Archivio del Tag ‘economia’
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Moiso: via il Che da quelle magliette, metteteci Draghi
Che strana questa sedicente sinistra che critica coloro che parlano di sovranità, che pensa di dover organizzare le proprie iniziative politiche partendo dalla necessità assoluta e imprescindibile di tagliare il debito pubblico, e che crede che l’accoglienza indiscriminata di quelle povere persone che vengono dall’Africa e dal Medio Oriente possa essere una soluzione giusta e sostenibile. Che strana, questa sedicente sinistra che da giovane appendeva, vestiva e si tatuava “Che” Guevara, Marx e Sankara; avrebbe piuttosto dovuto vestire le maglie con la faccia di Mario Draghi, appendere i poster di Visco in cameretta affianco a quelli dei Guns’n’Roses e farsi i tatuaggi di Mattarella o Monti sulla spalla; questo sì che sarebbe stato coerente con le loro posizioni odierne! Viene da pensare, perché mi ricordo chiaramente Marx ed Engels scrivere di come l’immigrazione indiscriminata irlandese – in condizioni di scarsità di risorse – potesse danneggiare le condizioni dei lavoratori inglesi, nonché sottoporre i lavoratori irlandesi a condizioni disumane.Mi ricordo chiaramente come Sankara avesse smascherato platealmente, alle Nazioni Unite, come il debito pubblico fosse un’arma di controllo post-coloniale, rivendicando la necessità di aiutare il popolo africano in Africa; e mi ricordo ancora più chiaramente come Ernesto “Che” Guevara, sempre alle Nazioni Unite, rivendicò il principio della sovranità del popolo di fronte all’imperialismo del mondo finanziario. Ora… o mi ricordo male io, o gli elettori progressisti non sono progressisti (e in effetti tra i progressisti si nascondono molti conservatori e comunisti) o la classe politica sedicente progressista ha mantenuto la narrativa progressista ma si è completamente venduta al neoliberismo. Alcuni potrebbero guardare al nazionalismo e al comunismo con nostalgia, come reazione alle politiche neoliberiste dell’attuale sedicente sinistra… La verità è che nonostante “Che” Guevara e Sankara si dicessero comunisti, non è certo nel comunismo che troviamo l’esempio che hanno lasciato nella storia.Piuttosto, queste persone ci hanno insegnato che non c’è niente, nella vita, che valga più della lotta per il bene della collettività; della lotta per creare un mondo giusto ed equo. Oggi, ci sentiamo dire che dobbiamo fare i conti con l’economia e con la finanza, base imprescindibile di un sistema sociale che ha sostituito gli indicatori economici e finanziari ai diritti umani. Ma la storia insegna che nel XVII, XVIII e XIX secolo il popolo si sentiva dire che non si potesse lottare contro una monarchia reggente per volere di Dio. Ecco, personaggi come Sankara e “Che” Guevara non ci insegnano che il comunismo sia la filosofia economica sulla quale ricostruire la società, ma piuttosto ci insegnano che si può e si deve lottare anche oggi – e che la lotta vale una vita.(Marco Moiso, “Si sbiadiscono le magliette della sedicente sinistra”, dal blog del Movimento Roosevelt del 7 novembre 2018).Che strana questa sedicente sinistra che critica coloro che parlano di sovranità, che pensa di dover organizzare le proprie iniziative politiche partendo dalla necessità assoluta e imprescindibile di tagliare il debito pubblico, e che crede che l’accoglienza indiscriminata di quelle povere persone che vengono dall’Africa e dal Medio Oriente possa essere una soluzione giusta e sostenibile. Che strana, questa sedicente sinistra che da giovane appendeva, vestiva e si tatuava “Che” Guevara, Marx e Sankara; avrebbe piuttosto dovuto vestire le maglie con la faccia di Mario Draghi, appendere i poster di Visco in cameretta affianco a quelli dei Guns’n’Roses e farsi i tatuaggi di Mattarella o Monti sulla spalla; questo sì che sarebbe stato coerente con le loro posizioni odierne! Viene da pensare, perché mi ricordo chiaramente Marx ed Engels scrivere di come l’immigrazione indiscriminata irlandese – in condizioni di scarsità di risorse – potesse danneggiare le condizioni dei lavoratori inglesi, nonché sottoporre i lavoratori irlandesi a condizioni disumane.
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TJ Coles: milioni di morti, il neoliberismo minaccia la Terra
Gli esseri umani sono creature complicate. Siamo sia cooperativi che settari. Tendiamo a essere cooperativi all’interno di gruppi (ad es. un sindacato) mentre competiamo con gruppi esterni (ad esempio, una confederazione di imprese). Ma società complesse come la nostra ci costringono anche a cooperare con gruppi esterni – nei quartieri, nel lavoro e così via. Negli ecosistemi sociali, la selezione naturale favorisce la cooperazione. Inoltre, esiste una preferenza per i comportamenti etici, quindi la cooperazione e la condivisione sono qualità apprezzate nelle società umane. Ma cosa succede quando siamo obbligati da un sistema economico che ci vuole competitivi a tutti i livelli? Il risultato logico è il declino o il collasso della società. Ne “L’individuo nella società”, Ludwig von Mises, insegnante di Friedrich Hayek (il padre del moderno neoliberismo), scriveva che, nel contratto sociale, il datore di lavoro è alla mercé della folla. Ma in un’economia di mercato improntata all’utilitarismo, «il coordinamento delle azioni autonome di tutti gli individui scaturisce dal funzionamento del mercato». Quindi, in questo mondo fantastico, i datori di lavoro possono licenziare i lavoratori e sostituirli con quelli più economici senza incorrere nei costi sociali dei sistemi di contratto sociale.Questo tipo di pensiero ha iniziato a permeare la cultura dei pianificatori del “libero mercato” nei corsi di economia delle università di Ivy League, in particolare dopo gli anni ’70. Robert Simons della Harvard Business School nota come l’economia sia di gran lunga la disciplina accademica dominante negli Stati Uniti oggi, e che molti laureati trasferiscono questa ideologia dell’interesse personale acquisita all’università nella loro attività lavorativa di gestione patrimoniale, hedge fund, assicurazioni, credito e così via. Simons critica ciò che definisce «l’accettazione universale e indiscussa da parte degli economisti dell’interesse personale – degli azionisti, dei manager e dei dipendenti – come fondamento concettuale per la progettazione e la gestione aziendale». Simons nota che i lavoratori sono una classe utilitaristica, come lo sono i manager, nel senso che cercano di ottenere maggiori benefici. «Per rimediare a questa situazione potenzialmente catastrofica» dei diritti dei lavoratori, «gli economisti di mercato tentano di canalizzare comportamenti sbagliati usando la teoria dello stimolo-risposta», ossia attraverso una legislazione antisindacale, tagli ai servizi sociali e la minaccia dell’outsourcing. Gli economisti di mercato «hanno elevato l’interesse personale ad ideale normativo».Nel 1988 l’allora cancelliere Tory Nigel Lawson scrisse che negli anni ’70, «il capitalismo, basato sull’interesse personale, è ritenuto moralmente deplorevole» dalla maggioranza dei britannici. Ma altrettanto immorale per Lawson era l’intervento statale: «Non c’è nulla di particolarmente morale in un’azione governativa pesante», sosteneva (a meno che non si tratti di salvare le grandi imprese). Ma, fortunatamente per i Tories, «l’ondata ideologica è cambiata», consentendo loro di ritornare al governo e imporre ulteriori riforme neoliberiste. Forse l’aspetto peggiore del neoliberismo è il fatto di aver contagiato il partito laburista. Per fare alcuni esempi: un neoliberista statunitense, Lawrence Summers (in seguito il Segretario al Tesoro di Bill Clinton), fece da tutore al giovane Ed Balls, che presto sarebbe diventato il consigliere economico del futuro cancelliere britannico Gordon Brown. Quando era ancora un semplice deputato, Brown ebbe degli incontri con il presidente della Federal Reserve statunitense, Alan Greenspan. Ciò diede inizio nel Regno Unito a un periodo di ulteriore deregolamentazione finanziaria sotto l’egida del sedicente “New Labour”.Vi furono tuttavia economisti che, a metà degli anni 2000, poco prima del crack finanziario, iniziarono a vedere crepe nell’ideologia, e osservarono: «Vediamo nel pubblico un diffuso disagio riguardo le soluzioni di mercato. Il libero scambio e la globalizzazione, la privatizzazione della previdenza sociale e la deregolamentazione del mercato dell’energia suscitano l’opposizione di molti consumatori, a volte argomentata ma spesso inadeguata. Non è un caso che il sostegno alle soluzioni di mercato sia concentrato tra le classi di maggior successo economico, e l’opposizione tra chi ne ha meno. La libera scelta ha un fascino morale, ma l’aspetto morale è più forte quando non è mescolato all’interesse personale». Nel 2008 gli Stati Uniti, e quindi l’economia globale, sono entrate in crisi. Greenspan testimoniò alla Camera dei rappresentanti: «Ho commesso un errore nel ritenere che l’interesse personale delle organizzazioni, in particolare delle banche e di altri, fosse tale da essere in grado di proteggere i propri azionisti e le proprie società azionarie». Eppure interesse personale significa proprio interesse personale. Gli amministratori delegati e gli alti dirigenti non vedevano la necessità di onorare i loro presunti doveri verso i loro azionisti, per non parlare della popolazione in generale.Le conseguenze politiche di decenni di neoliberismo hanno portato all’espropriazione democratica, in particolare durante il periodo di espansione (dagli anni ’70 al 2008), segnato dal declino o stagnazione dell’affluenza elettorale e dall’affermarsi di politiche cosiddette estremiste all’indomani della crisi (dal 2009 a oggi). Ma l’ideologia è radicata nella classe dominante. Così, anche dopo l’inevitabile incidente del 2008, sia la Banca Centrale Europea che la Banca d’Inghilterra hanno continuato a portare avanti il neoliberismo imponendo austerità rispettivamente ai popoli europei e al Regno Unito. In questo contesto, le istituzioni finanziarie transnazionali predatorie traggono profitto dal caos. Il fallimento del gigante immobiliare Carillon ne è un esempio calzante. La società fu lasciata fallire e il suo declino avvantaggiò diversi hedge fund, compresi alcuni con sede negli Stati Uniti. Le conseguenze sociali del neoliberismo sono ancora più gravi. La classe media americana si è ristretta dagli anni ’70, poiché i singoli individui sono diventati o molto poveri o molto ricchi.Uno studio del Harvard Business Review ha rilevato che all’inizio degli anni ’80 almeno il 49% degli americani pensava che la qualità dei loro prodotti e servizi fosse diminuita negli ultimi anni. I tassi di suicidio maschile e femminile hanno continuato a salire a partire dalla metà degli anni ’90. Uno studio recente suggerisce che l’aspettativa di vita è scesa ovunque tra i paesi ad alto reddito. Nel Regno Unito, l’austerità guidata dai Tory ha causato oltre centomila morti in un decennio, secondo il BMJ. Le popolazioni dei paesi più fragili ne hanno risentito ancora di più. Tra il 1990 e il 2005, i paesi sub-sahariani i cui governi hanno chiesto prestiti di adeguamento strutturale al Fondo monetario internazionale e alla Banca di sviluppo africana hanno visto un incremento da 231 a 360 casi di decessi da parto per 100.000 nati vivi, rispettivamente. Secondo un altro rapporto del Bmj, nei paesi dell’America latina un incremento di solo l’1% della disoccupazione tra il 1981 e il 2010 si è tradotto in «significativi peggioramenti nei risultati di salute», tra cui un incremento di 1,14 decessi infantili su 1.000 nascite. Tutto questo equivale a un bollettino di guerra di milioni di morti.Come documentato altrove, le società più vulnerabili, vale a dire le comunità indigene dedite al mantenimento dei loro modi di vita tradizionali, si stanno letteralmente estinguendo man mano che la “civiltà” avanza. Se questo modello decennale continua imporsi in tutto il mondo, specialmente in nazioni con popolazioni massicce come l’India e la Cina che sempre più si stanno allineando a politiche neoliberiste, le attuali condizioni di divisione sociale ed infrastrutture fatiscenti sembreranno al confronto solo un minimo inconveniente, in particolare in contesto di sempre maggiore scarsità di risorse e cambiamenti climatici. Solo se il mutamento culturale contro il neoliberismo cui si assiste oggi, che viene espresso un po’ dappertutto dai movimenti sociali progressisti agli scioperi dei lavoratori, riuscirà a sopravvivere ed espandersi, allora si potrà immaginare un futuro più equo.(T.J. Coles, “Perché una società neoliberista non può sopravvivere”, analisi tradotta e pubblicata da “Voci dall’Estero” il 2 novembre 2018. Coles è ricercatore presso il Cognition Institute dell’Università di Plymouth e autore di svariati saggi sociologici e filosofici).Gli esseri umani sono creature complicate. Siamo sia cooperativi che settari. Tendiamo a essere cooperativi all’interno di gruppi (ad es. un sindacato) mentre competiamo con gruppi esterni (ad esempio, una confederazione di imprese). Ma società complesse come la nostra ci costringono anche a cooperare con gruppi esterni – nei quartieri, nel lavoro e così via. Negli ecosistemi sociali, la selezione naturale favorisce la cooperazione. Inoltre, esiste una preferenza per i comportamenti etici, quindi la cooperazione e la condivisione sono qualità apprezzate nelle società umane. Ma cosa succede quando siamo obbligati da un sistema economico che ci vuole competitivi a tutti i livelli? Il risultato logico è il declino o il collasso della società. Ne “L’individuo nella società”, Ludwig von Mises, insegnante di Friedrich Hayek (il padre del moderno neoliberismo), scriveva che, nel contratto sociale, il datore di lavoro è alla mercé della folla. Ma in un’economia di mercato improntata all’utilitarismo, «il coordinamento delle azioni autonome di tutti gli individui scaturisce dal funzionamento del mercato». Quindi, in questo mondo fantastico, i datori di lavoro possono licenziare i lavoratori e sostituirli con quelli più economici senza incorrere nei costi sociali dei sistemi di contratto sociale.
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Torino rottama il Tav Torino-Lione, super-bufala ferroviaria
Torino dice no al progetto per il treno ad alta velocità, Tav, tanto discusso che vorrebbe collegare il capoluogo piemontese con la città francese di Lione. È stata, infatti, approvata in Consiglio comunale con 23 voti favorevoli e 2 contrari la proposta di mozione del Movimento Cinquestelle che ha chiesto di fermare i lavori della linea oltre che le dimissioni dei vertici di Telt (l’ente responsabile della realizzazione dell’opera) e del commissario straordinario di governo Paolo Foietta, e la conversione dei fondi a iniziative di mobilità sostenibile. Le critiche non sono mancate né dentro né fuori il palazzo comunale: mentre gli industriali inscenavano una manifestazione a sostegno del “sì” al Tav, in aula venivano espulsi tutti i consiglieri del centrosinistra compreso l’ex sindaco Piero Fassino a seguito delle forti proteste. La città di Torino, che aveva formalizzato la sua contrarietà all’opera già nel 2016, chiede ora al governo di bloccare qualsiasi operazione indirizzata al suo avanzamento, almeno fino al termine delle valutazioni dell’analisi costi-benefici in corso e di cui si attendono i risultati a fine anno.L’analisi costi-benefici è una tecnica di valutazione utilizzata per prevedere gli effetti di un progetto, verificando se dall’impatto della sua realizzazione la società ottenga un beneficio o un costo netto. Viene considerato dagli economisti un supporto alla decisione pubblica poiché, attraverso la monetizzazione dei benefici e dei costi associati alla sua realizzazione, esso evidenzia la proposta migliore fra più alternative progettuali. Quella che si attende sul Tav Torino-Lione a fine anno è la seconda analisi fatta sul progetto. La prima è stata realizzata nel 2012 direttamente dall’osservatorio del collegamento ferroviario Torino-Lione, organo istituito nel 2006 con decreto ministeriale proprio per seguire i lavori di progettazione dell’opera. Non proprio un “ente terzo”, come si direbbe, ma anzi un soggetto che tra le proprie finalità ha quella di «esaminare, valutare e rispondere alle preoccupazioni espresse dalle popolazioni della valle di Susa», come riportato in un documento di sintesi. Diversi comuni della val di Susa però hanno scelto di sfilarsi dall’osservatorio, non condividendo il fatto che la realizzazione dell’opera non fosse messa in discussione. Tra questi anche il Comune di Torino guidato dai Cinque Stelle.L’analisi del 2012, oltre a essere arrivata in fase di progettazione già avviata (sei anni dopo l’istituzione dell’osservatorio), non è riuscita a tenere il passo dell’evoluzione negli anni successivi: alla decisione di ridimensionare il progetto iniziale, cioè a un Tav low cost, non è seguita una revisione dell’analisi costi-benefici le cui previsioni di traffico sono state peraltro largamente smentite dal governo nel 2017: «Non c’è dubbio che molte previsioni fatte quasi dieci anni fa, in assoluta buona fede, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione Europea, siano state smentite dai fatti. Lo scenario attuale è, quindi, molto diverso da quello in cui sono state prese a suo tempo le decisioni», ha scritto nero su bianco il Consiglio dei ministri. Intanto però, sulla base del “vecchio” progetto, sono stati spesi almeno 1,2 miliardi di euro per la fase di progettazione dell’opera e l’avvio dei lavori di scavo. Dopo la fase di progettazione dell’opera, il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica), con delibera pubblicata il 24 gennaio 2018, ha ordinato la realizzazione di due lotti costruttivi del tunnel transfrontaliero di base. Si tratta di un incarico con una spesa di 5,57 miliardi, dalla parte italiana, disposto in assenza di effettiva disponibilità di finanziamento.Infatti, né la Francia né l’Europa hanno ancora stanziato tutti i fondi, nonostante l’accordo tra Italia e Francia del 2012 preveda espressamente che i cantieri per la costruzione del tunnel di base non possano essere avviati senza la disponibilità di tutti i fondi per la realizzazione del progetto. La Francia non solo non ha iscritto nel suo bilancio la previsione di spesa del tunnel di base transfrontaliero ma, come si legge nella mozione presentata in Comune a Torino, «ha rinviato a dopo il 2038 ogni decisione in merito alle opere della tratta di sua competenza da realizzare sul suo territorio (ad esempio i tre tunnel di Belledonne, Glandon, Chartreuse)». Inoltre i lotti costruttivi, come spiegato in un esposto alla Corte dei Conti presentato dal Controsservatorio sulla Torino-Lione, non sono opere funzionali, quindi risultano inutilizzabili fino a opera finita. «Non c’è una definizione giuridica di cosa sia un lotto costruttivo», spiega il Controsservatorio nel suo esposto, «ma in sostanza si tratta, dato un progetto complessivo di un’opera pubblica, di una parte dell’opera che corrisponde allo stanziamento disponibile in quel momento e di per sé non sufficiente a realizzare l’intera opera. Il lotto così costruito non serve di per sé né può essere utilizzato». Quindi l’opera procede ma senza la sicurezza di poter finire i lavori. E il tutto, come già visto, sulla base di un’analisi costi-benefici non aggiornata.I sostenitori del “no” al Tav, considerano “sproporzionata” la ripartizione dei costi: come stabilito dall’accordo tra Italia e Francia del 2012, la tratta transfrontaliera è infatti per il 57,9% a carico dell’Italia – sul cui territorio si trovano 12 chilometri su 57,5 totali, cioè solo il 21% del tracciato – e per il 42,1% a carico della Francia, sul cui territorio insistono gli altri 45,5 chilometri. E qui si arriva alla voce sui cui i sostenitori dell’opera insistono: il rischio di pagare delle penali. Che, secondo il Controsservatorio, si tratta di una bufala. «Non esiste alcun accordo internazionale sottoscritto dall’Italia nei confronti della Francia o dell’Europa che preveda l’esborso di penali in caso di ritiro unilaterale italiano», si legge sul sito dell’associazione. «Gli accordi bilaterali tra Francia e Italia non prevedono alcuna clausola che accolli a una delle parti, in caso di recesso, forme di compensazione per lavori fatti dall’altra parte sul proprio territorio. Pronti a fare ammenda se qualcuno fosse in grado di dimostrare il contrario».Dal lato dei Sì Tav, Sergio Chiamparino, presidente della Regione Piemonte, invoca il referendum, mentre Paolo Foietta, commissario di governo per l’alta velocità, più che di penali parla di costi da sostenere in caso di abbandono: secondo Foietta la stima ammonterebbe a oltre 2 miliardi, oltre al rischio di un contenzioso legale. I costi riguardano, sempre secondo il commissario, la smobilitazione dei cantieri e delle attrezzature, i costi per la messa in sicurezza delle opere fin qui realizzate e la restituzione dei finanziamenti comunitari erogati per mancata realizzazione delle opere a venire. Ma il Controsservatorio ha ribadito che, «al fine di evitare ogni contenzioso con l’Unione Europea e le imprese», è sufficiente che «Telt non lanci gare di appalto e non contragga qualsivoglia impegno con chicchessia fino al momento in cui, nel rispetto dell’articolo 16 dell’Accordo di Roma, i tre soci finanziatori del progetto Torino-Lione (Ue, Francia e Italia) non abbiano garantito con atti formali (leggi dello Stato) tutti i fondi necessari all’intera realizzazione dell’opera». Atti che al momento non sono ancora pervenuti.(Maurizio Bongioanni, “Torino dice no al Tav, cosa vuol dire per il progetto e i fondi stanziati finora”, da “Lifegate” del 31 ottobre 2018).Torino dice no al progetto per il treno ad alta velocità, Tav, tanto discusso che vorrebbe collegare il capoluogo piemontese con la città francese di Lione. È stata, infatti, approvata in Consiglio comunale con 23 voti favorevoli e 2 contrari la proposta di mozione del Movimento Cinquestelle che ha chiesto di fermare i lavori della linea oltre che le dimissioni dei vertici di Telt (l’ente responsabile della realizzazione dell’opera) e del commissario straordinario di governo Paolo Foietta, e la conversione dei fondi a iniziative di mobilità sostenibile. Le critiche non sono mancate né dentro né fuori il palazzo comunale: mentre gli industriali inscenavano una manifestazione a sostegno del “sì” al Tav, in aula venivano espulsi tutti i consiglieri del centrosinistra compreso l’ex sindaco Piero Fassino a seguito delle forti proteste. La città di Torino, che aveva formalizzato la sua contrarietà all’opera già nel 2016, chiede ora al governo di bloccare qualsiasi operazione indirizzata al suo avanzamento, almeno fino al termine delle valutazioni dell’analisi costi-benefici in corso e di cui si attendono i risultati a fine anno.
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Midterm: Trump resiste alla carica dei Dem senza leader
E’ un’America profondamente divisa quella che esce dalle elezioni di midterm, molto partecipate dagfli elettori. L’ “onda blu” non si è vista, anche se i democratici conquistano per un soffio il controllo della Camera dei rappresentanti. Ma il presidente Donald Trump, l’inquilino della Casa Bianca «più imprevedibile e non catalogabile politicamente», rafforza la sua maggioranza al Senato, la Camera alta, «che nel sistema statunitense ha un potere di decisione più importante, nel Congresso», come osserva Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”. Formalmente, come molti altri suoi predecessori dopo le lezioni di midterm, anche Trump dovrebbe essere considerato come “un’anatra zoppa”. «Ma il risultato di questo gigantesco sondaggio sulla sua figura, dopo due anni tormentatissimi e logoranti, dà l’idea che il presidente, attaccato da tutte le parti, ha indubbiamente sfoderato un’incredibile forza di resistenza, basata con tutta probabilità sull’ottimo andamento dell’economia americana, con una disoccupazione che è di poco superiore al 3%, un dato che molti economisti definiscono quasi fisiologico».Pensare a questo punto che ci sia una svolta nella politica degli Stati Uniti, a due anni dalle nuove elezioni presidenziali (e di fatto a un anno dalla preparazione della prossima campagna presidenziale) potrebbe rivelarsi un’illusione, sostiene Da Rold. Di certo, «Trump dovrà affrontare problemi interni più radicali, tra varie inchieste e magari richieste di impeachement, che sono in potere della Camera dei rappresentanti». Ma la divisione del paese, la solidità della maggioranza al Senato e, di fatto, il non sfondamento reale dei democratici (se non negli Stati costieri) non dovrebbero procurare ripercussioni notevoli nella linea della Casa Bianca. Al massimo, aggiunge l’analista, Trump potrà essere limitato, ma non di certo imbrigliato nelle sue scelte di fondo. Intanto, «la politica dei dazi e dell’abbattimento della pressione fiscale hanno giocato un ruolo importante nella sostanziale tenuta del presidente». Trump ha insistito su una politica di espansione che «ha rimesso in moto la macchina produttiva prodigiosa e il mercato americano».In questa linea economica, rileva sempre Da Rold, sono emersi problemi che hanno “risvegliato” i democratici, mobilitandoli sulla linea del socialista Bernie Sanders: le diseguaglianze sociali che si sono accentuate, l’eterno problema della sanità pubblica. Quello che sembra al momento limitare l’azione del Partito democratico è però l’assenza di un leader visibile e conosciuto, aggiunge Da Rold. «Non a caso è intervento negli ultimi comizi lo stesso Barack Obama per contrastare il presidente e difendere le ragioni dei democratici». Dopo la sconfitta di Hillary Clinton nel 2016, il partito ha coinvolto soprattutto giovani, donne e uomini di colore, persone che si sono anche battute bene e che rappresentano una scelta giusta: non si identificano più con l’establishment – identificazione «che tanto ha nuociuto alla Clinton». Ma nel sistema americano «un conto è andare a prendere il voto nei singoli Stati o addirittura nelle singole contee, un altro conto è affrontare una campagna presidenziale e imporre un proprio leader alla Casa Bianca».Con tutta la sua imprevedibilità e la sua politica di continue impressioni e sensazioni, che spesso sembrano poco razionali, aggiunge Da Riold, il presidente Trump «ha di fatto imposto una leadership che prima si è posta come anti-sistema, poi ha affrontato questioni geopolitiche in modo totalmente nuovo nei confronti dell’Europa in particolare». Il capo della Casa Bianca può essere discusso, ovviamente, ma sarebbe demenziale «non prenderlo in considerazione e limitarsi a contrastarlo solo sul piano delle virtù personali e della sue improvvise simpatie e antipatie internazionali, minacciando ogni mattina un impeachment». Sarebbe un errore, sottolinea Da Rold, e forse un pericoloso boomerang. «Di fatto, oggi l’inquilino della Casa Bianca è diventato un punto di riferimento dello sconvolgimento politico e sociale che è in corso in tutto il mondo. Per invertire la rotta, la “piccola vittoria” dei democratici alla elezioni di midterm dovrebbe essere una ripartenza, e non una sorta di “vittoria di Pirro”».E’ un’America profondamente divisa quella che esce dalle elezioni di midterm, molto partecipate dagfli elettori. L’ “onda blu” non si è vista, anche se i democratici conquistano per un soffio il controllo della Camera dei rappresentanti. Ma il presidente Donald Trump, l’inquilino della Casa Bianca «più imprevedibile e non catalogabile politicamente», rafforza la sua maggioranza al Senato, la Camera alta, «che nel sistema statunitense ha un potere di decisione più importante, nel Congresso», come osserva Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”. Formalmente, come molti altri suoi predecessori dopo le lezioni di midterm, anche Trump dovrebbe essere considerato come “un’anatra zoppa”. «Ma il risultato di questo gigantesco sondaggio sulla sua figura, dopo due anni tormentatissimi e logoranti, dà l’idea che il presidente, attaccato da tutte le parti, ha indubbiamente sfoderato un’incredibile forza di resistenza, basata con tutta probabilità sull’ottimo andamento dell’economia americana, con una disoccupazione che è di poco superiore al 3%, un dato che molti economisti definiscono quasi fisiologico».
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Livigni: ci governa la cupola che liquidò Kennedy e Mattei
Vorrei tornare su Enrico Mattei, di cui sono stato uno strettissimo collaboratore, per dire che in Italia è avvenuto qualcosa di orrendo, di sporco. Era stata fatta una inchiesta, quando l’aereo precipitò a Bascapè: un’inchiesta vergognosa, fatta da depistaggi e coperture della verità. Un’altra mezza inchiesta era stata subito chiusa. Nel 1994 ho pubblicato un libro con la Mondatori che si chiama “La grande sfida”, e sono riuscito avere documentazioni top secret dagli archivi della Jfk Library di Boston, dall’Eisenhower Library e, con mia sorpresa, ho scoperto che tra Mattei e Kennedy c’era una corrispondenza molto stretta. Dopo la crisi di Suez, quando Inghilterra e Francia erano state invitate dagli Stati Uniti a ritirarsi durante la Guerra di Suez, perché gli Usa temevano uno shock petrolifero, l’Italia avanzò la proposta di coprire un ruolo di nazione strategica, sul Mediterraneo, in sostituzione di Francia e Inghilterra. Kennedy era d’accordo, però bisognava dare stabilità politica al governo italiano, che cambiava ogni due mesi (c’era stata la crisi del governo Tambroni, che durò un mese e mezzo). Per dare stabilità politica bisognava scegliere un uomo e fare riforme. Kennedy esaminò tutti i possibili interlocutori italiani, e li scartò subito: via Fanfani, via Gronchi. E arrivò a Mattei: di lui, Kennedy era affascinato. E iniziarono delle trattative.Una prima trattativa avvenne all’Hotel Excelsior di Roma, in grandissimo segreto. Mattei non si fece assistere da nessuno. Kennedy chiese alle grandi compagnie americane di mettere Mattei in condizioni di fare affari, di offrirgli contratti migliori di quelli che aveva con l’Unione Sovietica. Dopo lunghe trattative, venne fatto un contratto tra l’Eni e la Esso per la fornitura di 12 milioni di tonnellate l’anno di greggio a condizioni veramente migliori di quelle che Mattei aveva con l’Urss. Dopo l’accordo commerciale, segretissimo, si passò alla trattativa politica. Parteciparono il responsabile della politica estera di Kennedy e il futuro capo della Cia in Italia. Mattei doveva andare a dicembre 1962 a incontrare Kennedy. Non ne parlò con nessuno, neanche con me. Era abbastanza teso, in quei giorni: aveva ricevuto minacce. La cosa che mi colpì è che era stato in Sicilia, il 18 ottobre 1962. C’era stato un incontro a Gela, un Cda della Agip Mineraria. Lui transitò da Palermo, mi chiamò e mi disse: «Ti voglio vedere subito in aeroporto». Arrivò con l’aereo aziendale, mi diede indicazioni su fatti che stavamo svolgendo e io gli dissi: «Presidente, venga entro l’anno, perché abbiamo fatto una realizzazione, a Gela, che voleva lei: un grande deposito costiero per importare dalla raffineria di Gela i prodotti sul mercato». Lui disse: «Non posso venire, ho parecchi impegni, ci vediamo il prossimo anno».Dopo sette giorni ricevo una sua telefonata. Io mi trovo a Palermo, avevo un incarico di “scout man”, l’uomo dei servizi segreti nel petrolio che cerca di sapere cosa fanno le altre compagnie. Mi disse: «Sto partendo per Gela». «Presidente, ma… come mai?». «Poi glielo dico». Arrivai a Gela prima di lui, andai al Motel Agip e mi dissero: «Non atterra qui». L’Agip aveva un aeroporto privato, l’aeroporto di Ponte Olivo, con una pista molto sorvegliata. Ma la sera prima avevano messo una carica di tritolo e rotto la pista per non farlo atterrare, per farlo venire con l’elicottero. E lui dovette atterrare a Catania, arrivò intorno alle 13. Abbiamo parlato di problemi in corso che riguardavano l’Iraq. Nessun libro, dei 300 e rotti pubblicati nel mondo su Mattei, ha mai parlato dell’Iraq. Sapevo che c’era una questione in Iran: non si era riusciti a entrare nel consorzio dopo la caduta di Mossadeq, fatto cadere dagli angloamericani perché aveva nazionalizzato il petrolio (fatto cadere con l’uso dei sicari dell’economia). Mossadeq fu denunziato come se fosse un pazzo, e invece era molto saggio: era presidente del Consiglio del primo governo democratico iraniano, un governo eletto dal popolo.Gli americani tornarono con gli inglesi e riaprirono le compagnie angloamericane, fecero un consorzio e noi siamo stati rifiutati. E Mattei disse: «Andiamoci a prendere il petrolio in Iraq». Che cosa era successo? Io ho conosciuto a Taormina Dino Grandi, ex ministro degli esteri del governo Mussolini, che mi ha informato che nel 1934 l’Agip, fondata nel 1926, era riuscita a ottenere in Iraq il più grande giacimento nell’area di Kirkuk, nell’area curda. Era riuscita per l’abilità di Grandi che venne a patti con gli inglesi, che avevano l’85% del territorio iracheno. Una concessione enorme, con una sessantina di concessioni. L’Iraq è un’invenzione di Churchill, che aveva capito che – tirando una linea, un rettangolo, e unificando sciiti, curdi, sunniti e turcomanni – avrebbe creato un paese in eterno confitto, facilmente governabile e dominabile da un punto di vista coloniale. Dino Grandi diede appoggio all’Inghilterra, perché scadeva il protettorato inglese nel 1934, presso la Società delle Nazioni, la futura Onu. In contropartita, l’Inghilterra accettò che l’Agip rilevasse una piccola società petrolifera, e poi accettò che questa si ingrandisse fino a diventare una concessione importante, che si chiama Mossul Oil Field.E però avvenne che nel 1935 le truppe italiane invadono l’Etiopia, gli inglesi ricattano la Agip, dicono: «Se vuoi che noi interveniamo alla Società delle Nazioni per non fare sanzioni e un embargo petrolifero, ci devi cedere la Mossul Oil Field». Grandi trattò, e alla fine trovarono una soluzione: sarebbe andato a inglesi e americani il 51%, però l’Agip avrebbe mantenuto il 39% e una presenza strategica nella “golden share” della società, cioè avrebbe partecipato alle politiche e alle strategie. Quando Grandi tornò a Roma, Mussolini ebbe paura e disse: «No, cediamo la società, perché gli inglesi poi mi possono giocare un brutto scherzo, e io non posso fermare in Etiopia le truppe con un embargo». Mattei sapeva tutto questo, e dopo che fummo rifiutati dal consorzio iraniano disse: «Andiamoci a prendere il petrolio in Iraq». Si formò un gruppo molto ristretto. Io lavorai con l’équipe che andò in Iraq quando Khassem, nel 1958, abbatté la monarchia irachena di Re Faysal. Khassem venne contattato nel mese di agosto, in una caserma, mentre fuori si sparava. Gli fu portata una credenziale di Mattei, in cui diceva: «Vogliamo fare con voi un contratto paritetico, un partenariato, non un contratto in cui vi vede paese esattore di tasse o di royalty. Facciamolo insieme, facciamo una società paritetica che si occuperà anche di altre cose connesse al petrolio». Lui accettò e disse: «Voglio però prima cacciare via l’Iraq Petroleum Company».E così si iniziò a dare assistenza legale a Khassem esaminando, concessione per concessione, l’Iraq Petroleum Company, per vedere dove questa società aveva mancato. Su 60 e rotti concessioni, la società ne aveva sfruttato solo tre, con un atteggiamento di scorrettezza enorme: si era mantenuta come riserva le altre risorse, privando il popolo iracheno di quelle royalty, ancorché irrisorie. Nel 1962 Khassem revocò le concessioni, queste 57 concessioni, all’Iraq Petroleum Company. Era una bomba! Una delle più grandi compagnie del mondo veniva buttata fuori, perché Khassem avrebbe fatto entrare l’Eni. Seguii da vicino la faccenda, ma non eravamo sicuri di essere sfuggiti ai servizi segreti americani e inglesi, perché in Italia c’era parecchia gente che voleva la fine di Mattei – parecchia. Lui aveva rotto con Fanfani: mandò all’opposizione i fanfaniani siciliani, che non erano gente troppo facile – erano Gioia, Lima. Avevano indirizzato i finanziamenti alla Dc, a Fanfani, a Moro. Era rottura totale, e Fanfani era presidente del Consiglio. Poi c’è la questione Cefis: Mattei lo aveva cacciato fuori, il vicepresidente, che era un uomo dei servizi inglesi.Mattei era isolato, e durante la trattativa ho scoperto, con i documenti avuti, che c’erano stati interventi pesantissimi dell’ambasciata americana e inglese a Roma su Fanfani, per fermare Mattei, e Fanfani ha risposto: «Io Mattei non lo posso fermare, non ho il potere». È una cosa gravissima: «Fermare a ogni costo». Khassem fece una società nazionale per creare poi una società paritetica con noi, fece sapere che voleva dare un annunzio al giornalismo internazionale di questo progetto della costizione della compagnia nazionale: non c’era più influenza esterna. Noi abbiamo detto: «Prendi tempo!». Era il 16 settembre del 1962. E Khassem, per la smania di dimostrare al popolo che stava lavorando per il bene dell’Iraq, rilasciò un’intervista che ci fece gelare. Disse: «Io ho revocato le concessioni all’Iraq Petroleum company e sto realizzando una società paritetica con l’Eni». Ci siamo sentiti persi: era grave, gravissimo. Abbiamo detto a Mattei di stare attento, di non viaggiare più in aereo. E quindi arrivò in Sicilia il giorno 26 ottobre. Eravamo terrorizzati. Io ho detto: «Presidente, non riparta questa sera per Milano. Venga con me, andiamo in campagna, mia moglie ha campagne vicino Palermo. Si riposi, non chiami neanche sua moglie. Un amico andrà a Roma e avviserà sua moglie, ma lo farà in modo privato: per un mese, “faccia finta di…”». Lui disse: «No, devo andare. Devo incontrarmi a Milano con l’onorevole Tremelloni questa sera e poi devo partire, devo fare il contratto con l’Algeria».Era un altro contratto molto osteggiato dagli angloamericani, ma soprattutto da Fanfani perché non voleva che Mattei portasse avanti una politica di rottura nei confronti delle Sette Sorelle (fu Mattei a definirle così, in verità all’inizio voleva dire “sorellastre” ma poi i giornalisti l’hanno modificato). E’ voluto partire lo stesso, Mattei. E quella sera l’aereo è caduto. In Italia abbiamo avuto una porcheria degna di nessun paese al mondo. Quando pubblicai “La grande sfida”, il procuratore Vincenzo Calia di Pavia, zona dove l’aereo è caduto, riaprì l’inchiesta perché la novità era il rapporto Mattei-Kennedy. Indagò con molta serietà, Calia. Ho avuto l’onore di collaborare da vicino con l’avanzamento inchiesta, e si accertò l’avvenuto sabotaggio. Si sono riesumati i corpi di Mattei e Bertuzzi, il pilota, e si sono trovate tracce di esplosivo: Compound 200, un esplosivo molto potente. Si è accertato che l’esplosivo era stato messo sotto i comandi del carrello, e si può fare attraverso il ruotino: si infila la carica con una calamita. La notte tra il 25 e il 26, l’aereo era stato portato dentro l’hangar militare della Nato (quello che vi dico è nell’inchiesta), ed è stato sabotato dai servizi: l’ho scritto. L’aereo, quando il pilota azionò la cloche per scendere, è andato in aria, è esploso.Ebbene, quest’inchiesta, che stava arrivando ai mandanti, già individuati (il magistrato stava acquisendo ulteriori elementi per le prove) è stata archiviata nel 2003. Dicono che Mattei non si sa perché è morto, alcuni dicono in un incidente: è una vergogna che una verità sia stata occultata. Se ammazzano un uomo non succede niente: un paese indegno. (Io ci ho perduto la moglie, nel luglio 2007: una macchina ci ha speronato e mia moglie è morta. Ebbene, chi ci ha speronato – che era ubriaco e drogato – sta passeggiando tranquillo, si diverte, va alle feste. Denunziato per omicidio colposo, ma non succederà niente!). Ritorniamo a Mattei. Archiviata l’inchiesta, io ho fatto un libro in 25 giorni, lavorando notte e giorno, che si chiama “Caso Mattei, un giallo Italiano”. Perché giallo italiano? Perché alla fine è stata gestito da italiani, da uomini per cui l’escalation di Mattei nella politica avrebbe dichiarato la fine politica o manageriale. E poi ho messo in evidenza, da una serie di documenti, un rapporto tra l’assassinio di Kennedy e quello di Mattei. A Catania c’era, quel giorno, Carlos Marcello, che è stato implicato nell’assassinio di Kennedy. Il tutto converge sull’oligarchia britannica – sulla Permidex, controspionaggio inglese.Siamo sempre lì: il centro del mondo nella finanza è Londra, e quindi Mattei ha messo in difficoltà gli inglesi. Kennedy lo stesso, perché ha rotto i rapporti con l’oligarchia britannica della politica a fini finanziari, e ha posto fine alla guerra in Corea senza interpellare gli inglesi. Non ci sono prove, ma c’è un legame comune. Quindi Mattei è stato ucciso, anche se tutti quelli che hanno scritto libri, come Bruno Vespa, dicono è caduto per un incidente aereo. Negli anni ‘90 è accaduto qualcosa di grave, ma i giornali italiani non hanno parlato di nulla perché fanno solo propaganda, poi alla fine le verità vengono negate. E’ successo questo: cade il Muro di Berlino, e il ministro Scotti avverte il capo del governo che manovre strane stavano avvenendo da parte di importanti banche d’affari contro l’economia italiana. Poi ribadisce: me lo ha detto Parisi. Mi ha detto pure che potrebbero avvenire stragi o uccisioni. Nel ‘92 avvenne la strage di Capaci, dove la mafia ha avuto solo un ruolo di supporto militare. Invece è una strage con gruppi di potere più o meno occulto, che prepararono una svolta economica e politica: «Vogliamo sedere in Parlamento, vogliamo governare». Allora l’Italia avvia la svendita dell’economia pubblica.Voglio parlare dell’Eni. Quando finì la guerra si avviò un dibattito tra i cattolici sociali e la sinistra italiana, guidata dai comunisti. Dovevano decidere quale struttura economica si doveva dare lo Stato italiano dopo il fascismo. I cattolici sociali hanno rifiutato il liberismo con una grande intuizione, perché il liberalismo penalizza le classi più deboli e spesso anche la vita della gente. Si creò un compromesso con lo Stato imprenditore che opera con le leggi del mercato in concorrenza, indirizzando in aree depresse anche l’economia privata. Viene privatizzato l’Eni, nel 1994 viene privatizzato l’Iri, altre aziende dello Stato nel campo delle telecomunicazioni. Alla fine di questo scempio, di questa carneficina, si sono divisi tutto. E nessuno ha mai parlato. Un pezzo alla sinistra, un pezzo alla destra: un’operazione scellerata di abbrutimento. L’unica denunzia viene fatta dal movimento civile americano di Lyndon LaRouche, ma Ciampi diventò presidente e tutto fu insabbiato. Tutto il patrimonio immobiliare dell’Eni, stimato in 100.000 miliardi, viene svenduto a un fondo Goldman Sachs. Stranamente, l’uomo che ha condotto questa operazione è stato Mario Draghi, che poi è diventato vicepresidente della Goldman. Non si può accettare, si tratta della logica più miserabile. Io l’ho denunziato, ma non è successo niente.Vorrei tornare su Enrico Mattei, di cui sono stato uno strettissimo collaboratore, per dire che in Italia è avvenuto qualcosa di orrendo, di sporco. Era stata fatta una inchiesta, quando l’aereo precipitò a Bascapè: un’inchiesta vergognosa, fatta da depistaggi e coperture della verità. Un’altra mezza inchiesta era stata subito chiusa. Nel 1994 ho pubblicato un libro con la Mondatori che si chiama “La grande sfida”, e sono riuscito avere documentazioni top secret dagli archivi della Jfk Library di Boston, dall’Eisenhower Library e, con mia sorpresa, ho scoperto che tra Mattei e Kennedy c’era una corrispondenza molto stretta. Dopo la crisi di Suez, quando Inghilterra e Francia erano state invitate dagli Stati Uniti a ritirarsi durante la Guerra di Suez, perché gli Usa temevano uno shock petrolifero, l’Italia avanzò la proposta di coprire un ruolo di nazione strategica, sul Mediterraneo, in sostituzione di Francia e Inghilterra. Kennedy era d’accordo, però bisognava dare stabilità politica al governo italiano, che cambiava ogni due mesi (c’era stata la crisi del governo Tambroni, che durò un mese e mezzo). Per dare stabilità politica bisognava scegliere un uomo e fare riforme. Kennedy esaminò tutti i possibili interlocutori italiani, e li scartò subito: via Fanfani, via Gronchi. E arrivò a Mattei: di lui, Kennedy era affascinato. E iniziarono delle trattative.
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Giulietto Chiesa in Rai con Messora, Dijsselbloem al Corsera
«Molto improbabile che nasca un governo politico, a meno che Berlusconi non faccia un passo di lato e lo sostenga dall’esterno». Così Alessandro Trocino, ai microfoni di “Radio Radicale” il 7 maggio scorso, a meno di un mese dall’insediamento di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Due previsioni, entrambe sbagliate: alla fine s’è fatto, eccome, il governo più clamorosamente politico da 25 anni a questa parte, e il Cavaliere si è ben guardato dal sostenerlo. Sei mesi dopo, lo stesso giornalista – in forza al “Corriere della Sera” – spara ad alzo zero contro Giulietto Chiesa, in realtà per colpire i 5 Stelle, “rei” di aver preso per buona l’analisi di Chiesa sull’ultima sparata del signor Jeroen Dijsselbloem, tipico esemplare del potere eurocratico: anonimo e incolore il suo profilo politico, ma micidiale quello tecnocratico, speso al servizio dell’oligarchia finanziaria che ha massacrato la Grecia e imposto il prelievo forzoso a Cipro, scatenando il panico e l’assalto ai bancomat. Cos’ha detto, l’insigne Dijsselbloem? Che l’economia italiana imploderà, per colpa del governo gialloverde. E Giulietto Chiesa? Ha interpretato le parole di Dijsselbloem nell’unico modo possibile: una minaccia. Ovvio, a questo punto, il rilancio dei 5 Stelle sul loro blog.Ovvio per tutti, salvo che per il “Corriere”, secondo cui Giulietto Chiesa ha travisato le parole dell’apollineo, impeccabile, meraviglioso Dijsselbloem. Niente di strano, peraltro: secondo Trocino, Chiesa non sarebbe altro che una specie di mentecatto. Allo storico corrispondente da Mosca (prima per “l’Unità”, poi per la “Stampa” e per il Tg5), il “Corriere” dedica un affondo che merita di essere letto come capolavoro comico, sia pure del genere neo-orwelliano inaugurato dalla popstar Colin Powell, irresistibile nel famoso numero con la fialetta all’antrace. Il grande Powell poté esbirsi all’Onu solo grazie all’altra vicenda spettacolare del secolo, altrettanto cristallina: il crollo delle Torri Gemelle, notoriamente collassate su se stesse in pochi secondi per colpa di aerei dirottati da oscuri energumeni arabi, armati di taglierini e capaci di schiantare a velocità folle, con manovre da top-gun, velivoli che non sapevano pilotare e che la stessa azienda costruttrice, la Boeing, dichiara che – semplicemente – non potrebbero volare a 900 chilometri orari, a quote così basse, senza sbriciolarsi in aria prima ancora dell’impatto.Certo si tratta di trascurabili amenità, sulle quali è impensabile si soffermi il “Corriere della Sera”, impegnato com’è a formulare vaticinii e profezie sui governi italiani, specie l’inguardabile esecutivo gialloverde, i cui azionisti politici osano mancare di rispetto ai sacerdoti della santa eurocrazia, i bramini dai nomi impossibili – Dijsselbloem, Oettinger, Dombrovskis – che gli italiani hanno tuttavia imparato ad amare, in questi anni di benessere, prosperità e serenità per tutto il continente. Come sarebbe bello, cinguetta Massimo Mazzucco – altro incorreggibile mascalzone, del calibro di Giulietto Chiesa – se finalmente, grazie alla presidenza della Rai affidata a Marcello Foa, lo stesso Chiesa potesse lasciare per un attimo la redazione di “Pandora Tv” e partecipare ogni tanto, magari in terza serata, a programmi come quelli che un tempo persino la televisione di Stato produceva, all’epoca in cui faceva anche vera informazione, con signori come Biagi, Minà, Zavoli.Pensate, dice Mazzucco, se – magari all’una di notte – ci fosse la possibilità di assistere a un confronto tra Chiesa e, per dire, il fondatore di “ByoBlu”, Claudio Messora, capace di realizzare servizi su YouTube visionati ogni volta anche da 200.000 utenti. Numeri enormi, sottolinea Mazzucco, se paragonati agli standard televisivi (per esempio, i 600.000 spettatori che faceva registrare “Matrix”, ai bei tempi). Non c’è paragone, conferma Fabio Frabetti di “Border Nights”, in web-streaming con Mazzucco, anche perché la potentissima e ricchissima Tv basta accenderla, mentre un video-blog devi andartelo a cercare: quei click valgono mille volte tanto. E lo sanno, i signori dei “giornaloni”, al punto – oggi – da attaccare Giulietto Chiesa, anche a costo di fare involontariamente pubblicità alla sua web-tv. Lo sanno così bene, che il vento è cambiato, da applaudire a scena aperta l’eroico bavaglio imposto al web da Bruxelles, su iniziativa dei soliti noti – su tutti Oettinger, l’uomo che sussurra ai mercati, proprio come il suo socio Dijsselbloem.Poi, si sa, è noto che le minacce mafiose le fanno appunto i capimafia, non certo i cardinali e ciambellani del superclan euro-finanziario che ha coordinato, sul campo, il più vasto trasferimento di ricchezza, dal basso verso l’alto, che la storia moderna ricordi. Un’operazione ammantata di misticismo e ispirata dal Bene, cioè il rigore di bilancio che vieta i deficit e quindi obbliga ad aumentare le tasse, producendo le meraviglie che fanno dell’Unione Europea e in particolare dell’Eurozona il paradiso terrestre a cui il mondo intero guarda con invidia, non potendo fare a meno di ammirare il commovente spirito di cooperazione e solidarietà che oggi affratella i popoli europei, pronti a correre in soccorso del più debole e a risolvere insieme, da buoni amici, ogni controversia, a cominciare dal problema dei migranti. Un’Europa così sublime non può che primeggiare anche nell’arte del bel canto, visti i soavi gorgheggi giornalistici che si levano da giornali e talkshow. Troppo bello, lo spettacolo del Bene che celebra se stesso, per rischiare di offuscarlo con sgraziate stonature, profeti di sventura e blogger, così impudenti da insolentire il divo Dijsselbloem, l’affabile Juncker, il garbato Moscovici.A chi si fosse curiosamente convinto che lo show quotidiano sia soltanto una tragica farsa piuttosto scadente, affidata a interpreti la cui mediocrità è pari solo all’immenso potere di cui dispongono, protetto dall’anonimato finanziario che ha sequestrato la democrazia nel vecchio continente, Mazzucco va ripetendo un consiglio pratico: insistere, nel raccontare quello che si è scoperto, perché soltanto l’impegno di migliaia di neo-sudditi potrebbe un giorno restituire agli europei lo status di cittadini, a buon diritto membri di una comunità civile vera e propria, con le sue sue regole fondamentali – una su tutte: governa chi è stato designato dai cittadini, mediante regolari elezioni. Il giorno che la maggioranza si accorgesse dell’insostenibile anomalia europea, costituita da mezzo miliardo di persone governate da un consiglio di amministrazione, probabilmente i solisti come Oettinger e Dijsselbloem si troverebbero senza uno spartito e senza più nemmeno il coro, cartaceo e radiotelevisivo, al quale sono abituati: una clacque preziosa e imprescindibile, per evitare fischi e pomodori. E’ come se una lunga marcia fosse cominciata, dice Mazzucco, fino a giungere di fronte alle mura del palazzo, seminando allarme: non si spiega altrimenti tanta permura nel prendere a sberle, in pubblico, gli storici tribuni della trasparenza. Ma in caso di rivoluzione, niente paura: il grande Dijsselbloem potrebbe sempre cantare ancora, nel coro degli autorevolissimi editorialisti del “Corriere”.«Molto improbabile che nasca un governo politico, a meno che Berlusconi non faccia un passo di lato e lo sostenga dall’esterno». Così Alessandro Trocino, ai microfoni di “Radio Radicale” il 7 maggio scorso, a meno di un mese dall’insediamento di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Due previsioni, entrambe sbagliate: alla fine s’è fatto, eccome, il governo più clamorosamente politico da 25 anni a questa parte, e il Cavaliere si è ben guardato dal sostenerlo. Sei mesi dopo, lo stesso giornalista – in forza al “Corriere della Sera” – spara ad alzo zero contro Giulietto Chiesa, in realtà per colpire i 5 Stelle, “rei” di aver preso per buona l’analisi di Chiesa sull’ultima sparata del signor Jeroen Dijsselbloem, tipico esemplare del potere eurocratico: anonimo e incolore il suo profilo politico, ma micidiale quello tecnocratico, speso al servizio dell’oligarchia finanziaria che ha massacrato la Grecia e imposto il prelievo forzoso a Cipro, scatenando il panico e l’assalto ai bancomat. Cos’ha detto, l’insigne Dijsselbloem? Che l’economia italiana imploderà, per colpa del governo gialloverde. E Giulietto Chiesa? Ha interpretato le parole di Dijsselbloem nell’unico modo possibile: una minaccia. Ovvio, a questo punto, il rilancio dei 5 Stelle sul loro blog.
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Apocalisse maltempo: qualcuno sta bombardando l’Italia?
Siamo stati deliberatamente “bombardati” da nubifragi devastanti, scatenati da perturbazioni artificiali? «Il prossimo che riparla di scie chimiche andrà sottoposto a un Tso», disse a mo’ di battuta Matteo Renzi, scoraggiando ulteriori interrogazioni parlamentari, sul fenomeno, da parte di esponenti del Pd. Oggi però, con il Nord-Est raso al suolo da eventi mai visti a memoria d’uomo, c’è chi torna sul tema in modo più che esplicito: «Bombardamento climatico sull’Italia, un avvertimento al governo?», si domanda il blog “Disquisendo”, secondo cui «nei giorni precedenti al disastro, ci sono state fortissime operazioni di aviodispersione a bassa quota». Tutti hanno visto il cielo sereno “rannuvolarsi”, dopo l’emissione di una rete fittissima di migliaia di scie bianche rilasciate dagli aerei di linea. Follia? Complottismo da strapazzo? L’unica vera certezza è la storica carenza di spiegazioni ufficiali definitive ed esaurienti. Si accumulano invece informazioni parziali, da fonti indipendenti, riguardo al presunto impiego clandestino della geoingegneria, inaugurata da Israele per far piovere sul deserto del Negev. La stessa Cia, oggi, ammette che sono in corso vaste sperimentazioni. Nel saggio “Owning the wheather” (possedere il clima), l’economista canadese Michael Chossudowsky svela che la “guerra climatica” è ormai una realtà.Un silenzio tombale è calato sulle rivoluzionarie scoperte del fisico Nikola Tesla, all’epoca emarginato dalla comunità scientifica, mentre l’ingegnere bresciano Rolando Pelizza ha raccontato a due docenti universitari, Francesco Alessandrini e Roberta Rio, che il geniale Ettore Majorana (ufficialmente scomparso nel 1938 ma in reatà nascosto in Calabria fino al 2005) progettò una “macchina” capace di mutare il clima all’istante. «Dello sviluppo di questa “macchina”, costruita in 50 esemplari su istruzioni dello stesso Majorana – dice ancora Pelizza – fu incaricato direttamente il governo italiano tramite Giulio Andreotti, che poi passò il dossier alla Cia». Un altro italiano, l’imolese Pier Luigi Ighina – assai meno celebre di Majorana, ma notissimo agli appassionati – riprodusse anche per le telecamere di “Report”, su Rai Tre, il suo straordinario esperimento, condotto con mezzi artigianali: Ighina era in grado di far piovere, creando nuvole nel cielo sereno (o a scelta, di far spuntare il sole tra i nuvoloni) semplicemente azionado, da terra, le pale di una sorta di ventilatore gigante, cosparse di alluminio. Il trucco? Cambiare la consistenza elettromagnetica della bassa atmosfera, immettendo vortici di onde.«La manipolazione climatica è realtà», sostiene il sito “Dionidream”, citando estati torride e mezze stagioni scosse da nubifragi e alluvioni di inaudita violenza, come quelli che hanno messo in ginocchio varie aree della Pensiola, a cominciare dal Veneto, dove le trombe d’aria hanno divelto decine di migliaia di alberi, devastando storiche foreste alpine. Fuori dall’Italia, il fenomeno della manipolazione climatica non è esattamente una novità: «Festa in cielo, vietata la pioggia», titolò il Tgcom24 di Mediaset il 23 marzo 2009, parlando di «aerei in cielo per disperdere le nubi» in occasione del settantesimo anniversario della “repubblica popolare” fondata da Mao. «Per impedire che la pioggia rovini i grandiosi festeggiamenti in programma, si ricorrerà a una tecnica senza precedenti», raccontò il telegiornale: «L’aviazione impiegherà 18 apparecchi che disperderanno nell’atmosfera prodotti chimici per impedire che dal cielo sopra Pechino cada la pioggia». Nello stesso anno, a novembre, sempre la Cina s’imbiancò fuori stagione, come raccontò “La Repubblica”: «Una nevicata precoce ha coperto con un’abbondante coltre bianca Pechino. Il tutto ha però ha avuto un aiutino dell’Ufficio Modificazione del Tempo della capitale cinese».I tecnici, riferì tranquillamente l’agenzia “Xinhua”, «hanno riversato in cielo con degli aerei 186 dosi di ioduro d’argento, per approfittare delle nuvole e del brusco calo della temperatura». Questo, scrisse “Repubblica”, «ha generato la nevicata», il cui scopo era «alleviare la persistente siccità». Ammise Zhang Qiang, responsabile dell’ufficio meteorologico: «Non ci facciamo sfuggire occasione per provocare precipitazioni, da quando Pechino registra una persistente condizione di siccità». Due anni dopo, nel 2011, l’allora presidente iraniano Mahmud Ahmedinejad accusò l’Occidente di aver provocato una gravissima siccità per mettere in crisi l’economia agricola del paese. «Secondo rapporti sul clima, accuratamente verificati, le potenze occidentali forzano le nuvole fino a far piovere», dichiarò Ahmedinejad, come confermato dal “Giornale”. «I nostri nemici distruggono le nuvole prima che arrivino sul nostro paese». Ancora la Cina, già nel 2011, è tornata protagonista sul tema, annunciando un investimento da 120 milioni di euro per riuscire, entro il 2015, a far aumentare del 10% le precipitazioni nelle zone più aride.«Un primo esperimento in tal senso era stato già condotto nel febbraio 2009, quando diverse regioni erano state irrorate da una pioggerellina leggera, generata da agenti chimici sparati nell’atmosfera con 2.392 razzi e 409 cannoni, in grado di creare nuvole cariche di pioggia», scrove il sito “Greenews”. «Le nuvole ‘adatte’ alle precipitazioni vengono ‘seminate’ con ioduro d’argento, un agente chimico che favorisce l’aggregazione delle molecole d’acqua per creare grandi gocce abbastanza pesanti da cadere al suolo». La tecnologia in realtà non è nuova, aggiunge “Greenews”: i primi esperimenti risalgono alla Guerra Fredda. «Durante la guerra del Vietnam, gli Stati Uniti lanciarono l’Operazione Popeye per cercare di intensificare i monsoni sul Sentiero di Ho Chi Minh, la rete di strade che andavano dal Vietnam del Nord al Vietnam del Sud passando per Laos e Cambogia, usate dai Vietcong e dai loro sostenitori. Nel 1978, però, gli esperimenti per far piovere artificialmente negli Usa furono interrotti, in seguito a una grave inondazione causata dal bombardamento chimico delle nubi». Dal Sud-Est Asiatico al Medio Oriente: «Israele “stimola” le nuvole dal 1961 e riesce così a rendere fertili e rigogliose terre di per sé aride».«Nel mondo ci sono diversi esperimenti in corso di questo tipo, ma siamo lontani dal poter dire di essere in grado di controllare la pioggia», disse nel 2012 a “Greenews” uno specialista come Sandro Fuzzi, climatologo del Cnr di Bologna, al quale allora sembrava remoto il rischio di gravi effetti collaterali, dato che gli interventi si svolgevano «su scala ridotta, al massimo di qualche decina di chilometri», mentre i fenomeni più distruttivi, come le alluvioni, «riguardano fronti di centinaia e anche migliaia di chilometri». L’ultima frontiera, aggiunge ancora “Greenews”, consiste nel bombardare le nuvole dal basso con dei laser: esperimento condotto nel 2010 in laboratorio e poi «replicato a Berlino da un gruppo di ricercatori dell’università di Ginevra e pubblicato sulla rivista “Nature Photonics”». Con un laser di grande potenza, una specie di “cannone energetico”, i ricercatori hanno colpito ed “eccitato” le molecole di gas presenti nell’aria. «Il risultato è stata la formazione di nuclei di condensazione attorno ai quali si sono create piccole gocce di acqua». Secondo il blog “Shivio news”, già nel 2012 erano oltre 20 i paesi impegnati nella sperimentazione di nuove tecniche per provocare precipitazioni.In vetta classifica primeggiano i soliti cinesi: Pechino, letteralmente, «impiega nel “rainmaking” oltre 37.000 addetti, fra tecnici e ricercatori», mentre «una trentina di aerei, 4.000 rampe per razzi e 7.000 cannoni vengono usati per sparare in cielo nuclei di sostanze intorno alle quali stimolare processi di condensazione di gocce d’acqua o cristalli di ghiaccio». Negli Stati Uniti, gli aerei «gettano nelle nuvole ghiaccio secco e ioduro d’argento». In Sudafrica si usa invece il cloruro di potassio: «I sali vengono diffusi da aerei che volano sotto le nubi in formazione, e servono ad aumentare il numero e la misura delle gocce». Anche il Messico, aggiunge “Shivio”, sta sperimentando la tecnica sudafricana, che «sembra che sia in grado di aumentare di un terzo il volume delle precipitazioni». Qualcuno poi ricorderà la primissima performance, in assoluto, della geoingegneria più spettacolare: il 9 maggio del lontano 2007, in occasione della fastosa celebrazione dell’anniversario della vittoria dell’Urss nella Seconda Guerra Mondiale, il Tg1 riprese lo spettacolo del sole riapparso “miracolosamente” tra le nubi nerissime del cielo di Mosca, grazie a una portentosa miscela a base di azoto, iodio e argento diffusa dagli aerei.Dall’uso civile a quello militare, il passo è breve: «Almeno quattro paesi – Stati Uniti, Russia, Cina e Israele – dispongono delle tecnologie e dell’organizzazione necessaria a modificare regolarmente il meteo e gli eventi geologici per varie operazioni militari ufficiali e segrete, legate a obiettivi secondari, tra cui il controllo demografico, energetico e la gestione delle risorse agricole». Lo disse già nel 2012 l’esperto aerospaziale Matt Andersson, allora in forza alla compagnia hi-tech Booz Allen Hamilton di Chicago. In un’intervista al “Guardian”, Hamilton ha ammesso: il nuovo tipo di guerra non convenzionale «comprende la capacità tecnologica di indurre, spingere o dirigere eventi ciclonici, terremoti e inondazioni, includendo anche l’impiego di agenti virali per mezzo di aerosol polimerizzati e particelle radioattive, trasportate attraverso il sistema climatico globale». Lo stesso Hamilton ha citato una think-tank della galassia neocon, il Bpc (Bipartisan Policy Center, con sede a Washington) e il suo rapporto nel quale chiede agli Usa e agli alleati di accelerare la sperimentazione su larga scala del cambiamento climatico.Secondo il “Guardian”, il gruppo è finanziato da «grandi compagnie petrolifere, farmaceutiche e biotecnologiche», e rappresenta «gli interessi corporativi del mondo militare e scientifico statunitense». Il newsmagazine “Sputnik News”, citando il canadese Chossudovsky, osserva: la geoingegneria ha omai prodotto «sofisticate armi elettromagnetiche». E anche se la cosa non è ammessa ufficialmente, men che meno a livello scientifico, le capacità di manipolare il clima (anche per scopi militari) sono in stato avanzatissimo. La storia di questa disciplina risale addirittura al 1940, quando il matematico americano John Von Newman, al Pentagono, iniziò la sua ricerca per la modifica del clima. Obiettivo: alterare i modelli meteorologici. Una tecnologia sviluppata negli anni ‘90 secondo il programma di ricerca della cosiddetta “alta frequenza aurorale attiva” (Haarp, High Frequency Active Auroral Research Program), come appendice di una iniziativa strategica di difesa, le “Guerre stellari”. Il programma Haarp, installato in Alaska e poi bloccato, sarebbe stato parte di una strategia tuttora attiva: le brusche modifiche del clima possono «estendersi, avviando inondazioni, uragani, siccità e terremoti».Ammissioni ufficiali? Impensabili. Meglio lasciare che certe voci circolino in modo incontrollato (bufale comprese), per poi liquidare il tutto sotto la voce “teoria del complotto”. «E’ naturale che su un tema come il cambiamento climatico la Cia collaborerebbe con gli scienziati per meglio comprendere il fenomeno e le sue implicazioni sulla sicurezza nazionale», ha detto un portavoce dell’intelligence Usa, dopo la diffusione della notizia, da parte del sito legato al periodico statunitense “Mother Jones”, secondo cui proprio la Cia starebbe aiutando con ingenti finanziamenti la Nas, National Academy of Sciences, impegnata in uno studio sull’applicazione della geoingegneria per manipolare il clima. Su “Meteoweb”, Filomena Fotia spiega che “Mother Jones” descrive lo studio come un’inchiesta riguardante «un numero limitato di tecniche di geoingegneria, inclusi esempi di tecniche di gestione delle radiazioni solari (Srm, Solar Radiation Management e rimozione dell’anidride carbonica (Cdr, Carbon Dioxide Removal). Geoingegneria “buona”, per proteggerci dall’attività solare divenuta pericolosa per la Terra?«La manipolazione meteorologica – aggiunge Fotia – è stata riportata in auge da molti commentatori statunitensi in occasione dei devastanti tornado in Oklahoma, o di altri eventi estremi come l’uragano Sandy, che sarebbero stati “generati dal governo” usando la base dell’Haarp in Alaska». Ma, appunto: il tema si presta a speculazioni incontrollate, vista la mancanza di riscontri esaurienti da parte delle autorità, sempre estremamente laconiche, come quelle interpellate nel 2014 da Alessandro Scarpa, allora consigliere comunale di Venezia. “Grandinata anomala e scie chimiche, il maltempo si tinge di mistero”, titolò il 24 settembre il “Gazzettino”, storico quotidiano veneziano, dopo «una grandinata fuori dal normale», sotto un cielo «carico di nubi come mai si era visto». E lassù, «quelle scie bianche nel cielo terso il giorno dopo». Sono bastati questi due fenomeni, scriveva il “Gazzettino” quattro anni fa, a ridestare un quesito: e se questo maltempo eccezionale non fosse il risultato delle bizze atmosferiche, ma di qualcosa di “chimico”?In redazione arrivò una lettera allarmatissima: grondaie intasate da “noci” di ghiaccio persistenti ed enormi: «Come mai questo ghiaccio non si è sciolto? Sembrerebbe di formazione chimica, da laboratorio, e non naturale». Per Alessandro Scarpa, vale la pena di esaminarli, certi fenomeni, «se non altro per capire di cosa si tratta» Ad esempio, «le strane scie chimiche che si vedono nei nostri cieli». Molte le segnalazioni pervenuite al Consiglio comunale, «da parte di cittadini veneziani, preoccupati, che chiedono spiegazioni». Scarpa si è rivolto inutilmente all’Enav, l’ente nazionale di assistenza al volo, che gestisce il controllo del traffico degli aerei civili. Nessun lume neppure dal ministero dell’ambiente di Roma: risposte evasive o bocche cucite. «È quindi opportuno – sottolinea Scarpa – preoccuparsi seriamente per noi e per i nostri figli». E aggiunge, rivolto ai giornalisti disattenti: «Questa mattina, quando il cielo era limpidissimo, si sono viste una quindicina di linee nel cielo veneziano». Quattro anni dopo, la situazione è gravemente peggiorata: non c’è più una giornata serena senza che il cielo non sia “sporcato” dalle scie, di ora in ora, mentre l’Italia sta diventando il bersaglio di violentissime tempeste di tipo tropicale, come quella che ora ha messo in ginocchio il Nord-Est.Lo scorso anno, a gennaio, il colonnello Mario Giuliacci – affabile volto televisivo – sul suo sito ha tentato di sgombrare il campo da ogni illazione, presentando testualmente un comunicato ufficiale dell’aeronautica militare. La spiegazione dei militari è ineccepibile, riguardo alla vistosa presenza di molte delle scie: «Le nuove generazioni di motori che equipaggiano i moderni aeroplani a reazione, per avere un miglior rendimento termodinamico dato dalla differenza di temperatura tra la camera di combustione e l’ambiente esterno, impiegano miscele di acqua e carburante la cui combustione genera le enormi quantità di vapore acqueo che sono all’origine delle scie». Secondo i militari, dunque, sono aumentate in modo esponenziale le scie di condensazione, in gergo “contrails”, destinate poi a scomparire nell’atmosfera. «Per le caratteristiche termodinamiche dei motori, per le quote di volo e per la localizzazione – aggiunge l’aeronautica – la quasi totalità delle scie che si osservano in cielo sono prodotte dai jet di linea degli operatori commerciali. La loro durata è variabile da pochi istanti a minuti e talvolta a ore, in dipendenza dell’umidità, delle temperature e in genere delle condizioni termodinamiche dell’aria circostante».Poi la chiosa: «Per quanto ci compete, l’Aeronautica Militare non possiede aeromobili che generano o emettono scie differenti da quelle prodotte a causa della condensazione di vapore acqueo». Il che – alla lettera – non significa escludere la presenza di altre scie, di ben diversa natura, emesse da velivoli estranei all’aeronautica militare italiana: le famigerate “chemtrails”, appunto. Tra le pagine del blog “Su la testa”, il giornalista investigativo Gianni Lannes (vittima di minacce e attentati per le sue indagini scomode, specie quelle sulla mafia dei rifiuti) sostiene che si è ormai clamorosamente violata la “Convenzione sul divieto dell’uso di tecniche di modifica dell’ambiente”, a fini militari o ad ogni altro scopo ostile, nota anche come Convenzione Enmod: «E’ il trattato internazionale che proibisce l’uso delle tecniche di modifica dell’ambiente». Firmata il 18 maggio 1977 a Ginevra, è entrata in vigore il 5 ottobre 1978, approvata anche dall’Onu. Gli Stati firmatari sono 48, inclusi gli Usa, di cui 16 non hanno ancora ratificato il trattato. In totale, i paesi che vi hanno aderito sono 76. «L’Italia ha firmato la Convenzione a Ginevra il 18 maggio 1977 e l’ha ratificata con la legge numero 962 del 29 novembre 1980, grazie al presidente della Repubblica Sandro Pertini e all’approvazione quasi all’unanimità del Parlamento».Secondo Lannes, questa verità viene regolarmente “oscurata” perché illegale, oltre che aberrante. Ma l’Italia, sostiene Lannes, ha concesso i propri cieli durante l’infelice G8 di Genova del 2001, quando Berlusconi firmò un trattato segreto, con Bush, che trasformava il nostro paese in un’area-test per l’irrorazione dell’atmosfera. Dal 2003, l’operazione è scattata. E nessuno ne parla: è top secret. Si chiama “Clear Skies Initiative”. Lannes attinge direttamente a fonti della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato: le pagine istituzionali americane ammettono apertamente che il 19 luglio 2011, a Genova, Bush e Berlusconi impegnarono i loro paesi in un programma di ricerca sul cambiamento climatico e sullo sviluppo di “tecnologie a bassa emissione”. Operazione poi approvata il 22 gennaio 2002 dal ministero italiano dell’ambiente e dal Dipartimento di Stato Usa. Dunque, scrive Lannes nel blog “Su la testa”, cambiamenti climatici indotti e “collaborazione” (si fa per dire) tra Stati Uniti e Italia, con quest’ultima a fare da cavia. «Dalla documentazione delle autorità nordamericane emerge che in questa vasta operazione gestita in prima battuta dal Pentagono, dalla Nasa e dalla Nato, sono coinvolte addirittura le industrie e le multinazionali più inquinanti al mondo: Exxon Mobil, Bp Amoco, Shell, Eni, Solvay, Fiat, Enel».Tutti insieme appassionatamente, secondo il giornalista, compreso il settore scientifico: università italo-americane, Enea, Cnr, Ingv, Arpa e così via. «Insomma, controllori e controllati. L’Enac addirittura ha partecipato ad un test “chemtrails” in Italia insieme a Ibm, ministero della difesa, stato maggiore dell’aeronautica e ovviamente Nato». Mancano, sempre, le conferme ufficiali. In compenso si scatenato i “debunker” come Paolo Attivissimo: “Scie chimiche, aria fritta con contorno di bufala e grana”. Dopo il disastro aereo del volo Germanwings del 2015, schiantatosi sulle Alpi francesi, anche il “Giornale” si sbizzarrisce: “Airbus, dalle scie chimiche alle ’strane scritte’: complottisti scatenati”. Nel frattempo Enrico Gianini, ex addetto aeroportuale di Malpensa, racconta a “Border Nights”: una volta a terra, gli aerei delle compagnie low-cost perdono liquido inquinato da metalli pesanti, e non lasciano più caricare i bagagli nelle stive di coda, come se fossero ingombre di serbatoi clandestini. «Se mi denunciano, chiederò al tribunale di “smontare” uno di quegli aerei: così scopriranno finalmente cosa trasporta». Ma la notizia resta negli scantinati del web, mentre il finimondo rade al suolo il Veneto e la Cina stipendia i suoi “rainmaker”.Siamo stati deliberatamente “bombardati” da nubifragi devastanti, scatenati da perturbazioni artificiali? «Il prossimo che riparla di scie chimiche andrà sottoposto a un Tso», disse a mo’ di battuta Matteo Renzi, scoraggiando ulteriori interrogazioni parlamentari, sul fenomeno, da parte di esponenti del Pd. Oggi però, con il Nord-Est raso al suolo da eventi mai visti a memoria d’uomo, c’è chi torna sul tema in modo più che esplicito: «Bombardamento climatico sull’Italia, un avvertimento al governo?», si domanda il blog “Disquisendo”, secondo cui «nei giorni precedenti al disastro, ci sono state fortissime operazioni di aviodispersione a bassa quota». Tutti hanno visto il cielo sereno “rannuvolarsi”, dopo l’emissione di una rete fittissima di migliaia di scie bianche rilasciate dagli aerei di linea. Follia? Complottismo da strapazzo? L’unica vera certezza è la storica carenza (in Italia, non all’estero) di spiegazioni ufficiali, definitive ed esaurienti, sulla manipolazione del clima. Si accumulano invece informazioni parziali, da fonti indipendenti, riguardo al presunto impiego clandestino della geoingegneria, inaugurata da Israele per far piovere sul deserto del Negev. La stessa Cia, oggi, ammette che sono in corso vaste sperimentazioni. Nel saggio “Owning the wheather” (possedere il clima), l’economista canadese Michael Chossudowsky svela che la “guerra climatica” è ormai una realtà.
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Ue che manovra: spezzare l’Italia, Bruxelles ha paura di noi
Qua si mette male, molto male. Il guaio non è la manovra economica che sarà pure inappropriata e insufficiente ma che non è così drastica e rivoluzionaria, e non produrrebbe quei danni letali che si raccontano ogni giorno. Il guaio è la reazione alla manovra. Che non è poi nemmeno la bocciatura della manovra, ma è un preciso, deliberato, radicale attacco al governo in carica. Il proposito non è far cambiare la manovra ma far cadere il governo e metterlo contro al suo popolo. Non si tratta di scomodare la letteratura del complotto, i precedenti, perfino quello di Berlusconi che ora è dalla parte di chi lo fece fuori sette anni fa. Non è questione di complotti, è questione di lotta per la sopravvivenza, o se volete, è l’eterna legge dell’autoconservazione del potere che quando è in pericolo prima sparge l’inchiostro e poi aziona i tentacoli. E non si tratta di attacco all’Italia, che pure non gode di fiducia nei potentati, e nemmeno solo di pregiudizi, come dice serafico il premier Conte. No, qui è in gioco l’establishment e il suo potere. Se passa la manovra del governo italiano, e ancora peggio se non devasta l’economia come viene preannunciato tre volte al giorno, viene delegittimato l’establishment tecno-finanziario-capital-sinistrorso che regge l’Unione, di cui in Italia abbiamo molti reggicoda.Altri paesi seguirebbero l’esempio e si sentirebbero in diritto di prendere una loro strada, di non sottomettersi al diktat europeo e alla loro prescrizione tassativa. E alle elezioni europee sarebbe un massacro per gli assetti di potere vigenti, di cui Juncker, Moscovici, sono gli ultimi figuranti. Da qui il terrorismo mediatico-finanziario, le scomuniche scritte e inscenate. Si giocano tutto. Altro che bocciatura della finanziaria. Da giorni, da settimane, da mesi in un crescendo minaccioso, annunciano sventure le cassandre interne e le streghe di Macbeth, che predicevano in futuro in realtà per orientarlo secondo i loro desideri. Eurarchi, agenzie, media e ascari politici, un coro assordante. E sta realmente serpeggiando nel paese quel panico che è di solito alle origini delle catastrofi. Ma il collasso non è indotto da una manovra scarsa e sbagliata ma dall’attacco concentrico al governo, prospettandoci un’altra esperienza Tsipras, come quella che indusse il riottoso premier greco a subire i diktat della Trojka se non voleva ridurre in miseria il suo paese.Il suggerimento sottinteso che viene dato è il seguente: l’Italia ha un debito record ma, come voi dite, è solido il sistema-italia, ha beni, risparmi, proprietà private. Bene, allora mettete mano a quelli, con una patrimoniale, prelievi forzosi, blocco di capitali, tasse sulle case, obbligo d’investire in titoli pubblici, o quel che volete voi. Ovvero trovate i soldi nelle tasche degli italiani, così pagate almeno gli interessi sul debito (che non potrà mai essere estinto, è come il peccato originale ma non ce lo toglie nessun battesimo). E allo stesso tempo vi inimicate il popolo che vi sostiene. Così buonanotte al populismo, al sovranismo e a tutte le menate. Voi capite che il pericolo vero è questo e non la manovra. E non pensate che indignandosi o cercando di suscitare rabbia nel popolo, si possa rispondere con le barricate. No, è una guerra e in guerra contano i rapporti di forza. È una guerra e del resto non potevate pensare che “loro” hanno i giorni contati- come dicevano allegramente – e si limitano a contare i giorni e non a reagire. E disponendo di poteri e alleanze che voi neanche vi sognate, agiscono per mandarvi fuori strada. Voi e il vostro paese, se vi segue.A questo punto io ho paura della paura. Ho paura cioè del panico che stanno instillando nella gente, nelle notizie che fanno circolare, nelle annunciate fughe di capitali all’estero, conti prosciugati e così via. Perché sono quei fatti e soprattutto quelle psicosi agitate a produrre guai seri, reazioni a catena; a gettare i paesi nel caos e nella disperazione, per andare poi da lorsignori col cappello in mano. Questa è la vera manovra pericolosa in atto.E allora che fare? Andare alla guerra, cercare alleati anche fuori d’Europa, farsi espellere dall’Unione, scatenare l’ira del popolo? Non contate molto su quest’ultima, gli haters non sono il popolo, e il popolo vi dà ragione in tempo di pace ma quando c’è il panico e la casa brucia non stanno lì a spegnere il fuoco e ad attaccare chi l’ha appiccato, ma mirano a mettersi in salvo. E’ umano, e da questo punto di vista gli italiani sono più “umani” degli altri (anche, ma non solo per fortuna, nel senso di più vigliacchi, più voltagabbana).Del resto, i governi che sfidano l’Europa dovrebbero avere spalle larghe, grandi leader, forze compatte e decise, che qui non vediamo. Si può decidere di combattere per l’Italia e la sua dignità, ma non si può morire per Di Maio e per le velleità grilline. Bisogna essere realisti, cercare punti d’incontro, intanto crescere, trovare solide alleanze, rafforzarsi, rinsaldarsi, acquisire nuove forze. Alle prime gelate, il consenso si ritira. Sarebbe magnifico poter rovesciare l’establishment attuale ma se non si hanno energie e strategie valide, leadership adeguate ed élite alternative, meglio essere prudenti. Non si può dichiarare guerra al mondo e rispondere alle armi micidiali messe in campo dal Nemico coi tweet, gli scarponi e le manine.(Marcello Veneziani, “Ue che manovra”, da “Il Tempo” del 25 ottobre 2018, articolo ripreso sul blog di Veneziani).Qua si mette male, molto male. Il guaio non è la manovra economica che sarà pure inappropriata e insufficiente ma che non è così drastica e rivoluzionaria, e non produrrebbe quei danni letali che si raccontano ogni giorno. Il guaio è la reazione alla manovra. Che non è poi nemmeno la bocciatura della manovra, ma è un preciso, deliberato, radicale attacco al governo in carica. Il proposito non è far cambiare la manovra ma far cadere il governo e metterlo contro al suo popolo. Non si tratta di scomodare la letteratura del complotto, i precedenti, perfino quello di Berlusconi che ora è dalla parte di chi lo fece fuori sette anni fa. Non è questione di complotti, è questione di lotta per la sopravvivenza, o se volete, è l’eterna legge dell’autoconservazione del potere che quando è in pericolo prima sparge l’inchiostro e poi aziona i tentacoli. E non si tratta di attacco all’Italia, che pure non gode di fiducia nei potentati, e nemmeno solo di pregiudizi, come dice serafico il premier Conte. No, qui è in gioco l’establishment e il suo potere. Se passa la manovra del governo italiano, e ancora peggio se non devasta l’economia come viene preannunciato tre volte al giorno, viene delegittimato l’establishment tecno-finanziario-capital-sinistrorso che regge l’Unione, di cui in Italia abbiamo molti reggicoda.
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Se Trump ha bisogno di Roma per far guerra a Bruxelles
A Washington Dc c’è aria di cambiamento verso l’Italia. Le elezioni di aprile, con la vittoria di Lega e Movimento 5 Stelle, hanno portato al potere il primo governo populista in Europa. Senza contare la vittoria contro l’establishment di Donald Trump. I due paesi ora hanno governi fortemente identitari. Ma non solo. L’America e l’Italia condividono gli stessi interessi nel risolvere problemi come l’immigrazione incontrollata e l’egemonia di Bruxelles. Su altri temi, però, come la politica estera nel Medio Oriente, i due paesi faticano ancora a trovarsi dalla stessa parte, scrive sul “Giornale” Alessandra Bocchi, reduce da una ricognizione nella capitale statunitense per parlare con giornalisti e analisti di orientamento trumpiano. Obiettivo: capire cosa pensa la presidenza americana del nuovo governo italiano. «Il presidente Donald Trump stima molto il nuovo governo italiano, specialmente per avere fermato l’immigrazione», racconta Saagar Enjeti, il corrispondente della Casa Bianca per “The Daily Caller”, uno dei maggiori media conservatori. Enjeti dice che durante la visita del premier Giuseppe Conte alle Casa Bianca ha notato una particolare “affinità” tra i due leader. Trump ha espresso la sua ammirazione verso la posizione del ministro dell’interno Matteo Salvini nel chiudere i porti italiani alle Ong che trasportavano migranti.«Il tema dell’immigrazione è stato fondamentale anche in America per la campagna elettorale di Trump», ricorda la Bocchi. La popolazione americana sta cambiando rapidamente, e quella di origine europea rappresenta il 62% delle persone, mentre qualche anno fa l’85%. E Trump ha un particolare interesse a quello che sta accadendo in Europa. C’è un’affinità culturale tra l’America e l’Europa perché Trump è di origine europea, ma c’è anche un interesse strategico per via del fatto che la sicurezza in Europa è a repentaglio per colpa del terrorismo «importato dagli immigrati», dice Daniel McCarthy, uno scrittore americano ed ex-direttore del “The American Conservative”, un giornale intellettuale alternativo. Un altro tema sulla quale i due paesi condividono interessi è quello dell’Unione Europea, in particolare verso il controllo che la Germania ha su di essa. «Trump non è contro l’Unione Europea in sé, ma lo è per come viene governata al giorno d’oggi dalla Germania», dice ancora Enjeti. «Il rapporto tra questa Casa Bianca e la cancelliera tedesca Angela Merkel è molto conflittuale». Trump era a favore della Brexit durante la sua campagna elettorale e ha cercato di imporre dei dazi sull’Unione Europea in modo tale da danneggiare soprattutto l’industria tedesca.Anche l’Italia ha dei conflitti economici con Bruxelles all’interno della moneta unica, che si sono manifestati particolarmente con il nuovo governo gialloverde. Non a caso, l’America potrebbe comprare i bond (titoli di Stato) italiani per aiutare a tenere in piedi il nostro sistema bancario. Ma non sono tutte rose e fiori, ammette Alessandra Bocchi: Usa e Italia infatti faticano ad allinearsi sulla politica estera, anche se questo non sembra avere alterato i rapporti tra i due Stati, anche perché sarebbe l’establishment repubblicano, e non Trump, a volere continuare la politica americana in Medio Oriente degli ultimi vent’anni. «Fino ad oggi, infatti, un ruolo fondamentale nella politica estera americana è stato ricoperto dai neoconservatori, che hanno spinto per fare guerra in Afghanistan, in Iraq, in Libia e in Siria. Durante la sua campagna elettorale, Trump aveva promesso la fine di queste guerre, rimettendo al centro gli Stati Uniti: “America first”». Una promessa simile a quella del leader della Lega Matteo Salvini, con lo slogan “Prima gli Italiani”. Entrambi si sono opposti agli interventi militari in Iraq, in Libia e in Siria, nonché all’ostilità verso la Russia che aveva caratterizzato la gestione Obama.Detto questo, da quando è diventato presidente, Trump ha bombardato la Siria sotto il controllo del presidente Bashar al Assad due volte, e ha preso una posizione ancora più dura con le sanzioni contro l’Iran. «Non è un segreto che c’è una guerra interna tra l’establishment repubblicano e la linea del presidente», conferma Curt Mills, reporter di politica estera per “The National Interest”, un giornale di relazioni internazionali americano. «L’establishment è fortemente contro la Russia, e non vedo una possibilità di avvicinamento verso quel paese in questo momento», ammette Mills. Da una parte Trump condivide la linea del nuovo governo italiano, che vuole che ci sia una fine all’ostilità verso il presidente russo Vladimir Putin, dall’altro è estremamente ostile all’alleato russo più importante in Medio Oriente: l’Iran. Proprio Teheran è il nemico principale di Israele, che a sua volta è l’alleato più importante dell’America in Medio Oriente, ragiona Alessandra Bocchi.Gli Usa? Dopo l’omicidio di John Kennedy, che aveva contestato a Tel Aviv la costruzione clandestina della centrale nucleare di Dimona, con tecnologia francese, Washington ha sempre «appoggiato Israele quasi incondizionatamente, anche a discapito dei propri interessi». Benché Trump sia riuscito a ottenere un rapporto meno conflittuale in Medio Oriente rispetto ai suoi predecessori Obama e Bush, è ancora da vedere quanto riuscirà a resistere ai neoconservatori del partito repubblicano, sottolinea Alessandra Bocchi. E anche se restano irrisolti i maggiori interrogativi sull’intesa italoamericana per il Medio Oriente e soprattutto per il rapporto problematico con la Russia di Putin, che difendendo la Siria dall’aggressione dei jihadisti armati dalla Nato ha riproposto il ruolo geopolitico di Mosca nel cuore del Mediterraneo, si sta comunque sviluppando «un asse americano e italiano, che insieme ad altre forze populiste in Europa collabora sui temi come la lotta all’immigrazione di massa e l’egemonia di Bruxelles in Occidente». Musica, in altre parole, per il governo gialloverde assediato ogni giorno dal fantasma dello spread, sapientemente pilotato dagli oligarchi Ue d’intesa con Draghi, che non schiera la Bce a difesa dell’Italia.A Washington Dc c’è aria di cambiamento verso l’Italia. Le elezioni di aprile, con la vittoria di Lega e Movimento 5 Stelle, hanno portato al potere il primo governo populista in Europa. Senza contare la vittoria contro l’establishment di Donald Trump. I due paesi ora hanno governi fortemente identitari. Ma non solo. L’America e l’Italia condividono gli stessi interessi nel risolvere problemi come l’immigrazione incontrollata e l’egemonia di Bruxelles. Su altri temi, però, come la politica estera nel Medio Oriente, i due paesi faticano ancora a trovarsi dalla stessa parte, scrive sul “Giornale” Alessandra Bocchi, reduce da una ricognizione nella capitale statunitense per parlare con giornalisti e analisti di orientamento trumpiano. Obiettivo: capire cosa pensa la presidenza americana del nuovo governo italiano. «Il presidente Donald Trump stima molto il nuovo governo italiano, specialmente per avere fermato l’immigrazione», racconta Saagar Enjeti, il corrispondente della Casa Bianca per “The Daily Caller”, uno dei maggiori media conservatori. Enjeti dice che durante la visita del premier Giuseppe Conte alle Casa Bianca ha notato una particolare “affinità” tra i due leader. Trump ha espresso la sua ammirazione verso la posizione del ministro dell’interno Matteo Salvini nel chiudere i porti italiani alle Ong che trasportavano migranti.
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Salvate il soldato Trenta: quelle armi sono vitali per l’Italia
«Per favore, salvate il soldato Trenta. E spiegate a Di Maio che la ministra della difesa sta cercando di acquistare gli armamenti indispensabili per rendere credibile la presenza dell’Italia sulla scena euro-mediterranea». Parola di Roberto Hechich, specialista del Movimento Roosevelt in materia di geopolitica. Elisabetta Trenta? Un’ottima scelta, da parte dei 5 Stelle: è competente e proviene dal settore difesa. L’oggetto del contendere? Il bilancio stesso del ministero, che il vicepremier grillino vorrebbe far dimagrire in modo imprudente. Pomo della discordia, il finanziamento negato per l’acquisto di velivoli e sistemi d’arma: lo sviluppo del missile italiano Camm-Er e quello del drone P2hh della Piaggio, più l’acquisto di altri esemplari dell’elicottero Nh90. Se lo stop al drone Piaggio può essere giustificato (l’Italia è impegnata anche nel progetto-doppione EuroMale), secondo Hechich non così è per gli altri due progetti. Il Camm-Er, missile a corto-medio raggio, è un’arma contraerea e antimissile installata sulle navi, nei porti, negli aeroporti e avamposti all’estero e nei siti strategici, andando a sostituirne altri oramai obsolescenti sistemi Spada e Aspide. «Serve quindi per difendere le basi militari italiane dislocate all’estero, le navi italiane che transitano al largo di coste non sicure o che incrociano navi potenzialmente avversarie».Anche se la maggior parte dell’opinione pubblica e molti politici non se ne rendono conto, sostiene Hechich, la situazione nel Mediterraneo andrà incontro a un rapido degrado col pericolo di conflitti violenti: «Secondo alcune analisi, il rischio di venirne coinvolti varia tra il 5 e il 35%». Proprio in questi giorni è stata diffusa la notizia (non ancora confermata) della fornitura, da parte della Russia, di avanzatissimi missili Kalibr alle milizie libiche di Haftar. Si parla della costruzione di due basi russe nella zona, sotto la copertura di truppe mercenarie del Gruppo Wagner, russo. «I russi hanno smentito, ma una qualche forma di presenza di loro truppe, anche se non così consistente, pare essere confermata». Non è che ci si possa aspettare un attacco russo, «ma la proliferazione di queste armi tra gruppi non statali accresce notevolmente il rischio di un loro lancio, o di un più probabile ricatto di un lancio, e il rischio si accentua ancora di più se c’è la percezione che dall’altra parte non ci siano difese adeguate». Sempre secondo Hechich, il mancato acquisto dei Camm-Er «ci obbligherebbe prima o poi a comperare missili dalle caratteristiche simili tra i nostri concorrenti commerciali, cioè Francia, Regno Unito o Usa, con l’aggravante di incidere sulla bilancia commerciale e di non essere proprietari delle tecnologie, senza dimenticare l’impatto sui valori occupazionali e sul Pil».Sempre a parere dell’analista, il mancato acquisto dei nuovi missili andrebbe anche a incidere sulla possibilità italiana di affiancarsi ai britannici (il Camm-Er è una nostra variante di un missile anglo-italiano) per lo sviluppo del nuovo caccia da superiorità aerea Tempest, destinato a sostituire gli attuali Eurofighter Typhoon. «E visto che l’analogo programma franco-tedesco è blindato, ci costringerebbe ad avere un ruolo subalterno a questi due paesi, tagliandoci fuori da ogni sviluppo industriale tecnologicamente avanzato nel settore, con deleterie ricadute sulle nostre capacità tecnologiche, industriali e di sviluppo economico». Oltretutto, insiste Hechich, la programmazione della politica di difesa necessita di anni, per non dire decenni. Non si improvvisa, e non si riesce a crearla quando c’è un pericolo diretto e la necessità diventa impellente. Da non dimenticare poi le cifre: «L’unico modo attualmente per sostituire il Camm-Er con un missile dalle capacità similari, e parzialmente prodotto in casa, sarebbe quello di riprendere la produzione degli Aster 15. Peccato che questo missile costi il doppio e necessiti di spazio doppio rispetto al Camm-Er».Lo stesso Camm-Er costerebbe all’incirca 500 milioni di euro spalmati in dieci anni, mentre il reddito di cittadinanza (del tutto condivisibile, per Hechich) costa diversi miliardi di euro all’anno. «Il gioco vale la candela? Potrebbe nel futuro la nostra Marina ritrovarsi in difficoltà a causa del mancato sviluppo del Camm-Er o nessuno ci lancerebbe missili?». Sempre Hechich ricorda tre episodi avvenuti nel recente passato: nel 1986 il lancio (controverso) di missili libici verso Lampedusa, nel 2011 il lancio fuori bersaglio di un missile dalla costa libica verso la fregata italiana Bersagliere, e soprattutto l’abbattimento di un G222 in missione umanitaria sui cieli della Bosnia da parte di due missili di fabbricazione sovietica (forse lanciati da forze irregolari croato-bosniache) e la conseguente morte dei quattro membri dell’equipaggio, che sarebbe stata evitata «se fossero stati presenti sistemi di contromisure – non ancora installate, appunto, per problemi di bilancio».L’altro programma a partecipazione italiana che dovrebbe venir sospeso è quello dell’elicottero Nh90, soprattutto nella versione Sh, destinata alla Marina. Parte di questi elicotteri sarebbe dovuta essere consegnata nella versione anti-sommergibile. L’elicottero è uno dei migliori sistemi per difendersi dalle minacce sottomarine, oltre che un mezzo di salvataggio, soccorso e collegamento. La Marina, che aveva trascurato questo aspetto, sta cercando di correre ai ripari, ma le serve tempo. «La mancata consegna di questo mezzo non fa che accentuare questo gap, senza tener conto dei danni sul piano economico e sui livelli occupazionali». Per Hechich, c’è da sperare che il paventato blocco di ordini sia veramente solo temporaneo. «Oltretutto i supposti, immediati risparmi sarebbero in gran parte vanificati dalle penali previste sui contratti già deliberati». Per intanto Leonardo, uno dei principali costruttori dell’elicottero, sta perdendo in Borsa. «Quindi ben si spiegherebbero le lacrime di rabbia all’uscita della Trenta dalla riunione con Di Maio, come citano alcune fonti».Non è tutto: Hechich ricorda anche la questione degli F35, nonché i continui rinvii sulla decisione riguardo opere pubbliche e investimenti in vari settori industriali. Nel Def gli investimenti sono scarsi, e indiscrezioni di stampa «paventano una vendita di industrie pubbliche altamente strategiche, efficienti e renumerative, come Leonardo e Fincantieri». Si tratta di «aziende ad altissima tecnologia, che caratterizzano e rendono prestigioso il settore della grande industria italiana». Abbandonate dallo Stato, diverrebbero «facile preda degli appetiti fagocitatori francesi». Tutto questo, osserva Hechich, lascia più di qualche sospetto sulle reali capacità e competenze dell’attuale ministro dello sviluppo economico. Non erano i D’Alema a svendere aziende come Telecom, capaci di darci indipendenza strategica e tecnologica? «Curioso quindi che un governo detto “sovranista” adotti gli stessi metodi di governi “neoliberisti”, svendendo la nostra sovranità tecnologica in un settore strategico, uno dei pochissimi che ancora ci rimangono».Secondo il leghista Raffaele Volpi, sottosegretario alla difesa, il comparto industriale aerospaziale e della difesa fattura più di 14 miliardi di euro all’anno, pari allo 0,8% del nostro Pil. Tendenzialmente in crescita, è fonte di ricerca e innovazione. «Il settore della difesa – ricorda Volpi – dà occupazione ad oltre 44.000 persone, che salgono a più di 110.000 se si considerano anche indotto e altri impatti indiretti». Non solo: «Le aziende pagano tasse allo Stato per non meno di 4,5 miliardi; perciò, trattare le spese militari come uno spreco di risorse non ha senso». Tutto questo, aggiunge Volpi, senza considerare l’export. Dettaglio non trascurabile, poi, «la sicurezza che deriva al nostro paese dall’essere difeso e dal poter partecipare con credibilità e autorevolezza ad alleanze con altri Stati in una fase storica caratterizzata da diffusa instabilità e pericolo di conflitti». Ogni euro speso per i programmi industriali della difesa, sottolinea Hechich, porta un ritorno di un fattore di circa 2,5. Non è che l’inesperienza di Di Maio lo porti a sottovalutare questi aspetti? Per cui, conclude Hechic: «Vi prego, per chi ne ha la possibilità: salvate il soldato Trenta».«Per favore, salvate il soldato Trenta. E spiegate a Di Maio che la ministra della difesa sta cercando di acquistare gli armamenti indispensabili per rendere credibile la presenza dell’Italia sulla scena euro-mediterranea». Parola di Roberto Hechich, specialista del Movimento Roosevelt in materia di geopolitica. Elisabetta Trenta? Un’ottima scelta, da parte dei 5 Stelle: è competente e proviene dal settore difesa. L’oggetto del contendere? Il bilancio stesso del ministero, che il vicepremier grillino vorrebbe far dimagrire in modo imprudente. Pomo della discordia, il finanziamento negato per l’acquisto di velivoli e sistemi d’arma: lo sviluppo del missile italiano Camm-Er e quello del drone P2hh della Piaggio, più l’acquisto di altri esemplari dell’elicottero Nh90. Se lo stop al drone Piaggio può essere giustificato (l’Italia è impegnata anche nel progetto-doppione EuroMale), secondo Hechich non così è per gli altri due progetti. Il Camm-Er, missile a corto-medio raggio, è un’arma contraerea e antimissile installata sulle navi, nei porti, negli aeroporti e avamposti all’estero e nei siti strategici, andando a sostituirne altri oramai obsolescenti sistemi Spada e Aspide. «Serve quindi per difendere le basi militari italiane dislocate all’estero, le navi italiane che transitano al largo di coste non sicure o che incrociano navi potenzialmente avversarie».
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Abolire le lezioni di storia: i docenti non insegnano niente
Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.E questo si inserisce nel problema più generale dei troppi insegnanti che, magari, conoscono la materia ma non la sanno insegnare, e questo vale per tutte le discipline. In estate lessi di una classe di un istituto livornese dove erano stati bocciati o rimandati 40 studenti su 41, e un imbecille di docente confessava come giustificazione: «Non riusciamo a farli studiare». Come dire che “non sappiamo fare il nostro mestiere”, visto che il compito del docente è proprio quello di motivare i ragazzi a studiare. Morale: licenziamo in blocco i docenti di quella classe e faremo una cosa santa. Ma, si dice, della storia ha bisogno non solo la cultura ma anche la democrazia, perché, si dice, la storia ha un alto valore formativo. Ecco: il punto è proprio questo: la storia, così come viene insegnata, ha ancora questo valore formativo? Direi proprio di no. Per il modo in cui è ora mal insegnata non ha alcun valore culturale e, meno che mai, professionale. La storia non serve a “far bella figura in società” o ad assecondare una qualche voglia individuale di intrattenimento. La storia ha una funzione precisa nella spiegazione e critica del presente e, solo a questa condizione, è elemento utile al dibattito politico e culturale.Frugare a caso nel passato non serve a niente, quello che serve è risalire lungo la catena dei nessi causa effetto-che spieghino l’attuale stato di cose e servano da lente di ingrandimento per individuare cosa va conservato e cosa mutato nell’attuale ordinamento. Ora, c’è qualcuno che ha il coraggio di sostenere che l’attuale insegnamento serva a questo? Quanti docenti sarebbero in grado di spiegare il passaggio dalla formula merce-denaro-merce a quella denaro1-merce-denaro2 e spiegarne la portata storica? Quale insegnante saprebbe spiegare le conseguenze della decisione di Nixon sulla non convertibilità del dollaro nel 1971? Quanti docenti hanno una pur vaga idea del pensiero politico di Gandhi, Sukarno, Kemal Ataturk o sanno chi sono stati Nasser, Al Qutb o Franz Fanon? E chi saprebbe presentare adeguatamente il processo di codificazione dello Stato moderno europeo o il passaggio dalla decretazione alla legge? Ne dubito fortemente, perché i nostri docenti in massima parte sono filosofi o letterati che non capiscono nulla di diritto o economia e poco di sociologia o politologia.D’altro canto, i libri di testo che hanno a disposizione non parlano di certe cose e ripropongono la solita sbobba identica a se stessa da almeno 60 anni. Sì, ci abbiamo appiccicato a forza qualche capitolo sulla storia delle donne, dei giovani o dell’ambiente (che nessun docente trova il tempo di spiegare e che sono posti senza alcun legame con tutto il resto) ma la struttura resta quella di sempre, nella quale è possibile distinguere con chiarezza i suoi vari strati alluvionali: alla base il catechismo della “religione della Patria” con i suoi martiri (Menotti, Speri, Bandiera) e il suo glorioso cammino verso l’unità; poi il capitolo sulla Prima Guerra Mondiale per lo più di derivazione fascista; quindi la grande cupola dell’insegnamento crociano con il suo culto per l’analogia e il suo insopportabile moralismo, per cui il fine della storia è il giudizio morale (insomma, il voto in condotta a chi ci ha preceduto) e la sua totale insensibilità ai dati istituzionali ed economici; infine un po’ di catechismo antifascista.Beninteso: sono antifascista da sempre, non ritengo affatto che l’antifascismo sia un valore superato, ma non sopporto alcun tipo di catechismo. Si può capire che nel primo trentennio della Repubblica fosse necessario radicare la condanna del fascismo, ma vogliamo capire che la storia del fascismo va studiata in riferimento al tipo di modernità che si è costruita in questo paese? E che dopo il fascismo ci sono stati 70 anni di storia che sono bellamente ignorati dai nostri manuali? E senza che questo attenui di un etto la condanna del fascismo. L’antifascismo va benissimo, ma facciamolo vivere nel quadro del presente e non trasformiamolo in un polveroso museo di memorie. Insomma, è accettabile che il nostro insegnamento ignori cose come la decolonizzazione, la strategia della tensione, il Sessantotto, i mutamenti dell’ordine monetario, il crollo dell’Urss e dell’ordinamento bipolare, la trasformazione imperiale della presidenza americana, le rivoluzioni di Cina, Indonesia, Algeria, Vietnam, le guerre mediorientali, eccetera eccetera? Caro colleghi, ma in che secolo vivete?E non si tratta solo di recuperare il passato più recente, ma di leggere con altri occhi anche tutto il resto della storia alla luce dell’attuale ordinamento del mondo. Ad esempio, siamo sicuri che la storia degli Assiri, dei Babilonesi, dei Fenici sia così importante, mentre si trascurano del tutto le ben più importanti civiltà di India e Cina? Certo che la storia romana dobbiamo studiarla, ma è necessario beccarsi tutta la solfa delle dinastie gallo-romane, l’elenco completo delle battaglie di Cesare, gli imperatori più insignificanti, e non tentare una comparazione con le parallele vicende dell’India? Il medioevo va studiato, ma è così fondamentale dare tanto spazio alla lotta per le investiture, piuttosto che dare uno sguardo all’evoluzione dell’economia cinese a metà del XIV secolo, con il passaggio all’economia del riso e con il parallelo affermarsi del dispotismo asiatico? E, nella storia moderna, si potrebbe restringere un po’ il solito elenco di guerre e battaglie, ma dare più spazio alla nascita del diritto commerciale o al colbertismo. Quanto alla storia contemporanea, va bene che si parli della Shoà, ma non sarebbe più urgente e importante parlare del colonialismo e del suo residuo permanente? Magari ci riuscirebbe di capire meglio un fenomeno come il terrorismo jhadista.Tutto questo, però, presupporrebbe un corpo docente ben altrimenti formato. Anche l’istituzione del corso di laurea in storia è stato un vero disastro: nessun insegnamento di economia, diritto, scienza della politica, una infarinatura appena di sociologia, psicologia e antropologia e, in cambio, una valanga delle storie più minute e meno utili. Solito schema per le storie generali all’interno del solito eurocentrismo. Un marziano che scendesse sulla Terra e leggesse i nostri manuali di storia per farsi unìidea, capirebbe che l’unico protagonista della storia è sempre stato l’uomo bianco, salvo qualche rapida comparsata di qualche altro; che la storia umana ha seguito un unico cammino rettilineo, e che gli umani si sono sempre preoccupati solo dell’aspetto ideologico, dedicando di tanto in tanto qualche cenno di attenzione ai processi materiali. Cari colleghi, diciamolo, voi non fate storia, fate una noiosissima antiquaria. E non parliamo dell’aspetto metodologico: quanti docenti hanno idea di cosa sia la scienza della complessità o sarebbero spiegare cosa è un modello di simulazione e come funziona (anche un semplice wargame)? Quanti se la sentirebbero di accennare un approccio comparatistico? E quanti potrebbero provare una spiegazione dei processi storici in termini di psicoanalisi di massa? Lasciamo perdere.Già sento la risposta: «Dobbiamo rispettare i programmi ministeriali». Già, l’annosa piaga dei programmi ministeriali che mi fanno pensare che sia arrivato il momento di sbarazzarci della scuola statale (non ho detto della scuola pubblica, ma di quella statale): un modello organizzativo che ha avuto i suoi meriti ma che oggi, forse, è il caso di superare. In ogni caso, non mi è capitato di leggere di nessuna protesta dei docenti, dei loro sindacati, delle loro associazioni disciplinari contro i famigerati programmi ministeriali, pecoronescamente applicati. Tutto ciò premesso, come si fa a sostenere che l’attuale insegnamento della storia abbia una qualche utilità e possa riscuotere più di qualche sbadiglio dei ragazzi? Capisco la difesa più che della storia, degli impiegati statali incaricati di spiegare la “storia” da cui cercano “di tirare quattro paghe per il lesso”, ma se l’insegnamento della storia deve essere questo, forse è meglio che lo aboliamo del tutto. E forse i ragazzi odieranno di meno la storia e qualcuno inizierà a studiarla per proprio conto.(Aldo Giannuli, “Una modesta proposta sull’insegnamento della storia: aboliamolo. Lettera aperta ai colleghi storici”, dal blog di Giannuli del 30 ottobre 2018).Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.
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Deutsche Bank: nessuno è stato massacrato quanto l’Italia
Nessuno si è fatto massacrare, in questi anni, come l’Italia. E nessun altro paese europeo, men che meno la Germania, ha “fatto i compiti a casa” così bene, cioè stroncando la spesa pubblica a danno del popolo, in ossequio al diktat dell’austerity. Che poi tutto ciò si possa trasformare in un comportamento “virtuoso”, è questione di punti di vista: per esempio quello di David Folkerts-Landau, capo economista di Deutsche Bank, il cui recente intervento su “Bloomberg Tv” è stato pubblicato col massimo risalto sul blog di Beppe Grillo, come se l’oligarca della maxi-banca speculativa tedesca ci avesse fatto un complimento di quelli che meritano un applauso. Proprio l’enorme «sforzo fiscale» che il nostro paese sta mettendo in atto, da anni, motiva le parole di Folkerts-Landau, secondo Grillo pronunciate «in sostegno all’Italia». Queste: «L’Italia avrebbe un avanzo di bilancio, se non fosse per il pagamento degli interessi. La cosa più straordinaria è che lo sforzo fiscale dell’Italia è oltre ciò che chiunque altro ha fatto in Europa, ed ha accumulato avanzi primari (al netto degli interessi) per il 13% del Pil, mentre la Germania solo per il 5%. L’Italia, in questo senso, è il paese più virtuoso in Europa».Sempre secondo il banchiere, «ora il fatto di andare da lei con una mazza da baseball e dire “Devi diminuire il tuo deficit affinché sia ’sostenibile’ secondo i criteri della Ue” va contro tutte le ragioni e le logiche politiche». Infatti, aggiunge David Folkerts-Landau, «io credo che questa sorta di minaccia, di pressione, da parte della Ue stia radicalizzando la nazione, stia radicalizzando la politica, stia creando un pericolo per l’esistenza dell’Eurozona». E conclude: «Sì, sono fortemente dalla parte degli italiani su questa particolare discussione». Proprio un bel risultato, commenta Paolo Barnard sul suo blog, dove premette: «Sono oltre 25 anni che cerco di insegnare come vince, il Vero Potere. E infatti eccolo di nuovo trionfante su questo governo di falsari e buffoni, e sulle Curva Ultras dei tristi acritici che li hanno votati e che oggi li adorano». Il Vero Potere, aggiunge Barnard, «lavora con un banale mezzo di manipolazione psicologica conosciuto nei rapporti interni di Think Tanks e Ministeri come “psyops”». E’ centrato «su un preciso rapporto punizione-premio, carnefice-vittima». Metafora: è come se fossimo legati a una catena, in un pozzo. Ogni tanto, ci si lascia credere di essere più liberi, grazie a qualche irrisoria concessione.«Coi suoi usuali immensi mezzi – scrive Barnard – il Vero Potere lega la vittima a un muro, in fondo a un pozzo, con un metro di catena al collo». Quando essa il malcapitato inizia a gemere, lo pesta a bastonate e lo minaccia. «Questo va avanti per molto tempo, poi un giorno il Vero Potere recita la farsa di cedere». Ovvero: «Mette in scena una sconfitta fittizia contro la vittima». E le concede «un metro di catena in più, con uno spiraglio di luce». La reazione della vittima, costretta a pane e acqua e «ormai spezzata psicologicamente», sostanzialmente «è di tripudio», visto che ormai «ha perduto ogni senso della realtà e delle proporzioni dell’esistenza». E quindi esulta: «Ho vinto! Libertà! Festeggiamo!». Secondo Barnard, «questo, e precisamente questo, sta accadendo con il governo gialloverde, che proclama trionfi e nuove libertà per gli italiani perché gli è stato concesso un metro di catena in più al collo chiamato deficit di bilancio al 2,4%, sempre nel contesto di nessuna speranza di uscire dall’euro (il pozzo della metafora), che anzi, viene confermato da Conte come il futuro immutabile dell’Italia. La psyop di Bruxelles ha funzionato come un computer».Ma, sempre secondo Barnard, «non esiste luogo dove quest’orripilante farsa – che prende appunto il nome di stravittoria della Ue e patetico vagheggiamento della vittima (l’Italia gialloverde) – è più splendidamente in vista del blog di Beppe Grillo». Il fondatore del Movimento 5 Stelle ha pubblicato quello spezzone d’intervista a Folkerts-Landau, «un scherano della Deutsche Bank», il quale «riafferma pienamente le virtù del pareggio di bilancio italiano nascosto nell’avanzo primario che da anni stiamo facendo, che altro non è se non il micidiale rigore dei conti di Mario Monti, di Padoan e di Cottarelli, ovvero il cianuro dell’economicidio dell’Italia da 15 anni». Ma dato che «il veterano sicario tedesco trova il modo, nel mezzo di quello schifo, di lodare l’Italia e di fingere un rimproverino alla Ue», ecco che Grillo «scrive che il banchiere ha pronunciato “parole in sostegno all’Italia”, e gli dà l’enorme visibilità del suo spazio web». In sostegno?«Lodarci perché ci siamo fatti picchiare a sangue con sale sparso sulle ferite per 15 anni, e aggiungere che il torturatore adesso dovrebbe dismettere la frusta e usare solo le mani per picchiarci, è sostegno a famiglie e aziende italiane? Questo è esattamente il succo delle sue parole, che il genovese trova edificanti per noi», aggiunge Barnard. «Ecco come ci hanno ridotti, ecco il livello di assenza cerebrale di tutti quelli che oggi sbraitano il “cambiamento” e la vittoria di Lega e 5 Stelle. Ed ecco come vince, e stravince, il Vero Potere». E non è tutto, chiosa Barnard: «Per essere precisi, va detto che un blocco in ’sto governo osceno è ben contento del carnefice-Ue, per interessi che ho già spiegato, leggasi Salvini». Tradotto: l’elettorato industriale del nord è ben contento delle pietose condizioni dei lavoratori, indotti dal regime neoliberista e ordoliberista europeo a rassegnarsi a non avere più diritti, ma solo precaria flessibilità. Se Grillo segnala l’esternazione dell’uomo di Deutsche Bank per rompere l’assedio che l’establishment europeo sta muovendo all’Italia, dal canto suo Barnard ribadisce la sua sfiducia espressa sin dalla prima ora nel governo gialloverde, che a suo parere si limita a fingere di sfidare Bruxelles.Nessuno si è fatto massacrare, in questi anni, come l’Italia. E nessun altro paese europeo, men che meno la Germania, ha “fatto i compiti a casa” così bene, cioè stroncando la spesa pubblica a danno del popolo, in ossequio al diktat dell’austerity. Che poi tutto ciò si possa trasformare in un comportamento “virtuoso”, è questione di punti di vista: per esempio quello di David Folkerts-Landau, capo economista di Deutsche Bank, il cui recente intervento su “Bloomberg Tv” è stato pubblicato col massimo risalto sul blog di Beppe Grillo, come se l’oligarca della maxi-banca speculativa tedesca ci avesse fatto un complimento di quelli che meritano un applauso. Proprio l’enorme «sforzo fiscale» che il nostro paese sta mettendo in atto, da anni, motiva le parole di Folkerts-Landau, secondo Grillo pronunciate «in sostegno all’Italia». Queste: «L’Italia avrebbe un avanzo di bilancio, se non fosse per il pagamento degli interessi. La cosa più straordinaria è che lo sforzo fiscale dell’Italia è oltre ciò che chiunque altro ha fatto in Europa, ed ha accumulato avanzi primari (al netto degli interessi) per il 13% del Pil, mentre la Germania solo per il 5%. L’Italia, in questo senso, è il paese più virtuoso in Europa».