensibilità speciale nei confronti del futuro e delle generazioni che verranno. Vogliono ipotecare il futuro, monopolizzando il pensiero “puerilmente corretto” dei bambini, ritenuto naturaliter di sinistra. Una forma politica di pedofilia, in senso etimologico, s’intende. Certo, l’uso dei bambini fa parte non da oggi del repertorio della politica, per non risalire ai tempi remoti, basti pensare al Novecento: l’uso che ne hanno fatto i presidenti americani, i papi, i sovrani e i regimi totalitari rossi e neri, è stato massiccio e mai casuale. Esibire la carezza di un leader a un bambino, fotografare un quadretto di famiglia, farsi rubare con apparente casualità un’immagine puerile o una scena privata, fa parte da tempo del gergo politico e delle sue strategie di comunicazione. Anche Sandro Pertini, che pure non aveva avuto figli e nipoti, voleva apparire come un nonno che amava i bambini. Pure Sergio Mattarella, appena può, pertineggia. Associare la propria immagine ai bambini rende più affabili e affidabili.Ma ora con l’uso politico-emozionale che ne fa la sinistra, c’è stato un salto di qualità preoccupante: il bimbo non si limita più a rendere tenera e positiva la sfera privata e sentimentale dei leader politici, non serve più allo storytelling ma fa un passo ulteriore. Il bambino viene usato come veicolo, testimonial e portatore diretto di messaggi ideologici e politici, promessa di un mondo nuovo e slancio puro per realizzarlo; esprime la rivolta ideale contro il cinismo dei “grandi” che sono al suo cospetto reazionari, retrivi, cattivisti burberi e barbogi. L’uso politico dell’infanzia è sfacciato e demagogico come mai era accaduto prima. Il bambinismo ormai è una categoria politica. I bambini godono di una franchigia speciale, un sottinteso di genuinità se non di verità che li rende credibili e inconfutabili anche quando esprimono banalissime considerazioni stucchevoli e glassate, ed è evidente che sono ammaestrati.C’è un puer-populismo radical che innaffia con la propaganda piccole creature e le scaglia contro il regno arcigno dei grandi. E se tu adulto ti metti in competizione con loro, sei ridicolo, parti svantaggiato, impacciato, ti chiamano bimbominkia, non puoi criticarli e tantomeno contestarli mentre loro possono farlo con candore e immunità. Ecco dove si è rifugiata l’utopia di un mondo migliore, dove tutti sono fratelli e si danno la mano come all’asilo arcobaleno della propaganda Pace & Benetton, senza distinzione di sesso e di omosesso, di razze, di civiltà; migranti, esuli, residenti. È la parabola della sinistra, dal Palazzo d’Inverno al Giardino d’Infanzia. È la Bimbocrazia, ma per finta.Il bambino è inattaccabile, se provi a farlo squilla il telefono azzurro, ha lo statuto anagrafico d’innocenza, il suo piccolissimo, immaturo passato è privo di scheletrini nell’armadietto. Se provi a ironizzare sul puer come hanno fatto taluni con Greta o Ramy, vieni trattato come pedofobo, stupratore di bambini, senza-cuore.È una distorsione del “sinite parvulos venire ad me” di Gesù Cristo, una riedizione politica del fanciullino di Pascoli, ma anche una forma sottile di pedagogia totalitaria, inclusiva di plagio e sfruttamento di minori. Dietro lo schermo dei bambini è possibile negare il principio di realtà, vellicare i desideri, i sogni, le utopie e perfino i capricci eticamente corretti. Con l’illusione che una fiaccolata, un corteo di ragazzini, uno striscione siano un rimedio alla criminalità organizzata, alle uccisioni, le violenze e le guerre. Ma le preghiere, i sacrifici e i fioretti in uso nel mondo antico erano forse più irrazionali di queste credenze che una fiaccolata, uno slogan gridato in piazza, una marcia della pace possano realmente cambiare il corso delle cose? Entrate nel favoloso mondo della sinistra puerile, quest’universo di nani da giardino, di fatine ed eroine, il soviet dei Puffi come un nuovo comunismo d’infanzia, somministrato nella scuola dell’obbligo. Avanti il prossimo, piccolo eroe.(Marcello Veneziani, “Si fanno scudo dei bambini”, da “La Verità” del 26 marzo 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Ramy e Adam, Greta, Nora, la bambina di dieci anni usata come testimonial contro la legge Pillon, Marius, il bambino protagonista del film “C’è tempo” di Walter Veltroni (che aveva già realizzato un film infantile intitolato “I bambini sanno”); e “La paranza dei bambini”, il film-libro di Roberto Saviano, ma soprattutto i bambini esibiti nei congressi, nelle manifestazioni di piazza del Pd, usati nelle scuole o nei programmi alla Fazio per campagne anti-mafia, cortei anti-razzismo, anti-omofobia, anti-inquinamento, meglio se neri, rom, migranti o disabili. È finita in mano ai ragazzini l’utopia di un mondo migliore. Se vogliono far sbarcare immigrati o sostenere lo ius soli, mostrano le immagini di un bambino, raccontano una storia straziante, come quella del bambino annegato con la pagella cucita sul petto; cercano di far passare gli sbarchi e i flussi migratori tramite il caso pietoso, la storia struggente, la tenerezza a cui è da bestie dire di no. Si fanno scudo dei bambini, li usano come cavalli di Troia. La sinistra italiana sarà abortista, poco incline verso la famiglia naturale e la maternità, propenderà per le coppie omosessuali, strizzando l’occhio agli uteri in affitto, ma da qualche tempo si è data alla puericultura e all’uso dei bambini come testimonial delle sue battaglie o di quelle che vuole strumentalizzare.
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L’antisionismo non è antisemitismo, follia proibirlo per legge
I vecchi tabù di carattere sessuale e morale, nelle società occidentali, sono caduti e ne sono sorti di nuovi, il più inviolabile dei quali riguarda la questione israelo-palestinese. Il solo chiedere di parlarne, viene visto dai grandi media come una provocazione e quelli che conducono programmi di informazione politica, alla proposta di affrontarlo, reagiscono con un misto di timore e di costernazione di fronte a una richiesta tanto osé, similmente a come avrebbero reagito, al tempo della televisione di Bernabei, all’idea di un programma sui piaceri della pornografia. La parola d’ordine è “evitate l’argomento”. Non si tratta di censura, piuttosto di elusione. Quando poi in rarissime occasioni, per distrazione, se ne parla, si evita accuratamente di far sentire le opinioni e le argomentazioni di coloro che criticano aspramente la politica del governo israeliano e la definiscono colonialismo, oppressione di un intero popolo, segregazionismo e razzismo. Gli oppositori di tale politica, se si esprimono con schiettezza, vengono immediatamente apostrofati e classificati con l’insultante epiteto di antisemita (!). I sedicenti amici di Israele hanno accolto l’equazione “critico del governo di Israele uguale antisionista, uguale antisemita”. Altrettali sono definiti quelli che chiedono piena dignità e diritti per il popolo palestinese.I meno accaniti di questa eletta schiera di sostenitori del sionismo e amici di Israele accusano i sostenitori delle legittime rivendicazioni palestinesi di diffondere l’antisemitismo perché le critiche allo Stato ebraico portano la pandemia antisemita. Falso! Il climax del veleno antisemita si manifestò quando Israele non esisteva e gli ebrei vivevano in diaspora. In Israele, peraltro, alcuni giornalisti coraggiosi e di altissimo profilo si esprimono senza alcun timore, apertis verbis et ore rotundo. Gideon Levy su “Haaretz” (quotidiano israeliano pubblicato in Israele, da un editore israeliano, letto da lettori israeliani) in un suo articolo dal titolo palmare, “In U.S. Media, Israelis Untouchable”, scrive: «You can attack the Palestinians in America uninterrupted, call to expel them and deny their existence. Just don’t dare say a bad word about Israel, the holy of holies». E a proposito della proliferazione dei sentimenti antisemiti nota: «Jews are not as hated as Israel would like: only 10 percent said they had any negative feelings about them». La mia opinione, come quella di autorevoli esponenti della società israeliana, è che le classi dirigenti e il governo Netanyahu utilizzino strumentalmente l’accusa di antisemitismo al solo scopo di ricattare i paesi dell’Occidente per legittimare l’occupazione e la colonizzazione delle terre palestinesi e per annettere terre che la legalità internazionale assegna al popolo palestinese.Così, a proposito dell’equiparazione di antisionismo e antisemitismo, scrive lo storico israeliano Shlomo Sand: «Il tentativo del presidente francese Emmanuel Macron e del suo partito di criminalizzare oggi l’antisionismo come una forma di antisemitismo mostra di essere una manovra cinica e manipolatoria. Se l’antisionismo diventa un crimine, mi sento di raccomandare a Macron di far condannare, con effetto retroattivo, il bundista Marek Edelman, che fu uno dei leader del ghetto di Varsavia e totalmente antisionista. Si potrebbe anche inviare a processo i comunisti antisionisti che, piuttosto che emigrare in Palestina, scelsero di combattere, armi in pugno, contro il nazismo. Se intende essere coerente nella condanna retroattiva di tutti i critici del sionismo, Macron dovrà aggiungere la mia insegnante Madeleine Rebérioux, che ha presieduto la Lega dei diritti umani, l’altro mio insegnante e amico Pierre Vidal-Naquet e, naturalmente, anche Eric Hobsbawm, Edward Said e molte altre eminenti figure, ora scomparse, ma i cui scritti sono ancora autorevoli».«Se Macron desidera attenersi a una legge che reprime gli antisionisti ancora viventi, la cosiddetta futura legge dovrà applicarsi anche agli ebrei ortodossi di Parigi e New York che rifiutano il sionismo, a Naomi Klein, Judith Butler, Noam Chomsky e molti altri umanisti universalisti, in Francia e in Europa, che si autoidentificano come ebrei pur dichiarandosi antisionisti. Si troveranno, naturalmente, molti idioti antisionisti e giudeofobi, come non mancano pro-sionisti imbecilli, pure giudeofobi, ad augurare che gli ebrei lascino la Francia ed emigrino in Israele. Li includerà in questa grande impennata giudiziaria? Stia attento, signor presidente, a non lasciarsi trascinare in questo ciclo infernale, proprio quando la popolarità è in declino!». Personalmente ritengo che debbano cessare retoriche, propagande, calunnie insensate e strumentalizzazioni, che non sia più tollerabile tacere sulla crudele oppressione del popolo palestinese. E’ ora che i paesi occidentali affrontino la questione con coraggio e onestà intellettuale.(Moni Ovadia, “L’antisionismo non è antisemitismo”, dal “Fatto Quotidiano” del 29 marzo 2019; articolo ripreso da “Come Don Chisciotte”).I vecchi tabù di carattere sessuale e morale, nelle società occidentali, sono caduti e ne sono sorti di nuovi, il più inviolabile dei quali riguarda la questione israelo-palestinese. Il solo chiedere di parlarne, viene visto dai grandi media come una provocazione e quelli che conducono programmi di informazione politica, alla proposta di affrontarlo, reagiscono con un misto di timore e di costernazione di fronte a una richiesta tanto osé, similmente a come avrebbero reagito, al tempo della televisione di Bernabei, all’idea di un programma sui piaceri della pornografia. La parola d’ordine è “evitate l’argomento”. Non si tratta di censura, piuttosto di elusione. Quando poi in rarissime occasioni, per distrazione, se ne parla, si evita accuratamente di far sentire le opinioni e le argomentazioni di coloro che criticano aspramente la politica del governo israeliano e la definiscono colonialismo, oppressione di un intero popolo, segregazionismo e razzismo. Gli oppositori di tale politica, se si esprimono con schiettezza, vengono immediatamente apostrofati e classificati con l’insultante epiteto di antisemita (!). I sedicenti amici di Israele hanno accolto l’equazione “critico del governo di Israele uguale antisionista, uguale antisemita”. Altrettali sono definiti quelli che chiedono piena dignità e diritti per il popolo palestinese.