Archivio del Tag ‘economia’
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Salari cinesi per tutti: ormai sono più alti che in Est Europa
O la Cina sta raggiungendo alcune zone dell’Europa in termini di salari, o le retribuzioni nei paesi entrati più di recente nell’Unione Europea sono schiacciati dalla competizione globale sul lavoro, una competizione che la Cina vince a mani basse. «In realtà, si tratta di entrambe le cose», scrive Kenneth Rapoza su “Forbes”. La notizia? Sarà la Cina a dettare, nel mondo, la futura quota del salario medio – anche in Europa. A Shangai le retribuzioni medie mensili ammontano a 1.135 dollari, a Pechino sono 983 e a Shenzen 938. «Sono più alte che in Croazia, nuovo paese membro dell’Unione Europea: lo stipendio medio netto in Croazia è di 887 dollari al mese». Le paghe di Shanghai, in particolare, sono anche superiori a quelle di altri neo-membri dell’Eurozona, paesi baltici come la Lituania (956 dollari al mese) e la Lettonia (1.005), mentre in Estonia – paese che ha aderito all’euro nel 2011 – il reddito medio è pari a 1.256 dollari. Negli ultimi dieci anni, scrive Rapoza in un’analisi tradotta da “Voci dall’Estero”, l’Europa ha cercato di integrare nell’Ue la manodopera qualificata a basso costo dall’Europa dell’Est, mentre già nel 2002 la Cina si è pienamente integrata nella forza lavoro globale, entrando a far parte del Wto. L’ingresso di questi due enormi bacini di manodopera nella forza lavoro mondiale «ha posto le basi per la stagnazione dei salari tra i lavoratori meno qualificati delle catene di montaggio in tutto il mondo».In gergo economico, il fenomeno è descritto come “appiattimento della curva di Phillips”, come spiega Neil MacKinnon, economista di Vtb Capital. «L’impatto della globalizzazione e l’ingresso della Cina nel Wto nel 2002 ha aumentato notevolmente l’offerta di manodopera globale», afferma MacKinnon. L’eccesso di offerta di manodopera cinese e il flusso di merci cinesi a basso costo nell’economia mondiale ha creato un vantaggio per i consumatori globali, ma ha significato anche che determinati prodotti e posti di lavoro dell’Europa orientale hanno dovuto competere con la Cina, che ha prezzi più bassi. Catene di approvvigionamento e mercati a parte, il costo maggiore per un’azienda è la sua forza lavoro, e quella cinese viene finalmente remunerata. «Le retribuzioni dell’Europa orientale, simili a quelle cinesi, fanno parte di un mondo il cui motto è diventato: qualsiasi cosa tu possa fare, la Cina può farla a minor costo», scrive Rapoza. «La Cina stabilisce il prezzo per la manodopera manifatturiera e, in futuro, per la logistica relativa all’e-commerce. Alcuni europei dovrebbero sperare nei continui aumenti salariali della Cina se vogliono aumentare le loro stesse retribuzioni lorde».La quota della Cina nel commercio mondiale, continua Rapoza, è aumentata: da poco meno del 2% nel 1990 a quasi il 15% di oggi, secondo la Bank for International Settlements. «Da allora, l’economia di mercato cinese si è integrata all’economia globale, guidata principalmente dalla sua forza lavoro, con un rapporto capitale-lavoro inferiore agli standard globali». Inoltre, la Cina sta iniziando solo ora ad automatizzare la produzione. E in un arco di tempo simile, dagli anni ’90 ad oggi, i paesi dell’Europa orientale sono usciti dall’orbita della Russia e si sono spostati verso ovest. «Prima della caduta del comunismo, questi paesi erano rimasti più o meno isolati. La forza lavoro era abbondante e ben istruita, ma il capitale e il management erano limitati. Ne è seguita una combinazione fruttuosa: l’Europa occidentale ha fornito i soldi e il management, l’Europa dell’Est ha fornito la manodopera a basso costo». I dati relativi all’integrazione della Cina e dell’Est Europa sono impressionanti, aggiunge Rapoza. Contando solo la forza lavoro potenziale, la popolazione attiva in Cina e nell’Europa orientale tra i 20 e i 64 anni era di 820 milioni di persone nel 1990 e ha raggiunto 1,2 miliardi nel 2015. La popolazione attiva disponibile nei paesi europei industrializzati era di 685 milioni prima della crisi dell’Unione Sovietica nel 1990 e raggiungeva i 763 milioni nel 2014.«Parliamo quindi di un aumento una tantum del 120% della forza lavoro, che ha schiacciato i salari per i lavoratori meno qualificati», secondo la Bri. Usando come indicatore le tre grandi città cinesi – Shangai, Pechino e Shenzen – gli stipendi mediani dei lavoratori dipendenti sono più alti dei salari della parte più povera d’Europa: i vecchi Balcani dell’area comunista. «Proprio sul Mar Adriatico, di fronte alla ricca frontiera italiana, si trova una manodopera di tipo cinese: anzi ancora più economica, in realtà». I lavoratori cinesi a Shanghai, Shenzhen e Pechino, in media, guadagnano più dei lavoratori in Albania, Romania, Bulgaria, Slovacchia e Montenegro, nuovo paese membro della Nato, che ha un reddito medio equivalente ad appena 896 dollari al mese. I salari medi di Shanghai non sono molto diversi da quelli della Polonia, da 1.569 dollari. Lo stesso vale per la Repubblica Ceca, dove lo stipendio medio a Praga, la sua città più ricca, si aggira intorno all’equivalente di 1.400 dollari. E il salario medio lordo dell’Ungheria sta proprio al livello di Shanghai: 1.139 dollari al mese. «La crescita dei salari in Cina è impressionante», conclude Rapoza. «Ottimo per i cinesi, ma ha lasciato indietro la crescita dei salari in molti dei paesi a basso reddito in Europa». Attenzione: «Ciò che questi numeri dimostrano è che il ruolo della Cina come centro manifatturiero ha posto le basi per qualsiasi aumento futuro delle retribuzioni, in particolare per gli operai non qualificati del settore manifatturiero, ma anche ben presto in altri nuovi settori come l’e-commerce».O la Cina sta raggiungendo alcune zone dell’Europa in termini di salari, o le retribuzioni nei paesi entrati più di recente nell’Unione Europea sono schiacciati dalla competizione globale sul lavoro, una competizione che la Cina vince a mani basse. «In realtà, si tratta di entrambe le cose», scrive Kenneth Rapoza su “Forbes”. La notizia? Sarà la Cina a dettare, nel mondo, la futura quota del salario medio – anche in Europa. A Shangai le retribuzioni medie mensili ammontano a 1.135 dollari, a Pechino sono 983 e a Shenzen 938. «Sono più alte che in Croazia, nuovo paese membro dell’Unione Europea: lo stipendio medio netto in Croazia è di 887 dollari al mese». Le paghe di Shanghai, in particolare, sono anche superiori a quelle di altri neo-membri dell’Eurozona, paesi baltici come la Lituania (956 dollari al mese) e la Lettonia (1.005), mentre in Estonia – paese che ha aderito all’euro nel 2011 – il reddito medio è pari a 1.256 dollari. Negli ultimi dieci anni, scrive Rapoza in un’analisi tradotta da “Voci dall’Estero”, l’Europa ha cercato di integrare nell’Ue la manodopera qualificata a basso costo dall’Europa dell’Est, mentre già nel 2002 la Cina si è pienamente integrata nella forza lavoro globale, entrando a far parte del Wto. L’ingresso di questi due enormi bacini di manodopera nella forza lavoro mondiale «ha posto le basi per la stagnazione dei salari tra i lavoratori meno qualificati delle catene di montaggio in tutto il mondo».
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Formenti: e ora il potere annullerà questa rivolta elettorale
Dopo Trump, la Brexit e il referendum italiano sulla Costituzione, erano arrivate la vittoria di Macron e il recente, travagliato rilancio della “grande coalizione” Cdu-Spd in Germania, alimentando nell’establishment “liberal” l’illusione che la marea populista fosse sul punto di rifluire. Invece no: il risultato delle elezioni del 4 marzo l’onda prosegue e rischia di travolgere «la diga eretta da partiti tradizionali, media e istituzioni nazionali ed europee», scrive Carlo Formenti su “Micromega”. 5 Stelle e Lega triplicano le rispettive rappresentanze parlamentari e i loro voti sommati superano il 50%, «certificando che metà dei cittadini italiani sono euroscettici e non credono più alle narrazioni sulla fine della crisi e sui presunti benefici della globalizzazione». Per i media, siamo allo tsunami populista. Ma che radici sociali ha? Quali sono le differenze fra le sue due anime principali? E perché le sinistre (socialdemocratiche e radicali) stanno affondando nell’insignificanza politica? E poi: perché, malgrado tutto, l’establishment è ancora in grado resistere? Quali scenari si apriranno, se e quando la diga crollerà davvero?
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Carpeoro: elettori beffati, la sovragestione ha vinto ancora
La sovragestione tutto vuole, in Italia, meno che un governo forte. Qualunque governo le sta bene, purché sia debole, ricattabile e compromesso. In che senso compromesso? Era assolutamente chiaro che Di Maio era andando a chiedere la benedizione di ambienti americani – che lo hanno abbastanza snobbato, ma che comunque sono sempre pronti a cavalcarlo, se atto alla bisogna (come hanno fatto con Berlusconi: gli ambienti delle Ur-Lodges hanno snobbato nella stessa misura Berlusconi e Renzi, e sono ampiamente disponibili a snobbare anche Di Maio, pur gestendolo – quello non è un grosso problema). Di Maio è andato a chiedere la benedizione di costoro, e quindi è compromesso a tutti gli effetti. Forse lo era già prima, nel senso che le relazioni americane rispetto al Movimento 5 Stelle ci sono ben note. La Bonino è compromessa da tempo, tant’è vero che i suoi ultimi anni di convivenza con Pannella sono stati costituiti di esclusivamente di dissapori, e non di accordo e coesione politica. E quindi tutto quadra. Adesso Renzi, che ha capito di esser stato giocato, vuol mettersi un attimo di traverso (per cui verrà messo immediatamente a tacere).D’altro canto, se avesse avuto i numeri per governare l’altra componente, il centrodestra, non sarebbe cambiato assolutamente nulla: nel senso che Berlusconi è compromesso, mentre Salvini era assolutamente pronto ad allinearsi alla sovragestione. Lo dimostra il fatto, ad esempio, che proponga una politica sull’immigrazione che è stranamente simile a quella di Donald Trump, che in realtà è una non-politica dell’immigrazione. Fatte queste premesse, probabilmente la sovragestione avrà il risultato che più le aggrada. Se si dovesse fare – cosa che ritengo improbabile – un governo del centrodestra, avrebbe un governo pronto ad assecondarla. Se si dovesse fare un governo “Bonino, Pd, 5 Stelle”, idem: avrebbe un governo pronto ad assecondarla. L’unico risultato che la sovragestione non vuole è che si torni a votare, perché la esporrebbe al rischio di trovare uno sbocco, per l’Italia. Ma intanto sono sicuro che gli italiani, ancora una volta, non avranno nessun risultato che sia coerente con il loro voto.Non potranno averlo, un risultato coerente con il voto appena espresso, a meno che la base dei 5 Stelle non si metta di traverso e punti i piedi per tornare a votare – ma vedo che in questo momento non ce ne sono i presupposti. A questo punto vedremo se i 5 Stelle sanno o non sanno governare – perché noi questa riprova, oggi, non l’abbiamo. Io ho le mie idee, sul Movimento 5 Stelle, ma sono prontissimo a rivederle, se governassero bene. Il problema è che non ne avrà la riprova, perché i 5 Stelle non potranno governare: se lo faranno, governeranno “sotto scopa” e in un ambito di piena sudditanza alla sovragestione. Se non governeranno, dovranno affilare le armi e governerà qualcun altro, che sarà ugualmente prono al fatto che noi veniamo tranquillamente gestiti da lobby finanziarie e paramassoniche, che regoleranno i loro interessi sulla nostra pelle.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti nella diretta web-streaming “Border Nights” del 6 marzo 2018. Con il termine “sovragestione”, Carpeoro – autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, edito da Revoluzione – intende i massimi poteri economico-finanziari internazionali, collegati a precisi settori dei servizi segreti atlantici, regolarmente incaricati di operazioni di manipolazione e disinformazione, fino alla guerra e alla strategia della tensione che utilizza manovalanza islamista).La sovragestione tutto vuole, in Italia, meno che un governo forte. Qualunque governo le sta bene, purché sia debole, ricattabile e compromesso. In che senso compromesso? Era assolutamente chiaro che Di Maio era andato a chiedere la benedizione di ambienti americani – che lo hanno abbastanza snobbato, ma che comunque sono sempre pronti a cavalcarlo, se atto alla bisogna (come hanno fatto con Berlusconi: gli ambienti delle Ur-Lodges hanno snobbato nella stessa misura Berlusconi e Renzi, e sono ampiamente disponibili a snobbare anche Di Maio, pur gestendolo – quello non è un grosso problema). Di Maio è andato a chiedere la benedizione di costoro, e quindi è compromesso a tutti gli effetti. Forse lo era già prima, nel senso che le relazioni americane rispetto al Movimento 5 Stelle ci sono ben note. La Bonino è compromessa da tempo, tant’è vero che i suoi ultimi anni di convivenza con Pannella sono stati costituiti esclusivamente di dissapori, e non di accordo e coesione politica. E quindi tutto quadra. Adesso Renzi, che ha capito di esser stato giocato, vuol mettersi un attimo di traverso (per cui verrà messo immediatamente a tacere).
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Sapelli: dalle macerie italiane risorge il popolo degli abissi
No al rigore, al precariato schiavistico, all’invasione-migranti. Vietato avere paura del verdetto elettorale: quello del 4 marzo è stato un voto “di speranza e di trasformazione”. Parola di Giulio Sapelli, economista sulle barricate contro l’euro-austerity all’epoca del governo Monti. «Il popolo degli abissi si è messo in marcia, ha reagito ad anni e anni di gioco di specchi e di disincanti», scrive Sapelli sul “Sussidiario”. «Niente è andato come previsto: come nel libro di Jack London, il popolo degli abissi si è levato, ha preso l’arma del voto come una bandiera e con calma risoluta ha detto basta a quattro mali che hanno disintegrato l’Europa e l’Italia». Il primo è l’ordoliberismo, «ossia l’austerity fondata su bassi salari e distruzione del welfare». Poi c’è la cosiddetta “liberalizzazione” del mercato del lavoro, «con il neoschiavismo dei contratti a termine e del precariato». E’ stata la sinistra blairiana, ricorda Sapelli, a inventare «questo infernale marchingegno, con schiere di devoti giuslavoristi in conflitto d’interessi». Pochi giorni fa, “El Pais” pubblicava l’articolo del presidente di “Ciudadanos” che illustrava la legge di iniziativa parlamentare in cui si abolisce il precariato «con una tranquilla enfasi sulla difesa degli interessi della nazione e del tessuto industriale e dei servizi del paese».Il terzo male, per Sapelli, è l’inerzia delle parti sociali, «che vedono spogliare questa nazione delle sue risorse e nulla fanno come le borghesie commerciali “sudamericane”». E i sindacati, pur essendo «l’ultima istituzione che tiene», di fatto «rinunciano alle battaglie sui punti fondamentali». E questo, ovviamente, implica il fatto di «correre il pericolo del nazionalismo della povera gente e della classe media in discesa, con i fantasmi fascisti che ritornano». Proprio le fasce più deboli sono quelle più esposte al “quarto male” a cui gli elettori avrebbero detto basta, cioè «l’immigrazione incontrollata e non gestita con l’intelligenza della sicurezza e del rispetto della persona, non solo dei migranti, ma anche dei poveri e degli anziani che si trascinano una vita di stenti e non ne possono più di forti giovanotti con cellulare e venti euro in saccoccia: gli esempi australiani e tedeschi di accoglienza sono lì, ma noi nulla facciamo». Per l’economista, letteralmente, «si è disgregato lo Stato». Ed è quindi inevitabile che forze come i 5 Stelle e la Lega di Salvini si presentino come alternative al sistema.Da anni, Sapelli rileva l’inversione della tradizionale rappresentanza partitica: «I ricchi votano la loro sinistra, ossia Pd, Pisapia, Bonino, eccetera, mentre i poveri votano a destra, come sta accadendo in tutto il vecchio mondo neo-industriale. Non c’è bisogno di scomodare Trump, basta guardare alla Germania e alla Francia. Lì non votano e Macron viene eletto dal 23% degli aventi diritto». In Italia la partecipazione elettorale è ancora alta, ma travolge il vecchio schema destra-sinistra. Beninteso: «Sinistra, destra e centro sono ben presenti nel sociale e nell’universo simbolico del “popolo degli abissi”, ma quel popolo ha già compreso che le vecchie casacche vestono i morti: “Le mort saisit le vif”, diceva il filosofo di Treviri». A parte Marx, secondo Sapelli non bisogna «perdere la speranza che i nuovi universi simbolici siano educati dalle istituzioni e da una rinascita del ruolo degli intellettuali, che ora pasolinianamente al popolo si avvicinino senza più tradirlo». Quello del 4 marzo, insomma, «è un voto di speranza e di trasformazione».No al rigore, al precariato schiavistico, all’invasione-migranti. Vietato avere paura del verdetto elettorale: quello del 4 marzo è stato un voto “di speranza e di trasformazione”. Parola di Giulio Sapelli, economista sulle barricate contro l’euro-austerity all’epoca del governo Monti. «Il popolo degli abissi si è messo in marcia, ha reagito ad anni e anni di gioco di specchi e di disincanti», scrive Sapelli sul “Sussidiario”. «Niente è andato come previsto: come nel libro di Jack London, il popolo degli abissi si è levato, ha preso l’arma del voto come una bandiera e con calma risoluta ha detto basta a quattro mali che hanno disintegrato l’Europa e l’Italia». Il primo è l’ordoliberismo, «ossia l’austerity fondata su bassi salari e distruzione del welfare». Poi c’è la cosiddetta “liberalizzazione” del mercato del lavoro, «con il neoschiavismo dei contratti a termine e del precariato». E’ stata la sinistra blairiana, ricorda Sapelli, a inventare «questo infernale marchingegno, con schiere di devoti giuslavoristi in conflitto d’interessi». Pochi giorni fa, “El Pais” pubblicava l’articolo del presidente di “Ciudadanos” che illustrava la legge di iniziativa parlamentare in cui si abolisce il precariato «con una tranquilla enfasi sulla difesa degli interessi della nazione e del tessuto industriale e dei servizi del paese».
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Bannon, il risveglio dell’Italia e l’astuto marketing 5 Stelle
Steve Bannon è un genio e lo ha dimostrato anche in Italia in una recente intervista non appena sbarcato. Bannon ha spiegato come le dinamiche di disinformazione di cui l’Italia è intrisa, tra cui la retorica su razzismo, su fascismo e comunismo (nel 2018), sul populismo, sul femminismo, eccetera, siano un fenomeno conosciuto e digerito in Usa, e denuncia come esse rappresentino le stesse con cui Trump ebbe a che fare in campagna elettorale prima della sua vittoria. La perfezione non esiste, ma non c’è dubbio che in Italia siano rari uomini di valore come questo americano, probabilmente soffocati dall’“eccesso dell’apparenza”, dalla melassa radical chic. In questo paese (e forse non solo) l’umanesimo, nato dall’Illuminismo, anziché stimolare l’approfondimento e la conoscenza è stato declassato in una funzione di ottundimento delle menti; il pericolo che ravvedo è che a capo di questo paese, oggi o domani, si piazzi una qualche oligarchia che costruisca (nell’immagine) in modo impeccabile politici incompetenti e li sfrutti in cambio di ingenti quantità di danaro erogate da soggetti esteri, in una sorta di “esternalità di mercato”.Non sarebbe probabilmente nemmeno una novità: si pensi a come il rapporto di ingresso in euro (marco = 990 lire) abbia danneggiato il nostro paese in favore della Germania (quando era cosa nota essere un valore ribassato di circa 200 punti dal doping finanziario) e di come nessun politico o giornalista lo abbia fatto presente all’epoca: tale rapporto fu festeggiato con giubilo – ricordo gli articoloni di “Repubblica” e “Corsera”. Troppe volte vediamo tematiche secondarie enfatizzate a spese di quelle serie, sconosciute ai più (dove, lì sì, ballano miliardi di euro); pare invece di assistere al meccanismo “trasmissione, ricezione, reazione, subcultura” presente nei reality come il Grande Fratello (che è certamente più seguito e consultato di questo articolo). Tornando a Bannon, nonostante il solco che si è scavato tra lui e Trump, ivi comprese accuse e parole grosse volate, si percepisce intatto in lui il rispetto (e la stima) verso il grande uomo, verso il presidente; e questo altissimo senso del valore è un feedback nei due sensi con quello delle istituzioni: è ciò che non si vede davanti ai riflettori.Evidentemente gli Usa, essendo un territorio meno densamente abitato del nostro (non esistono solo le metropoli) e quindi più anarchico/naturale, mantengono vivo il senso dell’“io sono americano!” (“America First”) e nonostante un senso civico in molti casi carente, permettono all’essere umano di riflettere in maniera molto più autonoma e libera che in Italia, dove invece è presente una forma di controllo e di reciproca influenza. Non è un caso che le dinamiche di gruppo stiano prevalendo in modo massiccio sull’indole autentica e libera dell’essere umano. In “Psicologia sociale dei gruppi” di Rupert Brown si chiarisce che chi ha una consistente impronta individuale difficilmente tradisce i valori in cui crede per piacere agli altri. Chi ha invece un più marcato senso del ruolo sociale si adatta all’assemblea, alla classe, al gruppo (o al branco) ed è pronto a cambiare repentinamente tipologia di rapporto con l’altro: perfino calpestando legami quali amicizia e stima proprio perché meno profondi. Questi meccanismi di norma sono evidenti in presenza di un mutato ruolo o “status” gerarchico. I gruppi possono diventare perciò formidabili centri di controllo: ormai sono in mano alle tv e al tasto “condividi” di Facebook; lascio a voi presagire cosa ciò possa comportare (vedasi discorso oligarchie).Lo stesso senso delle istituzioni qui accennato, in Italia, è lasciato in pasto all’immagine, alla forma, al marketing pilotato dagli esperti e dall’alto: il manichino con la cravatta, l’uso di terminologie complesse (spesso sconosciute in chi le usa), gli atteggiamenti distanti. Il valore che si respira nelle parole di Bannon in Italia è praticamente estinto e lascia il posto all’apparenza e quindi inevitabilmente alle sparate. Ho sentito dire addirittura (non cito la fonte) che saremmo entrati nella “Terza Repubblica”, un insulto all’educazione civica di base, quella delle scuole medie (!). A poco serve conoscere che affinché si entri in una Nuova Repubblica sia necessario modificare radicalmente la Costituzione: per finalità di marketing politico per far passare un messaggio (“faremo giustizia delle vostre sofferenze”) si arriva a tanto (e state certi che, in spregio al senso civico, questo messaggio passa). Non è un caso che Bannon comunichi agli italiani: «Siete un grande popolo, non vi percepite più come tali e dovete tornare a farlo, tutto il mondo vi guarda». Se notate sono iniezioni di quel senso dello Stato che i gangli dell’establishment hanno disperso, inquinato, ammorbidito in Italia introducendosi nelle facoltà universitarie, nei Tg, nei salotti buoni, nelle istituzioni, nelle scuole, e questo al ben noto scopo di abbattere ogni resistenza delle nazioni al predominio selvaggio della finanza (niente di più, niente di meno).Anche lo stesso uso di terminologie anglosassoni ha lo scopo di infonderci un senso di inferiorità (“siamo colpevoli, siamo corrotti”) e molti, quando votano, lo fanno in base proprio a questo senso di sudditanza: peccato che il debito estero, per fare un esempio, prima dell’euro in Italia (praticamente) non esistesse… A tal proposito, sappiamo tutti Mani Pulite a cosa sia servita: a portarci dentro la moneta unica allo scopo di alimentare un sistema di svendita costante del paese; ogni volta che qualcuno enfatizza la lotta alla corruzione in realtà ha come scopo svendere i nostri assets pigiando sul tasto “siamo colpevoli”: il malessere non lo si combatte ma si alimenta facendo credere che il problema sono i vitalizi che pesano 70 milioni (quanto il cartellino di Alex Sandro della Juve) quando sono attive leggine volute dall’establishment finanziario internazionale che pesano per decine di miliardi di euro l’anno. Non si rende un buon servizio al paese nemmeno prendendo di mira l’ultima ruota del carro bancario/finanziario, e cioè le banche italiane (allo scopo di isolarle per anticiparne la svendita all’estero). Queste banche sono state portate al collasso dalla recessione.La crisi è stata causata da quegli stessi soggetti internazionali che adesso pretendono (con l’appoggio dichiarato di Di Maio e Fioramonti) la riscossione forzata delle sofferenze bancarie (crediti). La causa delle sofferenze bancarie però non è l’avidità di qualche banchiere di Arezzo sicuramente da arrestare, ma il fatto che i cittadini non depositano, ma anzi prelevano, danaro dalle banche non arrivando alla fine del mese; se non onorano mutui e prestiti è perché hanno perso il lavoro o chiuso l’attività. Questo paese non è nelle peste per i ladri (studi empirici mostrati ad esempio da Bagnai dimostrano che pesino alla voce debito per un 5-10%) bensì per i venduti (vecchi e nuovi) che hanno accettato condizioni insostenibili per l’Italia forti del senso di autocommiserazione e della credulità popolare. Tornando a Steve Bannon quindi, egli commette due errori: essendo un uomo concreto ben distante dalle retoriche radical chic, funzionali ai poteri finanziari, utilizza il termine “populismo” come “politica nell’interesse del popolo” in contrapposizione a quella “nell’interesse della finanza internazionale”. In realtà questo da lui indicato non è “populismo”; il populismo infatti è ben altro, e cioè l’utilizzo della comunicazione per dirigere le masse verso finalità spesso oligarchiche.Ha citato come forze “populiste” Lega e 5 Stelle, e questo è il secondo errore. E’ vero che la popolazione italiana votando Lega e 5S abbia mandato un segnale inequivocabile, ancor più che nel 2013, contro l’establishment (pur in larga parte non rendendosi conto del profondo e inscindibile legame tra euro e lo stesso) ma se la Lega rappresenta il “populismo buono”, cioè quello definito da Bannon, i 5 Stelle, un po’ come il colesterolo, rappresentano l’altro populismo, quello “cattivo”, cioè una grande operazione di canalizzazione della protesta (che infatti, secondo me, verrà premiata da Mattarella con l’incarico). Mi riferisco al populismo come comunicazione finalizzata a dirigere le masse per finalità oligarchiche: per legittimare l’ennesima forzatura di un capo dello Stato contro la democrazia creando un governo 5S-Pd, le Tv stanno manipolando (in chiave establishment) la percezione del risultato elettorale, ignorando che il centrodestra (37% e oltre) è compatto nell’indicazione di Matteo Salvini come premier e cercando di inculcare che le elezioni le abbiano vinte i 5 Stelle, che invece stanno dietro a debita distanza. Se ciò avverrà, se l’incarico sarà dato a Di Maio per governare col Pd, i 5 Stelle utilizzeranno sempre il marketing per ingannare una base a cui è già stato fatto passare di tutto sopra la testa (vedasi discorso inerente i ruoli sociali dei gruppi) senza il minimo disordine: uno di questi stratagemmi sarà mostrare che Renzi non c’è più, ma la sostanza sarà il tradimento di un voto democratico che pretende che l’establishment internazionale (da cui Bannon ci mette in guardia) diventi opposizione.(Marco Giannini, “Bannon, il risveglio dell’Italia e l’astuto marketing 5 Stelle”, da “Libreidee” del 7 marzo 2018. Autore di saggi in materia economica, Giannini è stato vicino al Movimento 5 Stelle fino alla svolta ultra-europeista dei grillini al Parlamento Europeo).Steve Bannon è un genio e lo ha dimostrato anche in Italia in una recente intervista non appena sbarcato. Bannon ha spiegato come le dinamiche di disinformazione di cui l’Italia è intrisa, tra cui la retorica su razzismo, su fascismo e comunismo (nel 2018), sul populismo, sul femminismo, eccetera, siano un fenomeno conosciuto e digerito in Usa, e denuncia come esse rappresentino le stesse con cui Trump ebbe a che fare in campagna elettorale prima della sua vittoria. La perfezione non esiste, ma non c’è dubbio che in Italia siano rari uomini di valore come questo americano, probabilmente soffocati dall’“eccesso dell’apparenza”, dalla melassa radical chic. In questo paese (e forse non solo) l’umanesimo, nato dall’Illuminismo, anziché stimolare l’approfondimento e la conoscenza è stato declassato in una funzione di ottundimento delle menti; il pericolo che ravvedo è che a capo di questo paese, oggi o domani, si piazzi una qualche oligarchia che costruisca (nell’immagine) in modo impeccabile politici incompetenti e li sfrutti in cambio di ingenti quantità di danaro erogate da soggetti esteri, in una sorta di “esternalità di mercato”.
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Il potere vota Di Maio. Scalfari: è il nuovo leader, a sinistra
Per Marco Travaglio, a dare spettacolo è il noto sport nazionale: correre in soccorso dei vincitori. Sempre che i soccorritori, in questo caso, non siano i terminali italiani degli azionisti-ombra dei 5 Stelle, tranquillizzati in anticipo da Luigi Di Maio nei santuari del sommo potere, da Londra a Washington, prima ancora di presentare una lista iper-rassicurante di possibili ministri tecnici, a partire dal neoliberista Fioramonti, il cui curriculum contempla nomi come Rothschild, Rockefeller e Soros. «I poteri forti si riposizionano», titola il “Fatto Quotidiano”. O meglio: forse rendono palese ciò che prima era nascosto, e cioè che il successo firmato Di Maio fosse, fin dall’inizio, il loro Piano-B. Ovvero: non l’imbarazzante avanzata di una forza “antisistema”, ma il prevedibile boom di un’ala “populista” del sistema stesso, adatta a drenare il dissenso sociale di un’Italia in crisi. Da Marchionne a Confindustria, la convergenza su Di Maio si è fatta aperta e spettacolare, quasi quanto quella di Eugenio Scalfari, decano del “quarto potere” italico. Per il fondatore di “Repubblica”, che pochi mesi fa ai 5 Stelle avrebbe preferito persino l’odiato Berlusconi, oggi di Di Maio non è solo il legittimo capo del prossimo ipotetico governo, ma addirittura il leader del nuovo, grande partito unico della sinistra italiana, destinato a inglobare e assorbire lo stesso moribondo Pd. Questione di parole: sostituendo “sinistra” con “potere”, il cerchio si chiude.
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Magaldi: a casa, con Renzi, tutti i dirigenti dell’ipocrita Pd
E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale: «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».Le elezioni? Tutto come previsto: il grande sconfitto è Renzi, che ha solo finto di alzare la voce con l’Ue. L’altro perdente annunciato è Berlusconi, «quindi esce sconfitto quell’auspucio, caldeggiato anche da ambienti sovranazionali, che è stato uno dei moventi di questa legge elettorale». Sipario sul “Renzusconi”, cioè sulle larghe intese «convergenti verso questa melassa centrista infeconda che ha caratterizzato anche le passate legislature, da Monti in poi: esecutivi che hanno fatto tutti lo stesso mestiere, a quanto pare inviso agli italiani, che questa volta hanno dato una bella bastonata a questa prospettiva». Così Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio” il giorno dopo il voto. Una tornata ricca di conferme: «Come immaginato, nessuno ha vinto davvero: grandi exploit da Salvini e dai 5 Stelle, ma nessuno di loro ha i numeri per governare da solo». Terza previsione azzeccata: «Nulla sarà più come prima», ma siamo piombati in una palude: «E le paludi sono feconde, come il concime». Mattarella darà la precedenza al centrodestra, la coalizione meglio piazzata, o ai 5 Stelle primo partito? Un’alleanza tra grillini e Pd de-renzizzato «sarebbe un abbraccio singolare, dopo che il Pd ha demonizzato i 5 Stelle come fossero gli Unni». Eppure, «questa alleanza potrebbe vedere il favore di Mattarella, ed è quella verso cui si è mosso Di Maio». Per contro, escludere i 5 Stelle, cioè i più votati in assoluto, «sarebbe una beffa: impensabile, ai tempi della Prima Repubblica».Per Magaldi «cambieranno molte cose di giorno in giorno: ciò che oggi appare improbabile potrebbe mutare prospettiva, oltre questo scenario così ostico». Emergeranno soluzioni «difficili da concepire con gli schemi di prima del voto». Alla fine, «sulle difficoltà politiche prevarranno le possibilità numeriche». Molto dipenderà dal presidente della Repubblica: nel 2013, Napolitano dette a Bersani solo un incarico esplorativo ufficioso. «Constatando l’eccezionalità della situazione», aggiunge Magaldi, «anziché lasciare tutto all’interno nel Palazzo», il Quirinale potrebbe passare la palla al Parlamento, «per vedere chi ci sta, sulla base di un programma, a formare un governo». Certo, la “palude” è infida. Ma almeno, il voto ha stabilito una tendenza: ha reso chiaro «quello che gli italiani non vogliono». Ovvero: «C’è il desiderio di affrancarsi da un corso politico: direi che l’ingloriosa storia della Seconda Repubblica finisce qui». C’è da rivalutare semmai la tanto vilipesa Prima Repubblica, «in cui un paese in ginocchio dopo la guerra, dopo la sconfitta della barbarie nazifascista, in pochi decenni era diventato una grande potenza industriale». Ma c’era un paradigma vigente – la spesa pubblica strategica, chiave del successo storico del “made in Italy”: paradigma abbattuto dal ‘92 in poi. «E questi signori, che sono venuti a raccontarci le “magnifiche sorti e progressive” che con la Seconda Repubblica si sarebbero avverate in Italia e in Europa, oggi escono di scena», sintetizza Magaldi. «Compaiono altri attori, dalle prospettive incerte».Un voto “utile”, comunque, a ramazzare via gli orpelli polverosi. Come “Liberi e Uguali”, che Magaldi definisce «una follia pianificata». E spiega: «Solo l’immaginazione malsana e l’assenza di senso della realtà e lungimiranza di Bersani e D’Alema, Civati e Speranza, poteva immaginare che Grasso potesse essere il portavoce carismatico e ricco di appeal per un elettorato di sinistra critico verso il Pd». Se in Grasso e Bersani prevale l’ipocrisia, nel dirsi “di sinistra” sottoscrivendo il protocollo dell’euro-austerity, in Emma Bonino versione 2018 ha invece stravinto il delirio: «Sconcertante, la Bonino, nel venirci a proporre “più Europa”. Un messaggio thatcheriano: lo statista come il buon padre di famiglia che deve preoccuparsi di ripagare i debiti, come se il debito pubblico fosse il debito privato, che va ripagato perché c’è la cambiale che scade». In una macroeconomia, cioè in un sistema economico complesso, il debito pubblico – insieme all’inflazione, agli investimenti a deficit – è uno dei fattori da maneggiare con oculatezza, «sapendo che uno Stato con sovranità monetaria gestisce le cose non come una famiglia privata (che non può stampare i soldi in cantina): uno Stato più fare deficit per aumentare il Pil e diminuire così, anziché coi tagli alla sanità, il rapporto malsano tra debito e Pil».Da Emma Bonino abbiamo sentito assurdità mostruose: bloccare la spesa pubblica per i prossimi due anni, alzare l’Iva. «Questo è un paese martoriato dalle tasse, dove i consumi sono crollati e c’è l’esigenza di far circolare moneta e tenere più bassa la pressione fiscale», puntualizza Magaldi. «Soltanto dei pazzi potrebbero pensare di tagliare ancora la spesa e aumentare ulteriormente le tasse». E in campagna elettorale questo delirio ha avuto libero corso, «complice anche un linguaggio mediatico alterato». Già, infatti: «A che livello è scesa la comunicazione giornalistica, in Italia? Rappresenta le cose per come non sono. E’ lo stesso giornalismo che aveva fatto credere a Mario Monti di avere un consenso maggioritario nel paese, nel 2013, quando i giornaloni titolavano che finalmente l’Italia eta governata da illuminati professori. Monti e la Fornero ci sono stati proposti come sacerdoti del “vero” economico, per settimane, da quell’altro bel tomo di Giovanni Floris». Oltre al vecchio ceto politico, insiste Magaldi, «dovremmo rottamare un ceto mediatico corporativo, con giornalisti che si intervistano a vicenda, elevando la figura del giornalista a grande intellettuale e politologo – ma spesso è gente che non conosce nemmeno i rudimenti della storia patria, non parliamo dell’economia internazionale».Altra mistificazione: gli apostoli della Costituzione “più bella del mondo” che si professano nemici della massoneria – Di Maio in primis – dimenticando il massone conclamato Meuccio Ruini, presidente della “Commissione dei 75” incaricata di redigerne il testo (e il capo di gabinetto di Ruini era il grande economista Federico Caffè, insigne keynesiano). «Se vuole governare l’Italia – dichiara Magaldi – Di Maio dovrà affrancarsi dalle proprie fobie e immaturità illiberali e anticostituzionali. Nella lista di possibili ministri che ha presentato ci si richiama a John Maynard Keynes, altro notorio massone al pari di Franklin Delano Roosevelt: colonne portanti del mondo post-bellico, cioè di ciò che ha consentito il ritorno della libertà in Europa e nel mondo. Quindi merita riconoscenza quella corrente maggioritaria di massoneria che ha prima costruito e poi difeso le società aperte, liberali, parlamentarizzate e democratiche». Sono verità storiche che per Magaldi vanno finalmente acquisite, se si vuole fronteggiare davvero questa Disunione Europea «in cui vige il mercantilismo più spudorato da parte della Germania».Mercantilismo: dottrina econonica (superata dal libero mercato) secondo cui la ricchezza della nazione sta nel surplus di esportazioni. «La Germania ha violato anche i pessimi trattati vigenti, che pur essendo pessimi non consentirebbero il mercantilismo», insiste Magaldi. «Siamo al di là del pessimo: abbiamo una costruzione europea non democratica, nata dalla Dichiarazione Schuman scritta dall’ex progressista Jean Monnet convertito all’idea economicistica dell’Europa, sulle idee di Kalergi, ideatore di una costruzione quasi neo-feudale dell’Europa», a imitazione del feudalesimo carolingio. E’ un’Europa pericolosa, «fondata su un’idea di sfiducia verso la democrazia e verso la politica». Orrore: «O il potere spetta al popolo sovrano, oppure spetta a sedicenti illuminati – poco importa che utilizzino strumenti finanziari, diplomatici, militari, religiosi o mediatici. O il popolo è sovrano, o è sovrano qualcun altro», aggiunge Magaldi. «Dovremmo avere un Parlamento Europeo che rappresenta il popolo sovrano, con una potestà legislativa piena, con facoltà di fiduciare o sfiduciare un esecutivio europeo reale, al posto di questa barzotta Commissione Europea. Juncker e Tajani? Figure stucchevoli, a cui non lascerei gestire neppure un condominio, e invece sono ai vertici. Dovremmo avere un dipartimento del Tesoro e buoni del Tesoro europei che taglino alla radice qualunque cataclisma da spread, vero o presunto». Di Maio e Salvini presentati come antieuropeisti? Errore: «I veri antieuropeisti sono quelli che oggi infestano le cancellerie europee e gli organi tecnocratici di questa Unione Europea». Ma i neo-vincitori sapranno cambiare passo, verso Bruxelles?«Non vorrei che le istanze euro-critiche del Movimento 5 Stelle si andassero appannando, nel percorso politico che si avvia con queste consultazioni», dice Magaldi. «Mi piacerebbe che tutti gli schieramenti in Parlamento avessero un nuovo modo di guardare all’Europa». C’è anche un problema di legittima rappresentanza delle istanze nazionali: «L’Italia è un grande contraente dell’Ue e dell’Eurozona, eppure ha visto sfumare anche un riconoscimento simbolico come l’attribuzione dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco. E’ finita in farsa, l’Italia è stata defraudata anche di questa piccola cosa. E il peggio è che si è vista la latitanza delle istituzioni italiane nel far valere le ragioni del nostro paese». Disunione Europea, appunto: «Un equilibrio di cancellerie, che perseguono scopi nazionali mascherati da un’impalcatura burocratica. Spero che tutti – non solo i vincitori relativi di queste elezioni – ripensino il modo in cui l’Italia deve stare in Europa». L’Italia? «Deve essere più autorevole: non lo è stata affatto quando è venuto il tecnocrate Mario Monti, inviato direttamente dai salotti buoni europei. L’elemento più sublime della sua narrazione era che dovessimo fare quel che ci diceva “l’Europa”, perché l’avevamo interiorizzato. Uno scenario da Grande Fratello orwelliano: abdicare al proprio libero pensiero critico e fare qualcosa che viene imposto da altri, perché eseguire senza discutere è cosa buona e giusta».Nei fatti, alla “teologia” dell’Ue si è sottomesso anche Renzi, che ora trasforma in farsa le sue dimissioni, dopo aver corso a capofitto verso la disfatta. «Sarebbe passato quasi per eroe – dice Magaldi – se solo avesse avuto il coraggio di inserire nel fatale referendum almeno il pareggio di bilancio in Costuzione, lasciando esprimere gli italiani». L’obbligo costituzionale del bilancio in pareggio, afferma Magaldi, «riporta il sedicente centrosinistra egemonizzato dal Pd alla destra storica di Quintino Sella, che conseguì il pareggio di bilancio nella seconda metà dell’800, quando al governo c’era il liberismo storico più bieco e spietato, che mandava Bava Beccaris a massacrare contadini, operai e povera gente che manifestava contro la tassa sul macinato e per le condizioni sociali allora davvero inique». Attenzione: su un tema come il pareggio di bilancio, di importanza capitale per la vita di tutti, non c’è stato uno straccio di dibattito mediatico: «Questo è un paese che parla a reti unificate solo di questioni irrisorie, mentre quando si votata il pareggio di bilancio gli eletti in Parlamento hanno agito come soldatini obbedienti, senza nessuna eccezione». Dov’era, il Pd? In aula, a votare: uso obbedir tacendo. «Via Renzi, il nuovo che avanza sarebbe Gentiloni, che ha fatto un governo renziano in linea con quelli di Monti e Letta? E gli altri che stanno nel Pd? Quando mai hanno levato la loro voce per proporre una traiettoria diversa? Sono tutti responsabili di questa bastosta. E’ una classe politica, quella del Pd, che deve andare a casa».Vale anche per l’Europa, aggiunge Magaldi: il Pd sta nell’alleanza dei socialisti democratici, e in tutta Europa «i socialisti sono chiaramente in regressione perché non hanno nessuna proposta socialista». Magaldi si definisce liberalsocialista: «L’elemento socialista ci deve essere: è la capacità di costruire un contesto di giustizia e mobilità sociale, in cui lo Stato abbia un ruolo dinamico e complementare a quello del libero mercato (e dove ci sia davvero libero mercato, senza monopoli, oligopoli e conflitti d’interesse)». Tutto ciò è mancato: poi qualcuno si lamenta se “la sinistra” è in estinzione. «E poi c’è il grande rimosso: John Maynard Keynes. Oggi, in tanti dicono che vogliono riscoprirlo: li aspettiamo al varco». L’eventuale Pd post-renziano? Può avere un senso solo a una condizione: che si dimetta, insieme a Renzi, chiunque abbia avuto un ruolo dirigente. «E se si deve eleggere un nuovo segretario, lo si faccia con un dibattito corale e democratico molto ampio, molto lungo e molto doloroso», perché la sincerità è una medicina amara. Sempre che ne valga la pena, di salvare il Pd: i tempi stanno cambiando velocemente. E Magaldi (promotore dell’ipotesi Pdp, Partito Democratico Progressista) è fra quanti pensano che forse sia il caso di «costruire qualcosa di nuovo, da offrire a un paese vistosamente lacerato».E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale. Il pareggio di bilancio? Lo fece Quintino Sella, all’epoca in cui la destra mandava Bava Beccaris a sparare sulla folla. «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».
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Dopo le elezioni, tutto come prima: l’Italia resta sottomessa
Tutto come prima: qualcuno sale e qualcuno scende, dopo le elezioni, ma la canzone non cambia. L’Italia resta sotto schiaffo, alla mercé dell’ordololiberismo finto-europeista che impone il rigore, cioè la depressione economica, sulla base di regole truccate come il tetto imposto alla spesa pubblica, non oltre il 3% del Pil, con il vincolo del pareggio di bilancio e l’incubo incombente del Fiscal Compact. L’unica vera notizia del 4 marzo è che ben tre italiani su quattro sono andati a votare: astensionismo limitato al 25%, contro l’atteso 35% annunciato dai sondaggi. Per il resto, previsioni rispettate al millimetro: la débacle di Renzi, il pletorico successo dei 5 Stelle, la preminenza aritmetica del centrodestra. Spiccioli di cronaca: Di Maio e soci sopra il 30%, Salvini davanti a Berlusconi, il Pd sotto il 20%. Nessuna delle liste-contro, da “Potere al Popolo” a CasaPound, ha raggiunto il 3%, cioè il sospirato accesso al Parlamento. Un pericolo – l’esclusione dall’aula – sfiorato dall’imbarazzante cartello “Liberi e Uguali” (D’Alema e Bersani, Grasso e Boldrini), dato oltre il 5% e invece fermatosi appena sopra la soglia minima per ottenere qualche poltrona. Risultato più che scontato: Parlamento ingovernabile, se non mediante larghe intese. «Troveranno il modo di mettersi d’accordo, anche Di Maio è pronto a fare inciuci», avverte Gianfranco Carpeoro. «Gentiloni o un altro? Non è che cambi granché. Il problema non è la figura, è quello che deve fare: o meglio, quello che sarà costretto a fare, perché l’Italia è sovragestita».Esponente del Movimento Roosevelt, scrittore, simbologo, avvocato di lungo corso con un passato socialista, Carpeoro ha le idee chiare sul voto: «Centrodestra o 5 Stelle, non cambia niente: non esiste un rischio maggiore, è la stessa cosa. Perché chiunque vince, lo fa in nome di una sovragestione unica, che porta allo stesso tipo di governo», ha detto Carpeoro, a urne ancora aperte. «E’ assolutamente irrilevante, sapere chi vince: se i partiti che vincono sono quelli che vincono per effetto della sovragestione, devono rispondere alla sovragestione». Parole che Carpeoro ha affidato a Fabio Frabetti di “Border Nights”, nella diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, su YouTube. «Non si scappa, se fai parte di quello schema. I 5 Stelle non ne facevano parte? Ma poi Di Maio ha fatto un bel viaggio a Londra, un bel viaggio in America… E comunque c’erano già le premesse anche prima, perché non è che Casaleggio fosse una realtà così staccata dal potere. Poi però con Di Maio hanno fatto capire che cosa vogliono fare, no?». Basta vedere l’ipotetico governo presentato in anticipo a Mattarella, con il neoliberista Fioramonti all’economia. «Non è che non pretendano garanzie, quelli a cui hai chiesto aiuto a Londra e in America: impongono il tuo appoggio, la tua la non-ostilità, l’assicurazione che non verrebbe ostacolato il loro progetto». E se vai al governo e poi non ne tieni conto? «Potresti fare la fine di Craxi, o quella di Olof Palme».Per Carpeoro, cha ha lanciato l’idea di promuovere in primavera un convegno sul grande leader svedese, assassinato a Stoccolma nel 1986 mentre era premier, in procinto di essere eletto segretario generale dell’Onu, Olof Palme – cui guardavano Craxi, il tedesco Helmut Schmidt e lo stesso Mitterrand – avrebbe cambiato volto all’Europa, impedendo l’instaurarsi del regime Ue (quello che, ancora oggi, sottrae all’Italia la possibilità di qualsiasi alternativa elettorale al dominio dell’oligarchia finanziaria). «Le sue idee sono ancora attuali, perché Olof Palme era avanti di trent’anni», sottolinea Carpeoro. «Aveva contestato agli Usa il fatto di fare guerre sempre a casa degli altri, aveva polemizzano aspramente con l’Urss per l’invasione di Praga, e soprattutto aveva un progetto economico basato su un sistema misto, pubblico-privato, con la compartecipazione dei lavoratori nelle aziende pubbliche e private, sistema che aveva consentito alla Svezia di uscire dalla crisi economica che invece colpiva gli altri paesi. In più era un ecologista, voleva affrancarsi dagli idrocarburi e dalla schiavitù del petrolio, sosteneva già progetti di energia alternativa». E’ stato fermato, colpito alla schiena da un killer invisibile e tuttora ignoto. «Faceva paura, perché avrebbe ostacolato gli interessi della sovragestione: tutta una serie di equilibri politici che su quelle realtà economiche sono fondati hanno rintenuto di farlo ammazzare. Aveva la capacità, le idee e la visione per costruire delle cose diverse».Da un gigante come Olof Palme ai nani dell’attuale politica italiana: Matteo Renzi in fuga dai giornalisti, con il Pd ridotto al 19%. La scissione di D’Alema e Bersani fermatasi sotto il 4%. Berlusconi appena sopra il 13%, dopo aver lanciato l’euro-maggiordomo Tajani, garantendo ai poteri forti europei il rispetto delle regole di ferro, l’austerity che sta devastando l’Italia. Il successo della Lega di Salvini, che sorprassa il Cavaliere e ormai tallona il Pd, è gravemente condizionato proprio dall’alleanza con Forza Italia, prona ai diktat di Bruxelles. Quanto ai 5 Stelle, hanno fatto il pieno nel centro-sud grazie alla promessa del reddito di cittadinanza, ma Di Maio ha già messo le mani avanti presentando il suo ipotetico esecutivo di tecnocrati: «Sembra il governo Monti senza Monti», commenta desolatamente Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt. Cosa accadrà ora? Se lo domandano tutti i giornalisti. Non Carpeoro: a prescindere dal nome del futuro premier e dal colore del suo partito, per gli italiani non cambierà assolutamente niente. Non cambia il programma: rigore, sofferenze, vincoli, sottomissione all’élite finanziaria che si è impadronita dell’Ue. Sono corsi a votare, gli italiani, ma – a quanto pare – è come se non avesse votato nessuno: tutto è esattamente come prima. La nave rischia di affondare, e la rotta (ancora una volta) non sarà decisa da chi siede a Roma.Tutto come prima: qualcuno sale e qualcuno scende, dopo le elezioni, ma la canzone non cambia. L’Italia resta sotto schiaffo, alla mercé dell’ordoliberismo finto-europeista che impone il rigore, cioè la depressione economica, sulla base di regole truccate come il tetto imposto alla spesa pubblica, non oltre il 3% del Pil, con il vincolo del pareggio di bilancio e l’incubo incombente del Fiscal Compact. L’unica vera notizia del 4 marzo è che ben tre italiani su quattro sono andati a votare: astensionismo limitato al 27%, contro l’atteso 35% annunciato dai sondaggi. Per il resto, previsioni rispettate al millimetro: la débacle di Renzi, il pletorico successo dei 5 Stelle, la preminenza aritmetica del centrodestra. Spiccioli di cronaca: Di Maio e soci sopra il 30%, Salvini davanti a Berlusconi, il Pd sotto il 20%. Nessuna delle liste-contro, da “Potere al Popolo” a CasaPound, ha raggiunto il 3%, cioè il sospirato accesso al Parlamento. Un pericolo – l’esclusione dall’aula – sfiorato dall’imbarazzante cartello “Liberi e Uguali” (D’Alema e Bersani, Grasso e Boldrini), dato oltre il 5% e invece fermatosi appena sopra la soglia minima per ottenere qualche poltrona. Risultato più che scontato: Parlamento ingovernabile, se non mediante larghe intese. «Troveranno il modo di mettersi d’accordo, anche Di Maio è pronto a fare inciuci», avverte Gianfranco Carpeoro. «Gentiloni o un altro? Non è che cambi granché. Il problema non è la figura, è quello che deve fare: o meglio, quello che sarà costretto a fare, perché l’Italia è sovragestita».
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Che succede dopo le elezioni? Niente, e riderà la solita élite
Mi domandano spesso in questi giorni cosa succederà secondo me dopo le elezioni. La risposta è semplice: nulla. Non succederà nulla di assolutamente diverso rispetto a ciò che è successo a partire dal 1945 ad oggi: nessun partito (con l’unica eccezione del primo governo Dc scaturito dalle elezioni del 1948) sarà mai in grado di raggiungere una maggioranza, con la conseguenza che occorrerà formare una coalizione, oppure nominare un ennesimo governo tecnico, non collegato in modo diretto ai partiti eletti (come è accaduto per tutti i recenti governi: Gentiloni, Renzi, Letta, Monti). Per questo motivo ogni gruppo politico in questa campagna elettorale sta promettendo mari e monti, dal reddito di cittadinanza, all’abbassamento delle tasse e via discorrendo. Infatti ognuno sa che, dopo il voto, sarà impossibile mantenere le promesse perché dovrà allearsi con qualche altra forza, e quindi inevitabilmente giungere a compromessi che impediranno di effettuare riforme decenti. Basti pensare, tra tutte le assurdità politiche che si sono profilate all’orizzonte in questa campagna elettorale, all’affermazione di Di Maio che “non esclude un’alleanza col Pd”.La necessità di formare alleanze improbabili è stata quindi da sempre la caratteristica della politica italiana. Le cose non cambiarono neanche con il passaggio dalla prima alla seconda repubblica; nonostante fosse stato riformato il sistema elettorale da proporzionale a maggioritario, la verità è che la riforma elettorale servì unicamente a rendere meno ancorati al territorio i vari candidati, e a restringere le possibilità di scelta dell’elettore. Per il resto, la composizione politica del Parlamento rimase più o meno identica alla precedente, nell’impossibilità di formare una vera maggioranza, e quindi con alleanze che costringevano poi a non portare a termine nessuna vera riforma (eclatante fu la rottura del primo governo Berlusconi, ove quest’ultimo dichiarò che mai più avrebbe voluto avere a che fare con Bossi, mentre Bossi dal canto suo dichiarò “mai più con la porcilaia fascista”; e puntualmente dopo pochi mesi si riallearono di nuovo, nell’impossibilità di formare una maggioranza di governo).Le ultime riforme elettorali, dal Porcellum o al Rosatellum, non hanno avuto altri effetti se non di impedire agli elettori di scegliere i propri candidati, e complicare il meccanismo elettorale in modo da rendere possibili brogli e impedire ai partiti di minoranza di avere una loro rappresentanza, sia pure minima (questo fenomeno però non è nuovo; la prima legge elettorale per taroccare i risultati, infatti, fu approvata dalla Dc ai tempi della prima legislatura, tanto che tale legge fu denominata, appunto “legge-truffa”). Ma la più grossa assurdità di queste elezioni è che il Parlamento attuale, sorto a seguito di una legge dichiarata incostituzionale dalla stessa Corte Costituzionale, è da considerarsi giuridicamente illegittimo. Questo Parlamento illegittimo ha modificato a sua volta la legge elettorale (che quindi, per la proprietà transitiva, è da considerarsi anch’essa illegittima, come qualsiasi legge sia stata votata da questo Parlamento) e quindi avremo un Parlamento, quale che esso sia, a sua volta illegittimo. Un Parlamento instabile è infatti ciò che è necessario a chi detiene veramente il potere (cioè le élite economico-finanziarie internazionali) per garantirsi quell’instabilità politica, necessaria per continuare a perpetuare il proprio piano internazionale di globalizzazione del mondo e di accentramento di tutti i poteri politici e finanziari in un vertice unico.(Paolo Franceschetti, “Cosa succederà dopo le prossime elezioni?”, dal blog “Petali di Loto” del 28 febbraio 2018).Mi domandano spesso in questi giorni cosa succederà secondo me dopo le elezioni. La risposta è semplice: nulla. Non succederà nulla di assolutamente diverso rispetto a ciò che è successo a partire dal 1945 ad oggi: nessun partito (con l’unica eccezione del primo governo Dc scaturito dalle elezioni del 1948) sarà mai in grado di raggiungere una maggioranza, con la conseguenza che occorrerà formare una coalizione, oppure nominare un ennesimo governo tecnico, non collegato in modo diretto ai partiti eletti (come è accaduto per tutti i recenti governi: Gentiloni, Renzi, Letta, Monti). Per questo motivo ogni gruppo politico in questa campagna elettorale sta promettendo mari e monti, dal reddito di cittadinanza, all’abbassamento delle tasse e via discorrendo. Infatti ognuno sa che, dopo il voto, sarà impossibile mantenere le promesse perché dovrà allearsi con qualche altra forza, e quindi inevitabilmente giungere a compromessi che impediranno di effettuare riforme decenti. Basti pensare, tra tutte le assurdità politiche che si sono profilate all’orizzonte in questa campagna elettorale, all’affermazione di Di Maio che “non esclude un’alleanza col Pd”.
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Giannini: il reddito di cittadinanza può far gola alla mafia
Premetto per motivi di opportunità che sono consapevole che questo pezzo andrà ad interessare la sensibilità di molte persone, tuttavia è compito di ogni serio articolista non avere timore di esporre le proprie perplessità sugli aspetti carenti di una proposta. Sarò al solito diretto come lo sono stato in passato con la retorica di FdI sui “Marò”, sulla posizione della Lega sulle “Quote Latte”, sulla “Buona Scuola” di Renzi, e sulla distruzione del Pil operata da Mario Monti. Spero per una volta che i grillini prendano esempio dagli elettori di queste forze politiche riguardo l’opportunità di non polemizzare in modo scomposto su un tema di questo tipo, evitando le solite strategie di aggressione personale (insulti, derisione, insinuazioni, ecc) per il mio passato da pentastellato. Se trattasi di passione politica non esiste accanimento, altrimenti è indice di impegno non disinteressato e bramosia di posto pubblico. Lo stesso Di Maio finirebbe per esser percepito come lo specchietto per le allodole che maschera una indole poco equilibrata di tutto un movimento. Nunzia Catalfo è senatrice del Movimento ed il Ddl del 2013 (cui contribuii) porta il suo nome: è siciliana ed è persona equilibrata ed onesta.Di Maio il candidato premier, Ruocco, Sibilia e Fico sono stati 4 dei 5 membri del vecchio direttorio e sono tutti campani. Mi chiedo come possa essere stato possibile che da questi rappresentanti non siano state previste delle “clausole di salvaguardia” per l’erogazione del RdC nelle aree del paese a forte infiltrazione mafiosa; mi domando se questa gravissima lacuna sia stata frutto di incompetenza o di distrazione (a causa della campagna elettorale). Non critico l’opportunità di un Reddito Minimo Garantito Workfare quale è il RdC (di cui sono promotore dal 2011) ma parte dei 29 miliardi del RdC non possono diventare un business per la criminalità organizzata. Potevano essere previsti diversi tipi di contrappeso: la possibilità per il prefetto di sospendere l’erogazione a tempo indeterminato nelle aree infiltrate; un tetto massimo di prelievo giornaliero e settimanale; l’utilizzo di una carta di credito apposita con cui si possano spendere i 780 euro ma non ritirare banconote. Comprendo che quando tocchiamo grossi interessi della malavita ci si espone a un pericolo ma ho nel cuore le parole della vedova Caponnetto: «Hai i 5 valori di mio marito, non ti far cambiare e mantieni il tuo coraggio»; non esiste una equazione Sud = malavita, ma in molti Comuni del meridione esiste una mentalità “anti Stato” in cui la malavita è vista come lo Stato (io ho vissuto alcuni periodi della mia vita in province campane pur essendo da sempre residente in Toscana).Lo “Stato Camorra” è percepito come la “comunità locale”, come colei che “provvede”, in antitesi ad uno Stato italiano “canaglia”, descritto come invasore, oppressore, responsabile della “depressione” delle aree del Sud. «E’ Stato la Mafia», direbbe Travaglio. Da questa forma di Stato-AntiStato parallelo vengono “forniti” lavori saltuari, a volte derrate alimentari sotto traccia, sostegno economico e “protezione”. Ad essere tagliaggiate sono le imprese; non dubito che sarà così anche per gli aventi diritto al reddito: saranno avvicinate persone che altrimenti sarebbero fuori dal raggio di azione concreto dei gangli mafiosi. La mafia esiste e, in quanto tale, impone ai cittadini la propria sopravvivenza, motivandola come la sopravvivenza di tutti: chiaramente è falso, chiaramente ancora oggi vive di rancori storici verso lo Stato unitario italiano. Esiste una zona grigia sociale da cui nessuno è immune: può accadere a chiunque, perfino durante un singolo pomeriggio, di essere malavitoso per un quarto d’ora per poi tornare a non esserlo: ad esempio fingendo di non sapere con chi si sta prendendo un caffè (obtorto collo) perché magari presente nel gruppo di un amico, ecc. Le persone in queste realtà si conoscono tutte, ed è certo come lo sono “il giorno e la notte” che in questi contesti la frase sarebbe del tipo: «Sei disoccupato? Quanto ti dà lo Stato? 780 euro? Sai che noi siamo lo Stato. Noi dobbiamo proteggere tutti, proteggiamo anche te, tua moglie, ecc. Devi dare una mano anche tu alla Comunità perché noi siamo la tua famiglia, non lo Stato».Possiamo speculare, ipotizzare possano essere 100 euro, 50, 200 euro al mese, ma la mia sensazione è che ciò puntualmente accadrà. Chi si fa promotore della proposta del Reddito di Cittadinanza è il M5S, che nelle regioni del Sud non viene votato granché quando si tengono elezioni locali (dal comunale, al regionale fino al voto europeo) mentre in vista del Reddito di Cittadinanza alle elezioni nazionali (da quello che scrivono su Facebook e dai sondaggi) pare fare il pieno. Temo che solo in parte ciò sia dovuto all’elevato tasso di disoccupazione presente al Sud; credo che la mafia stia favorendo un consenso in questa direzione agendo nella società e che sempre la malavita stia pregustando l’erogazione del Reddito di Cittadinanza. Senza voler creare allarmismo potrebbe accadere, addirittura, che le Regioni che contribuiscono in modo massiccio alle entrate dello Stato, se emergessero i primi scandali, chiederanno a gran voce l’autonomia, mettendo in discussione l’integrità territoriale italiana prevista dalla Costituzione e lasciando il Sud in mano proprio alla peggior forma di Parastato, proprio ai carnefici di Falcone e Borsellino sulla cui fine ancora oggi dubito sia stata fatta pienamente luce.(Marco Giannini, riflessione su “Il potenziale legame tra Reddito di Cittadinanza e Mafie”, pubblicato sa “Libreidee” il 3 marzo 2018. Già attivista del Movimento 5 Stelle, Giannini è autore del saggio “Il neoliberismo che sterminò la mia generazione”, sottotitolo “Corso di sopravvivenza per chi non sa niente di economia”, edito da Andromeda nel 2015, presentato anche alla Camera. Nel gennaio 2017 Giannini si è distanziato dal movimento fondato da Grillo dopo la tentata adesione del M5S al gruppo ultra-europeista dell’Alde in seno al Parlamento Europeo).Premetto per motivi di opportunità che sono consapevole che questo pezzo andrà ad interessare la sensibilità di molte persone, tuttavia è compito di ogni serio articolista non avere timore di esporre le proprie perplessità sugli aspetti carenti di una proposta. Sarò al solito diretto come lo sono stato in passato con la retorica di FdI sui “Marò”, sulla posizione della Lega sulle “Quote Latte”, sulla “Buona Scuola” di Renzi, e sulla distruzione del Pil operata da Mario Monti. Spero per una volta che i grillini prendano esempio dagli elettori di queste forze politiche riguardo l’opportunità di non polemizzare in modo scomposto su un tema di questo tipo, evitando le solite strategie di aggressione personale (insulti, derisione, insinuazioni, ecc) per il mio passato da pentastellato. Se trattasi di passione politica non esiste accanimento, altrimenti è indice di impegno non disinteressato e bramosia di posto pubblico. Lo stesso Di Maio finirebbe per esser percepito come lo specchietto per le allodole che maschera una indole poco equilibrata di tutto un movimento. Nunzia Catalfo è senatrice del Movimento ed il Ddl del 2013 (cui contribuii) porta il suo nome: è siciliana ed è persona equilibrata ed onesta.
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Crisi bancaria, ricatto Bce: il prossimo governo nasce morto
Comunque andranno le elezioni, il vincitore è già sul trono: la Bce. L’élite finanziaria ha appena stabilito, se mai ce ne fosse bisogno, che i partiti impegnati nella tornata elettorale del 4 marzo non potranno in nessun caso tener fede alle (clamorose) promesse appena fatte agli elettori: i veri super-padroni, infatti, stringeranno i cordoni della borsa tagliando i viveri al sistema-Italia. Lo afferma l’avvocato Marco Della Luna, esaminando le ultime notizie trapelate sulle intenzioni dei supremi manovratori. «Il regime bancario europeo, quello che ordì la crisi del debito pubblico italiano nel 2011 per rovesciare il governo e imporre Monti – scrive Della Luna – ha preparato lo strumento per mettere in ginocchio e ai suoi comandi il prossimo governo italiano già dalla sua gestazione, condizionandone la formazione». Nel suo blog, Della Luna cita media specializzati come “Marketinsight”, nonché agenzie come “Reuters” e “Ansa”: «Hanno annunciato che la Bce vuole mandare in vigore da aprile (ma i termini temporali non sono chiari) una nuova normativa sull’ammortamento dei crediti in sofferenza delle banche». Risultato: «I crediti deteriorati dovranno essere interamente ammortizzati, cioè passati a perdite, in non più di 7-8 anni se assistiti da garanzie, in due soli anni se non assistiti da garanzie».Dato l’alto livello di sofferenze già emerse (e che emergeranno nel sistema bancario italiano, soprattutto nel Monte dei Paschi di Siena), «queste nuove regole in prospettiva scateneranno una crisi bancaria generale, perché molte banche semplicemente non hanno i soldi per coprire le perdite e salteranno». Va anche considerato che «molte banche, da tempo, stanno concedendo crediti in modo piuttosto spensierato, allo scopo di raggiungere budget elevati». Le nuove regole annunciate per la primavera «indurranno le banche a restringere il credito, e ciò strozzerà l’economia». Secondo Della Luna, «nessun governo reggerebbe a un tale disastro, quindi il prossimo governo italiano dovrà inginocchiarsi ai grandi banchieri per impetrare rinvii dell’applicazione delle nuove regole e aiuti per adeguarsi ad esse nel tempo». Ma gli “aiuti”, si sa, «sono condizionati all’obbedienza politica, cioè a che il governo faccia le riforme, le cessioni di sovranità e le privatizzazioni che richiedono i grandi banchieri. E’ già avvenuto nel 2011».Sempre secondo Della Luna, quindi, «il prossimo governo dovrà dimenticare e far dimenticare alla gente tutte le promesse elettorali di farsi sentire in Europa, di sforare il 3%, di varare la Flat Tax, di fare grandi investimenti, di sostenere i poveri». I programmi elettorali sono stati bollati come velleitari, perché non indicano concretamente le coperture? Certo: «Sono velleitari, anzi illusori, soprattutto perché non tengono conto del fatto che l’Italia, come la Grecia, è sottoposta gerarchicamente al comando e al bastone di interessi esterni ad essa, che si stanno prendendo i suoi migliori assets aziendali». Da diversi decenni, «e ancor più con l’imposizione della guerra alla Libia e con il colpo di stato del 2011», l’Italia è stata «completamente sottomessa a quegli interessi». Peggio: «I suoi vertici istituzionali collaborano con essi». In più, «la ribellione a tutela dell’interesse nazionale, anche solo parziale, non è tollerata e viene repressa attraverso la Bce, l’Ecofin, il Fmi». Volete un governo che faccia gli interessi del vostro paese, per cui pagate le tasse? «Allora cambiate paese», taglia corto Della Luna.Comunque andranno le elezioni, il vincitore è già sul trono: la Bce. L’élite finanziaria ha appena stabilito, se mai ce ne fosse bisogno, che i partiti impegnati nella tornata elettorale del 4 marzo non potranno in nessun caso tener fede alle (clamorose) promesse appena fatte agli elettori: i veri super-padroni, infatti, stringeranno i cordoni della borsa tagliando i viveri al sistema-Italia. Lo afferma l’avvocato Marco Della Luna, esaminando le ultime notizie trapelate sulle intenzioni dei supremi manovratori. «Il regime bancario europeo, quello che ordì la crisi del debito pubblico italiano nel 2011 per rovesciare il governo e imporre Monti – scrive Della Luna – ha preparato lo strumento per mettere in ginocchio e ai suoi comandi il prossimo governo italiano già dalla sua gestazione, condizionandone la formazione». Nel suo blog, Della Luna cita media specializzati come “Marketinsight”, nonché agenzie come “Reuters” e “Ansa”: «Hanno annunciato che la Bce vuole mandare in vigore da aprile (ma i termini temporali non sono chiari) una nuova normativa sull’ammortamento dei crediti in sofferenza delle banche». Risultato: «I crediti deteriorati dovranno essere interamente ammortizzati, cioè passati a perdite, in non più di 7-8 anni se assistiti da garanzie, in due soli anni se non assistiti da garanzie».
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Luciani: astensionismo, contro le larghe intese degli ipocriti
L’ombra delle larghe intese alimenta il voto antisistema? ‘è un grande disagio tra gli elettori, e le forze politiche non sembrano farsene carico. Il punto però mi pare un altro. L’elettore non ha mai torto, anche quando sceglie nel modo che non ci piace. Perché decide sulla base dell’offerta politica che gli viene proposta: se questa è inadeguata l’elettore la punisce. La prima cosa di cui i partiti dovrebbero preoccuparsi sono i milioni di italiani che non andranno a votare. E chissà quanti voteranno scheda bianca o nulla. Il sistema politico non è mai delegittimato, perché otterrebbe la sua legittimazione dai votanti. Ma se il tasso di partecipazione fosse davvero basso, saremmo davanti a un evidente rifiuto del sistema. E questo porrebbe dei problemi di tenuta democratica. Quand’è che l’elettore sceglie di non votare? Quando non c’è un patrimonio ideale chiaro che si confronta con un altro, quando si accorge che le differenze sono di facciata. Ma soprattutto, vedo un grande sconcerto per l’aumento insostenibile della diseguaglianza sociale ed economica, alla quale nessuno sembra voler rispondere. La Costituzione non voleva questo, certamente nei primi 40 anni della repubblica non è accaduto questo, e sul punto il silenzio dei partiti è assordante.