Archivio del Tag ‘economia’
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German Act, agonia europea imposta dalle banche tedesche
Nel Jobs Act non vi è alcun elemento né innovativo né rivoluzionario, tutto già visto 15-20 anni fa. E’ una creatura del passato che getta le proprie basi nella riforma del mercato anglosassone di stampo blairiano, nell’agenda sul lavoro del 2003 in Germania e, più in generale, nelle ricerche dell’Ocse della metà anni ’90. Inoltre si tratta di una legge delega, un grosso contenitore semivuoto che sarà riempito nei prossimi mesi o chissà quando. Non mi sembra un provvedimento che arginerà la piaga della precarietà né che rilancerà l’occupazione nel paese. Il Jobs Act potrebbe tranquillamente esser stato scritto da un ministro di un passato governo Berlusconi. Non a caso Maurizio Sacconi è uno dei politici più entusiasti. Renzi continua nel solco di politiche di destra impostate sul taglio ai diritti sul lavoro, sulla compressione salariale e sulla possibilità di un maggiore controllo delle imprese sui dipendenti, vedi l’uso delle telecamere.Negli ultimi mesi ad esser cambiata è la Cgil. In diversi frangenti non ha contrastato i nefasti provvedimenti avanzati dai governi, come nel caso della riforma pensionistica. Ha accettato supinamente leggi micidiali e lo smantellamento del nostro welfare. Sul Jobs Act è stata incisiva mettendo in piedi una dura resistenza. E le divergenze tra Cgil e Fiom – che invece ha sempre mantenuto la barra dritta – ora sono minori, questo va salutato positivamente. Dagli anni ’90 i socialisti europei e le differenti branche della socialdemocrazia hanno abdicato e sono stati contagiati dall’ideologia neoliberale, abbracciando così l’idea dei mercati da anteporre alla democrazia, alla finanza che disciplina i governi. In questo quadro, le affermazioni del premier sono vuote, alle invettive non corrispondono i fatti: il Jobs Act e la Legge di Stabilità ne sono la palese prova. Persiste l’ortodossa ubbidienza ai diktat dell’Europa, Renzi non è altro che un fedele esecutore della Troika. Siamo lontani dal contrastare le politiche imposte da Bruxelles.La sinistra italiana come espressione di massa di fatto non esiste più. Sono rimaste delle schegge, anche interessanti, ma politicamente ininfluenti soprattutto di fronte a quel che dovrebbe essere il domani di una sinistra in grado di rappresentare una valida opzione e un’opposizione solida in Parlamento. In Europa, “Podemos” e Syriza rappresentano segnali importanti, iniziano ad avere una valenza di massa. In generale, le recenti elezioni hanno confermato quasi ovunque governi di destra o, ad essere gentili, di centrodestra. Ciò significa che la maggioranza degli elettori dell’Eurozona preferisce lo status quo, purtroppo. La Germania ha rivotato in massa la cancelliera Angela Merkel e il ministro Wolfgang Schäuble malgrado le politiche restrittive e del rigore.La sinistra in Italia? Il futuro non è prevedibile, bisogna costruirlo. E di certo nel paese esistono milioni di persone mosse da ideali e sensibilità di sinistra, alla ricerca di una nuova modalità di aggregazione. Le varie schegge esistenti dovrebbero riformularsi, diventare un’unica forza per poter così rappresentare una reale alternativa. Ma c’è molta strada da percorrere, molta. Nell’euro ci siamo, consci che ci sono gravissimi problemi che andrebbero analizzati e discussi, mentre Bruxelles e in primis la Germania lo vietano in maniera categorica. Il trasferimento di poteri da Roma a Bruxelles forse è andato oltre anche a quel che era previsto a Maastricht. Viviamo in un’Europa delle diseguaglianze, che necessita di alcuni urgenti interventi. Al momento non sembra ci siano le condizioni: la Commissione non vuole modificare la propria linea economica, con Juncker sostenuto convintamente dalla Germania. L’euro sarà destinato a propagare guai ancora per molto tempo e l’emissione in Italia di Certificati di Credito Fiscale (Ccf) potrebbe mitigare i disastri della moneta unica.Pablo Iglesias, leader di Podemos, parla esplicitamente di una Spagna “colonia della Germania”? Il termine colonia è un po’ forte. Però di fatto le politiche che stanno strangolando i paesi con tagli alla spesa pubblica, con l’ossessione dell’avanzo primario – quindi tartassare sempre maggiormente i cittadini e nello stesso momento diminuire servizi – sono procedimenti suicidi e insensati. E molte di queste imposizioni sono volute dalla Germania. Dietro alla durezza del governo tedesco ci sono le banche tedesche che si erano esposte con l’acquisto di titoli internazionali. La Germania ha pensato di salvare le proprie banche. Forse non siamo una colonia, di certo soggetti ad una forma di imposizione esterna. Come noi anche gli altri paesi dell’Europa del Sud, e anche la Francia: è sempre la seconda economia dell’Eurozona e ha legami storici con la Germania dai tempi di Mitterrand, ma ha subito forti pressioni ed è stata costretta a tagliare salari, pensioni e sanità. Lo stesso governo tedesco ha introdotto nel proprio paese le misure d’austerity, a partire dall’agenda 2010 del 2003, arrivando alla creazione del settore dei lavoratori poveri più ampio d’Europa: 15 milioni di persone che guadagnano meno di 6 euro l’ora oppure occupati 15 ore alla settimana per 450 euro al mese. E 15 milioni è circa un quarto della forza lavoro tedesca.(Luciano Gallino, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Il Jobs Act, una pericolosa riforma di destra”, pubblicata da “Micromega” il 2 dicembre 2014).Nel Jobs Act non vi è alcun elemento né innovativo né rivoluzionario, tutto già visto 15-20 anni fa. E’ una creatura del passato che getta le proprie basi nella riforma del mercato anglosassone di stampo blairiano, nell’agenda sul lavoro del 2003 in Germania e, più in generale, nelle ricerche dell’Ocse della metà anni ’90. Inoltre si tratta di una legge delega, un grosso contenitore semivuoto che sarà riempito nei prossimi mesi o chissà quando. Non mi sembra un provvedimento che arginerà la piaga della precarietà né che rilancerà l’occupazione nel paese. Il Jobs Act potrebbe tranquillamente esser stato scritto da un ministro di un passato governo Berlusconi. Non a caso Maurizio Sacconi è uno dei politici più entusiasti. Renzi continua nel solco di politiche di destra impostate sul taglio ai diritti sul lavoro, sulla compressione salariale e sulla possibilità di un maggiore controllo delle imprese sui dipendenti, vedi l’uso delle telecamere.
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Ciao Usa, l’oro di Putin rottama l’impero militare del dollaro
L’oro di Putin contro le atomiche di Obama. Chi vincerà? La Russia, facendo crollare l’impero del dollaro, avendo con sé la Cina e la maggior parte della popolazione terrestre, a cominciare dalle economie emergenti dei Brics. Washingon è in trappola, sostiene Dmitry Kalinichenko, perché l’unica scorciatoia possibile – la guerra contro Mosca – non è un’opzione realistica: la Nato e il Pentagono non riuscirebbero né a invadere la Russia, né a uscire indenni da un eventuale attacco atomico contro il Cremlino. In ogni caso la situazione è drammatica, avverte Kalinichenko, anche se «tutti i media occidentali e i principali economisti occidentali non ne parlano, come fosse un segreto militare ben custodito». Parla da solo il fallimento dell’offensiva occidentale in Ucraina: «Non è né militare né politico, ma risiede nel rifiuto di Putin di finanziare i piani occidentali per l’Ucraina». Questione di soldi: Putin scommette sulla fine accelerata del dollaro. Come? Accumulando oro, comprato a basso costo: oro svalutato artificialmente dall’Occidente per tenere alto il valore del dollaro.«La vera politica di Putin non è pubblica», afferma Kalinichenko in post ripreso da “Megachip”. Per questo, pochissimi capiscono le attuali mosse del Cremlino. «Oggi, Putin vende petrolio e gas russi solo in cambio di “oro fisico”», ma «non lo grida ai quattro venti, e naturalmente accetta ancora il dollaro come mezzo di pagamento». Ma, attenzione, «cambia immediatamente tutti i dollari ottenuti dalla vendita di petrolio e gas con l’oro fisico». Basta osservare la vorticosa crescita delle riserve auree della Russia e confrontarle con le entrate in valuta estera della Federazione Russa dovute alla vendita di petrolio e gas nello stesso periodo. Nel terzo trimestre 2014, gli acquisti da parte della Russia di “oro fisico” sono i più alti di tutti i tempi, a livelli record. Nello stesso periodo, le banche centrali di tutti i paesi del mondo hanno acquistato 93 tonnellate del prezioso metallo, dopo 14 trimestri di acquisti ininterrotti. Ma, di queste 93 tonnellate, ben 55 sono state acquisite dalla Russia.Per gli scienziati britannici e la “Us Geological”, l’Europa non potrà sopravvivere senza l’offerta energetica russa, cioè se il petrolio e il gas della Russia saranno sottratti dal bilancio globale dell’offerta energetica. «Così, il mondo occidentale, costruito sull’egemonia del petrodollaro, si trova in una situazione catastrofica, non potendo sopravvivere senza petrolio e gas dalla Russia. E la Russia – aggiunge Kalinichenko – è pronta a vendere petrolio e gas all’Occidente solo in cambio dell’oro fisico». La svolta, nel gioco di Putin, è che il meccanismo della vendita di energia russa all’Occidente solo con l’oro «funziona indipendentemente dal fatto che l’Occidente sia d’accordo o meno nel pagare petrolio e gas russi con il suo oro, tenuto artificialmente a buon mercato». Questo perché la Russia, avendo un flusso regolare di dollari dalla vendita di petrolio e gas, «in ogni caso potrà convertirli in oro ai prezzi attuali, depressi con ogni mezzo dall’Occidente», attraverso le manovre della Fed e dell’Esf, (Exchange Stabilization Fund), che abbassano il prezzo dell’oro per sorreggere un dollaro dal potere d’acquisto artificialmente gonfiato dalle manipolazioni nel mercato.Nel mondo finanziario, continua Kalinichenko, è assodato che l’oro sia un fattore anti-dollaro: nel 1971, Richard Nixon chiuse la “finestra d’oro”, ponendo fine al libero scambio tra dollari e oro, garantito dagli Stati Uniti nel 1944 a Bretton Woods. Ma ora, «Putin ha riaperto la “finestra d’oro”, senza chiedere il permesso a Washington». Premessa: «In questo momento, l’Occidente spende gran parte di sforzi e risorse nel comprimere i prezzi di oro e petrolio. In tal modo, da un lato distorce la realtà economica esistente a favore del dollaro statunitense, e d’altra parte vuole distruggere l’economia russa che si rifiuta di svolgere il ruolo di vassallo obbediente dell’Occidente». Oggi, oro e petrolio sono molto sottovalutati, rispetto al dollaro. Sicché, «Putin vende risorse energetiche russe in cambio di quei dollari artificialmente gonfiati dagli sforzi dell’Occidente, e con cui compra oro artificialmente svalutato rispetto al dollaro». Idem per l’uranio russo, da cui dipende «una lampadina americana su sei». Attenzione: «Putin usa questi dollari solo per ritirare “oro fisico” dall’Occidente al prezzo denominato in dollari Usa e quindi artificialmente abbassato dallo stesso Occidente». Ma la mossa dell’Occidente – svalutare l’oro per rivalutare il dollaro – gli si ritorce contro: quell’oro, Putin lo sta comprando sottocosto.Il cervello della «trappola economica dell’oro tesa all’Occidente», aggiunge Kalinichenko, probabilmente è il consigliere economico di Putin, Sergej Glazev, non a caso incluso da Washington nella lista nera dei “sanzionati”. Minacce inutili: il piano è perfettamente condiviso dal leader cinese Xi Jinping. Dalla Banca Centrale di Russia, intanto, Ksenia Judaeva fa sapere che la Bcr può utilizzare l’oro delle sue riserve per pagare le importazioni, se necessario: importazioni ovviamente provenienti dai Brics, date le sanzioni occidentali. Conviene a tutti, a cominciare da Pechino: per la Cina, la volontà della Russia di pagare le merci con l’oro occidentale è molto vantaggiosa. Infatti, spiega Kalinichenko, Pechino ha annunciato che cesserà di aumentare le riserve auree e valutarie denominate in dollari. Considerando il crescente deficit commerciale tra Usa e Cina (la differenza attuale è cinque volte a favore della Cina), questa dichiarazione tradotta dal linguaggio finanziario dice: “La Cina non vende più i suoi prodotti in cambio dei dollari”.«I media mondiali hanno scelto di non far notare questo storico passaggio monetario», rileva Kalinichenko. «Il problema non è che la Cina si rifiuti letteralmente di vendere i propri prodotti in dollari Usa». Come la Russia, anche la Cina continuerà ad accettare i dollari come mezzo di pagamento intermedio per i propri prodotti. «Ma, appena presi, se ne sbarazzerà immediatamente, sostituendoli con qualcosa di diverso», cioè l’oro. Di fatto, Pechino non acquisterà più titoli del Tesoro degli Stati Uniti con i dollari guadagnati dal commercio mondiale, come ha fatto finora. Così, «sostituirà i dollari che riceverà per i suoi prodotti, non solo dagli Usa ma da tutto il mondo, con qualcos’altro» appositamente «per non aumentare le riserve valutarie in oro denominate in dollari Usa». D’ora in poi solo oro, quindi, anche per i cinesi. Politica di fatto già inaugurata da Russia e Cina, per i loro scambi bilaterali: «La Russia acquista merce direttamente dalla Cina con l’oro al prezzo attuale, mentre la Cina compra risorse energetiche russe con l’oro al prezzo attuale». Il dollaro? Archiviato.Tutto questo non sorprende, dice Kalinichenko, perché il biglietto verde non è un prodotto cinese, né una risorsa energetica russa. «È solo uno strumento finanziario intermedio di liquidazione». E se l’intermediario non conviene più, visto che i partner sono ormai in relazione diretta, viene escluso. Le speranze occidentali che Russia e Cina, per le loro risorse energetiche e beni, accettino in pagamento “shitcoin” o il cosiddetto “oro cartaceo” di vario genere, non si sono concretizzate: «Russia e Cina sono interessate solo all’oro, metallo fisico, come mezzo di pagamento finale». Il fatturato del mercato dell’oro cartaceo, quello dei “futures” sull’oro, è stimato sui 360 miliardi di dollari al mese, ma le consegne fisiche di oro sono pari solo a 280 milioni di dollari al mese. «Il che fa sì che il rapporto tra commercio di oro cartaceo contro oro fisico sia pari a 1000 a 1». Sicché, «utilizzando il meccanismo di recesso attivo dal mercato, artificialmente ribassato dall’attività finanziaria occidentale (oro), in cambio di un altro artificialmente gonfiato dall’attività finanziaria occidentale (dollaro), Putin ha così iniziato il conto alla rovescia della fine dell’egemonia mondiale del petrodollaro».In questa maniera, prosegue Kalinichenko, il presidente russo «ha messo l’Occidente in una situazione di stallo, priva di alcuna prospettiva economica positiva». L’Occidente, infatti, «può usare la maggior parte dei suoi sforzi e risorse per aumentare artificialmente il potere d’acquisto del dollaro, nonché ridurre artificialmente i prezzi del petrolio e il potere d’acquisto dell’oro», ma il suo problema è che «le scorte di oro fisico in suo possesso non sono illimitate». Risultato: «Più l’Occidente svaluta petrolio e oro contro dollaro statunitense, più velocemente svaluterà l’oro dalle sue non infinite riserve». Il metallo prezioso detenuto da Usa ed Europa, e pesantemente svalutato, finisce quindi rapidamente in Russia e in Cina, ma anche in Brasile, in India, in Kazakhstan e negli altri paesi Brics. «Al ritmo attuale di riduzione delle riserve di “oro fisico”, l’Occidente semplicemente non avrà tempo di fare nulla contro la Russia di Putin, fino al crollo dell’intero mondo del petrodollaro occidentale». Scacco matto?«Il mondo occidentale non ha mai affrontato eventi e fenomeni economici come quelli attuali», sostiene Kalinichenko. «L’Urss vendette rapidamente oro durante la caduta dei prezzi del petrolio», mentre la Russia di Putin, al contrario, «acquista rapidamente oro durante la caduta dei prezzi del petrolio», minando il monopolio finanziario del dollaro statunitense. «Il principio fondamentale del modello mondiale basato sul petrodollaro permette che i paesi occidentali guidati dagli Stati Uniti vivano a spese del lavoro e delle risorse di altri paesi e popoli, grazie al ruolo della moneta statunitense, dominante nel Sistema Monetario Globale (Smg). Il ruolo del dollaro Usa nell’Smg consiste nell’essere il mezzo ultimo di pagamento. Ciò significa che la moneta nazionale degli Stati Uniti, nella struttura dell’Smg, è l’accumulatore finale degli attivi patrimoniali, e scambiarlo con qualsiasi altro bene non avrebbe senso». Quel che fanno ora i paesi Brics, guidati da Russia e Cina, consiste invece nel cambiare, di fatto, il ruolo e lo status del dollaro Usa nel sistema monetario globale: da «ultimo mezzo di pagamento e accumulazione del patrimonio», la moneta Usa «viene trasformata in un mero mezzo di pagamento intermedio, destinato solo allo scambio con un’altra attività finanziaria ultima: l’oro», che come il dollaro è «un bene monetario riconosciuto», col vantaggio di essere «denazionalizzato e depoliticizzato».Impensabile, ovviamente, che gli Stati Uniti accettino una sconfitta epocale e planetaria così bruciante. E qui, infatti, entriamo in zona-pericolo. «Tradizionalmente, l’Occidente utilizza due metodi per eliminare la minaccia all’egemonia mondiale del modello fondato sul petrodollaro e ai conseguenti eccessivi privilegi occidentali. Uno di questi metodi è costituito dalle “rivoluzioni colorate”. Il secondo metodo, di solito applicato dall’Occidente se il primo fallisce, sono le aggressioni militari e i bombardamenti. Ma nel caso della Russia entrambi questi metodi sono impossibili o inaccettabili per l’Occidente», afferma Kalinichenko. Intanto, tutta la popolazione russa è con Putin: impossibile fabbricare una “rivoluzione colorata” per eliminare il capo del Cremlino. Restano le armi, cioè i missili. Ma la Russia non è la Jugoslavia, né l’Iraq, né la Libia. «In ogni operazione militare non-nucleare contro la Russia, sul territorio della Russia, l’Occidente guidato dagli Stati Uniti è destinato alla disfatta. E i generali del Pentagono che esercitano la vera guida delle forze della Nato ne sono consapevoli». Una guerra nucleare? «Sarebbe egualmente senza speranza», perché la Nato «non è tecnicamente in grado di infliggere un colpo che disarmi completamente la Russia del potenziale nucleare». La rappresaglia equivarrebbe all’apocalisse: sarebbe «la nota finale e l’ultimo punto dell’esistenza della Storia», cioè «la fine della vita sul pianeta, fatta eccezione per i batteri».I principali economisti occidentali, conclude Kalinichenko, sono certamente consapevoli di quanto grave e disperata sia la situazione in cui si trova l’Occidente, caduto nella trappola economica d’oro predisposta da Putin. «Sin dagli accordi di Bretton Woods conosciamo tutti la regola aurea, “Chi ha più oro detta le regole”. Ma in Occidente stanno tutti zitti. Sono silenziosi perché nessuno sa come uscire da tale situazione». Se si svelassero all’opinione pubblica occidentale tutti i dettagli del disastro economico incombente, l’élite del sistema basato sul petrodollaro si troverebbe a dover rispondere alle domande più terribili. Ovvero: per quanto ancora l’Occidente potrà acquistare petrolio e gas dalla Russia in cambio di oro fisico? E cosa accadrà ai petrodollari Usa dopo che l’Occidente esaurirà l’oro fisico per pagare petrolio, gas e uranio russi, così come per pagare le merci cinesi? «Nessuno in Occidente oggi può rispondere». E questo, aggiunge Kalinichenko, si chiama davvero scacco matto.L’oro di Putin contro le atomiche di Obama. Chi vincerà? La Russia, facendo crollare l’impero del dollaro, avendo con sé la Cina e la maggior parte della popolazione terrestre, a cominciare dalle economie emergenti dei Brics. Washingon è in trappola, sostiene Dmitry Kalinichenko, perché l’unica scorciatoia possibile – la guerra contro Mosca – non è un’opzione realistica: la Nato e il Pentagono non riuscirebbero né a invadere la Russia, né a uscire indenni da un eventuale attacco atomico contro il Cremlino. In ogni caso la situazione è drammatica, avverte Kalinichenko, anche se «tutti i media occidentali e i principali economisti occidentali non ne parlano, come fosse un segreto militare ben custodito». Parla da solo il fallimento dell’offensiva occidentale in Ucraina: «Non è né militare né politico, ma risiede nel rifiuto di Putin di finanziare i piani occidentali per l’Ucraina». Questione di soldi: Putin scommette sulla fine accelerata del dollaro. Come? Accumulando oro, comprato a basso costo: oro svalutato artificialmente dall’Occidente per tenere alto il valore del dollaro.
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Titoli all’asta per elemosinare euro, beffati anche i tedeschi
Come è noto, l’invenzione dell’euro ha distrutto le monete nazionali, che ogni paese creava da solo e dal nulla, e ora tutte le nazioni dell’Eurozona devono finanziarsi sui Mercati di Capitali privati per avere moneta (l’euro) per la spesa pubblica. Quindi emettono titoli di Stato per il valore di cui necessitano per la spesa, e sperano che i mercati glieli comprino tutti. Sappiamo come sono andate le cose per anni: i Mercati non si fidavano più dei paesi Eurozona più indebitati, come Italia o Spagna o Grecia, perché appunto avevano PERDUTO LA LORO ABILITA’ DI STAMPARE LA LORO MONETA E DI RIPAGARE I DEBITI SEMPRE E COMUNQUE perduto la loro abilità di stampare la loro moneta e di ripagare i debiti sempre e comunque (con fa il Giappone col debito più alto del mondo). Ok. E allora i Mercati pretendevano come precauzione, da Italia e Spagna, tassi d’interesse molto alti prima di comprargli i titoli di Stato. Brutto affare. E andavano a comprare invece i titoli di Stato tedeschi perché ritenevano che la Germania avesse i soldi per ripagare sempre, nonostante avesse perduto anch’essa la moneta sovrana, il marco. Li aveva perché esportava da pazzi, quindi soldi in cassa c’erano. Ok.Poi cosa è successo? Che Draghi e la Bce hanno visto che l’euro stava distruggendo mezza Europa, poi tre quarti d’Europa, poi tutta, eh sì, perché capitò che anche la grande Germania iniziò a esportare meno e a perdere enormi pezzi d’economia, a causa proprio del fatto che il resto d’Europa, impoverito dalle stesse dementi regole dell’euro, le Austerità, aveva smesso di comprare prodotti tedeschi, e poi era venuta la crisi della Cina, e dei paesi emergenti, e così anche Berlino stava e sta andando sotto. Ok. Allora la Bce decide di stampare somme colossali in euro e di intervenire sui Mercati per… (il perché lo sappiano noi segugi, ed è per ingrassare gli speculatori di Borsa, punto) per fingere di voler risollevare l’economia della Ue. La faccio breve. I Mercati hanno comprato talmente tanti titoli di Stato tedeschi (anche coi sopraccitati soldi stampati dalla Bce), che ora ne hanno la nausea, per due motivi: primo, perché speravano che la Bce si mettesse a comprare in massa anche i titoli di Stato (più se ne comprano, più aumentano di valore per chi li possiede) e invece la Bce non lo fa e non lo farà.Secondo, perché dopo aver comprato camionate di titoli tedeschi, gli interessi che i Mercati guadagnano su quei titoli è crollato a ZERO zero (più titoli si comprano, meno rendono in interessi). Oggi il Bund tedesco a 10 anni ti rende lo 0,74%, meno che un investimento in banane. Risultato? Indovinate chi oggi non riesce a finanziarsi appieno sui Mercati? Cioè a vendere la quantità di titoli di Stato che gli serve per avere gli euro? MA LA GERMANIA!! Ma la Germania! Che, e questo i cari Tg o giornali non ve lo dicono, è la DECIMA decima volta che non ce la fa a vendere tutti i titoli di cui ha bisogno. Ops! La Germania che fallisce le aste di titoli è come pensare che nessuno compri i biglietti per il derby Milan-Inter… C’è qualcosa di un po’ drammatico che tocca, no? Ma i prafi teteski non erano kosì prafi? Ma l’euro non è un successo?(Paolo Barnard, “Indovinate chi adesso non riesce a finanziarsi sui mercati di euro?”, dal blog di Barnard del 26 novembre 2014).Come è noto, l’invenzione dell’euro ha distrutto le monete nazionali, che ogni paese creava da solo e dal nulla, e ora tutte le nazioni dell’Eurozona devono finanziarsi sui Mercati di Capitali privati per avere moneta (l’euro) per la spesa pubblica. Quindi emettono titoli di Stato per il valore di cui necessitano per la spesa, e sperano che i mercati glieli comprino tutti. Sappiamo come sono andate le cose per anni: i Mercati non si fidavano più dei paesi Eurozona più indebitati, come Italia o Spagna o Grecia, perché appunto avevano perduto la loro abilità di stampare la loro moneta e di ripagare i debiti sempre e comunque (con fa il Giappone col debito più alto del mondo). Ok. E allora i Mercati pretendevano come precauzione, da Italia e Spagna, tassi d’interesse molto alti prima di comprargli i titoli di Stato. Brutto affare. E andavano a comprare invece i titoli di Stato tedeschi perché ritenevano che la Germania avesse i soldi per ripagare sempre, nonostante avesse perduto anch’essa la moneta sovrana, il marco. Li aveva perché esportava da pazzi, quindi soldi in cassa c’erano. Ok.
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La rivoluzione digitale cancella il lavoro: rassegnatevi
Qualche giorno fa, Alessandro Gilioli ha pubblicato sul suo blog un commento alla recente intervista che uno dei due fondatori di Google, Larry Page, ha rilasciato al “Financial Times”. Il nodo evidenziato da Gilioli riguarda l’opinione, sempre più diffusa e ancorata a dati di fatto, secondo cui i progressi nel campo della robotica e dell’intelligenza artificiale sarebbero destinati a generare una contrazione irreversibile e permanente dell’occupazione, non solo fra i lavoratori che svolgono mansioni esecutive, ma anche, se non soprattutto, fra i cosiddetti lavoratori della conoscenza. Siamo abituati a sentir contestare tale tesi da quanti ricordando che tutte le precedenti rivoluzioni tecnologiche, dopo aver generato temporanei cali occupazionali, hanno puntualmente creato le condizioni per il loro riassorbimento; ma l’argomento che recita “è sempre andata così, quindi andrà così anche questa volta” non convince: sia perché smentito (almeno per ora) dai fatti, sia perché ignora le radicali differenze fra la rivoluzione digitale e le precedenti rivoluzioni tecnologiche.Ma torniamo a Page e Gilioli. Il secondo sottolinea come il primo ripeta più volte, nel corso dell’intervista, la frase «you can’t wish it away», come dire: le cose stanno così, vi piaccia o meno, né cambieranno. «Temo che abbia ragione», ammette a malincuore Gilioli – parere che condivido, così come condivido il fastidio per l’indifferenza manifestata da Page nei confronti degli “effetti collaterali” del tecnocapitalismo digitale. Nutro invece qualche dubbio sull’analisi di Gilioli in merito alle due possibili modalità di fronteggiare il fenomeno: la prima di destra, la seconda di sinistra. Possiamo non fare nulla, limitandoci a subire passivamente quanto succede e anzi sfruttandolo per diminuire l’uguaglianza, scrive, e questa è la risposta di destra. Fin qui l’accordo è totale. Oppure possiamo cercare di capire quanto accade e provare a governarlo politicamente e democraticamente, ridistribuendo ricchezze, lavoro e tempo libero, e questa è la risposta di sinistra. Qui invece dissento, perché sono convinto che disponiamo di analisi già sufficientemente ampie, approfondite e dettagliate di quanto accade per capire che non è più possibile governarlo politicamente e democraticamente, perlomeno nel senso che la sinistra tradizionale attribuisce a questi due concetti.Mi spiego facendo riferimento ad un autore, Colin Crouch, di cui mi sono qui recentemente occupato: Crouch – al pari di Ulrik Beck, Pierre Rosanvallon, Thomas Piketty e altri pensatori neo-socialdemocratici – prende lucidamente atto della mutazione postdemocratica che il tecnocapitalismo finanziarizzato ha indotto nei nostri sistemi politici, trasformandoli in oligarchie dominate dagli interessi dei soggetti che sfruttano le “leggi” del mercato e della tecnica per aumentare la disuguaglianza (la formula “diminuire l‘uguaglianza”, citata poco sopra, suona eufemistica), dopodiché (come gli altri autori citati) vede quale unica soluzione il rilancio di strategie riformiste simili a quelle evocate da Gilioli. Ebbene, io penso che questa sia oggi un’utopia impraticabile, e che la sola risposta di sinistra all’orrore che ci viene incontro sia tornare a immaginare se e come sia possibile una rottura radicale di sistema. Ma qui, purtroppo – a meno di non abbandonarsi a velleitari “insurrezionalismi” – l’analisi del che fare è assai più debole di quella sull’impatto socioeconomico del capitalismo alla Larry Page.(Carlo Formenti, “Se la rivoluzione digitale cancella il lavoro”, da “Micromega” del 10 novembre 2014).Qualche giorno fa, Alessandro Gilioli ha pubblicato sul suo blog un commento alla recente intervista che uno dei due fondatori di Google, Larry Page, ha rilasciato al “Financial Times”. Il nodo evidenziato da Gilioli riguarda l’opinione, sempre più diffusa e ancorata a dati di fatto, secondo cui i progressi nel campo della robotica e dell’intelligenza artificiale sarebbero destinati a generare una contrazione irreversibile e permanente dell’occupazione, non solo fra i lavoratori che svolgono mansioni esecutive, ma anche, se non soprattutto, fra i cosiddetti lavoratori della conoscenza. Siamo abituati a sentir contestare tale tesi da quanti ricordando che tutte le precedenti rivoluzioni tecnologiche, dopo aver generato temporanei cali occupazionali, hanno puntualmente creato le condizioni per il loro riassorbimento; ma l’argomento che recita “è sempre andata così, quindi andrà così anche questa volta” non convince: sia perché smentito (almeno per ora) dai fatti, sia perché ignora le radicali differenze fra la rivoluzione digitale e le precedenti rivoluzioni tecnologiche.
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Rottamare il popolo, Renzi realizza il sogno della destra
“Missione compiuta”, gigioneggia Matteo Renzi a fronte delle regionali emiliano-romagnole e calabresi. Certo che sì. Ma non tanto per la presumibile conquista della poltrona di governatore da parte dei due candidati sponsorizzati, personaggi tutto sommato insignificanti, latori di proposte politiche inesistenti. Niente di tutto questo. La vera missione giunta a compimento è l’aver rottamato, in un colpo solo, circa il dieci per cento del corpo sociale italiano; le donne e gli uomini che – in quanto cittadini – intendono concorrere a determinare la volontà generale. E l’effetto “piazza pulita” fa maggiormente impressione se il soggetto collettivo, in più fragoroso allontanamento da una concezione attiva della politica, è proprio l’antica “maglia rosa” nazionale del civismo: l’Emilia Romagna appassionata e socialdemocratica. Il nostro premier può farsi scrivere dal ghost-writer di fiducia tutti i temini che vuole sulla sua presunta natura di sinistra, può precettare la Gioconda Boschi allo sbandieramento dell’essenza newdealistica ed egualitaria del Jobs Act (ma perché questi anglicismi, visto che il Renzi si incarta quando bazzica l’anglofonia? Lo chiami Asfaltalavoro così ci capiamo meglio). Renzi può raccontarcela come vuole, anche se la gag mostra ormai la corda.Resta il fatto che l’obiettivo della Destra apparsa in Occidente da quattro decenni, diventando dominante da un quarto di secolo, ha come primario obiettivo quello di azzerare il popolo. Obiettivo che il giovanile di Rignano porta avanti con proterva determinazione sotto gli sguardi compiaciuti dei suoi mentori e precettori (Berlusconi e Verdini tra i più cari), di quanti avevano vendette da consumare a sinistra (tipo Sacconi) e con la benevola approvazione dei liquidatori internazionali della tradizione progressista novecentesca keynesiano-rooseveltiana (dai vari Blair ai tecno-killer di Bruxelles, al servizio del sistema bancario internazionale). Il senso generale dell’operazione discende da due inestirpabili retropensieri del nostro tempo: la logica finanziaria, in cui la ricchezza per riprodursi non ha più bisogno delle persone (la produzione di denaro a mezzo denaro; a differenza dell’età industrialista, in cui il capitale produceva masse che ne acquistassero i prodotti); la priorità del potere oligarchico che recalcitra ad ogni forma di controllo, in particolare quello democratico.Sicché fa specie, ma non troppo, che gli Orfini – già “giovani turchi, poi rivelatisi “vecchi ottomani” (nel senso di afferrare poltrone) – imbarcati felicemente sul carro renziano non emettano neppure un sospiro davanti alla mattanza in atto. Così, tanto per salvarsi l’anima. Il fatto è che la vicenda regionale si inserisce in un lungo processo di normalizzazione in corso non da oggi. Che nel nostro paese si accompagna alla sostituzione di seppur imperfette forme di democrazia deliberativa con il grande baraccone dello star-system; iniziato con il guitto di Arcore e proseguito da una lunga serie di imitatori, che avevano recepito dal maestro le virtù dell’illusionismo per la conquista del consenso. Quella sequenza di personaggi che pare giunta alla sua più compiuta espressione nel premier che gioisce davanti all’esodo dal voto di sei italiani su dieci; sostanzialmente perché l’intera offerta esposta sui banconi elettorali appariva loro inaccettabile.Certo, così facendo si consente alla banda che presidia il varco della politica di vincere per no-contest, per abbandono della controparte civica. E di questo dovrebbe farsi carico in termini autocritici chi ha dissipato le speranze riposte nel febbraio 2013 nell’Altra Politica da parte di un quarto di italiani. Intanto continua l’opera di abrogazione del popolo. Un vecchio sogno delle plutocrazie, se già all’inizio dell’età industriale l’abate Sismondi poteva scrivere: «In verità non resta che desiderare altro se non che il re, rimasto solo nell’isola, girando una manovella, faccia eseguire per mezzo di congegni meccanici tutto il lavoro dell’Inghilterra».(Pierfranco Pellizzetti, “Rottamare il popolo”, da “Micromega” del 24 novembre 2014).“Missione compiuta”, gigioneggia Matteo Renzi a fronte delle regionali emiliano-romagnole e calabresi. Certo che sì. Ma non tanto per la presumibile conquista della poltrona di governatore da parte dei due candidati sponsorizzati, personaggi tutto sommato insignificanti, latori di proposte politiche inesistenti. Niente di tutto questo. La vera missione giunta a compimento è l’aver rottamato, in un colpo solo, circa il dieci per cento del corpo sociale italiano; le donne e gli uomini che – in quanto cittadini – intendono concorrere a determinare la volontà generale. E l’effetto “piazza pulita” fa maggiormente impressione se il soggetto collettivo, in più fragoroso allontanamento da una concezione attiva della politica, è proprio l’antica “maglia rosa” nazionale del civismo: l’Emilia Romagna appassionata e socialdemocratica. Il nostro premier può farsi scrivere dal ghost-writer di fiducia tutti i temini che vuole sulla sua presunta natura di sinistra, può precettare la Gioconda Boschi allo sbandieramento dell’essenza newdealistica ed egualitaria del Jobs Act (ma perché questi anglicismi, visto che il Renzi si incarta quando bazzica l’anglofonia? Lo chiami Asfaltalavoro così ci capiamo meglio). Renzi può raccontarcela come vuole, anche se la gag mostra ormai la corda.
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Stampano moneta e comprano noi, poveri euro-fessi
Stampare moneta per l’economia reale, contro lo strapotere del sistema finanziario. Moneta funzionale, emessa direttamente dallo Stato o dalla “banca centrale di emissione”, di cui il potere pubblico assuma il governo. Obiettivo: fornire «tutto il denaro necessario a fare gli investimenti pubblici diretti», destinati a incentivare «occupazione, domanda interna, adeguamento infrastrutturale, innovazione scientifico-tecnologica, assicurando al contempo l’impossibilità del default». Per Marco Della Luna, è esattamente ciò che servirebbe per «uscire dall’attuale recessione-deflazione, dopo il fallimento ormai visibile delle ricette dell’austerità e del quantitative easing, difese oramai soltanto da soggetti in malafede e per interesse». Di fronte alla possibilità di creazione monetaria, il neoliberismo obietta: non si può immettere moneta a piacimento nell’economia, perché ci deve essere un rapporto tra quantità di moneta e quantità di beni, altrimenti la moneta si svaluta o si generano bolle speculative, mobiliari e immobiliari. L’alternativa? Ce l’abbiamo sotto gli occhi, e si chiama disastro.Se la moneta aggiuntiva viene usata per aumentare la produzione, quindi l’offerta di beni e servizi, allora non vi sarà inflazione monetaria (ossia aumento generalizzato dei prezzi), mentre vi sarà un aumento della ricchezza prodotta e del reddito, oltre che dell’occupazione. Certo, aggiunge Della Luna, questa moneta in più «bisogna spenderla bene, e una classe dirigente avida e idiota, come tale selezionata, non lo può fare». Se invece la moneta aggiuntiva viene usata per acquistare titoli finanziari e immobili, «allora vi sarà una salita dei valori delle Borse e degli immobili, e questo fa piacere a tutti gli investitori mobiliari e immobiliari». E se anche vi fosse, come conseguenza dell’immissione monetaria, una certa inflazione iniziale, «questa aiuterebbe i debitori (cioè gli Stati, molte imprese, molti privati) e danneggerebbe i creditori non indicizzati all’inflazione, mentre stimolerebbe le spese che oggi vengono differite perché si prevede un calo o una costanza dei prezzi, il che alimenta la deflazione». Quindi, nel complesso, «dopo la presente deflazione, una certa inflazione o reflazione sarebbe benefica».Oggi, continua Della Luna, il grosso dell’offerta monetaria è assorbito dal settore finanziario-speculativo, ossia da “prodotti” finanziari separati dall’economia reale (produzione, consumi). Sono “prodotti” producibili all’infinito, fino alla saturazione del mercato, cioè all’esaurimento «dell’abilità di collocarli, rifilarli o sbolognarli ai clienti ingenui, allorquando una bolla sta per scoppiare». Problema: questo settore dell’economia assorbe il grosso dell’offerta monetaria, «lasciando a secco della fisiologica liquidità il mercato dei beni-servizi reali e degli investimenti per produrli». Ed ecco il paradosso di oggi: «Da un lato un’esorbitante creazione-offerta di moneta, che le banche centrali creano e mettono a disposizione, in quantità enormi, non dell’economia reale ma delle banche universali per le loro speculazioni finanziarie, improduttive anzi distruttive, e dall’altro una carestia di moneta nell’economia reale, cui le medesime banche (in Italia) fanno sempre meno credito, con conseguente declino-insufficienza di domanda solvibile e di possibilità di investimento e occupazione – onde la deflazione».In altre parole, l’offerta di moneta «è eccessiva per il settore finanziario, da cui viene continuamente alimentata, mentre è gravemente insufficiente per quello reale, a cui viene continuamente ridotta». Primo passo: non solo «separare le banche di credito e risparmio da quelle speculative», ma anche «fare in modo che la liquidità del settore produttivo, dell’economia reale (quello da cui dipendono gli stipendi, il cibo, i servizi) sia assicurata e protetta dalle interferenze e distrazioni del settore finanziario, molto più grosso e turbolento». Della Luna Parla di «anemizzazione monetaria dell’economia reale», con detentori di liquidità che “tesaurizzano” gli investimenti anche all’estero, mentre il prelievo fiscale imposto dal Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità, drena altro denaro dal sistema-Italia, insieme al regime di austerity europea che impone «la realizzazione forzata di avanzi primari del bilancio pubblico e il pagamento di alti interessi a detentori esteri di titoli del debito pubblico». Domanda: «In una situazione di recessione interna e fuga verso l’estero di imprenditori, lavoratori qualificati e capitali, che cosa potrebbe essere più demenziale che imporre tasse al paese per sostenere il debito pubblico di paesi in crisi (Spagna, Grecia) al fine puntellare una valuta, l’euro, che ostacola le esportazioni e induce la deindustrializzazione del paese?».«Eppure gli italiani hanno dato fiducia persino a chi ha fatto questo», continua Della Luna. «Si aggiunga, infine, a questo museo degli orrori dell’imbecillità politica, o dell’alto tradimento istituzionale – se preferite – il fatto che la deprivazione-anemizzazione monetaria del paese, di cui sopra, fa sì che gli asset produttivi migliori – industria, commercio, finanza, alberghi, terreni agricoli pregiati – si deprezzino e vengano massicciamente comperati da soggetti-capitali finanziari stranieri, e che quindi il reddito generato da questi asset esca dal reddito nazionale italiano, divenendo reddito dei paesi che li comperano». E l’auto-privazione monetaria, che produce tutti questi mali, non è che un trucco: perché la moneta sovrana «è solo un simbolo e non ha costi o limiti di produzione intrinseci», e i paesi stranieri che rastrellano le nostre migliori aziende «lo possono fare appunto perché fanno la scelta opposta all’auto-privazione monetaria, ossia perché scelgono di produrre a costo zero grandi masse di moneta-simbolo». Che dire: «Il quadro dell’idiozia totale è perfetto. Non resta che ringraziare i nostri governanti nazionali ed europei e le nostre banche centrali, e lusingarci per tutti i consensi, i voti, le tasse e gli onori che continuiamo tributare loro».Stampare moneta per l’economia reale, contro lo strapotere del sistema finanziario. Moneta funzionale, emessa direttamente dallo Stato o dalla “banca centrale di emissione”, di cui il potere pubblico assuma il governo. Obiettivo: fornire «tutto il denaro necessario a fare gli investimenti pubblici diretti», destinati a incentivare «occupazione, domanda interna, adeguamento infrastrutturale, innovazione scientifico-tecnologica, assicurando al contempo l’impossibilità del default». Per Marco Della Luna, è esattamente ciò che servirebbe per «uscire dall’attuale recessione-deflazione, dopo il fallimento ormai visibile delle ricette dell’austerità e del quantitative easing, difese oramai soltanto da soggetti in malafede e per interesse». Di fronte alla possibilità di creazione monetaria, il neoliberismo obietta: non si può immettere moneta a piacimento nell’economia, perché ci deve essere un rapporto tra quantità di moneta e quantità di beni, altrimenti la moneta si svaluta o si generano bolle speculative, mobiliari e immobiliari. L’alternativa? Ce l’abbiamo sotto gli occhi, e si chiama disastro.
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Global warning, Roma: Craig Roberts e lo stratega di Putin
Cos’hanno in comune il grande stratega economico di Vladimir Putin, assediato dall’Occidente, e il cervello finanziario di Ronald Reagan, il presidente che rottamò la guerra fredda insieme a Gorbaciov? Entrambi hanno paura, oggi, di uno scenario che Papa Francesco non esita a definire Terza Guerra Mondiale. E hanno deciso di discuterne, insieme, al meeting internazionale battezzato “Global warning”, promosso a Roma da “Pandora Tv”, la web-tv creata da Giulietto Chiesa in collaborazione con il network internazionale russo “Rt” per illuminare i retroscena della crisi mondiale, squarciando il velo delle reticenze quotidiane dei media. E così oggi si parlano direttamente l’economista del Cremlino, Sergej Glazev, e Paul Craig Roberts, già viceministro del Tesoro di Reagan e editorialista del “Wall Street Journal”, considerato uno degli opinion leader più influenti del mondo. Spaventato, come Glazyev, dall’aggressività della politica di Obama verso la Russia, che sta avvitando la crisi in una spirale pericolosissima: guerra economica e finanziaria, sullo sfondo della minaccia aeronavale e missilistica rappresentata dalla Nato nell’Est Europa.La formula del meeting, aperto al pubblico, è quella del panel internazionale: dopo l’introduzione di Pino Cabras (“Megachip”) e l’intervento di Giulietto Chiesa, il 12 dicembre a Roma (Palazzo Marini, Sala delle Colonne), prendono la parola grandi giornalisti come Marcello Foa (“Il Giornale”) e Pepe Escobar (“Asia Times”), il libanese Talat Khrais (Al Manar Tv”) e Piero Pagliani, analista geopolitico. Ospiti internazionali presenti a Roma o in collegamento video: da Mikhail Leontyev, vicepresidente del colosso energetico russo Rosneft, alla lettone Tatiana Zdanoka, europarlamentare dei Verdi e co-presidente del gruppo “Per i diritti umani in Lettonia”. Tra i politici italiani due “grilline” come le parlamentari Paola De Pin (Senato, commissione diritti umani) e Marta Grande (Camera, commissione esteri). E naturalmente, il punto di vista – incrociato e convergente – di due personaggi internazionali di primissima grandezza, l’americano Craig Roberts e il russo Glazyev, indicato come il super-tecnocrate che sta guidando il Cremlino verso la Cina, per resistere all’offensiva economica occidentale.«Il panel – spiegano gli organizzatori – include intellettuali provenienti da diverse parti del mondo, che condividono preoccupazioni simili riguardo lo scenario internazionale, nonostante background ed esperienze politiche e intellettuali differenti». L’incontro di Roma può diventare «fonte d’ispirazione per nuove connessioni tra personalità e networks, al fine di condividere idee e soluzioni alla crisi globale, in particolare alle situazioni che stanno ora vivendo Ucraina e Medio Oriente». Le voci che hanno accettato di confrontarsi con la platea di “Global warning” rivelano «visioni comuni in riguardo al declino del mondo unipolare, gravato dall’enorme debito, dal decadimento della democrazia e da una feroce competizione internazionale». La partecipazione è libera, con obbligo di accredito attraverso l’invio dei dati anagrafici, entro l’8 dicembre, all’indirizzo contatti@pandoratv.it.Cos’hanno in comune il grande stratega economico di Vladimir Putin, assediato dall’Occidente, e il cervello finanziario di Ronald Reagan, il presidente che rottamò la guerra fredda insieme a Gorbaciov? Entrambi hanno paura, oggi, di uno scenario che Papa Francesco non esita a definire Terza Guerra Mondiale. E hanno deciso di discuterne, insieme, al meeting internazionale battezzato “Global warning”, promosso a Roma da “Pandora Tv”, la web-tv creata da Giulietto Chiesa in collaborazione con il network internazionale russo “Rt” per illuminare i retroscena della crisi mondiale, squarciando il velo delle reticenze quotidiane dei media. E così oggi si parlano direttamente l’economista del Cremlino, Sergej Glazev, e Paul Craig Roberts, già viceministro del Tesoro di Reagan e editorialista del “Wall Street Journal”, considerato uno degli opinion leader più influenti del mondo. Spaventato, come Glazyev, dall’aggressività della politica di Obama verso la Russia, che sta avvitando la crisi in una spirale pericolosissima: guerra economica e finanziaria, sullo sfondo della minaccia aeronavale e missilistica rappresentata dalla Nato nell’Est Europa.
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Tasse, privatizzazioni e via il contante: Renzi, cioè Monti
Il monopolio delle multinazionali contro il sistema delle piccole e medie imprese, da caricare di tasse. Maxi-torta in arrivo: lo smantellamento dei servizi, da “regalare” ai grandi gruppi dopo aver smantellato il Titolo V della Costituzione, che ne tutela il controllo pubblico ancora affidato a Comuni e Regioni. E infine, la sparizione del denaro contante: fine della privacy nelle transazioni commerciali e «tracciabilità di tutti gli acquisti dei cittadini come nemmeno in Unione Sovietica accadeva». Sbucci Renzi e scopri Monti, sostiene Marcello Foa: il “bomba”, quello delle «promesse che non si realizzano mai», è stato piazzato a Palazzo Chigi al posto di Letta, troppo timido sul fronte della privatizzazione dello Stato, e ovviamente dopo Monti, penalizzato dall’immagine del rigore assoluto. Renzi? Fa la stessa politica di Monti, ma col sorriso. E, a differenza del predecessore, grazie al suo «ego ipertrofico» va avanti, distraendo gli italiani a suon di retorica e propaganda, in modo che nessuno capisca quello che sta avvenendo veramente, cioè il dominio definitivo dei poteri forti, a spese dei cittadini.«La politica economica di Renzi – scrive Foa nel suo blog sul “Giornale” – non è volta a difendere e incentivare la piccola e media impresa italiana, ma è favorevole soprattutto alle multinazionali, smaniose di trasformare ancor di più l’Italia in una riserva di talenti e di professionisti a buon mercato». Non è un caso che Renzi prediliga le sedi delle multinazionali nelle sue uscite pubbliche, prodigandosi in elogi nei loro confronti. «Ed è significativo l’atteggiamento elusivo del suo governo sui licenziamenti alla Thyssen Krupp: premuroso con i grandi gruppi, retorico e inconcludente con le piccole e medie imprese italiane». La verità? Più tasse e meno mercato. «Scusate, ma io i tanto promessi alleggerimenti fiscali e burocratici proprio non li vedo. Semmai, come ai tempi di Monti, assistiamo al moltiplicarsi di balzelli indiretti e occulti», come «la riforma per far pagare il canone Rai a tutti attraverso la bolletta della luce», esteso ai proprietari di case sfitte o di seconde o terze case. Ancora una volta, «emerge la volontà centralista vessatoria che caratterizza l’operato dei governi dalla caduta di Berlusconi in poi».Quindi, le privatizzazioni. Renzi ha predisposto la riforma del Titolo V: «Se passasse, permetterebbe al premier di privatizzare tutte le municipalizzate del settore delle utilities, con la conseguenza che ben conosciamo: non di liberalizzare e mettere in concorrenza più fornitori, ma di sostituire un monopolio pubblico con un monopolio privato, com’è inevitabile quando per la tipologia del servizio la concorrenza è di fatto impossibile». Valga l’esempio delle autostrade cedute ai privati: da Roma a Milano ne esiste solo una, o prendi quella o percorri le statali. Il mercato dov’è? Per molte utilities la situazione è analoga. Infine, si aggiunge la mazzata dell’abolizione del contante, come spiega Enzo Pennetta sul blog “Critica Scientifica”. Primo passo, informatizzare il paese – e sin qui, ok. Poi viene annunciato che si procederà all’eliminazione dello scontrino per ottenere la “tracciabilità totale”, «notizia criptica ma vagamente liberatoria». Quello che non viene detto, sottolinea Pennetta, è che questo significa procedere all’eliminazione del contante.«La tracciabilità assoluta e il superamento della necessità dello scontrino – scrive “Critica Scientifica” – non si possono conseguire che eliminando la possibilità di pagare in contanti, cosa che avrebbe dovuto essere detta con chiarezza». E così, senza neanche nominare il contante, è stato dato l’annuncio della sua prossima eliminazione. Notizia sfuggita al “Corriere della Sera”, che ha pubblicato per primo l’annuncio di Renzi, ma anche ai 58 lettori del “Corriere” che hanno commentato l’articolo. Nessuno ha intuito qual è la vera posta in gioco. E chi aveva proposto l’abolizione del contante? Mario Monti, risponde Foa, osservando che l’eliminazione del cash equivale alla cancellazione definitiva di ogni forma di privacy: saranno millimetricamente tracciati tutti gli acquisti dei cittadini, come non accadeva nemmeno in Urss. «Domenico Idone, su “Twitter”, mi ha ricordato questo articolo. Era il 2012 e Renzi diceva: “Sarò il Monti bis”. Ancora dubbi?».Il monopolio delle multinazionali contro il sistema delle piccole e medie imprese, da caricare di tasse. Maxi-torta in arrivo: lo smantellamento dei servizi, da “regalare” ai grandi gruppi dopo aver smantellato il Titolo V della Costituzione, che ne tutela il controllo pubblico ancora affidato a Comuni e Regioni. E infine, la sparizione del denaro contante: fine della privacy nelle transazioni commerciali e «tracciabilità di tutti gli acquisti dei cittadini come nemmeno in Unione Sovietica accadeva». Sbucci Renzi e scopri Monti, sostiene Marcello Foa: il “bomba”, quello delle «promesse che non si realizzano mai», è stato piazzato a Palazzo Chigi al posto di Letta, troppo timido sul fronte della privatizzazione dello Stato, e ovviamente dopo Monti, penalizzato dall’immagine del rigore assoluto. Renzi? Fa la stessa politica di Monti, ma col sorriso. E, a differenza del predecessore, grazie al suo «ego ipertrofico» va avanti, distraendo gli italiani a suon di retorica e propaganda, in modo che nessuno capisca quello che sta avvenendo veramente, cioè il dominio definitivo dei poteri forti, a spese dei cittadini.
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Fine dei giornali? Solo se lo vorranno i Padroni dell’Occidente
Nel blog di Beppe Grillo è comparso lunedì un post, a firma Gianroberto Casaleggio, che fa parte di una serie di post sulla “morte dei giornali” e che verrà inserito nello studio “Press Obituary” di prossima pubblicazione. Nel post compaiono alcune affermazioni che, a mio avviso, necessitano di commento e talvolta di precisazioni. «La fine dei giornali – scrive Casaleggio – è una delle cose più prevedibili del nostro futuro», se non si troveranno risorse diverse dalla pubblicità. È vero? È falso? È vero solo in parte, e comunque a condizione che si verifichino azioni e reazioni, da parte dei soggetti coinvolti, che al momento non sono ancora completamente scontate. Alcuni giornali, online e classici (quotidiani, settimanali ma anche mensili) potrebbero infatti sopravvivere alla contrazione delle risorse pubblicitarie alle seguenti condizioni: a) se fossero sostenuti prevalentemente dalle vendite e dagli abbonamenti; b) se fossero sostenuti da donazioni (anche occulte); c) soprattutto se fossero considerati, da potentati politici e economici, quali veicoli indispensabili per organizzare il consenso su argomenti altamente strategici.L’ipotesi c), per esempio, è attualmente in vigore nel caso di giornali che, barattando la loro visione “politica” ottengono, da parte di inserzionisti pubblicitari particolari, un occhio di riguardo. A tutt’oggi infatti il consenso politico su grandi temi strategici quali la guerra e la pace, il valore flottante delle monete di riserva planetaria, le questioni energetiche e farmaceutiche, gli investimenti nelle borse, viene ancora organizzato da “Big Press” e “Big Tv”, che stanno sopravvivendo alla crisi della pubblicità e anzi l’hanno usata come alibi per “asciugare” costi ritenuti superflui e dismettere giornalisti. Ciò non toglie che, all’interno del vasto mosaico dei media, il declino di gran parte della stampa classica e dei giornali online sia in corso. È sul suo decesso “inevitabile” però che si possono e devono esprimere dubbi, come quando all’avvento della Rivoluzione Industriale si espressero leciti dubbi sulla morte dell’artigianato. Esiste infatti un’ipotesi di sopravvivenza alla crisi della pubblicità, che tenterò di formulare in seguito.Casaleggio descrive poi una pratica pubblicitaria molto perversa che si svolge in rete: quella dell’uso dei “cookies”. E descrive i suoi effetti nefasti: monitoraggio degli accessi, dei comportamenti e del profilo dell’utente. Non possiamo che essere d’accordo. La questione è molto presente, nel dibattito internazionale, sulle linee guida che dovrebbero condurre a una futura governance di Internet, meno anarco-liberista di quanto non sia ora. Però c’è da dire che proprio in quelle sedi internazionali, dove la società civile riesce a manifestare un minimo la propria visione, la definizione “utente” è in via di superamento, per diverse ragioni: a) perché “utente” si impasta e si intreccia con “prosumer”, con “consumatore”, con “cliente finale” e con “utente inserzionista”, e ciò crea confusione; b) perché “utente” presuppone che la Rete sia “un servizio agli utenti”, e ciò contrasta con le più recenti visioni della “net neutrality”, per le quali la Rete è un’infrastruttura indispensabile alla Cittadinanza Digitale che, al dunque, è costituita da “persone”.Casaleggio afferma ancora: «In sostanza il rapporto tra consumatore e pubblicità non risiederà più nei siti editoriali, che ne perdono il controllo, ma negli inserzionisti digitali come Google o Facebook. Di fatto questo rovescia il rapporto economico attuale, in quanto la tracciabilità dell’utenza e l’uso dei dati personali sarà alla base di ogni futuro processo pubblicitario. La pubblicità sarà prevalentemente digitale e la proprietà del cliente verrà trasferita ai big del web. Questo comporterà una riattribuzione, già in atto, dei ricavi dai vecchi operatori (gli editori) a nuovi operatori, con un restringimento della filiera pubblicitaria». Anche qui ci sono da fare alcune considerazioni. Probabilmente Casaleggio allude alla “readership” che costituisce il parco lettori di una testata giornalistica e che viene “venduta” alle agenzie, o direttamente agli inserzionisti, dalla concessionaria della testata. La concessionaria dell’editore (e qui crediamo che parli di editori online) ne perde il controllo, che finisce nelle mani di soggetti quali Google e Facebook (i quali comunque, precisiamo: tutto sono meno che “inserzionisti digitali”). Allora: sì. È vero che le concessionarie e le sezioni marketing degli editori contano sempre meno, ma non è vero che la facoltà di vendita del parco lettori viene loro sottratta. Ciò che viene sottratto agli editori è la capacità di negoziare il prezzo del loro parco lettori. E quindi, in progress, pagandoli sempre meno, gli inserzionisti costringono gli editori a chiudere. Ma perché?Perché gli editori di giornali (e qui intendiamo tutti) non hanno capito il profondo valore della contrattazione del Costo Contatto e in dettaglio del Cost per Thousand, cioè il valore – negoziabile e non derivato – che l’inserzionista paga per raggiungere con il suo messaggio 1000 persone, e che regola la compravendita di spazi in tutti i media (incluso il web). Se gli editori sono l’offerta (di lettori/readership) e gli inserzionisti (non Google e Facebook) rappresentati dalle agenzie di pubblicità che comprano spazi, sono la domanda (di lettori/readership)… in un mercato vero ci dovrebbe essere contrattazione per fare il prezzo. Così invece non è! Il soggetto che genera l’offerta (gli editori) è frantumato, rissoso e ignorante, e invece di fare il cartello degli editori off-line e online, tende la mano e si accontenta di un Cost per Thousand che viene deciso dalla domanda, cioè dai compratori di spazi. In questo teatrino da accattoni, in cui si muovono gli editori privi di dignità, identità e capacità di marketing, si sono inseriti alla grande altri soggetti, quali Google e Facebook, che hanno assunto il ruolo di intermediatori e super-concessionarie del web perché “fanno il prezzo”, offrendo quantità illimitate di spazi a basso costo agli inserzionisti.Solo in alcuni tribunali nordeuropei la vicenda è stata affrontata (in parte) per ciò che è, ma poi, alla fine, impastata maldestramente insieme alla difesa dei diritti d’autore. È così che il dumping ai danni degli editori e anche dei “prosumers” e dei bloggers, si è sanato con un’elemosina (vedi caso francese). Allora: in questa vasta e complessa scena, Casaleggio, che è magna pars nella difesa dei diritti dei cittadini digitali e dei (mi auguro) piccoli e medi editori digitali, perché non riflette meglio su come avviene la contrattazione sul Cost per Thousand? Ci sembra infatti che dia per scontato che questo sia un valore da misurare “a monte” della compravendita e delle pratiche di inserimento pubblicitario tra soggetti Over the Top. Invece il Cost per Thousand è un valore da fissare “a valle”, cioè prima della compravendita, in quanto rappresenta la capacità potenziale di acquisto di 1000 componenti del parco lettori. Al dunque la pubblicità è soprattutto compravendita di “persone”, non solo di spazi promozionali. Ricordiamolo.Casaleggio menziona poi la torta pubblicitaria. Bene! La sua consistenza – che attualmente dipende dagli interessi del Consiglio di Amministrazione della Iaa – International Advertising Agency di Madison Avenue – NON DEVE ESSERE non deve essere quella offerta agli editori; ma DEVE ESSERE deve essere quella negoziata e richiesta dal cartello degli editori per la loro dignitosa sopravvivenza. Così fa il cartello dei grandi tv-broadcasters statunitensi. Se ne frega dei budget offerti e CHIEDE e OTTIENE chiede e ottiene annualmente ciò che serve a loro per vivere. Cioè sono i media che devono fare e difendere il prezzo della loro audience, non gli intermediari. Per capirci: gli inserzionisti consegnano alle agenzie di pubblicità circa 3 trilioni di dollari l’anno. Il 60% di queste risorse viene dato ai media dei Brics e dei paesi emergenti perché sono considerati mercati in crescita. Il rimanente 40% viene dato ai media dei paesi del vecchio Occidente allargato. Ma nel 2009 era il contrario e l’inversione venne decisa in un Cda dell’Iaa. Ciò dà un’idea dello strapotere degli inserzionisti pubblicitari sui media tutti e dimostra come la crisi dei media sia solo imputabile a decisioni non contrastabili per assenza di facoltà di negoziazione.In difetto di contrattazione, però, un soggetto come Casaleggio – e per estensione, mi auguro, il “Movimento 5 Stelle” – dovrebbe lanciare parole d’ordine al morente mondo degli editori per incitarli a negoziare al meglio ciò che hanno (i loro lettori) e per convincerli a non accontentarsi della semplice raccolta di ciò che viene loro offerto, e in continuazione rattrappito, dalle aziende inserzioniste. Casaleggio poi se la prende con Google. Benissimo Recentemente abbiamo tentato di spiegare che Google, Facebook e gli altri soggetti simili, non sono alla sommità della piramide, ma lavorano, a loro volta, per qualcun altro. Per CHI chi? Ma è ovvio: per gli inserzionisti, per le corporations che poi pagano le campagne politiche dei futuri leader (e anche per i servizi segreti, nel caso di cessione di Big Data). Allora? Se i giornali muoiono è perché gli inserzionisti non pagano un equo prezzo per fare la pubblicità delle loro merci e servizi. Ma chi deve contrattare il prezzo? È ovvio: i produttori di contenuti (“contents”) in grado di ospitare inserzioni, cioè gli editori di giornali on line tutti, i bloggers e i “prosumers”.Il “Movimento 5 Stelle” dovrebbe lanciare un appello a tutti questi soggetti per costruire una syndication – auspicabilmente su scala europea – che assuma il ruolo di soggetto collettivo in grado di negoziare autorevolmente il prezzo della pubblicità sui territori sia fisici che digitali. Se non piace la definizione “syndication” si può parlare di ConfEditori on line, di Content Providers Association, o altro. Attenti!… Berlusconi, De Benedetti e Rizzoli-“Corsera” recentemente hanno annunciato la nascita di una superconcessionaria del web italiano. Ciò vuol dire che il prezzo della pubblicità sul territorio (web) italiano lo faranno loro, solo loro e nient’altro che loro. Signor Casaleggio, la vicenda è passata nel silenzio dell’opposizione. Come mai? Se il gettito di risorse pubblicitarie nel web, che dovrebbe remunerare il lavoro svolto in Rete dalla cittadinanza digitale, viene deciso senza alcun dibattito, l’opposizione ancorata al mondo digitale che ci sta a fare?Per concludere: Google, è vero, è un bel puzzone, ma approfitta dell’ignoranza e dell’ignavia dei politici e dei “content providers” e della loro frantumazione. Non è (solo) Google il carnefice dei “giornali”. Il mandante è sempre e solo il Cartello delle Corporations/Inserzionisti, gli utenti pubblicitari associati globalizzati, lo stesso del resto con il quale Beppe Grillo mirabilmente se la prendeva tanti anni fa quando accendeva i riflettori su Giulio Malgara, a quel tempo presidente dell’Upa, e in quanto tale grande finanziatore di Berlusconi e Dell’Utri. Quell’intuizione era quella giusta, talmente giusta che gli costò il rapporto con la Tv. Rilanciamo quel dibattito, signor Casaleggio, magari anche a costo di perdere qualche inserzionista. Tanto, la stragrande maggioranza di loro persegue un modello di sviluppo che non è quello del suo Movimento.(Glauco Benigni, “Casaleggio, non hai capito chi fa il prezzo”, da “Megachip” del 27 novembre 2014).Nel blog di Beppe Grillo è comparso lunedì un post, a firma Gianroberto Casaleggio, che fa parte di una serie di post sulla “morte dei giornali” e che verrà inserito nello studio “Press Obituary” di prossima pubblicazione. Nel post compaiono alcune affermazioni che, a mio avviso, necessitano di commento e talvolta di precisazioni. «La fine dei giornali – scrive Casaleggio – è una delle cose più prevedibili del nostro futuro», se non si troveranno risorse diverse dalla pubblicità. È vero? È falso? È vero solo in parte, e comunque a condizione che si verifichino azioni e reazioni, da parte dei soggetti coinvolti, che al momento non sono ancora completamente scontate. Alcuni giornali, online e classici (quotidiani, settimanali ma anche mensili) potrebbero infatti sopravvivere alla contrazione delle risorse pubblicitarie alle seguenti condizioni: a) se fossero sostenuti prevalentemente dalle vendite e dagli abbonamenti; b) se fossero sostenuti da donazioni (anche occulte); c) soprattutto se fossero considerati, da potentati politici e economici, quali veicoli indispensabili per organizzare il consenso su argomenti altamente strategici.
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La gioia sinistra di chi vince da solo, rottamate le elezioni
A me non stupisce che Matteo Renzi esalti il successo del Pd alle regionali ignorando, anzi persino valutando con un certo compiacimento, il fatto che in Emilia Romagna abbia votato un elettore su tre, quando solo poco tempo fa votavano in nove su dieci. Nella concezione autoritaria della governabilità e nel decisionismo di cui il segretario presidente è solo l’ultimo esponente, la partecipazione popolare è solo un incomodo o un fastidio. Se votano solo tre persone e si ha la sicurezza di ottenere il consenso di due di esse va bene, in meno si decide è meglio è. Gli altri dovranno solo ubbidire. Mussolini sosteneva che lui del fascismo non aveva inventato nulla, lo aveva semplicemente tirato fuori dagli italiani e organizzato. Per Renzi vale lo stesso. Sono anni che i programmi di governo sono vincolati ai diktat dei mercati, della Ue, della finanza, e anche a quelli del governo di un altro paese, la Germania. Sono anni che i cittadini di questo paese vengono educati alla impotenza e alla inutilità di una democrazia ove le decisioni di fondo son già prese altrove. E quando è lo stesso Presidente della Repubblica che si fa alfiere di questa sottomissione culturale e psicologica, oltre che politica, è evidente che tutto il sistema costituzionale ne risente.La democrazia a sovranità limitata si è congiunta con due spinte che da decenni agiscono nella società italiana. La prima è la banalizzazione e la spoliticizzazione del confronto politico, di cui è stata espressione la Seconda Repubblica berlusconiana. La seconda è lo spirito di vandea contro il lavoro e i suoi diritti che da più di trenta anni si scatena ad ogni difficoltà economica. Il governo Craxi negli anni ‘80 aveva già anticipato il linguaggio e i comportamenti di Matteo Renzi, ma perché il decisionismo liberista diventasse regime occorrevano tutte e tre le condizioni di fondo, e non solo una. Una democrazia ridotta a subire gli ordini esterni sui temi stessi per i quali è nata: il bilancio dello Stato. La distruzione della partecipazione e la riduzione del confronto politico a talk show. La guerra tra i poveri come unico sbocco della impotenza popolare verso le decisioni di fondo. È dalla miscela tra questi tre processi degenerativi della nostra società che nasce il successo di Matteo Renzi, e anche quello del suo omonimo Salvini.I due Matteo si dividono gran parte del consenso dei pochi elettori residui, perché meglio rappresentano l’autodistruzione della nostra democrazia. Essi sono molto simili nel modo di pensare e di proporsi, e forse persino intercambiabili. E questo non solo per il giovanilismo di palazzo, la carriera burocratica oscura trasformata in leadership grazie ai mass media mentre crollava il consenso delle vecchie direzioni, la formazione giovanile nei quiz delle Tv di Berlusconi. Il punto vero che hanno in comune è il trasversalismo reazionario. Renzi è partito volendo battere i pugni in Europa e contro i poteri forti e ora picchia solo contro sindacati, scioperi e diritti del lavoro. Che vengono indicati come i veri ostacoli, o in altre versioni come gli alibi, che fanno sì che le imprese non investano. Per Renzi la ruota della fortuna ha girato a lungo e alla fine si è fermata sul lavoro ancora sindacalizzato e tutelato da qualche diritto residuo. Quello è il nemico dei giovani, dei disoccupati, del merito, della crescita e naturalmente di quelle imprese che finanziano Renzi a 1000 euro a coperto.Anche Matteo Salvini lancia proclami contro banche, euro, finanza. Ma i mass media li buca indirizzando il rebus contro migranti e Rom e alleandosi con forze esplicitamente fasciste e razziste. Renzi e Salvini indicano all’italiano medio l’unico avversario a reale portata di mano, il vicino di casa metalmeccanico, o impiegato pubblico, o migrante. Loro vengono indicati come la causa dei guai e con loro sindacati e centri sociali. Renzi e Salvini alimentano le rispettive guerre dei poveri in competizione l’uno con l’altro, e così si presentano sempre di più come un’alternanza nell’ambito della stessa devastazione democratica. Che la gente non vada più a votare, a parte i loro sostenitori, ai due leader va benissimo. Entrambi sono figli della ideologia liberista, e la privatizzazione della democrazia è la madre di tutte le altre.Non c’è soluzione facile a tutto questo. Crisi economica e degrado democratico si alimentano reciprocamente, e per uscire da entrambi bisogna ricostruire il conflitto con avversari che non sono il vicino di casa. Per questo gli scioperi, i movimenti sociali, le lotte vere fanno così paura ad entrambi i Matteo. Perché se questi dovessero crescere e consolidarsi, loro perderebbero centralità e leadership. Il voto regionale colloca la maggioranza della popolazione italiana in una posizione extraparlamentare. Oggi è un successo per Renzi e Salvini, domani potrebbe essere la loro condanna. Ma perché questo avvenga, tutto ciò che si oppone al regime dei due Matteo deve trovare la stessa determinazione, la stessa dimensione culturale e volontà di vero cambiamento, della Resistenza e della liberazione dal fascismo.(Giorgio Cremaschi, “La resistenza contro il regime dei due Matteo”, da “Micromega” del 24 novembre 2014).A me non stupisce che Matteo Renzi esalti il successo del Pd alle regionali ignorando, anzi persino valutando con un certo compiacimento, il fatto che in Emilia Romagna abbia votato un elettore su tre, quando solo poco tempo fa votavano in nove su dieci. Nella concezione autoritaria della governabilità e nel decisionismo di cui il segretario presidente è solo l’ultimo esponente, la partecipazione popolare è solo un incomodo o un fastidio. Se votano solo tre persone e si ha la sicurezza di ottenere il consenso di due di esse va bene, in meno si decide è meglio è. Gli altri dovranno solo ubbidire. Mussolini sosteneva che lui del fascismo non aveva inventato nulla, lo aveva semplicemente tirato fuori dagli italiani e organizzato. Per Renzi vale lo stesso. Sono anni che i programmi di governo sono vincolati ai diktat dei mercati, della Ue, della finanza, e anche a quelli del governo di un altro paese, la Germania. Sono anni che i cittadini di questo paese vengono educati alla impotenza e alla inutilità di una democrazia ove le decisioni di fondo son già prese altrove. E quando è lo stesso Presidente della Repubblica che si fa alfiere di questa sottomissione culturale e psicologica, oltre che politica, è evidente che tutto il sistema costituzionale ne risente.
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Grillo, Ingroia e Salvini? Non facciano la fine di tutti gli altri
Cari Grillo, Ingroia e Salvini: se avete tempo per leggere tre brevi messaggi “tweet”, eccoveli. Grillo: grazie per tutto quello che hai fatto, ma ora il Movimento 5 Stelle proceda con le sue forze. Ingroia: il tuo riferimento sia Paolo Borsellino, non la “sinistra”. Salvini: archivia il Cavaliere, o fallirai anche tu. Firmato: Simone Santini, già coordinatore di “Alternativa”, laboratorio politico-culturale fondato da Giulietto Chiesa. Un triplice appello, sotto forma di tre brevi lettere aperte, pubblicate da “Megachip”. Santini ben rappresenta l’elettorato italiano sfinito dalle vane contorsioni della politica, presa al laccio dalla Troika del rigore neoliberista che impone il taglio selvaggio del benessere diffuso e la dittatura del “mercato”, cioè dell’oligarchia finanziaria dei “padroni dell’universo”. Nell’Italia che sprofonda nella catastrofe socio-economica, proprio Grillo, Ingroia e Salvini hanno tentato di arginare l’oceano dell’astensionismo, ma senza finora mettere in campo un’alternativa praticabile: Grillo auto-sabotato dalla sua stessa autocrazia, Ingroia usato come paravento presentabile tra le macerie dell’ex “sinistra arcobaleno”. Salvini? Messo in pericolo, oggi, dall’alleanza col vecchio centrodestra.Grillo ha appena nominato uno staff politico, una sorta di segreteria. Era ora, dice Santini, a patto che questo team rappresenti davvero il movimento e quindi si trasformi rapidamente «da nominato in elettivo, altrimenti non cambierebbe nulla». Lo staff politico «non dovrà essere un organo direttivo classico», il suo compito «non sarà quello di “decidere”, ma di facilitare e coordinare i processi decisionali collettivi». Finora, le decisioni stratetgiche «sono state semplicemente enunciate». Esempio: chi ha scelto, e con quali criteri, il programma delle europee e poi la raccolta firme per il referendum consultivo sull’euro? «Al di là che il programma elettorale o il referendum possano essere stati condivisi, a posteriori, dalla maggioranza dei militanti, non dovrà più accadere che tali decisioni di fondamentale importanza vengano calate dall’alto». Altrimenti, continua Santini, «quale sarebbe la differenza tra un Grillo (o uno staff che operasse allo stesso modo) e un Renzi, che almeno deve far finta di confrontarsi con la direzione del Pd?». Quanto alle nuove aperture per possibili alleanze, va bene «un accordo transitorio per eleggere un presidente della Repubblica più decente di un altro». Ma il dialogo, più che coi partiti, va impostato con «spezzoni di società (anche organizzati in movimenti o partiti veri e propri)», che possano «almeno potenzialmente rappresentare una reale alternativa al sistema di potere e al modello socio-economico attualmente imperante».Quanto a Ingroia, “reclutato” da Di Pietro e dai rottami dell’ex “sinistra radicale” per guidare la lista “Rivoluzione Civile” alle politiche 2013, secondo Santini il suo prestigio di magistrato coraggioso sarebbe degno di miglior causa, visto anche che le sue inchieste sono stati «di grande importanza per la crescita morale della nostra nazione». In politica, però, prestazioni meno brillanti: già la prima aggregazione, “Cambiare si può”, prima tappa del percorso fondativo di “Rivoluzione Civile”, era viziato dalla presenza-fantasma «dei partiti tradizionali della sinistra, dietro la patina di alcuni rappresentanti della società civile», cosa che «ne vanificò il potenziale di novità e reale cambiamento». Poi la nascita di “Azione Civile”, senza più partiti “clandestini”, ma senza presa sul pubblico: «Credo che lo spazio politico per quel progetto si sia quasi definitivamente consumato», scrive Santini. «La speranza tra i più fiduciosi che aveva destato la lista “L’Altra Europa con Tsipras” sta partorendo ciò che i meno fiduciosi avevano intravisto fin da subito: un agglomerato dei partitini della sinistra istituzionale che avrà nel suo deprimente orizzonte l’oscillazione tra l’opposizione al renzismo a livello nazionale e la collaborazione col sistema di potere del centrosinistra a livello locale (perfettamente interscambiabile con quello del centrodestra, allo stesso modo irriformabile e cancerogeno)».Qualunque progetto politico di «emancipazione dalla dittatura del presente», secondo Santini non ha alcuna possibilità di successo, in Italia, se non afferma radicalmente il principio della “legalità democratica” largamente inteso. Ovvero: «Debellare le mafie al sud come al nord, scoperchiare il verminaio del terzo e quarto livello» che trasforma il nostro in uno “Stato criminale”, per dirla con Ingroia. E poi, ovviamente, sconfiggere la corruzione. «La tua grande esperienza e credibilità su queste tematiche – scrive Santini nel suo appello a Ingroia – non deve essere messa a disposizione di una sola parte politica, ma di tutte quelle forze sane, da qualunque parte stiano, che volessero davvero intraprendere un percorso rivoluzionario». Aggiunge Santini: «Non ho bisogno di ricordarti che il tuo maestro Paolo Borsellino avesse simpatie politiche di destra, ma egli fu prima di tutto un autentico uomo dello Stato nel senso più alto del termine, un servitore del popolo, di tutto il popolo». E dunque: «Anche se non indossi più la toga, Antonio, sei ancora un uomo del vero Stato, non rinchiuderti negli spazi della sinistra ma poniti al servizio di un progetto il più largo possibile».Quanto al nuovo leader della Lega Nord, è impossibile non riconoscergli una vocazione trasversale, adatta ai tempi d’emergenza che viviamo: «A volte i percorsi politici compiono traiettorie imprevedibili», gli scrive Santini. «Non avrei mai pensato di dirlo, ma sei il politico che ho seguito con più attenzione in questo ultimo periodo. Ho davvero apprezzato un paio di posizioni che tu e il tuo movimento avete assunto. La prima, pressoché solitaria per nettezza nel panorama asfittico italiano, sul tema della pace in Europa, ovvero del colpo di stato in Ucraina, della guerra civile e dell’“aggressione occidentale” alla Russia. La seconda è la raccolta firme per cancellare, tramite referendum, la cosiddetta riforma Fornero». Santini mette tra parentesi il tema controverso della lotta all’immigrazione e quello, ancora più scomodo, della crociata contro l’euro. Metafora: «Un uomo (l’Italia) si trova alla deriva su una nave (l’euro) in mezzo all’oceano (il sistema finanziario globalizzato). La nave imbarca acqua pericolosamente, una tempesta minacciosa si avvicina, l’uomo per salvarsi si butta in mare ma si trova pur sempre in mezzo all’oceano e con tempeste minacciose che incombono su di lui».Nella sua sacrosanta battaglia sovranista per ripudiare l’euro, infatti, la Lega rivela una visione fondata sul mercantilismo: vede la rottamazione dell’euro come volano per rilanciare l’export, ma trascura l’enorme potenzialità della moneta sovrana per inaugurare una politica neo-keynesiana fondata sull’investimento pubblico vocato alla piena occupazione. Ad esempio, il programma della Mmt messo a punto da Warren Mosler e Paolo Barnard prevede il taglio del debito non-sovrano e la fine dei titoli di Stato: una rivoluzione democratica, al centro della quale l’istituzione pubblica ridiventa il massimo garante del benessere della cittadinanza, neutralizzando la speculazione finanziaria privata proprio grazie alla libera emissione di moneta, orientata al sostegno della riconversione sociale ed ecologica dell’economia. La Lega di Salvini preferisce annunciare una “rivoluzione fiscale” tranciante, con un’aliquota fissa al 15%, uguale per tutti. Proposta che, per Santini, «coglie un nesso fondamentale: la riduzione delle tasse non può che nascere da uno storico patto fiscale tra istituzioni e popolo», ma in ogni caso «non può essere disgiunta da una rigorosa equità contributiva e sociale, ovvero da una ampia “legalità democratica”».Sfide in ogni caso radicali, quelle impostate da Salvini: l’unico, oggi in Italia, a dichiarare guerra all’establishment tecnocratico che da Bruxelles tiene al guinzaglio il paese, condannandolo all’asfissia. Santini lo riconosce, ma interroga il leader della Lega sul percorso politico da adottare: «Ti chiedo, caro Salvini, al di là della ricerca elettoralistica del consenso, con chi ritieni di poter affrontare queste battaglie epocali? Con il centrodestra? Vuoi fare una rivoluzione di sistema con Berlusconi? Con i Gasparri e le Santanché? Soprattutto con tutto il carrozzone delle cricche affaristico-mafiose su cui quegli ambienti prosperano?». Conclusione: «Se ritieni davvero di determinare una qualche sorta di egemonia culturale su quell’area, ti faccio i migliori auguri. Ti auguro sinceramente di non fare la fine di Bossi». Salvini – alleato di Marine Le Pen contro la gestione autoritaria dell’Ue e solidale con Putin rispetto all’aggressività della Nato – è il politico italiano che oggi si presenta disponibile a scelte di rottura. Santini gli dedica un tweet: «#Salvini, rompi con B. o cadi».Cari Grillo, Ingroia e Salvini: se avete tempo per leggere tre brevi messaggi “tweet”, eccoveli. Grillo: grazie per tutto quello che hai fatto, ma ora il Movimento 5 Stelle proceda con le sue forze. Ingroia: il tuo riferimento sia Paolo Borsellino, non la “sinistra”. Salvini: archivia il Cavaliere, o fallirai anche tu. Firmato: Simone Santini, già coordinatore di “Alternativa”, laboratorio politico-culturale fondato da Giulietto Chiesa. Un triplice appello, sotto forma di tre brevi lettere aperte, pubblicate da “Megachip”. Santini ben rappresenta l’elettorato italiano sfinito dalle vane contorsioni della politica, presa al laccio dalla Troika del rigore neoliberista che impone il taglio selvaggio del benessere diffuso e la dittatura del “mercato”, cioè dell’oligarchia finanziaria dei “padroni dell’universo”. Nell’Italia che sprofonda nella catastrofe socio-economica, proprio Grillo, Ingroia e Salvini hanno tentato di arginare l’oceano dell’astensionismo, ma senza finora mettere in campo un’alternativa praticabile: Grillo auto-sabotato dalla sua stessa autocrazia, Ingroia usato come paravento presentabile tra le macerie dell’ex “sinistra arcobaleno”. Salvini? Messo in pericolo, oggi, dall’alleanza col vecchio centrodestra.
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Gangster al governo, brogli d’oro per salvare il dollaro
Truccano il prezzo dell’oro, giocando al ribasso e colpendo l’economia e i risparmiatori, solo per proteggere il dollaro, cioè la grande speculazione finanziaria. Peggio ancora: controllati e controllori sono le stesse persone. In un sistema sano, dovrebbero finire in galera. Lo affermano Paul Craig Roberts e Dave Kranzler: la finanza americana è un colossale imbroglio, scrivono, e cospira contro l’economia reale, a cominciare da quella degli Stati Uniti, aziende e famiglie. Sono accusa i “bankster” delle famigerate “bullion bank”, soprattutto Jp Morgan, Hsbc, ScotiaMocatta, Barclays, Ubs e Deutsche Bank: «Agendo probabilmente per conto della Federal Reserve, hanno sistematicamente spinto al ribasso il prezzo dell’oro», dal settembre del 2011. «Tenere basso il prezzo dell’oro serve a proteggere il dollaro Usa da una esplosione incontrollata dell’aumento del valore del dollaro e dei debiti in dollari». Certo, la domanda di oro continua a salire. Ma il prezzo viene tenuto basso col trucco dei “futures”: il prezzo dell’oro non è determinato dal mercato fisico, ma dalle scommesse speculative sul prezzo che si vuole stabilire.«Praticamente tutte le scommesse effettuate sul mercato dei “futures” sono pagate in contanti, in moneta e non in oro», spiegano Craig Roberts e Krnzler. Così, «il pagamento in contanti dei contratti serve a spostare dal mercato fisico al mercato monetario il luogo in cui si determina il prezzo dell’oro». E’ il terreno perfetto per manpolazoni d’ogni genere.L’ultima macchinazione orchestrata? E’ legata alla Fed, per esempio, che ha deciso di far salire il picco del tasso di cambio del dollaro dopo aver annunciato la fine del “quantitative easing”. Appena la banca centrale Usa ha dichiarato che avrebbe smesso di stampare dollari per sostenere il prezzo delle obbligazioni, ha dato mandato alle banche di far scendere il prezzo dell’oro con nuove vendite “naked”, cioè “allo scoperto”. Funziona così: enormi quantità di contratti a termine “scoperti”, cioè solo di carta, vengono stampati per essere buttati, tutti in una volta, sul mercato dei “futures” nei momenti in cui il mercato tende a salire. «Aumentando l’offerta di “oro di carta”, le vendite di enormi quantità servono a far scendere il prezzo dei “futures”, ed è il prezzo del “future” che determina il prezzo a cui le quantità fisiche dei lingotti possono essere acquistate».Stesso schema in Giappone, dove il prezzo dell’oro – su pressione di Washington – è stato fatto crollare per compensare l’effetto del nuovo massiccio programma di “Qe”. Obiettivo: impedire che l’oro si valorizzasse come bene-rifugio, a scapito della speculazione finanziaria. «L’annuncio del Giappone di voler creare moneta all’infinito avrebbe dovuto provocare un rialzo del prezzo dell’oro. Quindi, per evitare questa prevedibile risalita, alle 3 di notte – ora occidentale – mentre era in corso un intenso scambio di “futures” dell’oro, il mercato dei “futures” elettronico (Globex) è stato investito da una improvvisa vendita di 25 tonnellate di contratti Comex di “oro di carta”, allo scoperto, facendo scendere immediatamente il prezzo dell’oro a 20 dollari. «Nessun venditore onesto avrebbe buttato via il proprio capitale con una vendita di quel genere, in quel modo». Il prezzo dell’oro si è stabilizzato con un lieve rialzo, ma alle 8 del mattino – ora della costa orientale Usa – 20 minuti prima della apertura del New York Futures Market (Comex), sono state messe in vendita altre 38 tonnellate di oro in “futures di carta e allo scoperto”, sempre per far scendere il prezzo del lingotto. «Anche in questo caso, nessun investitore onesto si sarebbe liberato di una quantità tanto enorme di suoi beni personali, cancellando così improvvisamente la sua propria ricchezza».Il fatto che il prezzo dell’oro sia determinato in un mercato di carta – in cui non c’è nessun limite di quantità nel creare la carta su cui scrivere i contratti – produce lo strano risultato che la domanda di lingotti di oro fisico si trovi in un mondo fuori dal tempo, senza rapporti con la produzione reale, e quindi il prezzo può continuare a scendere, annotano Craig Roberts e Kranzler. «La domanda asiatica è pesante, in particolare quella dalla Cina, e le aquile d’argento e d’oro stanno volando via dagli scaffali della zecca degli Stati Uniti in quantità da record. Le scorte dei lingotti si stanno esaurendo, ma i prezzi dell’oro e dell’argento continuano a scendere giorno dopo giorno». Spiegazione: «Il prezzo del lingotto non è determinato in un mercato reale, ma in un mercato truccato, fatto solo di carta, in cui non c’è nessun limite alla quantità e alla possibilità di creare “oro di carta”». Cinesi, russi e indiani «sono ben lieti che autorità americane corrotte, con questo sistema, rendano loro possibile acquistare sempre maggiori quantità di oro a prezzi sempre più bassi». Infatti, «un mercato truccato è proprio quello che ci vuole per gli acquirenti di lingotti, così come è proprio quello che ci vuole per le autorità Usa che si sono impegnate a proteggere il dollaro da un aumento del prezzo dell’oro».Certo, «una persona onesta potrebbe pensare che esista una incompatibilità tra una forte domanda per un bene che può essere fornito solo in quantità vincolata e un contemporaneo calo del suo prezzo». Il fenomeno è più che anomalo: «Una situazione del genere dovrebbe suscitare l’interesse degli economisti, dei media finanziari, delle autorità finanziarie e delle commissioni del Congresso». Tutto tace, invece. «Dove sono le class action delle compagnie delle miniere d’oro contro la Federal Reserve, e contro le banche che custodiscono i lingotti, e contro tutti quelli che stanno danneggiando gli interessi delle società minerarie con contratti di vendita “allo scoperto” a breve?». Sottolineano Craig Roberts e Kranzler: «La manipolazione dei mercati, soprattutto sulla base di informazioni privilegiate, è illegale e altamente immorale. La vendita allo scoperto – “naked” – sta causando danni agli interessi delle miniere. Una volta che il prezzo dell’oro sarà portato sotto i 200 dollari l’oncia, molte miniere diventeranno antieconomiche. Dovranno chiudere. I minatori diventeranno disoccupati. Gli azionisti perderanno soldi. Come si può continuare a mantenere un prezzo a questo livello, ovviamente truccato, e continuare a manipolarlo?».La risposta, scrivono Craig Roberts e Kranzler, è che «il sistema politico e finanziario degli Stati Uniti è stato inghiottito da un sistema di corruzione e criminalità», nientemeno. «La politica della Federal Reserve di brogli sui prezzi delle obbligazioni e dell’oro per dare liquidità alla speculazione del mercato azionario ha danneggiato l’economia e decine di milioni di cittadini americani, solo per proteggere le quattro mega-banche dai loro errori e dai loro crimini». Attenzione: «Questo uso privato della politica pubblica non ha precedenti nella storia». E’ puro banditismo. «I responsabili devono essere arrestati e mandati sotto processo e dovrebbero contemporaneamente essere citati per danni». Il guaio è che, accanto alle mega-banche, sono implicate le stesse autorità Usa, che «pagano S&P per mantenere un valore artificiale del cambio del dollaro e per trovare la liquidità necessaria per sostenere i titoli azionari e obbligazionari, particolarmente quest’ultimo tanto artificiosamente alto che i risparmiatori ricevono dalle banche un interesse reale negativo sui loro risparmi investiti in obbligazioni». Tutto abusivo, e pericoloso, perché il sistema finanziario è fuori dalla realtà dell’economia: «Quando le autorità non riusciranno più a tenere in piedi il castello di carte, il crollo del castello sarà completo».«La costruzione di questo castello di carta – accusano Craig Roberts e Kranzler – è la prova della complicità degli economisti, dell’incompetenza dei mezzi finanziari e della corruzione delle autorità pubbliche e delle istituzioni private. I capi di una manciata di mega-banche responsabili di tutto questo problema sono le stesse persone che siedono al Tesoro degli Stati Uniti, alla Fed di New York e nelle agenzie che controllano la finanza degli Stati Uniti. Stanno usando il loro potere di controllo sulla politica pubblica per proteggersi e per proteggere le loro imprese dai loro stessi comportamenti insensati». Dettaglio: «Il prezzo di questa protezione è tutto sulle spalle dell’economia e degli americani che pagano le tasse, e il prezzo da pagare sta continuando a salire». Ok, l’America sarà anche la patria dell’economia, vista la quantità di Premi Nobel. Questo però non spiega «come gli economisti americani non abbiano notato che il prezzo dell’oro, dell’argento, delle azioni e delle obbligazioni emesse negli Stati Uniti non abbiano nessun rapporto con la realtà economica del paese. L’incompatibilità tra mercati e realtà economica non disturba, comunque, né i politici né gli economisti, che fanno solo gli interessi del governo e dei gruppi di interesse loro alleati». Il risultato? «E’ un’economia ridotta a un castello di carte», gestita da personaggi che «dovrebbero stare in galera, anziché al governo».Truccano il prezzo dell’oro, giocando al ribasso e colpendo l’economia e i risparmiatori, solo per proteggere il dollaro, cioè la grande speculazione finanziaria. Peggio ancora: controllati e controllori sono le stesse persone. In un sistema sano, dovrebbero finire in galera. Lo affermano Paul Craig Roberts e Dave Kranzler: la finanza americana è un colossale imbroglio, scrivono, e cospira contro l’economia reale, a cominciare da quella degli Stati Uniti, aziende e famiglie. Sono accusa i “bankster” delle famigerate “bullion bank”, soprattutto Jp Morgan, Hsbc, ScotiaMocatta, Barclays, Ubs e Deutsche Bank: «Agendo probabilmente per conto della Federal Reserve, hanno sistematicamente spinto al ribasso il prezzo dell’oro», dal settembre del 2011. «Tenere basso il prezzo dell’oro serve a proteggere il dollaro Usa da una esplosione incontrollata dell’aumento del valore del dollaro e dei debiti in dollari». Certo, la domanda di oro continua a salire. Ma il prezzo viene tenuto basso col trucco dei “futures”: il prezzo dell’oro non è determinato dal mercato fisico, ma dalle scommesse speculative sul prezzo che si vuole stabilire.