Archivio del Tag ‘economia’
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Ceta, via libera alle multinazionali: faranno causa agli Stati
La Corte di giustizia europea ha dato il via libera al sistema exstragiudiziale Isds. Si tratta di uno dei più controversi aspetti del Ceta, l’accordo di libero scambio tra Ue e Canada: in caso di controversia – ricorda il “Salvagente” – una multinazionale potrà chiamare in causa uno Stato membro non presso un tribunale ordinario ma dinanzi a un abritrato, una sorta di “corte” privata prevista dallo stesso Ceta. Secondo il parere appena diffuso dalla Corte di Strasburgo, la procedura di risoluzione delle controversie fra investitori e Stati prevista dall’accordo è compatibile col diritto dell’Unione. «Si tratta in sostanza di un meccanismo di risoluzione delle controversie – l’Investment court system, Ics – che permette alle aziende e alle multinazionali di fare causa agli Stati davanti a un tribunale arbitrale». A settembre del 2017, aggiunge il “Salvagente”, il Belgio ha chiesto il parere della Corte di giustizia sulla compatibilità di questa procedura di risoluzione delle controversie con il diritto primario dell’Unione, esprimendo di fatto dubbi sugli effetti della procedura in relazione alla competenza esclusiva della Corte nell’interpretare il diritto della Ue e sull’autonomia dell’ordinamento giuridico europeo. Nel parere espresso ora, la Corte di Giustizia di fatto dà via libera all’arbitrato.Netta e preoccupata la presa di posizione del comitato Stop Ttip/Stop Ceta: «La sentenza legittima un sistema controverso, che consente alle multinazionali di fare causa agli Stati per scoraggiare l’approvazione di leggi che minacciano i loro profitti», affermano i membri del comitato. «Qualunque norma – anche se varata per proteggere l’interesse pubblico o l’ambiente – sarà impugnabile in opachi tribunali, che prestano il fianco a gravi conflitti di interessi». Secondo Monica Di Sisto, portavoce della campagna Stop Ceta (una coalizione di 200 organizzazioni) si tratta di un meccanismo «costruito su misura per gli investitori esteri, a scapito della sovranità degli Stati e dei diritti dei cittadini». Aggiunge: «Nel recente rapporto “Diritti per le persone, regole per le multinazionali: Stop Isds”, abbiamo dimostrato che la creazione della Corte per gli investimenti inserita nel Ceta su proposta della Commissione Europea rappresenta una minaccia per la democrazia e l’ambiente». Il comitato chiede che il Parlamento Europeo «si attivi immediatamente per bocciare il trattato in blocco, così da aprire in tutta Europa un fronte critico verso il commercio senza regole e senza rispetto dei diritti».L’arbitrato internazionale, prosegue la Di Sisto, è diventato «una macchina da soldi che si autoalimenta grazie al conflitto di interessi», in cui gli avvocati sono pagati a chiamata e possono approvare richieste di indennizzo imponenti, da parte delle imprese. «Rifiutiamo il principio stesso di un tribunale sovranazionale, che consente agli investitori esteri, e soltanto a loro, di aggirare le giurisdizioni nazionali ed europee per contrastare una decisione pubblica che non rispecchia le loro aspettative di profitto». Era chiaro fin dall’inizio, che sarebbe finita così: anche per questo era stata congelata l’approvazione del Ttip, trattato transatlantico Usa-Ue che avrebbe legato le mani agli Stati, esponendoli alle ritorsioni affaristiche dei colossi economici. Poi è stato approvato alla chetichella il Ceta (Ue-Canada), e quindi la norma è stata introdotta “dalla finestra”, a dispetto dell’enorme mobilitazione democratica che si era attivata per fermare il trattato gemello, il Ttip.Negli ultimi trent’anni, in tutto il mondo – ricorda ora il “Salvagente” – gli Stati hanno già dovuto pagare 84,4 miliardi di dollari alle imprese private a seguito di sentenze sfavorevoli (67,5 miliardi) o costosi patteggiamenti (16,9 miliardi). Le compagnie possono citare in giudizio gli Stati per nuove politiche ambientali (è accaduto in Canada), per provvedimenti che limitano la presenza di zucchero nelle bevande (due colossi del food americano contro il Messico), per quelli che aggiornano il packaging dei pacchetti di sigarette (le major del tabacco contro Uruguay e Australia). «In Italia ad esempio si segnala il caso delle trivelle: la causa più pesante è stata intentata dalla compagnia petrolifera britannica Rockhopper nel 2017 con la richiesta di 350 milioni di dollari in compensazioni per aver subito il no al rinnovo della concessione per la piattaforma Ombrina Mare, che voleva cercare petrolio nell’Adriatico abruzzese entro le 12 miglia marine». L’arbitrato, denunciano dalla campagna, rappresenta «un’arma delle multinazionali contro l’ambiente e la sovranità degli Stati».La Corte di giustizia europea ha dato il via libera al sistema exstragiudiziale Isds. Si tratta di uno dei più controversi aspetti del Ceta, l’accordo di libero scambio tra Ue e Canada: in caso di controversia – ricorda il “Salvagente” – una multinazionale potrà chiamare in causa uno Stato membro non presso un tribunale ordinario ma dinanzi a un abritrato, una sorta di “corte” privata prevista dallo stesso Ceta. Secondo il parere appena diffuso dalla Corte di Strasburgo, la procedura di risoluzione delle controversie fra investitori e Stati prevista dall’accordo è compatibile col diritto dell’Unione. «Si tratta in sostanza di un meccanismo di risoluzione delle controversie – l’Investment court system, Ics – che permette alle aziende e alle multinazionali di fare causa agli Stati davanti a un tribunale arbitrale». A settembre del 2017, aggiunge il “Salvagente”, il Belgio ha chiesto il parere della Corte di giustizia sulla compatibilità di questa procedura di risoluzione delle controversie con il diritto primario dell’Unione, esprimendo di fatto dubbi sugli effetti della procedura in relazione alla competenza esclusiva della Corte nell’interpretare il diritto della Ue e sull’autonomia dell’ordinamento giuridico europeo. Nel parere espresso ora, la Corte di Giustizia di fatto dà via libera all’arbitrato.
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“L’autismo è bello”, come il futuro orrendo che ci assedia
Eccovi servito il nuovo livello di rincoglionimento imposto: “l’autismo è un dono”, “l’autismo è una opportunità”, “l’autismo serve per lavorare”, “l’autismo è il futuro”. Ve lo strillano con prestigiosi convegni, dalle patinate riviste e compagnia cantante, tutti ben foraggiati dalle case farmaceutiche. È la nuova frontiera: stravaccinato e autistico, con contorno di treccine bionde, seduto a guardare serie Tv mangiando insetti bolliti. Il perfetto bimbo del radioso futuro che hanno in serbo per voi. Vi hanno convinto che i bambini sani minaccino la salute pubblica. Vi hanno convinto che la scienza consista nel credere ciecamente a qualsiasi cosa affermi uno stronzo arrogante in camice bianco alla Tv, e che farsi domande quando i conti non tornano sia roba per matti. Vi hanno convinto ad accettare come vere epidemie immaginarie, morti immaginari, e ad accettare la cancellazione dei diritti fondamentali per emergenze basate su un rischio venti volte inferiore a quello di venir colpiti dai fulmini.Vi hanno convinto che sia normale distruggere l’identità sessuale nei bambini, per liberarli dagli stereotipi culturali. Vi hanno convinto che serva a garantire la libertà di orientamento sessuale, a eliminare le discriminazioni, quando non c’entra un emerito niente con queste più che logiche e importanti battaglie – anzi – lavora esattamente nella direzione opposta. Quella di creare confusione ad ogni livello, di cancellare ogni tipo di riferimento, mentre è proprio dai riferimenti che si parte per prendere decisioni, per conoscere se stessi, per assumere il controllo della propria vita. Più che mai quando si parla di orientamento o di identità sessuale. Vi hanno convinto che sia normale spingere milioni di persone a lasciare le loro terre, che deprediamo economicamente e fisicamente per le risorse prime, avviandole a viaggi infernali in cui vengono sfruttati, derubati e violentati per poi rischiare di affogare su gommoni di fortuna da cui – Alleluya! – i nostri eroici volontari delle Ong possono salvarli, per sbarcarli in paesi che non sono in grado di accoglierli e integrarli, per farli finire schiavi della mafia e venire ancora sfruttati, derubati e violentati, e se gli va di culo ritrovarsi davanti al supermercato a stressarci per un euro facendoci incazzare perché – hey, siamo razzisti!Vi hanno convinto che sia normale vivere immersi in un debito inestinguibile, usando denaro che nemmeno esiste più e nella sua forma, concreta o digitale, resta di proprietà di enti privati, perché “non c’è alcuna alternativa”. Vi hanno convinto ad accettare che debba restare scarso, e che sia necessario fare dei sacrifici, perché… perché sì. Vi hanno convinto che siate voi a dover cambiare in peggio le vostre vite per fare funzionare l’economia, invece che l’economia a dover cambiare per rendere migliori le vostre vite. Vi hanno convinto che un anziano debba venire imbottito di medicinali, tagliato e ricucito e tagliato e inzuppato di sostanze radioattive per fargli vivere qualche altro anno in cui imbottirlo di medicinali, tagliarlo e ricucirlo. Su, forza adesso: mostrate quanto siete intelligenti, fate vedere quanto siete svegli. Fate un’altra bella capriola. “L’autismo è un dono. L’autismo è il futuro”. Bevetevi anche questa ennesima stronzata, dai.(Stefano Re, “L’autismo va di moda”, dal blog di Re dell’11 maggio 2019).Eccovi servito il nuovo livello di rincoglionimento imposto: “l’autismo è un dono”, “l’autismo è una opportunità”, “l’autismo serve per lavorare”, “l’autismo è il futuro”. Ve lo strillano con prestigiosi convegni, dalle patinate riviste e compagnia cantante, tutti ben foraggiati dalle case farmaceutiche. È la nuova frontiera: stravaccinato e autistico, con contorno di treccine bionde, seduto a guardare serie Tv mangiando insetti bolliti. Il perfetto bimbo del radioso futuro che hanno in serbo per voi. Vi hanno convinto che i bambini sani minaccino la salute pubblica. Vi hanno convinto che la scienza consista nel credere ciecamente a qualsiasi cosa affermi uno stronzo arrogante in camice bianco alla Tv, e che farsi domande quando i conti non tornano sia roba per matti. Vi hanno convinto ad accettare come vere epidemie immaginarie, morti immaginari, e ad accettare la cancellazione dei diritti fondamentali per emergenze basate su un rischio venti volte inferiore a quello di venir colpiti dai fulmini.
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Guerra sui dazi Usa-Cina, tresette col morto (che è l’Europa)
I negoziati commerciali Usa-Cina non sono andati a buon fine: alla mezzanotte ed un minuto della notte tra venerdì 10 e sabato 11 maggio, gli Stati Uniti hanno posto dazi del 25% su gran parte delle importazioni della Cina e Pechino ha risposto minacciando misure di ritorsione. Nonostante tutto, però, la trattativa sta riprendendo (pare) nella capitale nel nuovo Celeste Impero. Al termine di questa partita (ancora non sono chiari i contorni della prossima), occorre chiedersi chi ha vinto e chi ha perso. Ipotizziamo che si tratti di una partita a carte: un tresette (col morto) dato i principali giocatori sono tre (Usa, Cina, Ue), non quattro. Il resto del mondo resta sullo sfondo, come vi è rimasto nel corso della tornata. Pagherà comunque il conto in termini di incertezza sul futuro non solo del commercio ma anche degli investimenti internazionali, i quali, senza sapere quale è il regime tariffario a cui saranno soggetti i loro prodotti, non sapranno dove andare. Ciò provocherà un rallentamento della crescita dell’eximport mondiale, di cui faranno le spese i paesi esportatori più fragili (come l’Italia).Ma torniamo ai tre contendenti al tavolo da gioco: Usa, Cina e Ue. Gli Usa hanno fatto saltare il branco e terminato il 10 maggio una partita a cui erano stati concessi diversi tempi supplementari: sarebbe dovuta terminare entro il termine perentorio del 30 marzo. Lo hanno fatto nonostante che, almeno nel breve termine, Washington rischi di essere il giocatore che perde di più. Da un lato, i consumatori di prodotti finiti di bassa fascia (giocattoli, abbigliamento) dovranno pagarli di più se non troveranno sostituti manufatti negli Usa o altrove. Da un altro, le aziende (numerose in certe categorie dell’elettronica) che assemblano per il mercato americano componenti manufatte in Cina avranno più alti costi di produzione. Da un terzo, la banca centrale cinese ha nelle sue riserve 1.13 trilioni di dollari Usa e, se vuole, può mettere in serie difficoltà gli americani, riversandone parte sul mercato finanziario.Perde, nel più lungo termine, anche Pechino. Come più volte sottolineato su questa testata, il principale nodo più che il commercio è il fatto che la Cina non ha ottemperato alla promessa, fatta quando è stata ammessa, nel lontano 2001, all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) di trasformarsi in una vera economia di mercato. È a tale trasformazione a cui, per il momento, Pechino si oppone in modo veemente. La bozza di accordo bilaterale prevedeva misure che avrebbero comportato mettere su un piede di parità con gli altri operatori le gigantesche imprese pubbliche cinesi e la revisione della normativa che impone alle aziende straniere che vogliono operare in Cina di dischiudere alle autorità cinesi le loro innovazioni di processo e prodotto. D’altro canto, per Pechino scardinare le imprese statali vuole dire scardinare gli assetti di potere: la Via della Seta è stata concepita come mezzo per mantenere in vita il sistema esistente. Sino a quanto regge.Gli Usa, però, hanno un asso nella manica. Uno studio a limitata circolazione degli uffici del Rappresentante speciale della Casa Bianca, firmato da Alexander Hamilton e Nabil Abbyad, (Executive Briefing on Trade Usitc 2018) documenta la crescita del debito interno della Cina, dovuto in gran misura all’uso inefficiente delle risorse da parte delle imprese statali, e come tale fardello rischia di pesare pesantemente sullo sviluppo del paese nei prossimi anni. Prima o poi, anche a causa di conflitti interni tra la gerarchie del Partito comunista cinese, arriverà il momento del rendiconto. L’Ue potrebbe essere il vincitore, soprattutto se gioca unita e se sa inserirsi astutamente nelle modifiche, ormai urgenti, delle imprese di Stato cinesi. Lo hanno ben compreso Francia e Germania, che hanno concluso accordi di vendita (in contanti) per aerei e macchine utensili. La Grecia, primo Stato a mettersi sulla Via della Seta quando era in brache di tela, rimpiange già la (s)vendita del porto del Pireo. E l’Italia? E’ stata ammaliata nel fascino orientale. Speriamo bene!(Giuseppe Pennisi, “Il tresette commerciale tra Usa e Cina – col morto, che è l’Europa”, da “Formiche.net” del 12 maggio 2019).I negoziati commerciali Usa-Cina non sono andati a buon fine: alla mezzanotte ed un minuto della notte tra venerdì 10 e sabato 11 maggio, gli Stati Uniti hanno posto dazi del 25% su gran parte delle importazioni della Cina e Pechino ha risposto minacciando misure di ritorsione. Nonostante tutto, però, la trattativa sta riprendendo (pare) nella capitale nel nuovo Celeste Impero. Al termine di questa partita (ancora non sono chiari i contorni della prossima), occorre chiedersi chi ha vinto e chi ha perso. Ipotizziamo che si tratti di una partita a carte: un tresette (col morto) dato i principali giocatori sono tre (Usa, Cina, Ue), non quattro. Il resto del mondo resta sullo sfondo, come vi è rimasto nel corso della tornata. Pagherà comunque il conto in termini di incertezza sul futuro non solo del commercio ma anche degli investimenti internazionali, i quali, senza sapere quale è il regime tariffario a cui saranno soggetti i loro prodotti, non sapranno dove andare. Ciò provocherà un rallentamento della crescita dell’eximport mondiale, di cui faranno le spese i paesi esportatori più fragili (come l’Italia).
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Farinetti: macché Flax Tax, meglio una bella patrimoniale
L’ultimo nemico di Matteo Salvini si chiama Konrad Krajewski. L’elemosiniere del Vaticano è andato a riattaccare la luce in un palazzo di Roma occupato da alcune centinaia di persone, rompendo i sigilli ai contatori e prendendosi la piena responsabilità con prefettura e Acea. Un gesto che ha portato alla replica stizzita del ministro dell’interno: «Adesso mi aspetto che paghi anche i 300mila euro di bollette arretrate», ha detto Salvini. «Poteva evitare questa battuta», commenta Oscar Farinetti in un’intervista a “Radio Capital”: «Salvini ha rivelato un sentimento umano di base, che si può mettere sotto la parola ‘razzismo’. C’è questa nuova forma di razzismo che elimina completamente la pietà». Secondo il fondatore di Eataly, Padre Konrad «ha fatto molto bene, lo ammiro. Manca il sentimento umano della pietà, ormai. In Italia ci sono delle situazioni di povertà, e bisogna intervenire, dare una mano. Secondo me è un gesto importante». Contro la povertà, il governo ha lanciato il reddito di cittadinanza, su cui Farinetti ammette di avere un’opinione positiva: «È chiaro che una roba di questo tipo va fatta. Chiamiamola reddito di cittadinanza o reddito di inclusione, ma in una situazione generale in cui c’è della gente che non ha di che vivere è assolutamente indispensabile che scatti un sentimento umano, e che chi è stato più fortunato nella vita aiuta anche chi ha meno».Sull’altra misura economica bandiera del governo, la Flat Tax, l’imprenditore è scettico: «La trovo anticostituzionale. È scritto nella Costituzione che chi guadagna di più deve pagare di più, e a me sembra il minimo», dice a “Daily Capital”, ospite di Jean Paul Bellotto e Riccardo Quadrano. Per Farinetti, il problema della povertà «si può risolvere con una piccolissima patrimoniale sui risparmi degli italiani, che sono più di 4.000 miliardi. Se mettessimo via lo 0,5% ci saebbero 20 miliardi e potremmo affrontare sia il problema della povertà che quello dell’immigrazione. Ma c’è un altro tema strategico e importante, quello di avere un progetto per il paese. E questo manca». L’Italia, dice ancora Farinetti, in libreria con “Dialogo tra un cinico e un sognatore” (scritto per Rizzoli con Piergiorgio Odifreddi), «deve puntare tantissimo sulle proprie vocazioni: dovrebbe raddoppiare il numero di esportazioni delle proprie eccellenze e raddoppiare il numero di turisti stranieri per creare così un’infinità di posti di lavoro. Questa è una cosa che secondo me si può fare con un progetto di cinque anni». Aggiunge: «Ci dovrebbe essere un maggior impegno generale. Ci sono stati momenti come il miracolo economico nel dopoguerra, o il Rinascimento, in cui l’Italia ha fatto meraviglie. Ma i sentimenti umani che c’erano in quei periodi erano altissimi: c’era tanta fiducia, per esempio. Se manca la fiducia è un casino».«L’aria nuova che si è tentato di far partire attraverso “vaffa” e rottamazioni in realtà non è ancora partita. Avremmo bisogno di qualche gesto importante, da parte di persone che diano il buon esempio. Il gesto di quel cardinale ad esempio è un grandissimo gesto di buon esempio». Il patron di Eataly svela anche un suo nuovo progetto: «Si chiama Green Pea, pisello verde, e si pone come obiettivo di vendere solo oggetti di rispetto, costruiti in armonia con il pianeta, e di farli diventare “cool”, perché secondo me salveremo il pianeta soltanto se diventerà simpatico o profittevole farlo. Bisogna passare dal senso del dovere al senso del piacere. Ho visto che questa cosa funziona egregiamente in tante nazioni del mondo, nel Nord Europa è figo comportarsi bene: uno che non fa la differenziata là non è che gli urlano dietro, ma lo guardano e pensano che ha dei problemi e bisogna aiutarlo». Infine, Farinetti nega di considerare una futura discesa in campo: «Non scendo in politica perché ritengo che non sarei bravo a farla; perché non è detto che uno che sia abbastanza bravo in un settore sia bravo in tutto, quindi la lascio fare a persone secondo me più brave di me e più valide di me».(Oscar Farinetti a “Radio Capital”: “Serve una patrimoniale per combattere la povertà”, da “Dagospia” del 13 maggio 2019).L’ultimo nemico di Matteo Salvini si chiama Konrad Krajewski. L’elemosiniere del Vaticano è andato a riattaccare la luce in un palazzo di Roma occupato da alcune centinaia di persone, rompendo i sigilli ai contatori e prendendosi la piena responsabilità con prefettura e Acea. Un gesto che ha portato alla replica stizzita del ministro dell’interno: «Adesso mi aspetto che paghi anche i 300mila euro di bollette arretrate», ha detto Salvini. «Poteva evitare questa battuta», commenta Oscar Farinetti in un’intervista a “Radio Capital”: «Salvini ha rivelato un sentimento umano di base, che si può mettere sotto la parola ‘razzismo’. C’è questa nuova forma di razzismo che elimina completamente la pietà». Secondo il fondatore di Eataly, Padre Konrad «ha fatto molto bene, lo ammiro. Manca il sentimento umano della pietà, ormai. In Italia ci sono delle situazioni di povertà, e bisogna intervenire, dare una mano. Secondo me è un gesto importante». Contro la povertà, il governo ha lanciato il reddito di cittadinanza, su cui Farinetti ammette di avere un’opinione positiva: «È chiaro che una roba di questo tipo va fatta. Chiamiamola reddito di cittadinanza o reddito di inclusione, ma in una situazione generale in cui c’è della gente che non ha di che vivere è assolutamente indispensabile che scatti un sentimento umano, e che chi è stato più fortunato nella vita aiuta anche chi ha meno».
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Magaldi: Salvini abbaia ma non morde, proprio come l’Italia
Povera patria, cantava Battiato, ai tempi in cui il radar stava per inquadrare lo sfacelo di Tangentopoli e i rottami delle auto di Falcone e Borsellino, mentre su RaiTre i vari Ghezzi e Guglielmi scavavano tra le macerie civili nella vana speranza di rintracciare qualcosa che potesse somigliare a un umanesimo post-comunista. Nel frattempo – lontano dagli occhi, e dal cuore – l’altra sinistra, quella di potere, si accingeva a svendere segretamente l’Italia, impiccandola al “vincolo esterno” di Maastricht che l’avrebbe ridotta a colonia minore, docile preda dell’asse franco-tedesco. Quasi trent’anni dopo, sostituiti gli attori, il copione ripropone la stessa canzone. Povera patria, e povero Salvini: ridotto a farsi applaudire da un antagonista da salotto come Diego Fusaro per la ridicola crociata contro la cannabis light, dopo aver lisciato il pelo, a Verona, ai cultori dell’archeologia familistica pre-moderna, reazionaria, ottusamente tradizionalista. «Non ne azzecca più una, il leader della Lega». E dove sarebbe la notizia? Perché mai dovrebbero interessarci, le avvisaglie di declino che sfiorano il Capitano? Semplice: perché è stato l’unico, in questi anni, a mettere a fuoco il problema del paese, il vero avversario. Ma il suo attuale smarrimento fotografa alla perfezione la fragilità del sistema-Italia di fronte all’ostacolo – sempre lo stesso – che condanna la penisola alla depressione sociale ed economica.Non si smuove di un millimetro l’impero abusivo di Bruxelles, dominato da lobbisti travestiti da statisti. L’altra notizia è che la situazione sta peggiorando a vista d’occhio. E il governo gialloverde non sa che pesci pigliare, non avendo osato sfidare gli oligarchi tenendo duro almeno sulla richiesta di deficit. Povero Salvini, comunque: tacciato di xenofobia, pur essendo stato l’unico a far eleggere un senatore di origine africana. Lo hanno anche accusato di fascismo per il libro pubblicato dall’editrice vicina a CasaPound, sfrontatamente cacciata dal Salone del Libro di Torino – strano posto, dove si fa la guerra (elettorale) a un’azienda, anziché eventualmente lasciar procedere i magistrati (nel caso, per apologia di fascismo) contro la discutibile sortita verbale, individuale, di uno dei suoi responsabili. E a proposito di Torino: quante volte il Salone dell’Ipocrisia ha ospitato editori e autori dichiaratamente comunisti, quindi teoricamente altrettanto ostili, sulla carta, all’orizzonte culturale e antropologico della democrazia liberale? Ne ha per tutti, Gioele Magaldi, nell’osservare il caos che domina la vigilia delle europee: «Elezioni perfettamente inutili», sostiene il presidente del Movimento Roosevelt, che annuncia che diserterà le urne. Motivo: impossibile sperare in un voto utile. Tutto resterà come prima, nelle mani del neoliberismo di regime incarnato da Ppe e Pse.Da una parte c’è il mostruoso e grottesco Juncker, che – in spregio di qualsiasi etica e decenza democratica – già annuncia che “i populisti” saranno tenuti lontani dai ruoli-chiave, a prescindere dal risultato della consultazione. All’ombra di Juncker siede l’altrettanto imbarazzante Moscovici, il “signor no” del deficit italiano, in conferenza stampa con l’ectoplasmatico Gentiloni, alter ego dell’impalpabile Zingaretti. A loro va bene così: con l’Italia che “subisce ancora”, come Fantozzi, votata – per una assurda maledizione – a non crescere, a restare sottomessa e depressa, a non guarire mai. Ma chi fronteggia l’impostura? In campo ci sono (rumorosamente) soltanto loro, i cosiddetti sovranisti, cioè la pessima compagnia che si è scelto Matteo Salvini: «I primi a opporsi all’Italia quando chiedeva più deficit sono stati proprio Polonia e Ungheria, gli alleati teorici della Lega», fa notare Magaldi, che nel bestseller “Massoni” ha disegnato la mappa segreta del potere mondialista, interamente massonico, che ha progettato questa globalizzazione senza diritti che stiamo tutti scontando, italiani senza lavoro e giovani senza futuro, aziende sull’orlo del fallimento, professionisti costretti a mendicare pagamenti che non arrivano mai.Sovranismo contro globalismo? Falsa dicotomia, checché ne pensi l’ex ideologo grillino Paolo Becchi: non contano le dimensioni del sistema, le sue frontiere, ma le modalità di gestione – democratiche oppure oligarchiche, progressiste o conservatrici (alzi la mano chi vorrebbe vivere nella Corea del Nord, paese teoricamente ultra-sovranista). E il nostro Salvini? S’è perso per strada, prima ancora di cominciare: «Abbaia, ma non morde», dice Magaldi. In questo, ricorda sinistramente l’altro Matteo, il Renzi che – a parole – sembrava sul punto di resuscitare l’Italia, opponendosi agli abusi della subdola tecnocrazia europea. In un attimo, è passato dal 40% agli scantinati della politica, tra gli ex. Potrebbe succedere anche al condottiero leghista: l’imboscata sleale di Di Maio e Conte – decapitare Armando Siri, per offrire una stampella moralistica ai 5 Stelle in pieno panico pre-elettorale – è già costata un 6% di consensi, alla Lega, almeno stando ai sondaggi. Su Siri, Magaldi è indignato: il sottosegretario doveva restare al suo posto, essendo solo indagato. «Salvini doveva difenderlo a oltranza. E invece cosa ha fatto? Al solito: ha abbaiato, minacciando sfracelli, ma poi ha ingoiato il rospo anche stavolta, incassando una sconfitta bruciante». Un guerriero di latta, il cui consenso si sta mostrando pericolosamente effimero e friabile.«Salvini sa benissimo che è Bruxelles, che dovrebbe mordere, e non i negozi di cannabis terapeutica: queste battaglie tragicomiche le lasci a Fusaro, e spenda meglio il suo tempo. Pensi all’Italia, alla crisi che sta azzannando il paese». Già, la grande crisi che tutti fingono di non vedere. Fino a ieri, se non altro, Salvini la indicava senza ipocrisie: è riuscito a piazzare al Senato un economista keynesiano come Alberto Bagnai. Dopodiché, nebbia in Val Padana. «Oltre ad aver ceduto di fronte al diktat di Bruxelles sul deficit, che avrebbe fatto crescere il Pil riducendo l’incidenza del debito – argomenta Magaldi – il governo gialloverde non ha neppure preso in considerazione la proposta che l’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, avanza da anni: creare moneta parallela, non a debito e perfettamente ammessa dal Trattato di Lisbona, per aggirare la scarsità artificiosa di liquidità che affligge l’Eurozona e creare quei posti di lavoro di cui l’Italia ha drammaticamente bisogno».Infrastrutture strategiche, servizi, welfare, sicurezza del territorio. Servono soldi, che però l’élite neo-feudale non vuole che si spendano: la fine della crisi sarebbe anche la fine dell’attuale potere oligarchico, basato sulla precarizzazione del lavoro. Il piano avanza da anni, implacabile: tagliare i viveri allo Stato per costringerlo ad alzare le tasse, comprimere i salari e colpire i consumi. Amputare il welfare significa spremere il paese, spingendolo a erodere i risparmi. Il cielo si chiude: rassegnazione. Meno opportunità, meno diritti. Le elezioni? Non contano: lo dice Juncker, spettrale tecnocrate al quale Fabio Fazio, sulla Rai, stende il tappeto rosso. Se la ride, l’oligarca del Lussemburgo (rinomato paradiso fiscale, per decenni), già sapendo che l’alleanza di piombo tra popolari e socialisti europei ridurrà le elezioni del 26 maggio a una lugubre barzelletta. Ci vuole ben altro, per rovesciare questi cialtroni: un programma rivoluzionario, radicale, che smonti le loro menzogne travestite da scienza economica e vendute al popolo bue come dogma di fede. Salvini, almeno lui, lo sa benissimo. Ed è per questo che è imperdonabile, oggi, il suo ostinarsi ad abbaiare – contro falsi obiettivi – senza mai decidersi a mordere davvero.(Il pensiero di Magaldi è sintetizzato in due interventi su YouTube, l’11 maggio in video-chat con Marco Moiso, vicepresidente del Movimento Roosevelt, e il 13 maggio con Fabio Frabetti, conduttore di “Border Nights”. Dopo il recente convegno di Londra sul New Deal rooseveltiano di cui avrebbe bisogno l’Europa, i temi esposti da Magaldi – come risolvere la crisi italiana, affrontando finalmente l’oligarchia di Bruxelles – saranno alla base dell’assemblea che il 14 luglio, a Roma, darà vita al “Partito che serve all’Italia”, laboratorio politico che si candida a smascherare le ipocrisie e la mancanza di coraggio della politica italiana di fronte alle reali cause del malessere del paese).Povera patria, cantava Battiato, ai tempi in cui il radar stava per inquadrare lo sfacelo di Tangentopoli e i rottami delle auto di Falcone e Borsellino, mentre su RaiTre i vari Ghezzi e Guglielmi scavavano tra le macerie civili nella vana speranza di rintracciare qualcosa che potesse somigliare a un umanesimo post-comunista. Nel frattempo – lontano dagli occhi, e dal cuore – l’altra sinistra, quella di potere, si accingeva a svendere segretamente l’Italia, impiccandola al “vincolo esterno” di Maastricht che l’avrebbe ridotta a colonia minore, docile preda dell’asse franco-tedesco. Quasi trent’anni dopo, sostituiti gli attori, il copione ripropone la stessa canzone. Povera patria, e povero Salvini: ridotto a farsi applaudire da un antagonista da salotto come Diego Fusaro per la ridicola crociata contro la cannabis light, dopo aver lisciato il pelo, a Verona, ai cultori dell’archeologia familistica pre-moderna, reazionaria, ottusamente tradizionalista. «Non ne azzecca più una, il leader della Lega». E dove sarebbe la notizia? Perché mai dovrebbero interessarci, le avvisaglie di declino che sfiorano il Capitano? Semplice: perché è stato l’unico, in questi anni, a mettere a fuoco il problema del paese, il vero avversario. Ma il suo attuale smarrimento fotografa alla perfezione la fragilità del sistema-Italia di fronte all’ostacolo – sempre lo stesso – che condanna la penisola alla depressione sociale ed economica.
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Sapelli: i giudici, Conte e gli omini-Lego comandati da fuori
«Perché a volte abbiamo la sensazione che chi comanda nel governo è Salvini?». «Se all’esterno o a voi stranieri richiama di più l’attenzione il ruolo o l’immagine di Salvini, che ha una grande capacità comunicativa, e credete che nel governo comandi lui, è una vostra illusione ottica. Alla guida del governo ci sono io. E Salvini, come Di Maio, è vicepresidente e leader di una delle due forze politiche». Giuseppe Conte ha risposto così alla domanda di “El País”. Chi comanda politicamente in Italia? Sì, politicamente e basta. Perché la grande innovazione dei sistemi poliarchici con alto gradiente di classi politiche eterodirette, com’è nel caso italico, è quella di autonomizzare sempre più fortemente le classi politiche medesime dalla società civile hegelianamente intesa. Per Hegel – e per Ferguson – la società civile costituisce lo spazio sociale di formazione della proprietà di qualsivoglia forma e dei mercati. Le classi politiche tradizionalmente intese mantenevano e mantengono con la società civile un rapporto costante, che è l’essenza del sistema poliarchico costruito dalle volizioni elettorali che si compongono in un parallelogramma di forze con la logica delle lobby e dei soft power che promanano dalla società civile.La politica economica ordoliberista (Fiscal Compact, deflazione, pilota automatico, debito come peccato irredimibile, distruzione dello Stato sociale) disgrega la società civile ed esalta il ruolo dell’eterodirezione delle classi politiche in qualche modo sempre presente in qualsivoglia sistema politico. La specificità italiana risiede nella frantumazione e debolezza della società civile, colpita dalla bassa dimensione dell’impresa in forma dominante e quindi con scarsissima capacità lobbistica, che tracima nell’aumento di potere delle classi politiche. Ma esse, le classi politiche, non hanno più potere proprio. Donde lo traggono, allora, se vogliono preformare in modo compulsivo, tramite la macchina parlamentare, la società secondo i loro fini? Non lo traggono solo dall’eterodirezione internazionale, com’è tipico del movimento pentastellato, ma altresì dalle vertebre statali rimaste attive.Nel caso italico, se si escludono le forze armate e i servizi segreti (tra i migliori al mondo e per questo estranei al gioco politico), l’unico potere vertebrato è quello giurisprudenziale, sempre più manifesto e attivo, soprattutto in prossimità delle prove elettorali. Pizzorno fu buon profeta, preconizzando lo strapotere compulsivo della magistratura come elemento attivo del parallelogramma delle forze poliarchiche. Accanto a esso vige il soft power internazionale. Nel governo italiano vi è a riguardo uno sbilanciamento delle forze. Il ruolo anglo-cinese è fortissimo e minaccia lo stesso profilo atlantico, che deve essere invece proprio del nostro storico interesse prevalente. Per questo l’intervista del premier Conte a “El País” è disarmante nella sua chiarezza. Esprime non il ruolo dominante di un mediatore, ma il certificato dello sbilanciamento del parallelogramma delle forze di ciò che rimane della società civile e il nuovo profilo delle forze politiche prevalentemente eterodirette. Ciò che rimane della società civile, ossia il lavoro dipendente e soprattutto le imprese piccole e medie, è sempre più escluso dall’azione di governo.Del resto, una classe politica peristaltica senza base sociale, ma con segmenti di relazione elettronica istantanea e volatile e molto limitata numericamente nei processi selettivi, non può condurre a termine nessun processo decisionale complesso. I gradi di libertà che questo segmento della classe politica eterodiretta una volta eletta detiene in misura rilevante (e questo è il dato democratico liberale che ancora pervade questo nuovo sistema del comando sociale italico) alimentano la fibrillazione continua di ciò che rimane del potere: nulla infatti si decide. L’altro segmento delle classi politiche con gradienti di eterodirezione assai minori, tanto al governo quanto all’opposizione, si trova incapace di esprimere un potere condizionante dinanzi all’attivismo eterodiretto. La follia shakespeariana domina così le italiche terre che son tornate al tempo dei goti, visigoti e longobardi. Dove sono i Boezio?«Perché a volte abbiamo la sensazione che chi comanda nel governo è Salvini?». «Se all’esterno o a voi stranieri richiama di più l’attenzione il ruolo o l’immagine di Salvini, che ha una grande capacità comunicativa, e credete che nel governo comandi lui, è una vostra illusione ottica. Alla guida del governo ci sono io. E Salvini, come Di Maio, è vicepresidente e leader di una delle due forze politiche». Giuseppe Conte ha risposto così alla domanda di “El País”. Chi comanda politicamente in Italia? Sì, politicamente e basta. Perché la grande innovazione dei sistemi poliarchici con alto gradiente di classi politiche eterodirette, com’è nel caso italico, è quella di autonomizzare sempre più fortemente le classi politiche medesime dalla società civile hegelianamente intesa. Per Hegel – e per Ferguson – la società civile costituisce lo spazio sociale di formazione della proprietà di qualsivoglia forma e dei mercati. Le classi politiche tradizionalmente intese mantenevano e mantengono con la società civile un rapporto costante, che è l’essenza del sistema poliarchico costruito dalle volizioni elettorali che si compongono in un parallelogramma di forze con la logica delle lobby e dei soft power che promanano dalla società civile.
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Soldi a tutti, e meno ore di lavoro: abolire i poveri conviene
Soldi gratis per tutti e (molto) più tempo libero. Perché garantire a ogni cittadino un reddito di base conviene: riduce la criminalità, la mortalità infantile e la dispersione scolastica, e favorisce la crescita e l’uguaglianza di genere. E ridurre la settimana lavorativa a 15 ore aumenta la produttività, aumenta i posti part time, riduce le emissioni di CO2 e favorisce l’emancipazione femminile. E’ la “Utopia per realisti” (uscito in Italia per Feltrinelli) di Rutger Bregman, trentenne storico olandese con interessi che spaziano dalla filosofia all’economia, salito agli onori delle cronache per un provocatorio discorso contro l’evasione e l’elusione fiscale tenuto in gennaio ai partecipanti all’ultimo Forum economico di Davos. «Nessuno solleva l’argomento che i ricchi non pagano la loro parte, quella che è giusto che paghino», ha scandito Bregman – che il mensile “Fq Millennium” aveva intervistato nel novembre 2017 – davanti alla platea di milionari riuniti in Svizzera. «Mi sento come a una conferenza di pompieri in cui non è permesso parlare dell’acqua. Tasse, tasse, tasse. Tutto il resto sono stronzate».Il punto di partenza del libro è che questa nuova utopia è utile e necessaria in un mondo in cui «tanti pensatori e politici di sinistra tentano di mettere a tacere le idee radicali tra le proprie fila per la paura di perdere voti», mentre «i neoliberisti sono imbattibili nel gioco in cui contano la ragione, i giudizi e le statistiche». Ma è proprio con una grande mole di numeri e statistiche che Bregman spiega come la lotta contro la povertà sia «un investimento che ripaga con gli interessi», e come distribuire denaro senza un eccesso di cavilli burocratici sia il modo migliore per condurla. Soldi gratis, dunque, «non come favore ma come diritto»: quella che Bregman definisce «la via capitalista al comunismo». Secondo l’economista Charles Kenny, dello statunitense Center for Global Development, «il principale motivo per cui la gente è povera è perché non ha abbastanza soldi, perciò non dovrebbe essere una grossa sorpresa vedere che dargli dei soldi è un modo fantastico per ridurre il problema».E Bregman elenca una serie di casi in cui le elargizioni di soldi senza contropartite hanno funzionato nel migliorare le condizioni di vita della popolazione nei paesi in via di sviluppo – dal Malawi alla Namibia – o di gruppi sociali a rischio come gli homeless: esperimenti condotti nei Paesi Bassi e in Utah mostrano per esempio che fornire case gratis, oltre a togliere le persone dalla strada, riduce notevolmente l’incidenza di alcolismo e abuso di droga, e nel complesso costa molto meno che garantire assistenza agli homeless e sostenere i costi giudiziari legati ai piccoli crimini che commettono per sopravvivere. Ma gli esperimenti di redditi di base hanno funzionato bene, pur su piccola scala, anche quando applicati a piccole comunità locali, come avvenuto a fine anni ‘60 negli Usa durante la presidenza di Lyndon B. Johnson e in Canada negli anni ‘70 con il Mincome. «Greg J. Duncan, professore della University of California, ha calcolato che sottrarre una famiglia americana alla povertà costa una media di circa 4.500 dollari all’anno», nota Bregman. «Alla fine, i rientri di questo investimento per bambino sarebbero: +12,5 per cento di ore lavorate, +3.000 dollari di risparmio annuale come welfare, +50mila-100mila dollari di maggiori guadagni nella vita, +10mila-20mila dollari di introiti fiscali statali aggiuntivi».Questo perché la povertà, ponendo continue sfide immediate da affrontare, riduce quella che gli psicologi hanno definito “larghezza di banda mentale”, arrivando addirittura a influenzare negativamente il quoziente intellettivo misurato dai test. Nel 1969, racconta Bregman, il presidente Usa Richard Nixon era stato in procinto di varare il reddito senza contropartite per tutte le famiglie povere. Ma alcuni suoi consiglieri fecero strenua opposizione, fino a consegnargli un documento sugli esiti estremamente negativi del sistema Speenhamland, risalente ai primi anni dell’Ottocento inglese, che consisteva nell’incremento fino al livello di sussistenza dei redditi di «tutti gli uomini poveri e industriosi e loro famiglie». Documento che in seguito si rivelò però manipolato fin dall’origine, per “sabotare” il reddito di base. Ora, secondo l’autore, «l’ora è arrivata» per garantire a tutti «una rendita mensile sufficiente per campare, anche se non muovi un dito», senza «nessun ispettore che ti controlla da dietro per vedere se li spendi saggiamente, nessuno che ti chiede se sono davvero meritati».Gli altri due pilastri della “utopia per realisti” riguardano il lavoro. Il primo è la riduzione degli orari, che l’economista John Maynard Keynes riteneva una conseguenza inevitabile del progresso ma al contrario non si è mai materializzata, nonostante in molti casi si sia toccato con mano che la produttività non va di pari passo con l’aumento delle ore lavorate, anzi. Il secondo è un meccanismo di incentivi che renda meno attraenti quelli che Bregman definisce “lavori burla”, attività ben pagate che però non forniscono contributi tangibili alla società o addirittura distruggono ricchezza anziché crearla (l’esempio del libro sono i banchieri, che concepiscono «complessi prodotti finanziari che sono, in pratica, una tassa sul resto della popolazione»). L’idea è quella di una tassa sulle transazioni finanziarie che, oltre a generare gettito da utilizzare per investimenti utili alla società, motiverebbe le menti più brillanti a dedicarsi alla ricerca, all’insegnamento o all’ingegneria invece che preferire una carriera nelle banche di investimento. Idee irrealizzabili? «Definirle “irrealistiche” era una semplice scorciatoia per intendere che collidevano con lo status quo», è la risposta di Bregman. «La fine dello schiavismo, l’emancipazione delle donne, l’avvento della previdenza sociale erano tutte idee progressiste nate folli e “irrazionali” ma alla fine accettate come cose di comune buon senso».(Chiara Brusini, “Reddito di base e 15 ore di lavoro alla settimana”, l’utopia dello storico che ha detto ai ricchi di Davos di pagare le tasse”, dal “Fatto Quotidiano” dell’11 maggio 2019. Il libro: Rutger Bregman, “Utopia per realisti”, Feltrinelli, 251 pagine, 18 euro).Soldi gratis per tutti e (molto) più tempo libero. Perché garantire a ogni cittadino un reddito di base conviene: riduce la criminalità, la mortalità infantile e la dispersione scolastica, e favorisce la crescita e l’uguaglianza di genere. E ridurre la settimana lavorativa a 15 ore aumenta la produttività, aumenta i posti part time, riduce le emissioni di CO2 e favorisce l’emancipazione femminile. E’ la “Utopia per realisti” (uscito in Italia per Feltrinelli) di Rutger Bregman, trentenne storico olandese con interessi che spaziano dalla filosofia all’economia, salito agli onori delle cronache per un provocatorio discorso contro l’evasione e l’elusione fiscale tenuto in gennaio ai partecipanti all’ultimo Forum economico di Davos. «Nessuno solleva l’argomento che i ricchi non pagano la loro parte, quella che è giusto che paghino», ha scandito Bregman – che il mensile “Fq Millennium” aveva intervistato nel novembre 2017 – davanti alla platea di milionari riuniti in Svizzera. «Mi sento come a una conferenza di pompieri in cui non è permesso parlare dell’acqua. Tasse, tasse, tasse. Tutto il resto sono stronzate».
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Se i grillini capissero quale infamia è stata inflitta a Siri
Gli operatori politici devono tener conto essenzialmente dei loro interessi e della realtà. L’interesse dei capi grillini (le cui mosse in economia sono state molto dannose) è di portare la competizione con la Lega sul piano bella moralità politica e della giustizia per farsi più forti e più belli agli occhi del loro elettorato attuale e potenziale. La realtà di cui tener conto è che l’elettorato, soprattutto quello di riferimento del Movimento 5 Stelle, è sprovveduto ed emotivo, assetato di colpevoli cui imputare un malandare le cui cause vere non può capire. L’operazione ha fatto risalire il Movimento nei sondaggi, e scendere la Lega. Realisticamente, nell’interesse del suo partito, Siri forse si doveva dimettere subito, proprio per tenere conto dei limiti cognitivi ed emotivi della base popolare, la quale, vivendo mentalmente in un mondo immaginario, non vede le ragioni per cui Siri dovrebbe, al contrario, nell’interesse di tutti e della legalità costituzionale (sempre che non vi siano ragioni ulteriori in senso contrario rispetto a quelle rese note sinora) restare al suo posto.Le ragioni sono le seguenti. In primo luogo, Siri, ad oggi non è accusato ma solo indagato; il pubblico ministero non ha ancora esercitato l’azione penale, il giudice delle indagini preliminari non lo ha ancora rinviato a giudizio, e forse verrà addirittura disposta l’archiviazione della sua posizione. Nessun personaggio istituzionale è stato finora rimosso in una tale situazione. In secondo luogo, anche se fosse già imputato, dovrebbe applicarsi la presunzione di non colpevolezza, perché essa è un principio di civiltà giuridica irrinunciabile. In terzo luogo e in generale, il sistema giudiziario italiano non è affidabile perché è tra i meno efficienti al mondo, a livello dell’Africa nera. In quarto luogo, notoriamente il potere giudiziario è in parte politicizzato e non di rado viene strumentalizzato per la lotta partitica soprattutto nell’approssimarsi di elezioni.In quinto luogo, se si dà al pm (che talora agisce per scopi politici) il potere di causare le dimissioni degli eletti dal popolo, si sovverte il principio democratico, subordinandolo alle decisioni insindacabili di un soggetto che non è nemmeno responsabile delle sue azioni, oltre a non avere mandato elettorale. Ciò è peggio di qualsiasi cosa dal punto di vista costituzionale, è peggio persino dal lasciare in una carica istituzionale un personaggio che sia stato definitivamente condannato: è peggio perché è sovversivo del principio fondamentale della democrazia. Se l’elettorato grillino capisse questa cosa elementare, se capisse quindi il carattere illegale e la portata profondamente eversiva della rimozione di Siri, si rivolterebbe contro Giggino ed esigerebbe le dimissioni di Conte, che ha deciso e firmato quella rimozione, assumendosene la responsabilità politica.Quanto sopra vale per i processi in generale, mentre per il caso di Siri in particolare dobbiamo considerare i due procedimenti penali che lo interessano. Il primo è quello in cui ha patteggiato una pena per l’accusa di bancarotta fraudolenta. Il patteggiamento non è una valida ragione perché si dimetta. Infatti, in primo luogo, il patteggiamento non è un’ammissione o un accertamento di reato. In secondo luogo, il motivo per cui Siri ha patteggiato potrebbe essere che, di fatto, i processi per bancarotta fraudolenta in Italia spesso vengono gestiti in modo illegale, ossia ti accusano e ti condannano anche in assenza della prova che tu abbia commesso una distrazione patrimoniale o un qualsiasi altro fatto specifico. Oppure, nei casi in cui vi sono più amministratori della impresa fallita, succede che spesso vengono condannati tutti e senza andare a vedere chi abbia fatto che cosa, applicando una sorta di responsabilità oggettiva-collettiva, e spesso in assenza di prove delle responsabilità personali e dei fatti specifici, in totale violazione del principio di personalità della responsabilità penale, dell’onere della prova e della presunzione di non colpevolezza. Può darsi che Siri fosse innocente e abbia patteggiato per evitare di subire cose simili.L’altro procedimento penale che interessa Siri, quello ancora in fase di indagini preliminari e riguardante supposti rapporti con la criminalità organizzata, ancor meno dovrebbe essere considerato come necessitante le sue dimissioni. Infatti, in primo luogo, la mafia in Italia è stata portata dentro le istituzioni dagli americani durante l’invasione dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, come ricostruiscono numerosi studi storici, e da allora essa fa parte istituzionalmente dello Stato italiano: ci piaccia o no, lo Stato italiano è uno Stato-mafia (come altri). Anzi, da allora le varie mafie, camorre, ‘ndranghete hanno aumentato gradualmente il loro potere economico e politico, il loro controllo sul territorio e su buona parte dei collegi elettorali del Meridione, sì che governare senza un accordo con esse (a livello locale come a Roma) è impossibile; e la pretesa che i governi italiani combattano la criminalità organizzata – quella grande e non quella minore, quella che taglieggia i bottegai o spaccia per strada – è assurda oggettivamente anche se creduta popolarmente e vendibile alle masse elettorali.Ancor più importante: molti studi economici e sociologici evidenziano come, su scala mondiale, la criminalità organizzata è divenuta estremamente potente sul piano politico e addirittura possa soppiantare i governi, girando somme enormi riveniente da traffici illeciti (droga, armi, riciclaggi). Su questa enorme liquidità, che per il 60% circa si ricicla nelle banche statunitensi, si regge la stabilità di interi sistemi bancari del “mondo libero”. In conclusione, lo scandalizzarsi per (l’ipotesi di) contatti tra qualche personaggio politico o istituzionale e ambienti affaristici della criminalità organizzata, è pura ipocrisia o grave ingenuità. Peraltro, via via che si fanno istituzionali, le mafie, pur conservando il loro scopo di profitto e controllo politico, modificano i loro metodi e diventano per così dire civili. La mafia burocratica, la mafia ministeriale, la mafia legislativa, la mafia giudiziaria assomiglia ben poco alla mafia dagli stereotipi, alla mafia della coppola e della lupara; è una mafia in doppiopetto, felpata, che spende molto per legittimarsi e uccide moderatamente, che controlla i mass media, che modella l’opinione pubblica e la sua percezione del mondo, che in sostanza si è assimilata alla gestione normale del potere politico e al suo stile usuale (salvo mantenere modalità vetero-mafiose in campi come l’esazione fiscale nostrana).In fondo, l’organizzazione criminale di tipo mafioso altro non è che una forma molto efficiente, e pertanto vincente, di organizzazione e gestione di interesse e potere. Per questo si afferma e dilaga e soppianta altre istituzioni e controlla i cartelli delle materie prime, dell’informazione, e soprattutto del credito, della moneta, del rating. È una realtà pragmatica, che è errato inquadrare e giudicare limitativamente con categorie giuridiche, morali e emotive, per quanto essa possa essere ripugnante emotivamente e moralmente. Nella sua auto-narrazione, il sistema si professa come fondato su precisi principi: la trasparenza e sincerità, la conformità a etica e legge, la democraticità dell’azione politico-istituzionale. Ma questi principi sono solo la verniciatura della realtà, la quale funziona in modo completamente indipendente da essi. Essi hanno a che fare con la realtà solo nel senso che sbandierarli serve a nasconderla.La violazione delle regole legali e dei principi morali, assieme all’inganno, è funzionale e indispensabile per il profitto e per il potere. Però, nella narrazione per il popolo, il malandare delle cose e le ingiustizie non possono essere attribuiti a questa realtà, perché si disturberebbe il consenso, bensì a capri espiatori (gli ebrei, i comunisti, i fascisti, il nemico di classe, gli infedeli, etc.). Ogni sistema di potere completa la sua propria auto-narrazione aprendo, al proprio interno, uno spazio di dialettica consentita, onde ciascuno possa trovare il colpevole per lui più verosimile per le ingiustizie e per il malandare (il liberismo, il socialismo, l’Europa, gli euroscettici, etc.) e possa aderire a un partito che promette di risolvere i mali sconfiggendo quel colpevole. In questo modo, si produce e mantiene il consenso popolare, detto democrazia.(Marco Della Luna, “Il sacrificio democratico di Siri”, dal blog di Della Luna del 10 maggio 2019).Gli operatori politici devono tener conto essenzialmente dei loro interessi e della realtà. L’interesse dei capi grillini (le cui mosse in economia sono state molto dannose) è di portare la competizione con la Lega sul piano bella moralità politica e della giustizia per farsi più forti e più belli agli occhi del loro elettorato attuale e potenziale. La realtà di cui tener conto è che l’elettorato, soprattutto quello di riferimento del Movimento 5 Stelle, è sprovveduto ed emotivo, assetato di colpevoli cui imputare un malandare le cui cause vere non può capire. L’operazione ha fatto risalire il Movimento nei sondaggi, e scendere la Lega. Realisticamente, nell’interesse del suo partito, Siri forse si doveva dimettere subito, proprio per tenere conto dei limiti cognitivi ed emotivi della base popolare, la quale, vivendo mentalmente in un mondo immaginario, non vede le ragioni per cui Siri dovrebbe, al contrario, nell’interesse di tutti e della legalità costituzionale (sempre che non vi siano ragioni ulteriori in senso contrario rispetto a quelle rese note sinora) restare al suo posto.
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Magaldi oscurato su Facebook: “Spieghino, o li denuncio”
Gioele Magaldi oscurato da Facebook: «Da qualche giorno non posso più accedere alla mia pagina, da cui peraltro sono spariti tutti i contenuti. Nel caso ci fosse del dolo, a Facebook farò una causa coi fiocchi», avverte il presidente del Movimento Roosevelt, in web-streaming su YouTube il 13 maggio con Fabio Frabetti di “Border Nigths”. E aggiunge: «Mi auguro che sia solo un problema tecnico momentaneo, perché i miei contenuti (politico-culturali) non sono certo considerabili “inappropriati”, da Facebook». Magaldi è un personaggio pubblico piuttosto noto. «Anche nel caso si trattasse solo di un inconveniente – dice – resta comunque il danno: lo conferma una sentenza del tribunale di Pordenone, che – come ricorda l’Associazione Forense Emilio Conte – il 10 dicembre 2018 ha condannato Facebook a ripristinare il profilo di un utente arbitrariamente chiuso, infliggendo anche il pagamento di una penalità per ogni giorno di ritardo». Magaldi è perfettamente consapevole dell’occhiuta “sorveglianza” di Facebook alla vigilia delle elezioni europee: il social network ha appena chiuso 23 pagine italiane, con 2,4 milioni di follower, accusate di diffondere “fake news”.
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Torino, il Salone della Censura anticipa il governo Pd-M5S?
Torino, la città più inquinata d’Italia – aria irrespirabile – ha una sinistra caratteristica: da decenni tende a sottrarre, anziché aggiungere. Comicamente, Juventus City cadde ai piedi di Sergio Marchionne: bagno di folla per il lancio della nuova Cinquecento, gioiellino-simbolo del manager che avrebbe trasferito a Detroit e nel resto del mondo quel che rimaneva della Fiat, svuotando Mirafiori. L’ex sindaco Sergio Chiamparino, poi presidente della potentissima Compagnia di San Paolo e ora governatore del Piemonte, ha riempito le piazze del capoluogo con le gloriose “madamine”, che invocano posti di lavoro fingendo di credere alla panzana siderale della linea Tav Torino-Lione. La città che in trent’anni – successi della Juve a parte – ha fatto sorridere il paese solo per la pronuncia televisiva di Luciana Littizzetto (e di Piero Chiambretti, per fortuna) generalmente riesce a fare notizia così, con i manifestanti NoTav aggrediti e malmenati al corteo del Primo Maggio. E con vicende fantozziane e imbarazzanti come la censura “antifascista” imposta all’editrice Altaforte al Salone del Libro, stanca kermesse editoriale che celebra la finta rinascita, mai davvero avvenuta, dell’ex capitale industriale e sindacale.Torino è sempre tristemente bella, misteriosamente inerte, lievemente depressiva. Ha inanellato un piccolo record italiano di sciagure altamente evocative, dalla tragedia del Grande Torino al rogo del cinema Statuto, fino alla carneficina in piazza San Carlo scatenata dal panico tra la folla che assisteva, dal maxischermo, a una partita della squadra bianconera (ancora lei). A due passi dall’ex cinema, nell’omonima piazza, torreggia il lugubre monumento che commemora i lavoratori caduti nell’800 al cantiere del Traforo del Fréjus voluto da Cavour. Il Fréjus esiste ancora, ci passa il velocissimo Tgv francese sulla linea valsusina Torino-Modane, ma forse i torinesi se ne dimenticano. Non sanno che esiste già, una Torino-Lione, e che l’Italia ha appena speso quasi mezzo miliardo di euro per ammodernare quel traforo, rendendolo perfettamente adatto al transito dei treni con a bordo i Tir e i grandi container navali? Dove hanno la testa, i torinesi, quando si lasciano trasformare in docile gregge (sotto la guida carismatica delle “madamine” di Chiamparino) da chi ha tutta l’aria di volersi aggrappare, come un parassita senza speranza, al miraggio miliardario dell’inutile ferrovia-doppione in valle di Susa? E’ lontanamente immaginabile che qualcosa del genere possa accadere nella vicinissima Milano, che dopo l’Expo è balzata al secondo posto (dietro a Roma) tra le mete turistiche italiane?A illuminare indirettamente il male oscuro di Torino ha provveduto, di recente, un giornalista di razza come Gigi Moncalvo, autore di saggi esplosivi (“Agnelli segreti” e “I lupi e gli agnelli”) subito spariti, misteriosamente, dalle librerie. In due diverse puntate della trasmissione web-radio “Forme d’Onda”, una sugli Agnelli e l’altra sui Caracciolo, Moncalvo si domanda come sia possibile che la grande stampa italiana ignori completamente le notizie-bomba che provengono dalla collina torinese, dove gli eredi dell’Avvocato si lacerano in guerre all’ultimo sangue per contendersi il tesoro dell’ex patron della Fiat: miliardi di euro “riparati” all’estero, lontano dal fisco italiano (nonostante i fiumi di denaro statale concessi per la cassa integrazione). C’è anche il forziere – 9 miliardi in lingotti d’oro – custodito nel blindatissimo Freeport di Ginevra, insieme ai “risparmi” – dice sempre Moncalvo – dei migliori galantuomini del pianeta, narcos sudamericani e oligarchi russi. Possibile che nessuno ne parli? Ebbene sì: solo in Italia il kolossal tratto dal romanzo “The silence of the lambs” uscì col titolo taroccato (il silenzio degli innocenti, anziché degli agnelli) per un riflesso di autocensura preventiva, nel timore che la parola proibita – agnelli – potesse turbare la quiete sabauda della real casa.E se ora Torino fa notizia come sempre, cioè con qualcosa di sgradevole (il conformismo da parata, in salsa “antifascista”, per mettere al bando un editore che lo Stato considera perfettamente legale), c’è chi si mette addirittura in sospetto: vuoi vedere che dietro la manfrina anti-Salvini, inscenata da Chiamparino in tandem con la sindachessa pentastellata Chiara Appendino, si nascondono i prodromi della prossima, possibile manovra di palazzo per “sposare” i 5 Stelle con l’incolore Pd di Zingaretti? Non che ne manchino le premesse, dopo le entrate a gamba tesa di Roberto Fico sui migranti, l’allineamento di Giulia Grillo sul decreto Lorenzin (obbligo vaccinale), quindi la genuflessione di Di Maio alla Merkel e, soprattutto, la clamorosa cacciata di Armando Siri dal governo Conte. In compenso, Salvini – nel mirino – risponde da par suo, aprendo la più tragicomica caccia alle streghe della storia, quella contro i negozi di cannabis “light”. Con buona pace delle speranze dell’Italia gialloverde, morte e sepolte dopo la resa a Bruxelles. Nel 2008, Veltroni scelse proprio Torino per lanciare il formidabile Pd, il partito che avrebbe sorretto il governo Monti e varato la legge Fornero e il pareggio di bilancio in Costituzione. Sarà ancora l’ambigua e depressa Torino, capitale della censura, a inaugurare l’ennesima non-svolta concepita per consegnare il paese all’orizzonte dell’austerity eterna?(Giorgio Cattaneo, “Fatale Torino, capitale della censura: il bavaglio a CasaPound (contro Salvini) prepara un’intesa di governo tra Pd e 5 Stelle?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 12 maggio 2019).Torino, la città più inquinata d’Italia – aria irrespirabile – ha una sinistra caratteristica: da decenni tende a sottrarre, anziché aggiungere. Comicamente, Juventus City cadde ai piedi di Sergio Marchionne: bagno di folla per il lancio della nuova Cinquecento, gioiellino-simbolo del manager che avrebbe trasferito a Detroit e nel resto del mondo quel che rimaneva della Fiat, svuotando Mirafiori. L’ex sindaco Sergio Chiamparino, poi presidente della potentissima Compagnia di San Paolo e ora governatore del Piemonte, ha riempito le piazze del capoluogo con le gloriose “madamine”, che invocano posti di lavoro fingendo di credere alla panzana siderale della linea Tav Torino-Lione. La città che in trent’anni – successi della Juve a parte – ha fatto sorridere il paese solo per la pronuncia televisiva di Luciana Littizzetto (e di Piero Chiambretti, per fortuna) generalmente riesce a fare notizia così, con i manifestanti NoTav aggrediti e malmenati al corteo del Primo Maggio. E con vicende fantozziane e imbarazzanti come la censura “antifascista” imposta all’editrice Altaforte al Salone del Libro, stanca kermesse editoriale che celebra la finta rinascita, mai davvero avvenuta, dell’ex capitale industriale e sindacale.
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Le sanzioni Usa hanno ucciso 40.000 persone in Venezuela
Potrebbe ammontare a 40.000 il numero delle persone morte in Venezuela a causa delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti, che hanno reso più difficile per la gente comune avere accesso al cibo, ai medicinali e alle apparecchiature mediche, secondo quanto descritto da un nuovo report. Il rapporto, pubblicato dal Centre for Economic and Policy Research (Cepr), un centro studi di ispirazione progressista con sede a Washington, sostiene che queste morti sarebbero avvenute in seguito all’imposizione delle sanzioni a partire dall’estate del 2017. Sostiene inoltre che la situazione è probabilmente peggiorata con l’imposizione di ulteriori e più dure sanzioni all’inizio di quest’anno, sanzioni che hanno colpito l’industria del petrolio, di vitale importanza per il Venezuela, e che rappresentano parte dello sforzo compiuto dall’amministrazione Trump per cacciare il presidente Nicolas Maduro. «Le sanzioni stanno privando i venezuelani di medicinali salvavita, apparecchiature mediche, cibo e altri beni di importazione essenziali», dice il report firmato da Jeffrey Sachs, noto economista della Columbia University, e Mark Weisbrot. «Questo è illegale sia secondo le leggi statunitensi sia secondo quelle internazionali, ed è illegale in base ai trattati firmati dagli stessi Usa. Il Congresso dovrebbe decidersi a fermare tutto questo».Gli autori del report basano le loro stime sui dati relativi all’aumento della mortalità secondo l’indagine nazionale venezuelana sulle condizioni di vita, nota con la sigla “Encovi”. L’indagine sulle condizioni di vita viene condotta annualmente da tre diverse università del Venezuela. Da questa indagine si evince un aumento del 31% nella mortalità generale tra il 2017 e il 2018, con un totale di oltre 40.000 morti in più. Weisbrot, co-fondatore del Cepr, ha detto all’“Independent” che gli autori non possono dimostrare direttamente che queste morti “in eccesso” siano la conseguenza delle sanzioni. Tuttavia afferma che questo aumento è stato parallelo all’imposizione delle sanzioni e al crollo della produzione di petrolio, che da decenni è un pilastro dell’economia venezuelana. «Non è possibile dimostrare uno scenario controfattuale», dice Weisbrot, «però queste morti in eccesso nel periodo considerato non hanno nessun’altra spiegazione identificabile». Le sanzioni dell’agosto 2017 hanno impedito al governo venezuelano di prendere denaro in prestito dai mercati finanziari statunitensi, e hanno impedito la ristrutturazione del debito estero, dice il report.«A seguito dell’ordine esecutivo dell’agosto 2017 la produzione di petrolio è crollata, diminuendo di oltre tre volte rispetto al tasso dei venti mesi precedenti», ha aggiunto. «Questo è ciò che ci si può aspettare a seguito della perdita dell’accesso al credito e conseguentemente della possibilità di coprire le spese di manutenzione e le operazioni, e di attuare gli investimenti necessari a mantenere i livelli di produzione. Questo declino accelerato nella produzione di petrolio avrebbe causato una perdita di sei miliardi di dollari nei proventi petroliferi durante l’anno seguente». Il report afferma che dall’inizio dell’imposizione delle nuove sanzioni contro l’industria del petrolio, la situazione si è fatta più difficile per la gente comune. Gli Stati Uniti hanno rapporti tesi col Venezuela da decenni, nonostante il paese sudamericano sia storicamente uno dei maggiori fornitori di greggio. Le relazioni si sono compromesse sempre di più dopo l’elezione di Donald Trump.All’inizio dell’anno Trump ha riconosciuto il leader dell’opposizione Juan Guaidò come legittimo presidente del paese e lo ha sostenuto nel tentativo di formare un governo parallelo. Gli Stati Uniti hanno ammesso che le sanzioni dovevano servire alla cacciata di Maduro, che ha ottenuto un secondo mandato come presidente con le elezioni dello scorso anno, elezioni che però non sono state riconosciute da molti paesi occidentali, nonostante diversi osservatori indipendenti ne abbiano giudicato corretto e legittimo lo svolgimento. I critici del leader venezuelano dicono che Maduro è stato a guardare mentre l’economia crollava e più di tre milioni di persone hanno abbandonato il paese per sfuggire alla mancanza di generi alimentari e al caos. Il governo Maduro è stato accusato di essere sempre più autocratico e di basarsi sulla lealtà politica in cambio di generi di sussistenza e altri beni. Durante un comizio a Miami, in febbraio, Trump ha esortato i vertici dell’esercito venezuelano alla diserzione. «Maduro non è un patriota venezuelano, è un burattino di Cuba», ha detto Trump.Non è la prima volta che viene levata una voce di denuncia sull’impatto umanitario delle sanzioni Usa. In gennaio un report speciale dell’Onu firmato da Idriss Jazairy aveva detto che le sanzioni «possono portare alla fame, alla mancanza di medicinali, e non sono la risposta alla crisi in Venezuela». «La coercizione, sia essa militare o economica, non deve mai essere usata per cercare di cambiare un governo in uno stato sovrano», ha detto. «L’uso delle sanzioni da parte di potenze esterne al fine di rovesciare un governo eletto è una violazione di tutte le norme del diritto internazionale». Nel frattempo Alfred de Zayas, ex relatore speciale dell’Onu, che ha finito il mandato in marzo, ha accusato gli Usa di essersi impegnati in una «guerra economica» contro il Venezuela, che secondo lui ha danneggiato l’economia e ucciso molti venezuelani. Alla richiesta di commentare il report secondo il quale le sanzioni di Washington avrebbero ucciso decine di migliaia di persone, il dipartimento di Stato Usa ha dichiarato che «come gli stessi autori ammettono, il rapporto è basato su speculazioni e congetture».«La situazione economica in Venezuela è in peggioramento da decenni, come gli stessi venezuelani confermano, a causa dell’inettitudine e della cattiva gestione di Maduro. Quest’ultimo assieme ai suoi amici corrotti sono gli unici responsabili delle sofferenze del popolo venezuelano e della fuga di oltre tre milioni di cittadini verso altri paesi, oltre agli innumerevoli morti», ha dichiarato il portavoce del Dipartimento di Stato. «Le nostre sanzioni sono state una risposta alla corruzione, alla cattiva gestione, agli abusi, e stanno servendo a togliere al regime di Maduro i fondi che questo usa per reprimere il popolo del Venezuela». Il report del Cepr afferma che le sanzioni Usa «rispecchiano esattamente la definizione di pena collettiva inflitta a una popolazione civile, così come descritta sia dalla convenzione internazionale di Ginevra che da quella dell’Aia, di cui gli Stati Uniti sono sottoscrittori. Queste sanzioni sono illegali secondo il diritto internazionale».(Andrew Buncombe, “Le sanzioni degli Stati Uniti sul Venezuela responsabili di ‘decine di migliaia’ di morti, sostiene un nuovo rapporto”, da “The Independent” del 26 aprile 2019; articolo tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).Potrebbe ammontare a 40.000 il numero delle persone morte in Venezuela a causa delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti, che hanno reso più difficile per la gente comune avere accesso al cibo, ai medicinali e alle apparecchiature mediche, secondo quanto descritto da un nuovo report. Il rapporto, pubblicato dal Centre for Economic and Policy Research (Cepr), un centro studi di ispirazione progressista con sede a Washington, sostiene che queste morti sarebbero avvenute in seguito all’imposizione delle sanzioni a partire dall’estate del 2017. Sostiene inoltre che la situazione è probabilmente peggiorata con l’imposizione di ulteriori e più dure sanzioni all’inizio di quest’anno, sanzioni che hanno colpito l’industria del petrolio, di vitale importanza per il Venezuela, e che rappresentano parte dello sforzo compiuto dall’amministrazione Trump per cacciare il presidente Nicolas Maduro. «Le sanzioni stanno privando i venezuelani di medicinali salvavita, apparecchiature mediche, cibo e altri beni di importazione essenziali», dice il report firmato da Jeffrey Sachs, noto economista della Columbia University, e Mark Weisbrot. «Questo è illegale sia secondo le leggi statunitensi sia secondo quelle internazionali, ed è illegale in base ai trattati firmati dagli stessi Usa. Il Congresso dovrebbe decidersi a fermare tutto questo».
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Bernays e il golpe mentale che ci ha trasformati in pecore
«L’individuo opera le sue scelte mosso da impulsi irrazionali e incontrollati. E’ compito di una minoranza di persone elette guidarlo “come un gregge di pecore va guidato”». Annoverato dall’autorevole rivista americana “Life” tra i 100 uomini più potenti del XX secolo, acclamato unanimemente come il creatore dell’ingegneria del consenso, Edward Louis Bernays è un nome poco familiare al pubblico europeo. Conosciuto forse a qualche curioso per la sua parentela con il padre della psicoanalisi, lo zio Freud, il giovane Louis assimila velocemente e rielabora brillantemente la teoria della rivoluzionaria conoscenza dell’inconscio. Di estrazione ebraica e borghese, si trasferisce giovanissimo nella New York dei primi del Novecento dove, abbandonata la strada prestabilita della prosecuzione dell’attività paterna, muove i primi passi nel mondo del giornalismo, per affermarsi in una veste di comunicatore del tutto inedita per i tempi. Dopo i fasti registrati dall’industria manifatturiera a servizio della produzione bellica della Prima Guerra Mondiale, gli Stati Uniti si trovano a dover affrontare il più spaventoso degli spettri del mercato: il rischio di sovrapproduzione.Il “brain storming” di illustri banchieri e influenti imprenditori porta a centrare la soluzione in modo deciso e inequivocabile: occorre traghettare il cittadino americano dalla cultura dei bisogni a quella dei desideri, rendendo le persone bramose di soddisfare necessità sempre nuove, gravose come impellenti bisogni. La logica economica, dopo aver asservito l’industria bellica per accrescere la propria produzione, si avvicina così alla neonata scienza della psicoanalisi. Ma come fare a convincere i cittadini a consumare nuovi prodotti non avendo esaurito i vecchi acquistati? Per Bernays, la risposta è semplice: basta «inquadrare l’opinione pubblica così come un esercito inquadra i suoi soldati». Lo zio Sigmund aveva dato luce alla parte oscura che muove il desiderio spinto dall’inconscio: attraverso il meccanismo di compensazione dei desideri, l’individuo sposta l’orizzonte del suo desiderio represso e non ammissibile verso la sfera esterna della materialità per poterlo soddisfare.Appresa la lezione, Bernays offre la sua preziosa consulenza nella campagna della American Tobacco Company per abbattere il tabù dell’America del primo dopoguerra verso la pratica del fumo da parte delle donne. Nel 1929 inscena la parata delle “fiaccole della libertà”: ingaggia una decina di suffragette che, nel pieno di una manifestazione pasquale, accendono in modo teatrale l’oggetto del desiderio manifesto allora proibito, le sigarette, che nell’inconscio femminile rappresentavano il pene. La notizia fa il giro del mondo, veicolata come gesto di libertà e emancipazione femminile, intaccando fortemente il tabù puritano. L’individuo, dunque, è disposto ad assumere comportamenti irrazionali, orientati al consumo di prodotti non solo inutili per la sua vita, ma addirittura dannosi, pur di sentir soddisfatti alcuni sui aneliti inconfessabili e inappagati, pur di veicolare all’esterno un’immagine che lo gratifichi e lo faccia sentire apprezzato dagli altri.E proprio perché in preda a forze inconsce gli essere umani vanno controllati, “come un gregge di pecore va guidato”. Alle minoranze più intelligenti (élite) spetta il compito di fare proselitismo e indirizzare le masse indisciplinate e irrazionali. Una sorta di compito morale degli eletti: «Solo così si può coniugare l’interesse individuale con quello collettivo per favorire lo sviluppo e il benessere dell’America» (“Propaganda”, 1928). L’elenco dei clienti di Bernays è un pullulare di nomi del gotha economico e politico americano: Procter & Gamble, l’American General Electric, la General Motors e il presidente Usa Eisenhower sono solo alcuni dei nomi presenti nello sterminato portfolio di Bernays, capace di camuffare da colpo di stato il golpe guatemalteco del 1953 per favorire, al fianco della Cia, gli interessi della United Fruit Company. La sua fama arriverà oltreoceano, conquistando con le sue teorie il Ministro della Propaganda nazista Goebbels, suo dichiarato fan. E’ a lui che devono la paternità tutte le attuali figure “professionali”, come gli spin doctor, che hanno fatto della propaganda l’arma del consenso sociale.(Ilaria Bifarini, “Il padre della propaganda: Edward Bernays”, dal blog della Bifarini del 29 aprile 2019).«L’individuo opera le sue scelte mosso da impulsi irrazionali e incontrollati. E’ compito di una minoranza di persone elette guidarlo “come un gregge di pecore va guidato”». Annoverato dall’autorevole rivista americana “Life” tra i 100 uomini più potenti del XX secolo, acclamato unanimemente come il creatore dell’ingegneria del consenso, Edward Louis Bernays è un nome poco familiare al pubblico europeo. Conosciuto forse a qualche curioso per la sua parentela con il padre della psicoanalisi, lo zio Freud, il giovane Louis assimila velocemente e rielabora brillantemente la teoria della rivoluzionaria conoscenza dell’inconscio. Di estrazione ebraica e borghese, si trasferisce giovanissimo nella New York dei primi del Novecento dove, abbandonata la strada prestabilita della prosecuzione dell’attività paterna, muove i primi passi nel mondo del giornalismo, per affermarsi in una veste di comunicatore del tutto inedita per i tempi. Dopo i fasti registrati dall’industria manifatturiera a servizio della produzione bellica della Prima Guerra Mondiale, gli Stati Uniti si trovano a dover affrontare il più spaventoso degli spettri del mercato: il rischio di sovrapproduzione.