Archivio del Tag ‘droni’
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L’Iran e la Guerra di Israele, cui Rabin avrebbe posto fine
Che intenzioni hanno, esattamente, le divinità della guerra? Dove porterà l’assassinio dell’eroe nazionale iraniano Qasem Soleimani, trucidato dai droni di Trump il 2 gennaio del fatidico 2020? “Terremoto” è forse la parola più adatta a rappresentare il sanguinoso caos che ha come epicentro ancora una volta Israele, infiammando i suoi i vicini di casa. A essere colpito è il più potente di essi, la Persia, ma l’agguato mortale contro il leggendario capo dei Pasdaran – stratega della guerra di liberazione contro l’Isis in Siria – potrebbe giovare al regime di Teheran: la carta dell’orgoglio nazionale sarà usata per silenziare le proteste degli iraniani che invocano democrazia, esasperati anche dalla crisi economica prodotta dall’embargo filo-sionista americano. Speculazione politica spicciola anche negli Usa, infatti: il ricorso al patriottismo militarista è sventolato da un Trump in difficoltà, assediato dall’impeachment e proiettato verso le cruciali elezioni di novembre. Calcoli paralleli, fra Teheran e Washington, sulla pelle del generale Soleimani? Il raid terroristico statunitense, destinato a rinfocolare l’odio dei musulmani verso la superpotenza atlantica protettrice di Israele, ricorda in modo sinistro un altro fatale omicidio, lontano nel tempo: quello di Yitzhak Rabin, freddato il 4 novembre 1995 a Tel Aviv per aver finalmente stretto un vero accordo di pace coi palestinesi, destinato a disinnescare per sempre il Medio Oriente.Due anni prima, a Oslo, il progressista Rabin si era accordato con Arafat per gettare le basi, per la prima volta, di un patto che avrebbe portato alla nascita dello Stato di Palestina. Sarebbe stato la fine dell’alibi che per mezzo secolo aveva sorretto le peggiori oligarchie musulmane, sotterraneamente alleate delle oligarchie ebraiche del sionismo: la tensione permanente, per giustificare il rispettivo potere. Neutralizzato l’Egitto come paese leader del panarabismo storico, letteralmente distrutto l’Iraq di Saddam e invasa la Siria degli Assad, sono emerse in modo sempre più vistoso le due nuove potenze regionali, Ankara e Teheran. La Turchia di Erdogan salì alla ribalta nel 2010 denunciando il martirio di Gaza e l’aggressione alla Freedom Flotilla, carica di aiuti umanitari. L’Iran degli ayatollah si è proteso verso la maggioranza sciita degli iracheni, ben deciso a fortificare gli altri suoi caposaldi attorno a Israele, Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza. Ancora una volta, il fronte che si proclama anti-israeliano ha giocato in difesa: e proprio il generale Soleimani si era appena distinto, in Siria, accanto ai russi e ai libanesi di Hezbollah, per liberare il paese dalle milizie terroriste protette dall’Occidente. Quando infine la coalizione anti-Isis (iraniani e russi, siriani e curdi) ha sconfitto sul campo l’esercito dei tagliagole, lo stesso Trump si è preso il lusso di eliminare la pedina dell’intelligence atlantica, il “califfo” Al-Bahdadi, anch’esso (ufficialmente, almeno) ucciso con un raid dal cielo.La tragedia si colora di farsa non appena si dà un’occhiata all’Italia, dove la Rai si è rifiutata di trasmettere l’intervista di Monica Maggioni al presidente siriano Bashar Assad, la prima dopo un decennio di guerra. La notizia stava nelle accuse di Assad verso i protettori occulti dell’Isis, le potenze occidentali (Francia in primis) e i loro satelliti mediorientali, incluso Israele. Nel 2015, Matteo Renzi non osò schierare truppe italiane in Libia, nonostante la protezione promessa da Obama. Oggi, assente l’Italia, sarà la Turchia a dislocare 9.000 soldati a guardia di Tripoli, a due passi dai terminali strategici dell’Eni. Silenzio di tomba da Conte e Di Maio, stavolta persino battuti – se possibile – da Salvini, che non trova di meglio che esultare per l’assassinio del generale Soleimani, impegnato a sollevare gli iracheni contro il governo coloniale della superpotenza che ha distrutto l’Iraq, facendone il vivaio dell’Isis. Il film dell’orrore che stiamo vivendo, letteralmente esploso insieme alle Torri Gemelle l’11 settembre del 2001, non sarebbe nemmeno cominciato se, nell’autunno del ‘95, non fossero andati a segno i colpi del fanatico sionista Yigal Amir, colono ebreo di estrema destra, terrorizzato dall’idea che Israele potesse convivere, alla pari, con gli “scarafaggi” palestinesi. Con la sua Beretta, Amir esplose due colpi calibro 380: sparò alla schiena di Rabin, e di milioni di persone che speravano davvero nel miracolo della pace.Dieci anni prima, in una capitale del Nord Europa – la remotissima Stoccolma – aveva fatto la stessa fine il grande leader socialdemocratico Olof Palme, grande sostenitore della causa palestinese. Quei colpi di pistola – dalla Svezia a Tel Aviv – è come se avessero centrato il cuore del mondo, paralizzandolo per decenni. Fino ad allora, il terrorismo era stato qualcosa di vagamente collegabile a una guerra tra oppressi e oppressori: i Fedayin palestinesi colpivano obiettivi precisi, entità ritenute responsabili di crimini. Non erano stragisti mercenari come l’oscura manovalanza di Al-Qaeda e dell’Isis. Erano guerriglieri spesso orfani, con alle spalle una catena di sofferenze e lutti famigliari. Sia pure in modo sanguinoso, avevano contribuito a mobilitare la comunità internazionale verso una soluzione storica, che mettesse fine al disastro innescato da confini di carta, disegnati nel deserto dopo il crollo dell’Impero Ottomano e poi con la creazione in Palestina del solo Stato ebraico. La stessa popolazione di Israele è stata costretta a convivere con l’incubo permanente della strage. Oggi, gli impresari del terrore sono tornati all’opera: finito il lavoro in Siria, ricominciano dall’Iraq e dalla Libia mettendo nel mirino l’Iran. Rispetto a ieri, se non altro, nel Medio Oriente è ricomparsa la forza stabilizzatrice della Russia. Dove porteranno, ora, i nuovissimi incendi innescati nella regione? Sembra continuare un gioco antico: opposti estremismi, nemici apparenti e alleati sotterranei. Dalla politica, buio pesto. Solo ipocrisia, e sangue.Che intenzioni hanno, esattamente, le divinità della guerra? Dove porterà l’assassinio dell’eroe nazionale iraniano Qasem Soleimani, trucidato dai droni di Trump il 2 gennaio del fatidico 2020? “Terremoto” è forse la parola più adatta a rappresentare il sanguinoso caos che ha come epicentro ancora una volta Israele, infiammando i suoi i vicini di casa. A essere colpito è il più potente di essi, la Persia, ma l’agguato mortale contro il leggendario capo dei Pasdaran – stratega della guerra di liberazione contro l’Isis in Siria – potrebbe giovare al regime di Teheran: la carta dell’orgoglio nazionale sarà usata per silenziare le proteste degli iraniani che invocano democrazia, esasperati anche dalla crisi economica prodotta dall’embargo filo-sionista americano. Speculazione politica spicciola anche negli Usa: il ricorso al patriottismo militarista è sventolato da un Trump in difficoltà, assediato dall’impeachment e proiettato verso le cruciali elezioni di novembre. Calcoli paralleli, fra Teheran e Washington, sulla pelle del generale Soleimani? Il raid terroristico statunitense, destinato a rinfocolare l’odio dei musulmani verso la superpotenza atlantica protettrice di Israele, ricorda in modo sinistro un altro fatale omicidio, lontano nel tempo: quello di Yitzhak Rabin, freddato il 4 novembre 1995 a Tel Aviv per aver finalmente stretto un vero accordo di pace coi palestinesi, destinato a disinnescare per sempre il Medio Oriente.
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I militari Usa: è vero, gli Ufo esistono. Cosa non ci dicono?
New York, 20 settembre 2019: nel mirino dei caccia F-18 Usa sembrano oggetti lunghi e velocissimi che cambiano improvvisamente direzione con un’accelerazione fortissima. «Nei filmati che i top gun americani sono riusciti a catturare e che adesso anche la Us Navy ha reso pubblici togliendo il segreto militare, sembrano dei grandi ragni supersonici dalla forma indefinita che vorrebbero quasi danzare con i cacciabombardieri Usa, prima di sparire nel nulla». Se non sono Ufo cosa sono? «Il Pentagono – scrive “Quotidiano.net” – non li chiama con questo nome ma si sta interrogando, da anni e in segreto, su questo Unidentified Aerial Phenomena che, più che incuriosire, ormai turba i voli dei pattugliatori dei cieli, i quali non sanno come comportarsi, non essendo né droni né missili». La messa in rete, inoltre, di tre filmati girati tra il 2017 e il 2018 e la comparazione con un altro video del 2014 sta scatenando adesso un nuovo dibattito proprio nel momento in cui i cieli diventano sempre più affollati. Che ci fanno tutti quei “dischi volanti” lassù, sopra le nostre teste, a poca distanza dai jet militari?Joe Gradisher, il portavoce della marina statunitense, sostiene che i filmati girati da militari Usa sono autentici e che i fenomeni sono reali. Aggiunge: gli avvistamenti sono tutt’altro che inusuali e rari. E incoraggia tutti i piloti a riportarne la durata e l’esatta posizione in cui avvengono per creare una vera e propria mappatura degli oggetti misteriosi. «Abbiamo notato incursioni frequenti nei nostri campi di addestramento – spiega Gradisher – e questo rischia di mettere in pericolo l’incolumità dei piloti. Per lungo tempo – aggiunge – ci siamo anche accorti che molti di loro non li riportavano la notizia degli avvistamenti per paura di venir ridicolizzati, ma adesso siamo ad incoraggiare i top gun affinché siano tempestivi nelle segnalazioni, per poter studiare in profondità il fenomeno». Dichiarazioni piuttosto clamorose, da parte del funzionario militare: come se l’amministrazione volesse preparare il pubblico a imminenti rivelazioni? Fino a ieri, il tema Ufo era relegato alla fantascienza, o poco più. Ora è un continuo rincorrersi di voci. Compresa quest’ultima, dove addirittura si dichiara alla stampa che i piloti militari vengono “incoraggiati a riferire”, in modo da poter “studiare meglio il fenomeno”.«C’è chi pensa che la minaccia non appartenga al mondo della fantasia, ma possa diventare reale se non si riuscirà a stabilirne l’origine», scrive “Quotidiano.net”. «Anche se tra le grandi potenze c’è una sorta accordo non scritto che bandisce per ora la militarizzazione dello spazio, la comparsa di questi “Uap”, oggetti non identificati, sembra andare nella direzione opposta». In realtà, c’è il fondato sospetto che le autorità – non solo statunitensi – si stiano preparando ad ammettere di essere giunte ben oltre la semplice osservazione del fenomeno. Roberto Pinotti, autorevole presidente del Cun (Centro Ufologico Nazionale) e storico collaboratore dell’aeronautica italiana, ricorda che sono ormai oltre un milione gli avvistamenti registrati, di cui il 40% convalidati da militari. Secondo Pinotti, il vero problema – ormai alle porte – sarebbe di portata epocale: e cioè ammettere l’imminenza del “contatto” con entità aliene, non terrestri, che la fantascienza ci ha lentamente abituato a prendere ormai in considerazione come un evento ineluttabile e probabilmente già accaduto, ovviamente a nostra insaputa. «Storicamente – dice Pinotti – nell’incontro tra civiltà diverse, quella meno evoluta ha sempre avuto la peggio».Gli scienziati ammettono che tutto è teoricamente possibile: «Certo non siamo soli, nello spazio», ha detto il grande fisico Stephen Hawking. I militari confemano: il cielo è pieno di velivoli sconosciuti (o almeno, così definiti dai piloti). Padre Josè Gabriel Funes, gesuita argentino come Papa Francesco e direttore della Specola Vaticana, osservatorio astronomico di Mount Graham in Arizona vocato allo studio dell’esobiologia (vita extraterrestre), si è premurato di farci sapere che non esiterebbe a battezzare eventuali “fratelli dello spazio”. L’ex candidato democratico alle primarie americane, Bernie Sanders, ha appena dichiarato che, se venisse eletto presidente, andrebbe a scartabellare tra i dossier sugli Ufo per poi informare la popolazione. In realtà gli alieni sono già tra noi, ebbe a dire – un po’ scherzando e un po’ no – l’allora premier russo Dmitrij Medvedev. Non ha per niente scherzato, invece, il canadese Paul Hellyer, già ministro della difesa, secondo cui «alcuni alieni siedono addirittura nel Congresso Usa». Secondo il biblista Mauro Biglino, l’Antico Testamento racconta in realtà le gesta di “antichi astronauti”, come Yahwè, poi interpretato come “Dio” dalle successive religioni.«Nella misteriosa “Area 51”, considerata una delle più segrete basi di addestramento per l’aeronautica militare americana che sorge in Nevada, da anni i ricercatori stanno approfondendo la presenza in cielo di corpi estranei», scrive “Quotidiano.net”, a corredo delle clamorose rivelazioni della Us Navy. «I piccoli filmati rilasciati in questi giorni hanno riaperto la finestra sugli Ufo con l’intenzione di non chiuderla tanto presto», aggiunge il newsmagazine. Nel frattempo, la zona chiamata “Area 51” sembra diventata sempre più off-limits, da tenere al riparo da sguardi indiscreti. «La no-fly zone è totale e sia militari che civili non possono attraversarla». Una specie di “invasione pacifica” di cittadini curiosi, annunciata via Internet, è stata rimandata. Ma la vera domanda è: quante altre Aree 51 esistono nel mondo, dall’Antartide alla Russia? «Se un giorno si scoprisse che gli “alieni” come Yahwè sono ancora qui e dominano la Terra attraverso i loro rappresentanti, non me ne stupirei», dice Biglino. Già: ma in quel caso il potere terrestre, se si rivelasse affidato a semplici prestanome, come se la caverebbe? Molte voci, sul web, cestinano l’argomento: tutte chiacchiere, per depistare l’attenzione dalle vere responsabilità dei nostri cattivi governanti. A smentire gli scettici, però, ora si aggiungono i militari americani, con i loro sconcertanti video mostrati al pubblico.New York, 20 settembre 2019: nel mirino dei caccia F-18 Usa sembrano oggetti lunghi e velocissimi che cambiano improvvisamente direzione con un’accelerazione fortissima. «Nei filmati che i top gun americani sono riusciti a catturare e che adesso anche la Us Navy ha reso pubblici togliendo il segreto militare, sembrano dei grandi ragni supersonici dalla forma indefinita che vorrebbero quasi danzare con i cacciabombardieri Usa, prima di sparire nel nulla». Se non sono Ufo cosa sono? «Il Pentagono – scrive “Quotidiano.net” – non li chiama con questo nome ma si sta interrogando, da anni e in segreto, su questi Unidentified Aerial Phenomena che, più che incuriosire, ormai turbano i voli dei pattugliatori dei cieli, i quali non sanno come comportarsi, non essendo né droni né missili». La messa in rete, inoltre, di tre filmati girati tra il 2017 e il 2018 e la comparazione con un altro video del 2014 sta scatenando adesso un nuovo dibattito proprio nel momento in cui i cieli diventano sempre più affollati. Che ci fanno tutti quei “dischi volanti” lassù, sopra le nostre teste, a poca distanza dai jet militari?
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Università dell’Alaska: 11 Settembre, l’Edificio 7 fu demolito
Un gruppo di ricerca del dipartimento di ingegneria civile e ambientale dell’università dell’Alaska, guidato dal dottor Leroy Hulsey e dal collega Zhili Quan, insieme al professor Feng Xiao dell’università di Nanchino (dipartimento di ingegneria civile) ha dato la fatale notizia in modo ufficiale: non sono state le fiamme sprigionatesi dalle Twin Towers, l’11 Settembre, a causare il collasso dell’Edificio 7, la terza torre di Manhattan crollata su se stessa in pochi secondi. «La versione ufficiale è ora ridotta a un cumulo di macerie», prende nota Paul Craig Robers, popolare analista statunitense, già vice-ministro di Reagan, commentando quella che a tutti gli effetti è «la prima indagine scientifica» sulla stranissima fine del Building 7, schiantatosi al suolo senza neppure esser stato colpito da aerei, l’11 settembre 2001. «La principale conclusione del nostro studio – scrivono, all’università dell’Alaska – è che il fuoco non ha causato il crollo del Wtc 7». E questo, «contrariamente alle conclusioni del Nist», la commissione d’indagine governativa, «e delle società di ingegneria private che hanno studiato il crollo». E’ stato «un collasso globale, che ha comportato il cedimento quasi simultaneo di tutti i pilastri dell’edificio». In gergo tecnico si chiama: demolizione controllata.Sul suo sito, Craig Roberts fa notare che «ci sono voluti 18 anni per ottenere una vera indagine sulla distruzione di un edificio di cui erano stati accusati dei terroristi musulmani». Inoltre, «l’unico modo in cui si può verificare il “cedimento quasi simultaneo di tutti i pilastri dell’edificio” è attraverso una demolizione controllata». E questo straordinario risultato, certificato dai tecnici universitari, non è stato riportato dai grandi media. «In altre parole – aggiunge Roberts – lo studio è già stato destinato al Buco della Memoria: questo è il modo in cui opera “The Matrix”». Accusa l’ex sottosegreario al Tesoro: «L’unico scopo dei notiziari stampati e televisivi è quello di programmarvi in modo che seguiate pedissequamente l’agenda di chi vi governa: quelli che seguono i notiziari della Tv, ascoltano la National Public Radio o leggono i giornali vengono programmati per essere automi senza cervello». Richiamandosi al clamoroso rapporto fornito poche settimane fa dai vigili del fuoco di New York – che confermano la tesi della “demolizione controllata” delle Torri Gemelle e chiedono alle autorità giudiziarie di riaprire il caso – Craig Roberts invoca giustizia: stabilita finalmente la verità sul disastro, è ora che i responsabili vengano trascinati in tribunale.L’immane tragedia ha causato circa 15.000 vittime: quasi 3.000 nei crolli, più almeno 12.000 persone morte nei mesi e anni seguenti, per i tumori provocati dalla nube di amianto su Manhattan (numeri accertati dalle autorità, che hanno riconosciuto gli ingenti indennizzi). Molti sospetti caddero da subito sul proprietario del World Trade Center, Larry Silverstein, che aveva appena assicurato le Torri Gemelle e l’Edificio 7 contro un “incidente” come quello poi verificatosi. Mentre però le Twin Towers furono colpite da aerei di linea (o almeno, in apparenza da dei Boeing), l’Edificio 7 collassò senza essere colpito né da velivoli, né dal fuoco. Per Massimo Mazzucco, autore dei documentari “Inganno globale” (trasmesso da Canale 5 nel 2006) e “La nuova Pearl Harbor”, è probabile che gli aerei che colpirono le torri fossero dei droni militari: la stessa Boeing ha escluso che i suoi velivoli possano compiere manovre così precise, a bassa quota, viaggiando a quella velocità: a 800 chilometri orari, le ali dei Boeing si staccherebbero. Ma se non c’erano viaggiatori, su quegli aerei-bomba, dov’erano finiti i passeggeri imbarcati?Mazzucco ricorda che l’Operazione Northwoods del 1962 (memorandum “Justification for Us Military Intervention in Cuba”) prevedeva che i passeggeri di un volo di linea – da far esplodere nei cieli cubani per poi incolpare Fidel Castro – fossero fatti segretamente sbarcare in una base militare, prima che l’aereo (telecomandato) proseguisse per la sua missione suicida. Come accettare l’idea mostruosa di eliminare centinaia di ignari passeggeri? In un solo modo possibile, osserva Mazzucco: «Certa gente non ragiona come noi: di fronte opzioni come quella, le persone diventano semplici dettagli». Ragionando in grande: senza il bagno di sangue delle Twin Towers, il Deep State che dominava il governo Usa non sarebbe mai riuscito a far accettare, all’opinione pubblica americana, la “guerra al terrorismo” che comportò le disastrose invasioni militari dell’Afghanistan e dell’Iraq. Nel libro “Massoni” (Chiarelettere, 2014), Gioele Magaldi scrive che fu la superloggia “Hathor Pentalpha”, del clan Bush, a concepire l’attacco alle Torri, dopo aver affiliato Osama Bin Laden. Lo stesso Abu-Bakr Al Baghdadi, “califfo” del sedicente Isis, sarebbe stato poi affiliato alla “Hathor”.«Entro un paio d’anni emergerà la verità sull’11 Settembre», annunciò tempo fa Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. A quanto pare, importanti rivelazioni stanno ora affiorando. Il russo Dimitri Khalezov, veterano dell’intelligence nucleare sovietica, ricorda che la costruzione del World Trade Center fu autorizzata dal Comune di New York solo dopo che i costruttori ebbero fornito le istruzioni per la demolizione degli edifici, come prevedeva la prassi a Manhattan: tutti i grattacieli dovevano poter essere demoliti, all’occorrenza. Solo che per demolire le Torri Gemelle – considerate indistruttibili – i progettisti calcolarono che sarebbe stata indispensabile la bomba atomica. E infatti, osserva Khalezov, dai documenti dell’ufficio edilizia della città emerge che, nelle fondamenta, furono appositamente ricavati dei bunker nei quali ospitare, nel caso, delle “mini-nukes” destinate a “fondere” le torri, dal basso. Questo spiegherebbe anche le folli temperature sprigionatesi nel rogo, che trasformò il sottosuolo in una specie di vulcano arroventato, per mesi. Per contro, i vigili del fuoco raccontarono di aver udito precise esplosioni, molto di sotto del punto di impatto degli aerei: esplosioni peraltro confermate dallo strano scoppio (verso l’esterno) delle vetrate, non spiegabile dall’urto degli aerei decine di metri più in alto.In attesa di accertare la verità integrale, i pompieri di New York certificano l’inattendibilità della versione ufficiale. Il distretto di Franklin Square e Munson, dei vigili del fuoco, riconosce «la natura significativa e convincente della petizione posta all’attenzione del procuratore degli Stati Uniti per il distretto meridionale di New York riferentesi a crimini federali non perseguiti commessi presso il World Trade Center l’11 settembre 2001», e invita il procuratore «a presentare tale petizione ad uno speciale Gran Giurì ai sensi della Costituzione degli Stati Uniti». Il dossier dei vigili del fuoco aggiunge che «le prove schiaccianti presentate in detta petizione dimostrano oltre ogni dubbio che esplosivi e/o materiali incendiari pre-impiantati – non solo gli aerei e gli incendi conseguenti – avevano causato la distruzione dei tre edifici del World Trade Center, uccidendo la stragrande maggioranza delle vittime». Conclude Paul Craig Robers: «Le vittime dell’11 Settembre, le loro famiglie, la popolazione di New York City e la nostra nazione meritano che ogni crimine relativo agli attacchi dell’11 settembre 2001 sia indagato con il massimo rigore e che ogni persona responsabile sia portata di fronte alla giustizia».Cosa fu, davvero, ad abbattere le Twin Towers e l’Edificio 7 «non lo sappiamo, né spetta a noi l’onere di stabilirlo», sintetizza Mazzucco: «L’unica cosa ormai certa è che a far crollare le torri non furono quegli strani Boeing, capaci di manovre estreme (da jet militari) e a velocità folle, a bassissima quota, senza che si smembrassero in volo prima dell’impatto». Droni senza pilota? Per Mazzucco, è l’unica spiegazione logica: velivoli telecomandati, “truccati” da Boeing e super-rinforzati, probabilmente col muso imbottito di esplosivo. A csa erano dovute le esplosioni che i pompieri dicono di aver udito distintamente nella parte bassa delle torri? Cariche di nano-termite? Mini-atomiche? Tutte queste cose insieme? Magaldi ricorda che le Twin Towers rappresentavano Jachin e Boaz, le colonne del tempio massonico: chi le ha distrutte ha voluto dichiarare guerra, simbolicamente, all’ideologia massonico-progressista di Roosevelt, che trasformò gli Usa nella superpotenza leader dell’Occidente prospero, del benessere diffuso. La “prova del nove” è imbarazzante: lo scenario al quale oggi siamo abituati (conflitti ovunque, dalla Libia alla Siria, con escalation sanguinose) prima dell’11 Settembre non sarebbe stato neppure lontanamente pensabile.Un gruppo di ricerca del dipartimento di ingegneria civile e ambientale dell’università dell’Alaska, guidato dal dottor Leroy Hulsey e dal collega Zhili Quan, insieme al professor Feng Xiao dell’università di Nanchino (dipartimento di ingegneria civile) ha dato la fatale notizia in modo ufficiale: non sono state le fiamme sprigionatesi dalle Twin Towers, l’11 Settembre, a causare il collasso dell’Edificio 7, la terza torre di Manhattan crollata su se stessa in pochi secondi. «La versione ufficiale è ora ridotta a un cumulo di macerie», prende nota Paul Craig Robers, popolare analista statunitense, già vice-ministro di Reagan, commentando quella che a tutti gli effetti è «la prima indagine scientifica» sulla stranissima fine del Building 7, schiantatosi al suolo senza neppure esser stato colpito da aerei, l’11 settembre 2001. «La principale conclusione del nostro studio – scrivono, all’università dell’Alaska – è che il fuoco non ha causato il crollo del Wtc 7». E questo, «contrariamente alle conclusioni del Nist», la commissione d’indagine governativa, «e delle società di ingegneria private che hanno studiato il crollo». E’ stato «un collasso globale, che ha comportato il cedimento quasi simultaneo di tutti i pilastri dell’edificio». In gergo tecnico si chiama: demolizione controllata.
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Fcas e Tempest, con i nuovi jet l’F-35 diventa archeologia
In occasione del recentissimo Paris Air Show, un modello del Fcas (Future Air Combat System) ha attirato la curiosità dei presenti: si tratta di un caccia di sesta generazione, scrive “L’Antidiplomatico”. Realizzato in collaborazione con tedeschi e spagnoli, il jet militare è di origine prevalentemente francese. E potrebbe essere la controparte europea di qualsiasi aereo (con equipaggio, o senza) dei caccia stealth di quinta generazione, come gli F-22 Raptor americani, gli Su-57 della Russia e ovviamente i più che controversi F-35, che varie forze europee hanno dovuto acquisire per fare un favore agli Usa. «Fcas è costruito attorno a concetti futuristici: configurazione invisibile, missili a lungo raggio e, soprattutto, volo senza equipaggio», spiega “L’Antidiplomatico”. «Come una regina furtiva, il caccia sarà seguito da un seguito di droni che svolgeranno gran parte del lavoro sporco di combattimento e di scouting», assumendo su di sé il peso del fuoco nemico.Nel frattempo, gli Stati Uniti «stanno lavorando sullo stesso concetto con il programma Loyal Wingman e il drone Xq-58, un sosia mini-F-35 che funzionerà con aeromobili con equipaggio come un branco di cani da caccia e il loro padrone». E per non essere superata dai suoi cugini continentali, da cui si sta separando, la Gran Bretagna – che pure ha acquistato alcuni F-35 – sta anch’essa sviluppando il suo caccia di sesta generazione, il Tempest. «Munito di laser, dovrebbe entrare in servizio intorno al 2035». A questo progetto pare voglia prendere parte anche l’Italia. Questi jet avanzati, aggiunge “L’Antidiplomatico”, possono essere dotati di armi avveniristiche. La società europea di difesa Mbda ha presentato alcuni concetti avanzati di missili: «Sciami di alianti lanciati dagli aerei che riescono a sopraffare un bersaglio a cinquanta miglia di distanza, mentre gli aerei con equipaggio sono al sicuro dalla mischia». Non solo: ci sono anche «missili furtivi a bassa quota che dovrebbero bombardare nemici».Finalmente, nei piani euro-atlantici, figurerebbe anche «un missile supersonico, che può abbattere aerei nemici, navi e difese aeree». Il giorno che entrasse in esercizio sarebbe una prima risposta all’attuale supremazia assoluta della Russia, che ha già testato i suoi nuovissimi missili ipersonici, letteralmente “imparabili”, capaci di affondare una portaerei viaggiando anche a dieci volte la velocità del suono. Ne ha dato una spettacolare dimostrazione lo stesso Putin, diffondendo le immagini di questi missili: lanciati da navi da guerra in navigazione nel remotissimo Mar Caspio, sono piovuti addosso ai miliaziani dell’Isis in Siria senza che i sistemi di allertamento Nato potessero far nulla per intercettarli. Scenari che rendono ancora più inutile il costoso F-35, definito “un bidone volante” dallo storico progettista dell’F-16, secondo cui il jet americano a decollo verticale, lento e impacciato, non soppravviverebbe a un duello aereo con un Mig degli anni Sessanta.In occasione del recentissimo Paris Air Show, un modello del Fcas (Future Air Combat System) ha attirato la curiosità dei presenti: si tratta di un caccia di sesta generazione, scrive “L’Antidiplomatico”. Realizzato in collaborazione con tedeschi e spagnoli, il jet militare è di origine prevalentemente francese. E potrebbe essere la controparte europea di qualsiasi aereo (con equipaggio, o senza) dei caccia stealth di quinta generazione, come gli F-22 Raptor americani, gli Su-57 della Russia e ovviamente i più che controversi F-35, che varie forze europee hanno dovuto acquisire per fare un favore agli Usa. «Fcas è costruito attorno a concetti futuristici: configurazione invisibile, missili a lungo raggio e, soprattutto, volo senza equipaggio», spiega “L’Antidiplomatico”. «Come una regina furtiva, il caccia sarà seguito da un seguito di droni che svolgeranno gran parte del lavoro sporco di combattimento e di scouting», assumendo su di sé il peso del fuoco nemico.
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Perché l’Iran: Usa e Israele stan perdendo il Medio Oriente
Spirano venti di guerra nel Golfo Persico, dove all’inasprimento delle sanzioni economiche contro l’Iran si aggiunge un numero crescente di provocazioni militari: la speranza di Washington è che il regime iraniano imploda sotto il peso delle molteplici pressioni ma, data la solidità di quest’ultimo, non è neppure escludibile un attacco militare diretto, di qui al 2020. Meglio sarebbe, ovviamente, se Teheran cadesse nella trappola di attaccare per primo. Alla base della strategia angloamericana c’è sicuramente la volontà di mantenere la superiorità regionale di Israele, destabilizzando il principale avversario; c’è, però, anche la volontà di scardinare una potenza terrestre che, a fianco di Russia e Cina, sta “organizzando” il Medio Oriente con importanti infrastrutture. Nella nostra analisi geopolitica per il 2019, “Dal golfo di Biscaglia al Mar cinese”, non ci eravamo ovviamente scordati di menzionare l’Iran che, sin dall’inverno 2017/2018, era stato preso di mira dall’amministrazione Trump. Ai soliti tentativi di rivoluzione colorata, si è aggiunto, nel corso del 2018, un ritorno alle sanzioni, sospese durante l’era Obama: la presidenza democratica, già impegnata nella destabilizzazione della Siria (e nel tentativo di scatenare una guerra turco-iraniana), aveva infatti allentato la morsa sull’Iran, per impedire che questo si gettasse nelle braccia della Russia.“Persa la guerra” in Siria, per gli Usa è tornata prioritaria la caduta del regime iraniano, caduta che si spera di facilitare strangolando la sua economia e impedendo l’esportazione di idrocarburi. Inizialmente, gli Usa avevano concesso una “esenzione” di 180 giorni ai principali acquirenti di greggio iraniano, poi non rinnovata nell’aprile scorso: chi avesse continuato a fare affari con Teheran, sarebbe incappato nelle contromisure americane. L’ennesimo round di sanzioni (che, in sostanza, affliggono l’Iran dal 1979), colpisce duro soprattutto i paesi industrializzati o in via di industrializzazione dell’Asia: Turchia, India, Cina, Giappone e Sud Corea. Tokyo, quarta consumatrice mondiale di greggio e decisa a non appiattirsi completamente alla strategia angloamericana, si è fatta protagonista di una singolare iniziativa: benché il suo governo si sia impegnato a tagliare gli acquisti di greggio iraniano, Shinzo Abe è volato a Teheran (la prima visita di un premier giapponese nella Repubblica Islamica!) per stemperare le tensioni e, ovviamente, mettere in sicurezza gli approvvigionamenti energetici del Giappone, che sarebbe duramente colpito da uno choc petrolifero.“L’insubordinazione” giapponese, proprio mentre gli angloamericani erano impegnati a fare terra bruciata attorno all’Iran, è stata punita col classico attacco piratesco delle potenze marittime: mentre Shinzo Abe ed il presidente Hassan Rouhani erano a colloquio, due petroliere, di cui una giapponese (la Kokuka Courageous) sono state colpite il 13 giugno nello stretto di Hormuz, davanti alle coste iraniane. Inizialmente si è parlato di siluri, ma i danni sopra la linea di galleggiamento fanno propendere per l’impiego di missili: con un’incredibile sfacciataggine, il segretario di Stato Mike Pompeo ha prontamente accusato l’Iran. Il crescendo di tensioni e provocazioni (tra cui l’invio aggiuntivo di 1.000 soldati in Medio Oriente) è culminato con l’abbattimento, il 21 giugno, di un drone americano sopra i cieli iraniani. Il mondo, ora, aspetta col fiato sospeso gli sviluppi della vicenda: un attacco all’Iran, afferma il presidente russo Vladimir Putin, sarebbe «catastrofico». Il sogno angloamericano sarebbe, ovviamente, che il regime iraniano implodesse sotto il peso delle sanzioni o, perlomeno, attaccasse per primo: è, tuttavia, uno scenario irrealistico, vuoi per la comprovata resilienza del regime alle sanzioni, vuoi per la rinomata prudenza iraniana.Un attacco militare angloamericano, magari innescato da qualche “incidente di frontiera”, resta quindi una realistica opzione, di qui al 2020. L’Iran, intanto, ha dichiarato di voler procedere con l’arricchimento dell’uranio dopo il naugrafio degli accordi dell’era Obama. In questa sede, però, ci interessa soprattutto inquadrare lo scontro in un’ottica geopolitica, cioè nel più ampio scontro tra Terra e Mare. È indubbio che l’amministrazione Trump sia sensibilissima alle esigenze di sicurezza di Israele: abbattuto l’Iraq bahatista, fallito il tentativo di impiantare un “Sunnistan” tra Siria e Iran, Teheran è ormai in grado di proiettarsi sino al ridosso di Israele. La distruzione del regime iraniano è una priorità israeliana e, quindi, americana. Tuttavia, non bisogna mai scordare che Israele assolve anche a un’importante funzione per le potenze marittime: quella cioè di mantenere in costante instabilità il Medio Oriente ed impedire che qualche potenza continentale “organizzi” la regione.Turchia e Iran, due potenze dell’Heartland in termini mackinderiani, sono gli storici “organizzatori” del Levante e della Mesopotamia: un elemento che sicuramente ha contribuito alla decisione angloamericana di aumentare la pressione sull’Iran è stato, in parallelo al suo rafforzamento militare in Siria, la sua volontà, annunciata lo scorso aprile, di costruire una ferrovia transnazionale dall’altopiano iranico sino al Mediterraneo. Poco importa se su questa ferrovia dovessero viaggiare solo merci o turisti, in ogni caso l’Iran espanderebbe la sua influenza sino al mare, attirando nelle propria orbita i vicini, e, presto o tardi, renderebbe irrilevante Israele (e gli angloamericani). La natura geopolitica dello scontro in atto (dove per “geopolitico” si intende specificatamente la dialettica Terra-Mare) spiega anche la convergenza in atto dell’Iran verso le altre due potenze dell’Heartland per eccellenza, Russia e Cina. Mosca, impegnata nelle operazioni militari in Siria, ha sinora cercato di mantenere un certo equilibrio tra Israele e Iran: tuttavia, non c’è alcun dubbio che, qualora quest’ultimo fosse attaccato, la Russia fornirebbe assistenza militare attraverso il Mar Caspio per sostenere l’urto angloamericano.Il fronte meridionale della Russia è ora relativamente “in sicurezza”; lo sarebbe molto meno se il regime iraniano dovesse cadere. Un discorso analogo vale per la Cina: non solo l’Iran è una preziosa fonte di approvvigionamento di petrolio per Pechino, ma è anche un tassello chiave del corridoio centrale della Via della Seta, che dovrebbe portare i treni cinesi fino a Istanbul passando proprio per Teheran. Un attacco all’Iran, con il suo immediato contagio di caos e violenza a tutto il Medio Oriente, rischierebbe di ritardare per anni il corridoio centrale; un’implosione del regime per decenni. Ecco perché anche Pechino ha interesse a sostenere l’Iran in questo difficilissimo momento. Zbigniew Brzezinski aveva già previsto nel 1997, nel suo The Grand Chessbord, la possibile nascita di un’alleanza “anti-egemonica” (ossia anti-angloamericana) tra Russia, Cina e Iran. «Theresult could, at least theoretically, bring together the world’s lead-ing Slavic power, the world’s most militant Islamic power, and theworld’s most populated and powerful Asian power, thereby creating a potent coalition». Quest’alleanza è in nuce, e gli Usa stanno facendo di tutto per spingere verso la guerra il membro più debole del “blocco continentale”: se guerra sarà, Cina e Russia non staranno sicuramente a guardare.(Federico Dezzani, “Perché l’Iran”, dal blog di Dezzani del 21 giugno 2019. La traduzione del passo di Brzezinski: «Almeno teoricamente, potrebbero unirsi il principale potere slavo del mondo, la potenza islamica più militante del mondo e il potere asiatico più popoloso e potente del mondo, creando così una potente coalizione»).Spirano venti di guerra nel Golfo Persico, dove all’inasprimento delle sanzioni economiche contro l’Iran si aggiunge un numero crescente di provocazioni militari: la speranza di Washington è che il regime iraniano imploda sotto il peso delle molteplici pressioni ma, data la solidità di quest’ultimo, non è neppure escludibile un attacco militare diretto, di qui al 2020. Meglio sarebbe, ovviamente, se Teheran cadesse nella trappola di attaccare per primo. Alla base della strategia angloamericana c’è sicuramente la volontà di mantenere la superiorità regionale di Israele, destabilizzando il principale avversario; c’è, però, anche la volontà di scardinare una potenza terrestre che, a fianco di Russia e Cina, sta “organizzando” il Medio Oriente con importanti infrastrutture. Nella nostra analisi geopolitica per il 2019, “Dal golfo di Biscaglia al Mar cinese”, non ci eravamo ovviamente scordati di menzionare l’Iran che, sin dall’inverno 2017/2018, era stato preso di mira dall’amministrazione Trump. Ai soliti tentativi di rivoluzione colorata, si è aggiunto, nel corso del 2018, un ritorno alle sanzioni, sospese durante l’era Obama: la presidenza democratica, già impegnata nella destabilizzazione della Siria (e nel tentativo di scatenare una guerra turco-iraniana), aveva infatti allentato la morsa sull’Iran, per impedire che questo si gettasse nelle braccia della Russia.
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Scuola di golpe: è nato in Serbia l’oscuro progetto Guaidò
Prima della data fatidica del 22 gennaio, meno di un venezuelano su 5 aveva mai sentito parlare di Juan Guaidó. Solo pochi mesi fa, il trentacinquenne era un personaggio oscuro in un gruppo di estrema destra di scarsa influenza politica, strettamente associato a macabri atti di violenza di strada. Anche nel suo stesso partito, Guaidó era una figura di medio livello nell’Assemblea Nazionale dominata dall’opposizione, che sta ora agendo in maniera incostituzionale. Ma dopo una sola telefonata dal vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, Guaidó si è proclamato presidente del Venezuela. Unto come capo del suo paese da Washington, uno sguazzatore di bassifondi politici precedentemente sconosciuto è stato fatto salire sul palcoscenico internazionale, selezionato dagli Stati Uniti come il leader della nazione con le maggiori riserve petrolifere del mondo. Facendo eco al consenso di Washington, il comitato editoriale del “New York Times” ha definito Guaidó un «rivale credibile» per il presidente Nicolás Maduro, con uno «stile rinfrescante e una visione per portare avanti il paese». Il comitato editoriale di “Bloomberg” lo ha applaudito per aver cercato «il ripristino della democrazia», e il “Wall Street Journal” lo ha dichiarato «un nuovo leader democratico».Al contempo il Canada, numerose nazioni europee, Israele e il blocco dei governi latinoamericani di destra, conosciuti come il Gruppo di Lima, hanno riconosciuto Guaidó come il leader legittimo del Venezuela. Mentre Guaidó sembra essersi materializzato dal nulla, è in realtà il prodotto di oltre un decennio di coltivazione attenta da parte delle “fabbriche di cambio di regime” del governo degli Stati Uniti. Accanto a un gruppo di attivisti studenteschi di destra, Guaidó è stato coltivato per minare il governo socialista, destabilizzare il paese e un giorno prendere il potere. Sebbene sia stato una figura minore nella politica venezuelana, ha passato anni a dimostrare la sua “dignità” nelle sale del potere di Washington. «Juan Guaidó è un personaggio creato per questa circostanza», ha detto a “Grayzone” Marco Teruggi, sociologo argentino e tra i principali cronisti della politica venezuelana. «È la logica di laboratorio: Guaidó è come una miscela di diversi elementi che creano un personaggio che, in tutta onestà, oscilla tra il risibile e il preoccupante».Diego Sequera, giornalista e scrittore venezuelano per l’agenzia investigativa “Mision Verdad”, concorda: «Guaidó è più popolare fuori dal Venezuela che dentro, specialmente nelle élite Ivy League e nei circoli di Washington. È un personaggio conosciuto lì, è prevedibilmente di destra ed è considerato fedele al programma». Mentre Guaidó è oggi venduto come il volto della restaurazione democratica, ha trascorso la sua carriera nella fazione più violenta del partito di opposizione più radicale del Venezuela, posizionandosi in prima linea in una campagna di destabilizzazione dopo l’altra. Il suo partito è stato ampiamente screditato in Venezuela, ed è ritenuto in parte responsabile della frammentazione di un’opposizione fortemente indebolita. «Questi leader radicali non hanno più del 20% nei sondaggi d’opinione», scrive Luis Vicente León, il principale sondaggista del Venezuela. Secondo Leon, il partito di Guaidó rimane isolato perché la maggioranza della popolazione non vuole la guerra: «Quello che vogliono è una soluzione».Ma questo è precisamente il motivo per cui Guaidó è stato scelto da Washington: non è previsto che guidi il Venezuela verso la democrazia, ma che faccia collassare un paese che negli ultimi due decenni è stato un baluardo di resistenza all’egemonia degli Stati Uniti. La sua improbabile ascesa segna il culmine di un progetto durato due decenni per distruggere un solido esperimento socialista. Dall’elezione del 1998 di Hugo Chavez, gli Stati Uniti hanno combattuto per ripristinare il controllo sul Venezuela e le sue vaste riserve petrolifere. I programmi socialisti di Chavez hanno in parte ridistribuito la ricchezza del paese e aiutato a sollevare milioni dalla povertà, ma gli hanno anche dipinto un bersaglio sulle spalle. Nel 2002, l’opposizione di destra venezuelana lo depose con un colpo di Stato che aveva il sostegno e il riconoscimento degli Stati Uniti, ma l’esercito ripristinò la sua presidenza dopo una mobilitazione popolare di massa. Durante le amministrazioni dei presidenti degli Stati Uniti George W. Bush e Barack Obama, Chavez è sopravvissuto a numerosi tentativi di omicidio, prima di soccombere al cancro nel 2013. Il suo successore, Nicolás Maduro, è sopravvissuto a tre attentati.L’amministrazione Trump ha immediatamente elevato il Venezuela al vertice della lista dei cambi di regime di Washington, dandogli il marchio di leader di una “troika della tirannia”. L’anno scorso, la squadra di sicurezza nazionale di Trump ha cercato di reclutare membri dell’esercito venezuelano per istaurare una giunta militare, ma questo sforzo è fallito. Secondo il governo venezuelano, gli Stati Uniti erano anche coinvolti in una trama chiamata “Operazione Costituzione” per catturare Maduro nel palazzo presidenziale di Miraflores, e un’altra chiamata “Operazione Armageddon” per assassinarlo a una parata militare nel luglio 2017. Poco più di un anno dopo, i leader dell’opposizione esiliata hanno cercato di uccidere Maduro, usando droni-bomba durante una parata militare a Caracas. Più di un decennio prima di questi intrighi, un gruppo di studenti dell’opposizione di destra fu selezionato e curato da un’accademia di formazione d’élite per il cambio di regimi, finanziata dagli Stati Uniti per rovesciare il governo venezuelano e ripristinare l’ordine neoliberista.Il 5 ottobre 2005, con la popolarità di Chavez al suo apice e il suo governo che pianifica vasti programmi socialisti, cinque “leader studenteschi” venezuelani arrivarono a Belgrado, in Serbia, per iniziare l’addestramento per un’insurrezione. Gli studenti erano arrivati dal Venezuela per gentile concessione del Centro per le azioni e strategie nonviolente applicate, o Canvas. Questo gruppo è finanziato in gran parte attraverso il National Endowment for Democracy, un cut-out della Cia che funziona come il braccio principale del governo degli Stati Uniti per promuovere i cambi di regime, e propaggini come l’International Republican Institute e il National Democratic Institute for International Affairs. Secondo le e-mail interne trapelate da Stratfor, una società di intelligence nota come “la Cia-ombra”, «Canvas potrebbe aver ricevuto finanziamenti e addestramento dalla Cia durante la lotta anti-Milosevic del 1999-2000».Canvas è uno spin-off di Otpor, un gruppo di protesta serbo fondato da Srdja Popovic nel 1998 all’Università di Belgrado. Otpor, che significa “resistenza” in serbo, è stato il gruppo studentesco che ha guadagnato fama internazionale – e la pubblicità di Hollywood – mobilitando le proteste che alla fine hanno fatto cadere Slobodan Milosevic. Questa piccola cellula di specialisti del cambio di regime operava secondo le teorie del defunto Gene Sharp, “il Von Clausewitz della lotta non violenta”. Sharp aveva lavorato con un ex analista della Defense Intelligence Agency, il colonnello Robert Helvey, per ideare le linee guida per l’utilizzo della protesta come una forma di guerra ibrida, mirata agli Stati che resistevano alla dominazione unipolare di Washington. Otpor è stato sostenuto dal National Endowment for Democracy, dall’Usaid e dall’Istituto Albert Einstein di Sharp. Sinisa Sikman, uno dei creatori di Otpor, una volta ha detto che il gruppo ha persino ricevuto finanziamenti diretti della Cia.Secondo un’e-mail trapelata dallo staff di Stratfor, dopo aver eliminato Milosevic dal potere, «i ragazzi che gestivano Otpor sono cresciuti, si sono vestiti bene e hanno progettato Canvas, o in altre parole un gruppo “export-a-revolution” che ha gettato i semi delle varie altre “rivoluzioni colorate”. Sono ancora legati ai finanziamenti degli Stati Uniti e fondamentalmente vanno in giro per il mondo cercando di rovesciare dittatori e governi autocratici (quelli che agli Usa non piacciono)». Stratfor ha rivelato che Canvas «ha rivolto la sua attenzione al Venezuela» nel 2005, dopo aver addestrato i movimenti di opposizione che hanno portato le operazioni di cambio di regime pro-Nato in tutta l’Europa orientale. Mentre monitorava il programma di formazione Canvas, Stratfor ha delineato il suo programma insurrezionalista in un linguaggio straordinariamente chiaro: «Il successo non è affatto garantito, e i movimenti studenteschi sono solo l’inizio di quello che potrebbe essere uno sforzo di anni per innescare una rivoluzione in Venezuela, ma i formatori sono le persone che si sono fatte le ossa col “Macellaio dei Balcani”. Hanno delle abilità pazzesche. Quando vedrete studenti in cinque università venezuelane tenere dimostrazioni simultanee, saprete che la formazione è finita e il vero lavoro è iniziato».Il “vero lavoro” è iniziato due anni dopo, nel 2007, quando Guaidó si è laureato presso l’Università Cattolica Andrés Bello di Caracas. Si è trasferito a Washington per iscriversi al corso di governance e gestione politica presso la George Washington University sotto la guida dell’economista venezuelano Luis Enrique Berrizbeitia, uno dei principali economisti neoliberali latinoamericani. Berrizbeitia è un ex direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale, che ha trascorso oltre un decennio lavorando nel settore energetico venezuelano sotto il vecchio regime oligarchico poi estromesso da Chavez. Quell’anno, Guaidó contribuì a guidare i raduni anti-governativi dopo che il governo venezuelano rifiutò di rinnovare la licenza di “Radio Caracas Televisión” (Rctv). Questa stazione privata svolse un ruolo di primo piano nel colpo di Stato del 2002 contro Hugo Chavez. “Rctv” aiutò a mobilitare i manifestanti anti-governativi, diffondendo informazioni false che incolpavano i sostenitori del governo di atti di violenza, compiuti in realtà dai membri dell’opposizione, e censurò tutte le dichiarazioni pro-governative in occasione del colpo di Stato.Il ruolo di “Rctv” e di altre stazioni di proprietà degli oligarchi nel guidare il fallito tentativo di colpo di Stato è stato ben descritto nell’acclamato documentario “La rivoluzione non sarà trasmessa”. Nello stesso anno, gli studenti rivendicarono il merito di aver soffocato il referendum costituzionale di Chavez per “un socialismo del XXI secolo” che prometteva di «impostare il quadro legale per la riorganizzazione politica e sociale del paese, dando un potere diretto alle comunità organizzate come prerequisito per lo sviluppo di un nuovo sistema economico». Dalle proteste su “Rctv” e referendum, nacque un gruppo specializzato di attivisti del cambio di regime sostenuto dagli Stati Uniti. Si sono definiti “Generation 2007”. I formatori di Stratfor e Canvas di questa cellula hanno identificato un organizzatore chiamato Yon Goicoechea, alleato di Guaidó – quale “fattore chiave” nel soffocamento del referendum costituzionale. L’anno seguente, Goicochea fu ricompensato per i suoi sforzi con il Milton Friedman Prize for Advancing Liberty del Cato Institute, insieme a un premio di 500.000 dollari, che investì prontamente nella costruzione della sua rete politica “Prima la Libertà” (Primero Justicia).Friedman, naturalmente, era il padrino del famigerato think-tank neoliberista dei Chicago Boys che fu importato in Cile dal leader della giunta dittatoriale Augusto Pinochet per attuare politiche di radicale austerità fiscale in stile “shock-doctrine”. E il Cato Institute è il think-tank neoliberista di Washington, fondato dai fratelli Koch, due grandi donatori del partito repubblicano che sono diventati aggressivi sostenitori della destra in tutta l’America Latina. WikiLeaks ha pubblicato un’e-mail del 2007 che l’ambasciatore americano in Venezuela William Brownfield ha inviato al Dipartimento di Stato, al Consiglio di sicurezza nazionale e al Comando meridionale del Dipartimento della difesa elogiando «la Generazione del ‘07» per aver «costretto il presidente venezuelano, abituato a fissare l’agenda politica, a reagire spropositatamente». Tra i «leader emergenti» identificati da Brownfield c’erano Freddy Guevara e Yon Goicoechea. Ha applaudito quest’ultima figura come «uno dei difensori più articolati delle libertà civili». Riempiti di denaro dagli oligarchi neoliberali, i quadri radicali venezuelani hanno portato le loro tattiche Otpor nelle strade, insieme a una loro particolare versione del logo del gruppo.Nel 2009, gli attivisti giovanili di “Generation 2007” hanno messo in scena la loro dimostrazione più provocatoria, calandosi i pantaloni nelle strade e scimmiottando le “scandalose” tattiche di “guerrilla” delineate da Gene Sharp nei suoi manuali sul cambio di regime. I manifestanti si erano mobilitati contro l’arresto di un alleato di un altro gruppo giovanile, chiamato Javu. Questo gruppo di estrema destra «raccolse fondi da una varietà di fonti governative degli Stati Uniti, che gli permisero di acquisire rapida notorietà come l’ala più dura dei movimenti di opposizione», secondo il libro dell’accademico George Ciccariello-Maher, “Building the Commune”. Mentre i video della protesta non sono disponibili, molti venezuelani hanno identificato Guaidó come uno dei suoi partecipanti chiave. Sebbene l’accusa non sia confermata, è certamente plausibile; i manifestanti con le natiche nude erano membri del nucleo interno di “Generazione 2007” a cui apparteneva Guaidó e indossavano le T-shirt col loro marchio di fabbrica “Resistencia!”.Quell’anno, Guaidó si espose al pubblico in un altro modo, fondando un partito politico per catturare l’energia anti-Chavez che la sua “Generazione 2007” aveva coltivato. Il partito, chiamato “Volontà popolare”, fu guidato da Leopoldo López, un purosangue di destra educato a Princeton, pesantemente coinvolto nei programmi del National Endowment for Democracy ed eletto sindaco di un distretto di Caracas tra i più ricchi del paese. Lopez era un ritratto dell’aristocrazia venezuelana, direttamente discendente dal primo presidente del suo paese. È anche cugino di Thor Halvorssen, fondatore della Human Rights Foundation, con sede negli Stati Uniti, che funge da facciata pubblicitaria per gli attivisti anti-governativi sostenuti dagli Stati Uniti in paesi presi di mira da Washington. Sebbene gli interessi di Lopez fossero allineati perfettamente con quelli di Washington, i documenti diplomatici statunitensi pubblicati da WikiLeaks mettevano in luce le tendenze fanatiche che avrebbero portato alla marginalizzazione dal consenso popolare.Un comunicato identificava Lopez come «una figura di divisione all’interno dell’opposizione, spesso descritta come arrogante, vendicativa e assetata di potere». Altri hanno evidenziato la sua ossessione per gli scontri e il suo «approccio intransigente» come fonte di tensione con altri leader dell’opposizione, che davano priorità all’unità e alla partecipazione alle istituzioni democratiche del paese. Nel 2010 “Volontà Popolare” e i suoi sostenitori stranieri si sono mossi per sfruttare la peggiore siccità che avesse colpito il Venezuela, da decenni. La grande carenza di energia elettrica aveva colpito il paese a causa della scarsità d’acqua, necessaria per alimentare le centrali idroelettriche. La recessione economica globale e un calo dei prezzi del petrolio aggravarono la crisi, provocando il malcontento pubblico. Stratfor e Canvas – i principali consiglieri di Guaidó e dei suoi quadri anti-governativi – escogitarono un piano scandalosamente cinico per pugnalare al cuore la rivoluzione bolivariana. Il piano prevedeva un crollo del 70% del sistema elettrico del paese già nell’aprile 2010.«Questo potrebbe essere l’evento spartiacque, poiché c’è poco che Chavez possa fare per proteggere i poveri dal fallimento di quel sistema», dichiara il memorandum interno di Stratfor. «Questo avrà probabilmente l’effetto di galvanizzare i disordini pubblici in un modo che nessun gruppo di opposizione potrebbe mai sperare di generare. A quel punto, un gruppo di opposizione potrebbe servirsene per approfittare della situazione e scagliare l’opinione pubblica contro Chavez». In quel momento l’opposizione venezuelana riceveva 40-50 milioni di dollari l’anno da organizzazioni governative statunitensi come Usaid e National Endowment for Democracy, secondo un rapporto di un think-tank spagnolo, l’Istituto Frude. Aveva anche una grande ricchezza da attingere dai suoi conti, che erano per lo più al di fuori del paese. Ma lo scenario immaginato da Statfor non si realizzò, gli attivisti del partito “Volontà Popolare” e i loro alleati misero quindi da parte ogni pretesa di non violenza e si unirono in un piano radicale di destabilizzazione del paese.Nel novembre 2010, secondo le e-mail ottenute dai servizi di sicurezza venezuelani e presentate dall’ex ministro della giustizia Miguel Rodríguez Torres, Guaidó, Goicoechea e diversi altri attivisti studenteschi hanno partecipato ad un corso di formazione segreto di cinque giorni presso l’hotel Fiesta Mexicana di Città del Messico. Le sessioni sono state condotte da Otpor, i formatori del cambio regime a Belgrado appoggiati dal governo degli Stati Uniti. Secondo quanto riferito, l’incontro aveva ricevuto la benedizione di Otto Reich, un esiliato cubano fanaticamente anticastrista che lavorava nel Dipartimento di Stato di George W. Bush, e dall’ex presidente colombiano di destra Alvaro Uribe. All’hotel Fiesta Mexicana, Guaidó e i suoi compagni attivisti hanno ordito un piano per rovesciare Hugo Chavez generando il caos attraverso spasmi prolungati di violenza di strada.Tre personaggi dell’industria petrolifera – Gustavo Tovar, Eligio Cedeño e Pedro Burelli – hanno a quanto pare pagato il conto di 52.000 dollari dell’albergo. Torrar è un autoproclamato “attivista per i diritti umani” e “intellettuale”, il cui fratello minore Reynaldo Tovar Arroyo è il rappresentante in Venezuela della società petrolifera messicana privata Petroquimica del Golfo, che ha un contratto con lo Stato venezuelano. Cedeño, da parte sua, è un fuggitivo uomo d’affari venezuelano che ha chiesto asilo negli Stati Uniti, e Pedro Burelli un ex dirigente della Jp Morgan ed ex direttore della compagnia petrolifera nazionale venezuelana Petroleum of Venezuela (Pdvsa). Lasciò la Pdvsa nel 1998 mentre Hugo Chavez prendeva il potere, e faceva parte del comitato consultivo del programma di leadership in America Latina della Georgetown University. Burelli ha insistito sul fatto che le e-mail che dettagliavano la sua partecipazione erano state inventate, e ha persino assunto un investigatore privato per dimostrarlo. L’investigatore dichiarò che i registri di Google mostravano che le e-mail che si presumeva fossero sue non vennero mai trasmesse.Eppure oggi Burelli non fa mistero del suo desiderio di vedere deposto l’attuale presidente venezuelano, Nicolás Maduro, e anche di volerlo «trascinato per le strade e sodomizzato con una baionetta», come accaduto al capo libico Muhammar Gheddafi, così trattato dai miliziani sostenuti dalla Nato. La presunta trama di Fiesta Mexicana è confluita in un altro piano di destabilizzazione, rivelato in una serie di documenti mostrati dal governo venezuelano. Nel maggio 2014, Caracas ha rilasciato documenti che descrivono un complotto di omicidio contro il presidente Nicolás Maduro. Le fughe di notizie hanno identificato Maria Corina Machado, con sede a Miami, come leader del piano. Estremista con un debole per la retorica estrema, Machado ha funto da collegamento internazionale per l’opposizione, incontrando addirittura il presidente George W. Bush nel 2005. «Penso che sia tempo di raccogliere gli sforzi; fai le chiamate necessarie e ottieni finanziamenti per annientare Maduro e il resto andrà in pezzi», ha scritto Maria Corina Machado in una e-mail all’ex diplomatico venezuelano Diego Arria nel 2014.In un’altra email, la Machado sosteneva che la trama violenta aveva la benedizione dell’ambasciatore statunitense in Colombia, Kevin Whitaker. «Ho già deciso, e questa lotta continuerà fino a quando questo regime non sarà rovesciato e consegneremo il risultato ai nostri amici nel mondo. Se sono andata a San Cristobal e mi sono esposta all’Oas, non ho paura di nulla. Kevin Whitaker ha già riconfermato il suo sostegno e ha sottolineato i nuovi passaggi. Abbiamo un libretto degli assegni più forte di quello del regime per rompere l’anello di sicurezza internazionale». Nel febbraio 2014, i manifestanti studenteschi che agivano come truppe d’assalto per l’oligarchia in esilio eressero barricate in tutto il paese, trasformando quartieri controllati dall’opposizione in fortezze violente, note come “guarimbas”. Mentre i media internazionali ritraevano lo sconvolgimento come una protesta spontanea contro la regola del pugno di ferro di Maduro, ci sono molte prove che fosse “Volontà Popolare” ad orchestrare lo spettacolo.«I manifestanti delle università non indossavano le loro magliette, tutti indossavano magliette di “Volontà Popolare” o “Justice First”», ha detto un partecipante alla “guarimba”, all’epoca. «Potrebbero essere stati gruppi di studenti, ma i consigli studenteschi sono affiliati ai partiti politici di opposizione e sono responsabili nei loro confronti». Alla domanda su chi fossero i capobanda, il partecipante alla “guarimba” ha dichiarato: «Beh, ad essere onesti, quei ragazzi ora sono in Parlamento». Circa 43 sono stati i morti durante le “guarimbas” del 2014. Le stesse violenze eruttarono di nuovo tre anni dopo, causando grandi distruzioni di infrastrutture pubbliche, l’assassinio di sostenitori del governo e la morte di 126 persone, molte delle quali erano chaviste. In diversi casi, i sostenitori del governo sono stati bruciati vivi da bande armate. Guaidó è stato direttamente coinvolto nelle “guarimbas” del 2014. Infatti, ha twittato un video in cui si mostrava vestito con un elmetto e una maschera antigas, circondato da elementi mascherati e armati che avevano bloccato un’autostrada e che si stavano impegnando in uno scontro violento con la polizia. Alludendo alla sua partecipazione alla “Generazione 2007”, proclamava: «Ricordo che nel 2007, abbiamo proclamato, “Studenti!”. Ora gridiamo: “Resistenza! Resistenza”». Guaidó ha poi cancellato il tweet, dimostrando un’apparente preoccupazione per la sua immagine di paladino della democrazia.Il 12 febbraio 2014, durante il culmine delle “guarimbas” di quell’anno, Guaidó si è unito a Lopez sul palco di una manifestazione di “Volontà Popolare” e “Prima la Giustizia”. Con un lungo discorso contro il governo, Lopez esortò la folla a marciare verso l’ufficio del procuratore generale Luisa Ortega Diaz. Poco dopo, l’ufficio di Diaz venne attaccato da bande armate che tentarono di bruciarlo. La Diaz ha definito l’episodio come «violenza programmata e premeditata». In un’apparizione televisiva del 2016, Guaidó ha liquidato come “mito” le morti risultanti da “guayas” – una tattica di “guarimba” che consiste nel piazzare filo spinato su una strada ad altezza della testa per ferire o uccidere motociclisti. I suoi commenti hanno minimizzato una tattica micidiale che aveva ucciso civili disarmati come Santiago Pedroza e decapitato un uomo di nome Elvis Durán, tra molti altri. Questo insensibile disprezzo per la vita umana definisce “Volontà Popolare” agli occhi di gran parte del pubblico, compresi molti avversari di Maduro.Con l’intensificarsi della violenza e della polarizzazione politica in tutto il paese, il governo ha iniziato ad agire contro i leader di “Volontà Popolare”. Freddy Guevara, vicepresidente dell’Assemblea Nazionale e secondo in comando di “Volontà Popolare”, è stato il principale leader delle rivolte di strada del 2017. Di fronte a un processo per il suo ruolo nelle violenze, Guevara si è rifugiato nell’ambasciata cilena, dove rimane. Lester Toledo, un legislatore di “Volontà Popolare” dello Stato di Zulia, è stato ricercato dal governo venezuelano nel settembre 2016 con l’accusa di finanziamento del terrorismo e di complotto a fini di omicidio. Si dice che i piani siano stati preparati insieme all’ex presidente colombiano Álavaro Uribe. Toledo è fuggito dal Venezuela e ha fatto diverse tournée con Human Rights Watch, la Freedom House, il Congresso spagnolo e il Parlamento Europeo, sostenuto dal governo degli Stati Uniti.Carlos Graffe è un altro membro della “Generazione 2007” addestrata da Otpor, che ha guidato Volontà Popolare. E’ stato arrestato nel luglio 2017. Secondo la polizia, era in possesso di una borsa piena di chiodi, esplosivo C4 e un detonatore. È stato rilasciato il 27 dicembre 2017. Leopoldo Lopez, il leader di lunga data di “Volontà Popolare”, è oggi agli arresti domiciliari, accusato di aver avuto un ruolo chiave nella morte di 13 persone durante le “guarimbas” nel 2014. Amnesty International ha elogiato Lopez come «prigioniero di coscienza». Nel frattempo, i familiari delle vittime di “guarimba” hanno presentato una petizione per ulteriori accuse contro Lopez. Goicoechea, il poster-boy dei fratelli Koch e fondatore di “Prima la Giustizia”, sostenuto dagli Stati Uniti, è stato arrestato nel 2016 dalle forze di sicurezza, che hanno affermato di aver trovato un chilo di esplosivo nel suo veicolo. In un editoriale del “New York Times”, Goicoechea ha protestato contro le accuse (che definisce false) e ha affermato di essere stato imprigionato semplicemente per il suo «sogno di una società democratica, libera dal comunismo». È stato liberato nel novembre 2017.David Smolansky, anche lui membro dell’originale “Generation 2007” di Otpor, è diventato il più giovane sindaco venezuelano quando è stato eletto nel 2013 nel ricco sobborgo di El Hatillo. Ma è stato spogliato della sua posizione e condannato a 15 mesi di prigione dalla Corte Suprema dopo essere stato trovato colpevole di aver fomentato le violenze delle “guarimbas”. Prima dell’arresto, Smolansky si rasò la barba, indossò occhiali da sole e scivolò in Brasile travestito da prete con una Bibbia in mano e il rosario al collo. Ora vive a Washington, dove è stato scelto dal segretario dell’Organizzazione degli Stati Americani Luis Almagro per guidare il gruppo di lavoro sulla crisi dei migranti e dei rifugiati venezuelani. Lo scorso 26 luglio, Smolansky ha tenuto quella che ha definito una «riunione cordiale» con Elliot Abrams, il criminale condannato nel processo Iran-Contra, ora mandato da Trump come inviato speciale degli Stati Uniti in Venezuela. Abrams è noto per aver supervisionato la politica segreta degli Stati Uniti di armare gli squadroni della morte di destra durante gli anni ‘80 in Nicaragua, El Salvador e Guatemala. Il suo ruolo principale nel colpo di Stato venezuelano ha alimentato i timori che un’altra guerra per procura potrebbe essere in arrivo. Quattro giorni prima, Machado aveva urlato un’altra violenta minaccia contro Maduro, dichiarando che «se vuole salvarsi la vita, dovrebbe capire che il suo tempo è scaduto».Il collasso di “Volontà Popolare”, sotto il peso della violenta campagna di destabilizzazione che aveva avviato, ha alienato il consenso di ampi settori dell’opinione pubblica e ha costretto gran parte della sua leadership in esilio o in carcere. Guaidó è sempre rimasto una figura relativamente minore, ha infatti trascorso gran parte della sua carriera di nove anni all’Assemblea Nazionale come sostituto. Originario di uno degli Stati meno popolati del Venezuela, Guaidó arrivò secondo alle elezioni parlamentari del 2015, assicurandosi il posto in Assemblea con appena il 26% dei voti. In effetti, si può dire che il suo sedere fosse più conosciuto della sua faccia. Guaidó è noto come il presidente dell’Assemblea Nazionale, dominata dall’opposizione, ma non è mai stato eletto. I quattro partiti di opposizione che comprendevano il Tavolo di Unità Democratica dell’Assemblea avevano deciso di istituire una presidenza a rotazione. La svolta di “Volontà Popolare” era in arrivo, ma il suo fondatore, Lopez, era agli arresti domiciliari. Nel frattempo, il suo secondo incaricato, Guevara, si era rifugiato nell’ambasciata cilena. Juan Andrés Mejía avrebbe dovuto occupare la presidenza dell’Assemblea, ma per ragioni che ora sono maggiormente chiare, gli fu preferito Juan Guaidò.«C’è un ragionamento di classe che spiega l’ascesa di Guaidó», osserva Sequera, l’analista venezuelano. «Mejía è di classe alta, ha studiato in una delle università private più costose del Venezuela e non poteva essere facilmente venduto al pubblico come Guaidó. Guaidó ha caratteristiche meticce comuni alla maggior parte dei venezuelani, e sembra più un uomo della gente. Inoltre, non era stato sovraesposto nei media, quindi poteva essere presentato in praticamente qualsiasi salsa». Nel dicembre 2018, Guaidó si è recato a Washington, in Colombia e in Brasile per coordinare la preparazione di manifestazioni di massa durante l’inaugurazione della presidenza Maduro. La notte prima della cerimonia di giuramento di Maduro, sia il vicepresidente Mike Pence che il ministro degli esteri canadese Chrystia Freeland hanno chiamato Guaidó per confermare il loro sostegno. Una settimana dopo, il senatore Marco Rubio, il senatore Rick Scott e il rappresentante Mario Diaz-Balart – tutti i legislatori della base della destra della lobby di esilio cubano di destra – si sono uniti al presidente Trump e al vicepresidente Pence alla Casa Bianca. Su loro richiesta, Trump dichiarò che se Guaidó si fosse dichiarato presidente, lo avrebbe sostenuto.Il segretario di Stato Mike Pompeo ha incontrato personalmente Guaidó il 10 gennaio, secondo il “Wall Street Journal”. Tuttavia, Pompeo non riusci a pronunciare correttamente il nome di Guaidó quando lo menzionò in una conferenza stampa il 25 gennaio, riferendosi a lui come a “Juan Guido”. L’11 gennaio, la pagina di Wikipedia di Guaidó è stata modificata per 37 volte, mettendo in evidenza la lotta per modellare l’immagine di una figura precedentemente anonima che ora era un tableau per le ambizioni del cambio di regime di Washington. Alla fine, la supervisione editoriale della sua pagina è stata consegnata al consiglio d’élite dei “bibliotecari” di Wikipedia, che lo ha definito presidente «conteso» del Venezuela. Guaidó sarà anche una mezza figura, ma la sua combinazione di radicalismo e opportunismo soddisfa i bisogni di Washington. «Quel pezzo interno era mancante», ha detto di Guaidó un funzionario dell’amministrazione Trump. «Era il pezzo di cui avevamo bisogno perché la nostra strategia fosse coerente e completa». Brownfield, l’ex ambasciatore americano in Venezuela, ha dichiarato al “New York Times”: «Per la prima volta abbiamo un leader dell’opposizione che sta chiaramente segnalando alle forze armate e alle forze dell’ordine che vuole tenerle dalla parte degli angeli e dei bravi ragazzi».Ma è stata “Volontà Popolare” di Guaidó a formare le truppe d’assalto delle “guarimbas” che hanno causato la morte di agenti di polizia e comuni cittadini. Si era persino vantato della propria partecipazione alle rivolte di strada. E ora, per conquistare i cuori e le menti dei militari e della polizia, Guaidò ha dovuto cancellare questa storia intrisa di sangue. Il 21 gennaio, un giorno prima che il colpo di Stato iniziasse sul serio, la moglie di Guaidó ha presentato un video che invitava i militari a insorgere contro Maduro. La sua esibizione è stata legnosa e poco accattivante, e sottolinea le limitate prospettive politiche del marito. In una conferenza stampa di fronte ai suoi sostenitori, quattro giorni dopo, Guaidó ha annunciato la sua soluzione alla crisi: «Autorizzare un intervento umanitario!». Mentre attende l’assistenza diretta, Guaidó rimane quello che è sempre stato – una marionetta, frutto del progetto di ciniche forze esterne. «Non importa se si brucerà dopo tutte queste disavventure», dice Sequera del fantoccio del colpo di Stato. «Per gli americani, è sacrificabile».(Dan Cohen e Max Blumenthal, “The making of Juan Guaidó – Il fantoccio creato in laboratorio per il colpo di Stato in Venezuela”, da “Consortium News” del 29 gennaio 2019: reportage tradotto da Enrico Carotenuto per “Coscienze in Rete”. Max Blumenthal è un giornalista pluripremiato e autore di numerosi libri, tra cui “Gomorra Repubblicana”, “Golia”, “La guerra dei cinquanta giorni” e “La gestione della ferocia”. Ha prodotto articoli per numerose pubblicazioni, molti video report e diversi documentari, tra cui “Killing Gaza”. Blumenthal ha fondato “The Grayzone” nel 2015 per puntare un faro giornalistico sullo stato di guerra perpetua dell’America e le sue pericolose ripercussioni domestiche. Dan Cohen è un giornalista e regista. Ha prodotto reportage video ampiamente distribuiti e materiale cartaceo da tutta Israele-Palestina. E’ un corrispondente di “Rt America”).Prima della data fatidica del 22 gennaio, meno di un venezuelano su 5 aveva mai sentito parlare di Juan Guaidó. Solo pochi mesi fa, il trentacinquenne era un personaggio oscuro in un gruppo di estrema destra di scarsa influenza politica, strettamente associato a macabri atti di violenza di strada. Anche nel suo stesso partito, Guaidó era una figura di medio livello nell’Assemblea Nazionale dominata dall’opposizione, che sta ora agendo in maniera incostituzionale. Ma dopo una sola telefonata dal vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, Guaidó si è proclamato presidente del Venezuela. Unto come capo del suo paese da Washington, uno sguazzatore di bassifondi politici precedentemente sconosciuto è stato fatto salire sul palcoscenico internazionale, selezionato dagli Stati Uniti come il leader della nazione con le maggiori riserve petrolifere del mondo. Facendo eco al consenso di Washington, il comitato editoriale del “New York Times” ha definito Guaidó un «rivale credibile» per il presidente Nicolás Maduro, con uno «stile rinfrescante e una visione per portare avanti il paese». Il comitato editoriale di “Bloomberg” lo ha applaudito per aver cercato «il ripristino della democrazia», e il “Wall Street Journal” lo ha dichiarato «un nuovo leader democratico».
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Barnard: Julian Assange verso la morte. E voi codardi, zitti
Ci ha rivelato verità indicibili, rendendoci più consapevoli e quindi più liberi. Ma ora Julian Assange può crepare, nella sua stanzetta-prigione, senza che nessuno muova un dito per salvarlo: giornali, attivisti, intellettuali, politici, governi. Si è immolato per tutti, con le esplosive rivelazioni affidate a WikiLekas. Sperava di suscitare un’ondata di protesta capace di scuotere il potere. E immaginava che l’indignazione lo avrebbe protetto dalla vendetta dell’establishment. Ma si sbagliava: Julian Assange sta morendo giorno per giorno: l’ambasciata ecuadoregna di Londra, che finora l’ha tenuto al riparo dall’estradizione, potrebbe non tutelarlo più. È così forte, la pressione degli Usa – sull’Ecuador, e sulle autorità britanniche – che le teste di cuoio inglesi potrebbero fare irruzione nella sede diplomatica e caricare Assange, il martire dell’informazione libera, sul primo volo per Washington. È sconvolgente il report che Paolo Barnard fornisce da Londra, dove ha trascorso le feste natalizie presidiando il “carcere” di Assange, agitando vistosi cartelli. Desolazione e solitudine. Peggio: i giornalisti del “Guardian”, i primi a presentare Assange come un eroe, ora confessano di essere intimiditi e ricattati. Per questo nessuno rimetterà in prima pagina il direttore di WikiLeaks. Julian Assange è praticamente già morto. Alla faccia dei diritti civili e dei diritti umani di cui l’Occidente si vanta.Dopo aver fatto da sentinella per 11 giorni sotto la finestra dove il giornalista australiano è sostanzialmente detenuto, Paolo Barnard getta la spugna. La denuncia che affida al suo blog è tale da coprire di vergogna l’intera opinione pubblica mondiale, a cominciare da attivisti per molti aspetti valorosi – come lo stesso John Pilger – che, dopo aver santificato Assange, oggi (nel momento del bisogno) lo hanno di fatto abbandonato al suo destino. Nessuna seria mobilitazione è in corso – in nessun paese – per premere sui governi in modo da scongiurare il peggio, ovvero: evitare che sia sottoposto a un processo “medievale”, negli Stati Uniti, l’uomo che sperava di migliorare il mondo (per la maggior libertà di tutti noi) rischiando in prima persona pur di rendere pubblico il lato oscuro del potere. Dal 2007, WikiLeaks ha pubblicato oltre un milione e 200.000 documenti riservati: dalla guerra in Afghanistan fino alle rivelazioni sulla corruzione in Kenya. Grazie a WikiLeaks il mondo ha scoperto come vengono torturati i prigionieri catturati dagli Usa e detenuti a Guantanamo.Nel 2010, il network di Assange ha svelato alla grande stampa (“New York Times”, “The Guardian”, “Der Spiegel”) il contenuto di alcuni documenti riservati, dai quali emergono aspetti nascosti della guerra in Afghanistan: l’uccisione di civili, l’occultamento dei cadaveri, l’esistenza di un’unità segreta americana dedita a «fermare o uccidere» i Talebani anche senza un regolare processo. Inevitabile che Julian Assange venisse perseguitato con il più ovvio dei pretesti, come l’accusa di “stupro” spiccata contro di lui nel 2010 dal tribunale di Stoccolma. Strano stupro: avrebbe avuto rapporti sessuali “non protetti”, ma con donne consenzienti. Il 7 dicembre 2010, Assange si presentò spontaneamente a Scotland Yard, dove venne arrestato (su mandato di cattura europeo). Dopo nove giorni di carcere venne rilasciato su cauzione. Il vero pericolo, fin da allora, è la possibile richiesta di estrazione negli Usa, una volta che Assange fosse trasferito in Svezia: l’accusa per spionaggio, negli Stati Uniti, può costare l’ergastolo e anche la pena di morte.Il fondatore di WikiLeaks è segregato dal giugno del 2012 nell’ambasciata londinese dell’Ecuador, paese a cui aveva chiesto asilo politico. Lo status di rifugiato gli è stato concesso il 16 agosto 2012 dal governo di Rafael Correa, temendo che la Gran Bretagna lo arrestasse per estradarlo a Stoccolma. Nel gennaio 2016, il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla Detenzione Arbitraria ha decretato che la permanenza forzata di Assange nell’ambasciata è configurabile come “detenzione arbitraria e illegale” da parte di Gran Bretagna e Svezia. Anche per questo, l’11 gennaio 2018 l’Ecuador ha confermato di aver concesso ad Assange la propria cittadinanza. Ricapitolando: l’uomo che rappreasenta la miglior fonte giornalistica del mondo è costretto a vivere in una stanzetta, da sei anni, per sottrarsi al pericolo di subire un processo sommario e magari di essere condannato a morte, una volta estradato negli Usa dopo il trasferimento in Svezia. E intanto sta franando anche il fragile diaframma che finora lo ha protetto. Il problema? Non c’è più Rafael Correa, alla guida dell’Ecuador.Il nuovo governo del paese centramericano è oggi totalmente pro-Usa, ricorda Paolo Barnard: e il neo-eletto presidente Lenìn Moreno ha definito il direttore di WikiLeaks «un sasso che mi sono ritrovato nella scarpa», e gli è totalmente ostile. Ormai la vita di Assange, nei pochi metri quadri in cui è ospitato, è diventata «un vero inferno di proibizioni e limiti». Assange è isolato dal mondo, senza cure, vessato dagli agenti interni. «Lo stanno demolendo nella psiche e nel corpo per costringerlo ad arrendersi e a uscire». L’autorevole “British Medical Journal” ha mandato uno specialista a visitarlo e ha denunciato come «drammatiche» le sue condizioni di salute, fisiche e mentali, dopo 6 anni di questo tipo di prigionia. E la situazione sta precipitando, avverte Barnard: «Da poche settimane si è venuto a sapere che ora esiste ufficialmente in America un’imputazione (cosiddetta segreta), cioè un capo d’accusa, contro Assange, cosa che prima mai era stata rivelata, ma che tutti temevano».Ciò significa che ora «la Gran Bretagna è sotto un’enorme pressione per estradarlo», appena uscisse dall’ambasciata. Peggio: potrebbe essere addirittura «prelevato di forza, col permesso dell’Ecuador». Il timore dell’esistenza di questa imputazione tenuta nascosta aggiunge Barnard, è stato precisamente il motivo per cui Julian Assange da 6 anni è costretto a vivere segregato nell’unica ambasciata che gli ha dato asilo, ma che ora gli è nemica. Ce ne sarebbe abbastanza per mobilitare almeno l’opinione pubblica, attraverso la stampa. E invece, scrive Barnard, arriva un’altra amara sopresa: i giornali non parlano più di Assange, perché sono stati minacciati. «Il prestigiosissimo inglese “The Guardian” – scrive Barbard – è il quotidiano che sotto la direzione di Alan Rusbridger lanciò gli scoop di WikiLeaks nel mondo, vendendo oceani di copie e sventolando Assange come un eroe del giornalismo». Ma ora, aggiunge, accade qualcosa d’incredibile. «Dal 2013, il quotidiano adotta un altro “whistleblower” di fama mondiale, Edward Snowden, e inizia a mollare Assange».In altre parole: si rischia di meno a parlare di Snowden, l’uomo che ha smascherato lo spionaggio di massa della Nsa, e che ora vive comunque al sicuro, a Mosca, protetto dalla Russia di Putin. È probabilissimo che, senza l’esempio di Assange, Snowden non avrebbe mai trovato il coraggio di uscire allo scoperto. Ma il “Guardian” sembra averlo dimenticato. E c’è di peggio: Barnard cita un editorialista del quotidiano inglese, Luke Harding, che si era lanciato in una crociata per tentare di dimostrare la presunta collusione di Putin con Trump nelle presidenziali 2016. Harding, che era già stato screditato per non aver prodotto praticamente una singola prova (ma solo illazioni), ora pubblica ora uno “scoop” proprio sul “Guardian”: Paul Manafort, il gran manager elettorale di Trump, secondo Harding avrebbe visitato Assange all’ambasciata diverse volte, e questo proverebbe che in realtà WikiLeaks ha davvero subdolamente pubblicato le nefandezze della Clinton per aiutare Donald, sotto ordini di Mosca. «La stampa mondiale riprende il cosiddetto scoop di Harding, e questo sembra essere il colpo di grazia per Julian. Ma in meno di 48 ore il tutto cade a pezzi», scrive Barnard. «In una settimana Harding viene demolito, al punto che il “Washington Post” scrive che il suo scoop sembra sempre più “una bufala”».Il 1° gennaio, lo stesso Barnard ha piantonato la sede del “Guardian” con un cartello appeso al collo. Il testo: “Sono un giornalusta. Assange era l’eroe del Guardian. Ora lo hanno degradato a falsario. Perché?”. Il sit-in di Barnard, a tre metri dall’ingresso della redazione del giornale, non passa inosservato: reporter, segretarie e tecnici rallentano, per leggere il suo cartello. Il secondo giorno, scrive, le cose si mettono male: «La security diviene ostile (“abbiamo ordini”), i colleghi che entrano ed escono evitano il contatto visivo, vengo fotografato da una guardia “sotto richiesta della direzione”». Nonostante ciò, alcuni giornalisti inglesi si fermano a parlare con il collega italiano, co-fondatore di “Report” con Milena Gabanelli. Le loro ammissioni sono penose: «Sì, dicono, c’è un ordine di squadra di mollare e screditare Assange; è una questione decisa dal gruppo editoriale, al top; si parla di pressioni insostenibili da parte del ministero degli esteri britannico e degli Usa; c’è addirittura shock, fra i giornalisti del “Guardian”, per questa decisione».Questo gli dicono, i cronisti inglesi. Uno di loro, Damien Gayle, addirittura rilancia su Twitter l’appello di Barnard per Assange, e giorni dopo gli confesserà: «Sono stato in ansia a twittarti, ma dovevo farlo perché la libertà di dissenso dovrebbe essere l’anima stessa del mio giornale. Spero non mi licenzino». È amaro, Barnard, dopo la sua generosa missione londinese: unico giornalista italiano (senza più giornali che lo pubblichino) a interessarsi della sorte del “prigioniero” più famoso del mondo. Osserva: «Sono convinto che tentare d’incriminare un direttore di testata, Julian Assange e WikiLeaks, per aver rivelato al mondo documenti riservati o dei servizi segreti su alcune nefandezze e crimini contro l’umanità di vari poteri attraverso l’uso delle “soffiate” (i “whistleblowers”), per poi punirlo con pene devastanti, può essere la fine del giornalismo». Infatti, aggiunge, «nessun “whistleblower” mai più avrà il coraggio di farsi avanti per svelare le porcherie segrete dei governi o delle corporations, e senza di loro il giornalista diviene al meglio un testimone di fatti, ma mai sarà in grado di rivelare la vere e profonde fonti degli eventi».La verità sul motivo per cui oggi praticamente tutti i governi del mondo appoggiano l’estradizione di Assange negli Usa – dopo le rivelazioni di WikiLeaks sulle porcherie elettorali della Clinton, sulle stragi americane in Iraq e Afghanistan o sulle reti di spionaggio della Cia su civili e aziende – non è assolutamente quella che ci raccontano, cioè che WikiLeaks avrebbe irresponsabilmente pubblicato segreti di Stato e di fatto aiutato Trump o l’Isis. Macché: il vero motivo, sottolinea Barnard, è questo: «Il potere rimane forte quando resta nell’oscurità. Una volta esposto alla luce del sole, comincia a evaporare». La frase non è di Barnard, ma dall’insigne politologo americano Samuel Huntington, co-autore del famigerato saggio “La crisi della democrazia” con cui il committente, la Commissione Trilaterale, a metà degli anni Settanta detterà le regole per lo svuotamento delle nostre democrazie. La frase sul potere, che diventa fragile se viene fatto uscire allo scoperto, Huntington l’ha scritta nel libro “American Politics. The promise of disharmony”, uscito nel 1983. «E’ questo il peccato mortale per cui oggi stanno distruggendo Julian Assange», sottolinea Barnard. «E’ solo per questo».Nonostante le imprecisioni di cui è responsabile, infatti, «WikiLeaks è l’unica pubblicazione al mondo che davvero ha devastato questo principio di dominio dei poteri, pubblicandone alla luce del sole le azioni più inconfessabili. E lo ha fatto grazie ai “whistleblowers”, e solo grazie a loro». Quindi, insiste Barnard, «se Assange sarà estradato negli Usa – il paese che nel nome della Sicurezza Nazionale (sotto cui sarebbe processato Assange) tortura, stermina innocenti coi “drones”, nega ogni diritto di legge ai detenuti e straccia ogni singola convenzione Onu sui diritti umani – questo direttore di testata sarà macellato come nessun giornalista prima, secondo l’infame principio del “ne ammazzi uno per avvisarne cento”. Impossibile che riceva un giusto processo in America, oggi».Inutilmente, Barnard ha fatto appello a tutti gli attivisti fino a ieri schierati con Assange, suggerendo loro di battere due strade di enorme peso, riguardo all’esilio coatto (e precario) del fondatore di Wikileaks. Primo atto d’accusa: la violazione, da parte della Gran Bretagna, dei princìpi della Magna Carta e dell’Habeas Corpus, cioè «i due pilastri della giurisprudenza mondiale, nati 800 anni fa proprio in Inghilterra». Seconda strada: la possibilità di accusare Londra in base alla Convenzione dell’Onu contro la Tortura, ratificata dagli inglesi nel 1987. Il trattato dice esplicitamente dice che tortura è “estrema sofferenza, sia fisica che mentale, inflitta di proposito a un individuo”. Il che è esattamente «ciò che i governi britannici stanno facendo ad Assange da 6 anni, confinato in semi-isolamento, privato di cure mediche, senza luce naturale e sorvegliato con ferocia a ogni mossa». Risposte? Nessuna. Salvo l’onesta e penosa ammissione di Damien Gayle, del “Guardian”: abbiamo paura di essere licenziati, se solo proviamo a riparlare di Assange.Era il 2011 quando un parlamentare socialista norvegese, Snorre Valen, osò candidare Julian Assange al Premio Nobel per la Pace: «Wilikeaks – disse – è il paladino della libertà di espressione e della trasparenza nel XXI secolo». Parole oggi improponibili, impensabili. Lo conferma la costernazione di Paolo Barnard, dopo 11 giorni spesi a Londra nella solitaria difesa del “prigioniero”. «Torno a casa – scrive – con la conferma di ciò che ho sempre pensato: ha vinto la Commissione Trilaterale, quando nel 1975 decise che il popolo andava reso “apatico” con l’esplosione dei mass media sia ortodossi che “alternativi” (oggi i social), dove infuriano epiche leggende mentre nessuno davvero fa un cazzo nelle strade perché è fatica e rischio, dove si creano i miti Vip per il palcoscenico, e dove i veri eroi rimangono soli come cani». Ha vinto Huntington, ha perso Assange? Peggio: abbiamo perso tutti, in partenza, se non siamo capaci di muovere un dito per tutelare un campione dell’informazione. Ad Assange, peraltro, lo stesso Barnard non ha mai fatto sconti: certi “leak” possono davvero aver messo in pericolo alcuni esponenti dell’intelligence, violandone la segretezza. In cambio, però, il mondo ha potuto aprire gli occhi su realtà sconvolgenti. Non è strano che l’establishment tenti di soffocare Assange, in modo che la sua punizione sia d’esempio per chiunque altro volesse imitarlo. Lo scandalo vero è il silenzio assordante dell’opinione pubblica, per la quale Assage ha messo in gioco la sua vita.Ci ha rivelato verità indicibili, rendendoci più consapevoli e quindi più liberi. Ma ora Julian Assange può crepare, nella sua stanzetta-prigione, senza che nessuno muova un dito per salvarlo: giornali, attivisti, intellettuali, politici, governi. Si è immolato per tutti, con le esplosive rivelazioni affidate a WikiLekas. Sperava di suscitare un’ondata di protesta capace di scuotere il potere. E immaginava che l’indignazione lo avrebbe protetto dalla vendetta dell’establishment. Ma si sbagliava: Julian Assange sta morendo giorno per giorno: l’ambasciata ecuadoregna di Londra, che finora l’ha tenuto al riparo dall’estradizione, potrebbe non tutelarlo più. È così forte, la pressione degli Usa – sull’Ecuador, e sulle autorità britanniche – che le teste di cuoio inglesi potrebbero fare irruzione nella sede diplomatica e caricare Assange, il martire dell’informazione libera, sul primo volo per Washington. È sconvolgente il report che Paolo Barnard fornisce da Londra, dove ha trascorso le feste natalizie presidiando il “carcere” di Assange, agitando vistosi cartelli. Desolazione e solitudine. Peggio: i giornalisti del “Guardian”, i primi a presentare Assange come un eroe, ora confessano di essere intimiditi e ricattati. Per questo nessuno rimetterà in prima pagina il direttore di WikiLeaks. Julian Assange è praticamente già morto. Alla faccia dei diritti civili e dei diritti umani di cui l’Occidente si vanta.
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Salvate il soldato Trenta: quelle armi sono vitali per l’Italia
«Per favore, salvate il soldato Trenta. E spiegate a Di Maio che la ministra della difesa sta cercando di acquistare gli armamenti indispensabili per rendere credibile la presenza dell’Italia sulla scena euro-mediterranea». Parola di Roberto Hechich, specialista del Movimento Roosevelt in materia di geopolitica. Elisabetta Trenta? Un’ottima scelta, da parte dei 5 Stelle: è competente e proviene dal settore difesa. L’oggetto del contendere? Il bilancio stesso del ministero, che il vicepremier grillino vorrebbe far dimagrire in modo imprudente. Pomo della discordia, il finanziamento negato per l’acquisto di velivoli e sistemi d’arma: lo sviluppo del missile italiano Camm-Er e quello del drone P2hh della Piaggio, più l’acquisto di altri esemplari dell’elicottero Nh90. Se lo stop al drone Piaggio può essere giustificato (l’Italia è impegnata anche nel progetto-doppione EuroMale), secondo Hechich non così è per gli altri due progetti. Il Camm-Er, missile a corto-medio raggio, è un’arma contraerea e antimissile installata sulle navi, nei porti, negli aeroporti e avamposti all’estero e nei siti strategici, andando a sostituirne altri oramai obsolescenti sistemi Spada e Aspide. «Serve quindi per difendere le basi militari italiane dislocate all’estero, le navi italiane che transitano al largo di coste non sicure o che incrociano navi potenzialmente avversarie».Anche se la maggior parte dell’opinione pubblica e molti politici non se ne rendono conto, sostiene Hechich, la situazione nel Mediterraneo andrà incontro a un rapido degrado col pericolo di conflitti violenti: «Secondo alcune analisi, il rischio di venirne coinvolti varia tra il 5 e il 35%». Proprio in questi giorni è stata diffusa la notizia (non ancora confermata) della fornitura, da parte della Russia, di avanzatissimi missili Kalibr alle milizie libiche di Haftar. Si parla della costruzione di due basi russe nella zona, sotto la copertura di truppe mercenarie del Gruppo Wagner, russo. «I russi hanno smentito, ma una qualche forma di presenza di loro truppe, anche se non così consistente, pare essere confermata». Non è che ci si possa aspettare un attacco russo, «ma la proliferazione di queste armi tra gruppi non statali accresce notevolmente il rischio di un loro lancio, o di un più probabile ricatto di un lancio, e il rischio si accentua ancora di più se c’è la percezione che dall’altra parte non ci siano difese adeguate». Sempre secondo Hechich, il mancato acquisto dei Camm-Er «ci obbligherebbe prima o poi a comperare missili dalle caratteristiche simili tra i nostri concorrenti commerciali, cioè Francia, Regno Unito o Usa, con l’aggravante di incidere sulla bilancia commerciale e di non essere proprietari delle tecnologie, senza dimenticare l’impatto sui valori occupazionali e sul Pil».Sempre a parere dell’analista, il mancato acquisto dei nuovi missili andrebbe anche a incidere sulla possibilità italiana di affiancarsi ai britannici (il Camm-Er è una nostra variante di un missile anglo-italiano) per lo sviluppo del nuovo caccia da superiorità aerea Tempest, destinato a sostituire gli attuali Eurofighter Typhoon. «E visto che l’analogo programma franco-tedesco è blindato, ci costringerebbe ad avere un ruolo subalterno a questi due paesi, tagliandoci fuori da ogni sviluppo industriale tecnologicamente avanzato nel settore, con deleterie ricadute sulle nostre capacità tecnologiche, industriali e di sviluppo economico». Oltretutto, insiste Hechich, la programmazione della politica di difesa necessita di anni, per non dire decenni. Non si improvvisa, e non si riesce a crearla quando c’è un pericolo diretto e la necessità diventa impellente. Da non dimenticare poi le cifre: «L’unico modo attualmente per sostituire il Camm-Er con un missile dalle capacità similari, e parzialmente prodotto in casa, sarebbe quello di riprendere la produzione degli Aster 15. Peccato che questo missile costi il doppio e necessiti di spazio doppio rispetto al Camm-Er».Lo stesso Camm-Er costerebbe all’incirca 500 milioni di euro spalmati in dieci anni, mentre il reddito di cittadinanza (del tutto condivisibile, per Hechich) costa diversi miliardi di euro all’anno. «Il gioco vale la candela? Potrebbe nel futuro la nostra Marina ritrovarsi in difficoltà a causa del mancato sviluppo del Camm-Er o nessuno ci lancerebbe missili?». Sempre Hechich ricorda tre episodi avvenuti nel recente passato: nel 1986 il lancio (controverso) di missili libici verso Lampedusa, nel 2011 il lancio fuori bersaglio di un missile dalla costa libica verso la fregata italiana Bersagliere, e soprattutto l’abbattimento di un G222 in missione umanitaria sui cieli della Bosnia da parte di due missili di fabbricazione sovietica (forse lanciati da forze irregolari croato-bosniache) e la conseguente morte dei quattro membri dell’equipaggio, che sarebbe stata evitata «se fossero stati presenti sistemi di contromisure – non ancora installate, appunto, per problemi di bilancio».L’altro programma a partecipazione italiana che dovrebbe venir sospeso è quello dell’elicottero Nh90, soprattutto nella versione Sh, destinata alla Marina. Parte di questi elicotteri sarebbe dovuta essere consegnata nella versione anti-sommergibile. L’elicottero è uno dei migliori sistemi per difendersi dalle minacce sottomarine, oltre che un mezzo di salvataggio, soccorso e collegamento. La Marina, che aveva trascurato questo aspetto, sta cercando di correre ai ripari, ma le serve tempo. «La mancata consegna di questo mezzo non fa che accentuare questo gap, senza tener conto dei danni sul piano economico e sui livelli occupazionali». Per Hechich, c’è da sperare che il paventato blocco di ordini sia veramente solo temporaneo. «Oltretutto i supposti, immediati risparmi sarebbero in gran parte vanificati dalle penali previste sui contratti già deliberati». Per intanto Leonardo, uno dei principali costruttori dell’elicottero, sta perdendo in Borsa. «Quindi ben si spiegherebbero le lacrime di rabbia all’uscita della Trenta dalla riunione con Di Maio, come citano alcune fonti».Non è tutto: Hechich ricorda anche la questione degli F35, nonché i continui rinvii sulla decisione riguardo opere pubbliche e investimenti in vari settori industriali. Nel Def gli investimenti sono scarsi, e indiscrezioni di stampa «paventano una vendita di industrie pubbliche altamente strategiche, efficienti e renumerative, come Leonardo e Fincantieri». Si tratta di «aziende ad altissima tecnologia, che caratterizzano e rendono prestigioso il settore della grande industria italiana». Abbandonate dallo Stato, diverrebbero «facile preda degli appetiti fagocitatori francesi». Tutto questo, osserva Hechich, lascia più di qualche sospetto sulle reali capacità e competenze dell’attuale ministro dello sviluppo economico. Non erano i D’Alema a svendere aziende come Telecom, capaci di darci indipendenza strategica e tecnologica? «Curioso quindi che un governo detto “sovranista” adotti gli stessi metodi di governi “neoliberisti”, svendendo la nostra sovranità tecnologica in un settore strategico, uno dei pochissimi che ancora ci rimangono».Secondo il leghista Raffaele Volpi, sottosegretario alla difesa, il comparto industriale aerospaziale e della difesa fattura più di 14 miliardi di euro all’anno, pari allo 0,8% del nostro Pil. Tendenzialmente in crescita, è fonte di ricerca e innovazione. «Il settore della difesa – ricorda Volpi – dà occupazione ad oltre 44.000 persone, che salgono a più di 110.000 se si considerano anche indotto e altri impatti indiretti». Non solo: «Le aziende pagano tasse allo Stato per non meno di 4,5 miliardi; perciò, trattare le spese militari come uno spreco di risorse non ha senso». Tutto questo, aggiunge Volpi, senza considerare l’export. Dettaglio non trascurabile, poi, «la sicurezza che deriva al nostro paese dall’essere difeso e dal poter partecipare con credibilità e autorevolezza ad alleanze con altri Stati in una fase storica caratterizzata da diffusa instabilità e pericolo di conflitti». Ogni euro speso per i programmi industriali della difesa, sottolinea Hechich, porta un ritorno di un fattore di circa 2,5. Non è che l’inesperienza di Di Maio lo porti a sottovalutare questi aspetti? Per cui, conclude Hechic: «Vi prego, per chi ne ha la possibilità: salvate il soldato Trenta».«Per favore, salvate il soldato Trenta. E spiegate a Di Maio che la ministra della difesa sta cercando di acquistare gli armamenti indispensabili per rendere credibile la presenza dell’Italia sulla scena euro-mediterranea». Parola di Roberto Hechich, specialista del Movimento Roosevelt in materia di geopolitica. Elisabetta Trenta? Un’ottima scelta, da parte dei 5 Stelle: è competente e proviene dal settore difesa. L’oggetto del contendere? Il bilancio stesso del ministero, che il vicepremier grillino vorrebbe far dimagrire in modo imprudente. Pomo della discordia, il finanziamento negato per l’acquisto di velivoli e sistemi d’arma: lo sviluppo del missile italiano Camm-Er e quello del drone P2hh della Piaggio, più l’acquisto di altri esemplari dell’elicottero Nh90. Se lo stop al drone Piaggio può essere giustificato (l’Italia è impegnata anche nel progetto-doppione EuroMale), secondo Hechich non così è per gli altri due progetti. Il Camm-Er, missile a corto-medio raggio, è un’arma contraerea e antimissile installata sulle navi, nei porti, negli aeroporti e avamposti all’estero e nei siti strategici, andando a sostituirne altri oramai obsolescenti sistemi Spada e Aspide. «Serve quindi per difendere le basi militari italiane dislocate all’estero, le navi italiane che transitano al largo di coste non sicure o che incrociano navi potenzialmente avversarie».
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Esultanza immortale: gran bel video, il palestinese colpito
«Figlio di puttana, che clip leggendaria!». Parole immortali, come il proiettile che ha abbattuto in mondovisione l’ennesimo palestinese, oltre il reticolato dello zoo di Gaza. Domande: chi si premura sempre di difendere Israele da qualsiasi accusa non rischia forse di incoraggiare all’infinito il bowling dell’orrore, il tiro a segno contro gli inermi mandati allo sbaraglio? Sconforta, l’esercito israeliano che si sente schiamazzare – come allo stadio – al di qua della telecamera dello smartphone, esultando come per un goal. Beninteso: l’eroico cecchino è umanitario, responsabile, armato dall’Unica Democrazia Del Medio Oriente, quindi aspetta lodevolmente che dallo scarafaggio di Hamas si allontani il bambino che gli ronza attorno. Poi finalmente spara (alle gambe dell’insetto adulto) scatenando l’ordalia del tifo. A strillare come per un goal sono ragazzi in armi, che sanno di essere impuniti. Militari di leva, non serial killer sociopatici. Eppure impazziscono di gioia, di fronte allo strike – gran bel colpo, figlio di puttana! – e soprattutto: gran bel video, accidenti a te. Sulla base di questa antropologia da videogame, c’è qualcuno al mondo che sia disposto a scommettere un bottone su uno straccio di pace, tra i Neanderthal di Tel Aviv e i Negri di Gaza, gli untermenschen arabi, gli scarafaggi palestinesi?Odio, macelleria e menzogne. L’industria delle fake news. «Assad è un animale», proclama l’autorevole zoologo Donald Trump, rifiutando però un’indagine dell’Onu che chiarisca chi ha usato davvero le armi chimiche, nella zona siriana della Ghouta, la stessa in cui – come appurato proprio dalle Nazioni Unite – furono i “ribelli” a gasare civili siriani, sperando di innescare la vendetta del giustiziere Obama. Stesso copione nel replay di qualche tempo fa, nel nord della Siria: sono i “ribelli” a detenere quegli arsenali tossici, basta una cannonata finita su un deposito per fare una strage. Da dove vengono molti di quei gas? Dalla Libia del dopo-Gheddafi, hanno svelato fior di inchieste giornalistiche. Ne sapeva qualcosa l’ambasciatore americano di Bengasi, saltato in aria con la dinamite, insieme ai suoi carteggi imbarazzanti elettronici con la Clinton, che a sua volta “sbianchettò” le email, azzerando le memorie dei suoi server. Qualcuno vuole che sia l’Onu a fare luce sull’ultimo massacro? Ingenui: la verità è ormai una barzelletta, dosata a rate dal telegiornale in modo smart, in mezzo alla pubblicità. E la strage impunita è figlia di quella precedente, la macelleria non raccontata. L’omissione è menzogna. Per noi è solo un’opinione, per altri è la strada che porta al cimitero.L’ultimo grande voto, in Medio Oriente, fu quello che volò con la pallottola diretta al cranio di Yitzhak Rabin. Dopo di allora fu archiviata la pratica palestinese, la storiella umoristica dei due Stati gemelli. Un imponente smottamento: le false primavere, la grandine di fosforo su Gaza. E i tagliagole in costume medievale sceneggiati a Hollywood, pagati e armati fino ai denti, protetti da droni onniveggenti. Putin e l’Iran, l’abominevole Erdogan socio dell’Isis, spalleggiato da una Nato clandestinamente a zonzo sulle alture della Siria, bombardate dai caccia israeliani in violazione di qualsiasi legge. La verità non interessa più, è insopportabile: come l’antico marinaio cui dà voce Coleridge, che tenta di convincere gli increduli gettando loro in faccia l’immane ferocia del naufragio. E se qualcuno poi dovesse sopravvivere, in ogni caso non sarà mai creduto: era il cinismo sfrontato dei nazisti, a tormentare Primo Levi. La verità è una pattuglia di scolari in gita, sorpresi a festeggiare mentre sparano su gente disarmata, filmando le balistiche prodezze in un’allegra gara di barbarie. Un video come quello può valere tonnellate d’odio, sangue futuro sparso a orologeria. Jeremy Corbyn, da Londra, è l’unico a suonare le dolenti note del poeta: peggio per tutti, se nessuno ascolterà la verità. Bombe e menzogne a oltranza, mentre un Senato alieno – dall’altra parte dell’oceano – ascolta il mesto pigolio di Zuckerberg.«Figlio di puttana, che clip leggendaria!». Parole immortali, come il proiettile che ha abbattuto in mondovisione l’ennesimo palestinese, oltre il reticolato dello zoo di Gaza. Domande: chi si premura sempre di difendere Israele da qualsiasi accusa non rischia forse di incoraggiare all’infinito il bowling dell’orrore, il tiro a segno contro gli inermi mandati allo sbaraglio? Sconforta, l’esercito israeliano che si sente schiamazzare – come allo stadio – al di qua della telecamera dello smartphone, esultando come per un goal. Beninteso: l’eroico cecchino è umanitario, responsabile, armato dall’Unica Democrazia Del Medio Oriente, quindi aspetta lodevolmente che dallo scarafaggio di Hamas si allontani il bambino che gli ronza attorno. Poi finalmente spara (alle gambe dell’insetto adulto) scatenando l’ordalia del tifo. A strillare come fossero in tribuna sono ragazzi in armi, che sanno di essere impuniti. Militari di leva, non serial killer sociopatici. Eppure impazziscono di gioia, di fronte allo strike – gran bel colpo, figlio di puttana! – e soprattutto: gran bel video, accidenti a te. Sulla base di questa antropologia da videogame, c’è qualcuno al mondo che sia disposto a scommettere un bottone su uno straccio di pace, tra i Neanderthal di Tel Aviv e i Negri di Gaza, gli untermenschen arabi, gli scarafaggi palestinesi?
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Michael Hudson: soldi, lo sporco affare dietro al caso Skripal
Chiunque abbia visto i film di James Bond sa che 007 può uccidere i propri nemici. E gli Stati Uniti ammazzano gente da anni, vedasi Allende e le decine di migliaia di leader sindacali e professori universitari. L’amministrazione Obama ha preso di mira paesi stranieri persino per i propri attacchi di droni, sminuendo le vittime civili come danno collaterale. Nessun paese straniero ha interrotto le proprie relazioni con Gran Bretagna, Stati Uniti, Israele o qualsiasi altro paese che usa l’assassinio mirato come scelta politica. Questa pretesa, senza alcuna prova, che la Russia abbia ucciso qualcuno è dunque irricevibile. La domanda quindi è: perché stanno facendo questo? Perché stanno imponendo sanzioni e montando una gran campagna pubblicitaria? Per avere la risposta, facciamo un passo indietro ed analizziamo meglio questa reazione, che sembra così fuori dell’ordinario per britannici, americani e Nato. Per i neofiti, le sanzioni fanno parte di un gioco diplomatico progettato per contrastare i guadagni russi. Quando Stati Uniti e Gran Bretagna hanno imposto le proprie sanzioni bancarie, hanno giustificato la cosa dicendo che quella era un atto dimostrativo: se voi russi pensate di poter fare dei profitti, vi faremo perdere ancor più di quanto potreste guadagnare.Bisognerebbe capire quale beneficio dia alla Russia uccidere un’ex spia del governo britannico, restituita all’Occidente in uno scambio di spie e che, a quanto si dice, voleva tornare in Russia. Ovviamente non ce n’è alcuno. Le sanzioni sono pertanto indipendenti da questo evento. La legge occidentale peraltro si basa sulla presunzione di innocenza e sulla certezza delle prove. Non dovrebbe essere dato alcun giudizio senza l’ausilio delle prove. Altrimenti ci si basa su dicerie. Il secondo principio della legge occidentale è che ambo le parti possano presentare la propria versione. Nell’affare Skripal la Russia non può farlo, non essendole stati dati campioni del veleno che potrebbero scagionarla. Non è stato nemmeno concesso loro di vedere Skripal, sebbene sia un cittadino russo, o sua figlia, che ora è sveglia e in via di guarigione. Gli inglesi neanche permetteranno ai suoi parenti di venire in Gran Bretagna. La reazione è così sproporzionata che è ovvio non ci sia una relazione logica. Questo è un doppio standard bello e buono. Penso dunque che invece di una rappresaglia ci sia una strategia predeterminata antirussa, ed un tentativo di isolarne l’economia.La domanda è: perché sta succedendo? E quali sono igli obiettivi ultimi? In un primo momento, pensavo fosse la vendetta per il fallito tentativo americano di usare Isis ed Al-Qaeda come legione straniera per sostituire Assad. O forse è una scusa per appropriarsi del suo petrolio? O la frustrazione per la scelta della Crimea di unirsi alla Russia? Quel che è certo è che sembra ci sia una guerra fredda economica che si sta intensificando. Il risultato è che Russia, Cina e Iran si stanno avvicinando. Quel che abbiamo è dunque una minaccia di isolare la Russia se non fa certe cose. E quindi per risolvere l’affare Skripal bisogna chiedersi: quali sono queste cose che Stati Uniti e Gran Bretagna vogliono? Beh, una è che la Russia spinga la Corea del Nord a smantellare il proprio programma nucleare, cosa che, come è normale che sia, avverrà solo se l’esercito Usa lascerà la penisola. Un altro obiettivo di Washington è che Mosca se ne vada dalla Siria. Trump ha dichiarato la settimana scorsa di volersi ritirare dalla Siria. La domanda però è: se l’America se ne va, cosa farà Mosca? Queste sanzioni sono un segnale: avete visto cosa possiamo fare per ferirvi, vi lasceremo stare se ve ne andrete dalla Siria. Un altro obiettivo è forse quello di far desistere la Russia dall’aiutare l’Ucraina orientale.Gli Stati Uniti, quando vogliono isolare un paese, di solito lo accusano di guerra chimica. Basti pensare a quando Bush disse che l’Iraq aveva armi chimiche di distruzione di massa. Sappiamo che era una bugia. Oppure ad Obama quando disse che Russia ed Assad stavano usando armi chimiche in Siria. Penso dunque che quando dicono che la Russia o Assad o l’Iraq stanno usando armi, questo sia un modo per generare paura, di modo che l’esercito possa venir dispiegato. Trump ha ripetuto ciò che ha detto quando era candidato alla presidenza. Vuole che i paesi europei paghino di più i costi militari della Nato. Lo va dicendo da più di un anno. E penso che sia questa il vero nocciolo dell’affaire Skripal. Usando una cosa abietta come le armi chimiche, si vuole creare un’isteria anti-russa che consenta ai governi Nato di raccogliere molto più budget militare di quanto non facciano ora dagli Stati Uniti. Costringerà tutti i loro paesi a pagare il 2% del proprio Pil al complesso militar-industriale americano. Quindi, in sostanza, l’affare Skripal è stato messo in piedi per spaventare le popolazioni e consentire alla Nato di aumentare le spese militari nell’industria della difesa Usa.Le popolazioni diranno: aspettate un attimo, i bilanci europei non possono monetizzare un deficit di bilancio; se raccogliamo più spese militari per la Nato allora dovremmo ridurre le nostre spese in welfare. Il caso Skripal è dunque una scusa per cercare di addolcire il popolo europeo, di spaventarlo dicendo “sì, è meglio che paghiamo per le pistole, possiamo fare a meno delle cose importanti”. È la stessa situazione in cui erano gli Stati Uniti negli anni ’60, ai tempi della guerra del Vietnam. Queste accuse credo servano anche per comminare sanzioni che interrompano il commercio occidentale con Russia e Cina, impedendo a compagnie assicurative come la Lloyd’s di assicurare spedizioni e trasporti. Le banche direbbero che non daranno più questi servizi a Russia. E la sanzione parallela sarebbe quella di bloccare le banche statunitensi. Dal ’91, anno in cui l’Unione Sovietica è stata sciolta, il deflusso di capitali verso l’Occidente è stato di circa 25 miliardi di dollari l’anno. Ciò significa un quarto di trilione di dollari in un decennio e mezzo trilione di dollari in 20 anni. Il deflusso è continuato fino a poco tempo fa al ritmo di 25 miliardi all’anno. Proprio nelle ultime due settimane avete letto sui giornali il chiasso sulle banche lettoni, “veicoli per il riciclaggio di denaro russo”… come se l’Occidente fosse veramente sorpreso. È il motivo esatto per cui le banche lettoni sono state istituite!Già prima della caduta dell’Unione Sovietica, nell’88 ed ’89, Grigory Luchansky, che lavorava per l’Università della Lettonia a Riga, fu il vettore che diede vita al Nordex come modo per il Kgb e l’esercito russo di spostare i propri soldi fuori del paese. Miliardi di dollari all’anno hanno attraversato le varie banche lettoni negli ultimi 25 anni. La loro attività principale è stata quella di ricevere i depositi russi, per poi trasferirli in Occidente nelle banche britanniche o nelle corporations del Delaware. Sono stato per un certo periodo direttore di ricerca e professore di economia per la facoltà di legge di Riga – circa sei o sette anni fa – per cui ho avuto regolarmente a che fare col governo lettone, col primo ministro e coi regolatori delle banche. Tutti mi hanno spiegato che il precipuo scopo delle banche lettoni era quello di incoraggiare i deflussi di capitali della Russia verso l’Occidente. Dal punto di vista americano, questo era un modo per prosciugare il nemico. L’idea era quella di spingere la privatizzazione neoliberista su servizi pubblici, risorse naturali e proprietà immobiliari russi. Si diceva: «Prima di tutto, privatizzate beni pubblici come Norilsk Nickel e compagnie petrolifere come Khodorkovsky. Ora che le avete in mano, l’unico modo per guadagnare denaro, dato che non ci sono soldi rimasti in Russia, è venderli all’Occidente».E così, in pratica, hanno svenduto queste aziende accumulando enormi capitali, tramite falsa fatturazione delle esportazioni, spostando il denaro principalmente nelle banche britanniche. È per questo che si vedono i cleptocrati russi acquistare proprietà molto cospicue a Londra e rilanciare sul prezzo del patrimonio immobiliare londinese. Ora tutto questo ha tremendamente prosciugato la Russia, che ora minaccia di confiscare i beni dei cleptocrati. Questi ultimi adesso sono spaventati e stanno riportando i propri soldi in patria, lontano dall’Inghilterra, dagli Stati Uniti, dalle corporation del Delaware, dalle Isole Cayman o da dovunque li abbiano messi. Questo mentre ci sono sanzioni contro quelle banche americane che prestano soldi alla Russia. Si assiste dunque a questo immenso afflusso di dollari e sterline verso Mosca, che ora li sta usando per costruire le proprie riserve di oro. Nel tentativo di far male alla Russia, minacciandone gli oligarchi, in realtà si sta fermando l’esodo di capitali, e ciò sta avvenendo come conseguenza delle privatizzazioni.(Michael Hudson, dichiarazioni rilasciate a Michael Palmieri per l’intervista “Il retroscena economico dietro all’avvelenamento di Skripal”, pubblicata da “Counterpunch” il 6 aprile 2018 e tradotta da Hmg per “Come Don Chisciotte”. Eminente economista, professore emerito all’università del Missouri-Kansas City, il professor Hudson è stato analista finanziario e consulente finanziario a Wall Street. Tuttora presidente dell’Istituto per lo Studio delle Tendenze Economiche di Lungo Termine, nel 2012 ha partecipato al primo summit italiano sulla Mmt, Modern Money Theory, promosso a Rimini da Paolo Barnard).Chiunque abbia visto i film di James Bond sa che 007 può uccidere i propri nemici. E gli Stati Uniti ammazzano gente da anni, vedasi Allende e le decine di migliaia di leader sindacali e professori universitari. L’amministrazione Obama ha preso di mira paesi stranieri persino per i propri attacchi di droni, sminuendo le vittime civili come danno collaterale. Nessun paese straniero ha interrotto le proprie relazioni con Gran Bretagna, Stati Uniti, Israele o qualsiasi altro paese che usa l’assassinio mirato come scelta politica. Questa pretesa, senza alcuna prova, che la Russia abbia ucciso qualcuno è dunque irricevibile. La domanda quindi è: perché stanno facendo questo? Perché stanno imponendo sanzioni e montando una gran campagna pubblicitaria? Per avere la risposta, facciamo un passo indietro ed analizziamo meglio questa reazione, che sembra così fuori dell’ordinario per britannici, americani e Nato. Per i neofiti, le sanzioni fanno parte di un gioco diplomatico progettato per contrastare i guadagni russi. Quando Stati Uniti e Gran Bretagna hanno imposto le proprie sanzioni bancarie, hanno giustificato la cosa dicendo che quella era un atto dimostrativo: se voi russi pensate di poter fare dei profitti, vi faremo perdere ancor più di quanto potreste guadagnare.
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Gaza: salvare l’Agnello di Dio (e sacrificare il palestinese)
Guardando ieri i filmati degli scontri a Gaza, c’era un drone nero che buttava bombette di gas lacrimogeni o urticanti dall’alto ed un palestinese con la fionda che roteava a cerchi sempre più ampi per dar forza alla pietra con la quale voleva buttarlo giù. Mi veniva allora in mente di scrivere qualcosa di ironico su Davide e Golia reloaded ma a pari inverse, magari abusando della citazione di contesto del venerdì santo. Poi però ho sentito lo speaker del Tg “Sky” riportare una dichiarazione ufficiale dell’esercito israeliano che lamentava che Hamas aveva mandato avanti un bambina di sette anni contro l’esercito schierato ed ho pensato di scrivere qualcosa di tristemente ironico sul fatto che sempre più si nota l’aperta e voluta vena di surrealismo che accompagna il dare notizie. Ma poi su altri canali, ho sentito mettere in relazione i fatti di ieri come effetto di una presunta lotta interna alle fazioni palestinesi per il controllo di Gaza e mi è venuto da scrivere qualcosa di sarcastico su questa distribuzione massiva di corruttori logici (che diavolo c’entra l’eventuale problema politico interno ai palestinesi con i 16 morti? I sedici morti sono logicamente connessi a sedici pallottole sparate da sedici armi imbracciate da sedici diversi soldati che sparano su gente che non imbraccia armi da fuoco).Tenete conto che quella di ieri è solo la prima manifestazione di una serie che continuerà sino al 15 maggio, forse c’è poca ironia da fare, tocca invece capire. Israele afferma che, formalmente, quello di Gaza non è suo territorio ed è in base a questa finzione giuridica che si può permettere di opporre esercito a manifestanti e non invece polizia. Quello palestinese sarebbe un tentativo di invasione ostile ed è normale che l’invasore venga ucciso dal difensore. Potremmo andare avanti per ore a discutere che tipo di sovranità sussisterebbe in un territorio che non appartiene ad alcuno Stato e che non controlla i propri confini, assediato per terra, mare e cielo da più di dieci anni. In senso logico-politico (quindi non giuridico e stante che questo dipende da quello), quello di ieri è un esercito che spara su manifestanti che non hanno armi da fuoco, quindi si configura come strage fascista perché qui da noi, nelle patrie del diritto e dei diritti civili, uccidere sedici manifestanti e ferirne altri mille è repressione asimmetrica, quindi eminentemente fascista.Gaza è una prigione a cielo aperto dalla quale puoi scappare solo andando in Egitto il quale, come ogni Stato sovrano farebbe, non si sogna minimamente di accogliere i tuoi due milioni di profughi. Gaza è una ridicola finzione giuridica nella quale se ti avvicini alla rete che separa la prigione dal mondo libero, il mondo di questa longeva civiltà che si picca di avere tremila anni e di avere un rapporto speciale con un dio che la protegge da tutte le altre creature che pure sarebbe suoi figli (e quindi si capisce che se inizi così a trasgredire la logica di senso comune, tutto il resto ne discende in conseguenza), è libero si spararti. Chissà, forse se quelli di Gaza si vestissero con gonne, tacchi e calze a rete, rivendicando il diritto a manifestare la propria libertà di genere, visti i sedici morti ammazzati, qualcuno qui da noi insorgerebbe. Forse il “Guardian” farebbe un articolo sul ritorno del fascismo, forse i diritti-umanisti ed i diritti-civilisti alzerebbero il ditino ammonitore, forse uno straccio di sdegno sarebbe gettato ad infiammare il pubblico risentimento. Magari qualcuno parlerebbe di sanzioni o potremmo richiamare per colloqui il nostro ambasciatore, di solito si dovrebbe far così coi fascisti, no?Ai tempi della mai davvero svolta discussione su i riferimenti culturali da dare alla ipotetica Costituzione degli europei, c’era chi tuonava per inserire le radici giudaico-cristiane. Le nostre radici affonderebbero in quella cultura che spara su i ragazzetti arrabbiati, che inventa finzioni giuridiche per salvarsi la coscienza dalla colpa, che compra colombe ed uova, mangia pizze al formaggio e salame, accende la tv e sospira “questi di Hamas sono proprio dei criminali”, poi va su Fb e posta il meme per salvare gli agnellini dall’olocausto pasquale. Del resto, il sacrificio dell’agnello a dio (Esodo 12,1 -12,46) nasce proprio da quel popolo di allevatori che però, nel tempo, si è evoluto. Meglio salvare l’agnello e sacrificare il palestinese.(Pierluigi Fagan, “L’Agnello di Dio”, da “Megachip” del 1° aprile 2018).Guardando ieri i filmati degli scontri a Gaza, c’era un drone nero che buttava bombette di gas lacrimogeni o urticanti dall’alto ed un palestinese con la fionda che roteava a cerchi sempre più ampi per dar forza alla pietra con la quale voleva buttarlo giù. Mi veniva allora in mente di scrivere qualcosa di ironico su Davide e Golia reloaded ma a pari inverse, magari abusando della citazione di contesto del venerdì santo. Poi però ho sentito lo speaker del Tg “Sky” riportare una dichiarazione ufficiale dell’esercito israeliano che lamentava che Hamas aveva mandato avanti un bambina di sette anni contro l’esercito schierato ed ho pensato di scrivere qualcosa di tristemente ironico sul fatto che sempre più si nota l’aperta e voluta vena di surrealismo che accompagna il dare notizie. Ma poi su altri canali, ho sentito mettere in relazione i fatti di ieri come effetto di una presunta lotta interna alle fazioni palestinesi per il controllo di Gaza e mi è venuto da scrivere qualcosa di sarcastico su questa distribuzione massiva di corruttori logici (che diavolo c’entra l’eventuale problema politico interno ai palestinesi con i 16 morti? I sedici morti sono logicamente connessi a sedici pallottole sparate da sedici armi imbracciate da sedici diversi soldati che sparano su gente che non imbraccia armi da fuoco).
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Putin: Usa fermatevi, abbiamo missili iper-sonici ‘imparabili’
Scordatevi di passarla liscia, dopo aver colpito la Russia con un “first strike”, un attacco nucleare preventivo come quello lungamente accarezzato dai neocon annidati alla Casa Bianca sotto la presidenza Obama: Mosca dispone di armi nuovissime e micidiali, in grado di annullare l’intero arsenale balistico statunitense. Ha del clamoroso, il recente annucio di Putin: i russi hanno a disposizione armamenti fino a ieri inimmaginabili. Missili atomici intercontinentali fulminei, non intercettabili: viaggiano a una velocità pari a 20 volte quella del suono, e non in base a un’orbita prestabilita. I missili Avangard e Sarmat sono a guida remota, pilotati a distanza e diretti sul bersaglio, su cui piombano dopo un volo a bassissima quota. In più, la Russia annuncia di aver varato il primo drone sommergibile della storia, un natante senza pilota in grado di filare a 200 chilometri orari a grande profondità, anch’esso armato con missili atomici. «Non esiteremo a impiegare questi armamenti – avverte Putin – per difendere il suolo russo e anche i nostri più vicini alleati». Il che, tradotto, «significa una sola cosa: la protezione strategica russa si estende alla Cina», sostiene Giulietto Chiesa su “Pandora Tv”. Di colpo, l’annuncio del Cremlino vanifica 15 anni di continue provocazioni da parte degli Usa, che hanno sostanzialmente accerchiato la Federazione Russa.Tutto comincia nel 2002, un anno dopo l’11 Settembre, quando George W. Bush decide di stracciare il trattato Abm stipulato nel 1975: impegnava Usa e Urss a non sviluppare difese strategiche contro i missili balistici, esponendo in tal mondo le due superpotenze, in modo simmetrico, alla rappresaglia incrociata – la famosa “pax nucleare”, fondata sulla reciproca deterrenza atomica. Dopo il crollo delle Torri Gemelle, in piena era Bush, gli Usa hanno avviato la loro “guerra infinita” col pretesto del terrorismo islamico, di fatto chiudendo l’ex Unione Sovietica in una sorta di assedio progressivo. Afghanistan e Georgia, estensione della Nato nell’Est Europa (violando la storica promessa fatta da Bush senior a Gorbaciov), quindi la clamorosa provocazione del golpe in Ucraina travestito da rivolta democratica, a ridosso della frontiera russa, e infine la guerra in Siria, per tentare di rovesciare l’alleato mediorientale di Putin, a capo dell’unico paese che ospiti una base militare di Mosca (quella di Tartus, nel Mediterraneo) situata fuori dai confini russi. Ultimo capitolo del piano pluriennale di accerchiamento: la tensione (pirotecnica) con la Corea del Nord. Obiettivo generale degli Usa, secondo Chiesa: posizionare truppe e missili a ridosso dei missili di Mosca, per poterli colpire al momento del lancio.Di recente, aggiunge Chiesa, gli Stati Uniti hanno annunciato che tra 5-6 anni sarà pronto il loro “scudo spaziale antimissile”, progettato probabilmente per neutralizzare i vecchi armamenti russi. Le nuove super-armi di Putin invece sono già pronte, e l’annuncio del Cremlino (difficile che si tratti di un bluff) potrebbe avere conseguenze politiche inaudite: ristabilisce l’antica parità strategica infranta dagli Usa e mette anzi la Russia in posizione di vantaggio. Come dire: finiamola una volta per tutte, con questa corsa folle, perché nessuno potrà colpire l’altro senza rimetterci la pelle. I super-missili russi possono radere al suolo il Giappone e colpire l’America, ma è ovvio che nel mirino c’è soprattutto l’Europa (Italia in primis) trasformata in “fortezza” con decine di basi Nato: le installazioni missilistiche europee, par di capire, sarebbero le prime a essere colpite. La mossa di Putin, che aveva sperato invano nell’elezione di Trump per poter voltare pagina, ha un valore geopolitico inaudito. Fino alla vigilia delle sanzioni euro-atlantiche contro l’economia russia, all’epoca dei giochi olimpici di Sochi, Putin aveva ripetuto un messaggio chiarissimo: la Russia chiede rispetto e vuole essere un partner dell’Occidente, non un antagonista. Obama e la Clinton hanno risposto con la demonizzazione del Cremlino, trasformando l’Est Europa in una caserma Nato.Ora, Putin rimette la palla al centro. Non provateci, è come se dicesse: non vi conviene. Bisogna cambiare politica: e se non basta la diplomazia, a pesare sarà la minaccia dei super-missili. E’ di enorme portata, osserva Chiesa, il passaggio in cui Putin avverte: reagiremo anche se a venir colpita fosse la Cina, che evidentemente non è ancora in grado di schierare armi analoghe: rivela la profondità dell’alleanza difensiva russo-cinese, maturata in risposta all’offensiva americana. Inoltre, aggiunge Chiesa, se queste armi sono già in funzione, la loro presenza cambia completamente il quadro strategico, sul piano militare: annulla, di colpo, la storica superiorità navale degli Usa, trasformando le portaerei in “barchette di carta”, «perché questi missili non sono “parabili”, attualmente: sono troppo veloci e imprevedibili». Di fatto, «va a farsi benedire l’idea stessa della guerra nucleare, così com’era stata concepita in tutti i decenni precedenti». Tramonta la storica superiorità strategica defli Stati Uniti? Implicazioni sconcertanti: archiviano «l’idea stessa della possibilità di uno scontro». E c’è di più: Russia e Cina si muoveranno insieme, nella conquista dello spazio. «Significa avere una proiezione prima impensabile, nel campo delle armi spaziali, grazie alla tecnologia russa e ai mezzi finanziari cinesi».«Con questa mossa – aggiunge Giulietto Chiesa – la Russia comunica che la parte militare della “guerra ibrida” è ancora disinnescabile: una bomba ancora fermabile». Ma quella che Papa Francesco chiama “Terza Guerra Mondiale a pezzi” è appunto “ibrida” e pienamente in corso: guerra mediatica, guerra tecnologica, guerra biologica, guerra climatica, guerra finanziaria. Poi c’è una guerra ancora più invisibile, affidata ad armi segrete in fase di sperimentazione. «E in tutte queste guerre – dice Chiesa – ho l’impressione che la Russia sia in grande svantaggio: sicuramente l’immensa rete web è interamente in mani americane». Altro problema, per Mosca: l’energia. «I russi sono molto vulnerabili sotto il profilo energetico, perché l’intero mercato del petrolio è ancora nelle mani dell’Opec, cioè degli Usa. A stabilire il prezzo del barile sono 9 grandi banche internazionali, di cui 6 statunitensi, che possono infliggere colpi durissimi a chi non sta al loro gioco, cioè paesi come Venezuela, Iran e Russia». La guerra biologica, sottolinea Chiesa, è basata sulle nano-tecnologie, con esiti inimmaginabili: «Parliamo di strumenti di controllo e di previsione che hanno la dimensione di una molecola, inseribili in qualsiasi corpo». Quanto alla guerra climatica, è la stesa marina Usa ad annunciare che, nel 2025 gli Stati Uniti avranno il controllo del clima mondiale: potranno condizionare la vita di milioni di persone, in ogni continente.«Tutto è aperto, ma questo quadro dipende comunque dalla realizzabilità di un attacco militare distruttivo e definitivo», conclude Giulietto Chiesa. «La Russia si conferma in questo momento una forza deterrente cruciale, anche se gli europei non l’hanno ancora capito. I cittadini sono fuori causa, dal momento che non sono informati: ma i dirigenti europei dei paesi Nato? Sono consapevoli del rischio che stiamo correndo, e della tendenza a uno scontro?». Il gruppo dirigente Usa puntava al “first strike” risolutivo entro 8-10 anni, che ora non è più pensabile: assisteremo quindi a un ragionevole cambiamento di strategia, o i gruppi che vogliono la guerra reagiranno invece con un’accelerazione? «Sfortunatamente, il sistema mediatico ha mascherato questa realtà: non l’ha fatta arrivare alle orecchie e agli occhi del grande pubblico occidentale. E’ tempo di rimettere al passo le lancette degli orologi, rendendoci conto di quello che sta davvero avvenendo». Dall’alto dei suoi nuovissimi missili supersonici, Vladimir Putin annuncia “cinque anni di tempo per rinsavire”.Scordatevi di passarla liscia, dopo aver colpito la Russia con un “first strike”, un attacco nucleare preventivo come quello lungamente accarezzato dai neocon annidati alla Casa Bianca sotto la presidenza Obama: Mosca dispone di armi nuovissime e micidiali, in grado di annullare l’intero arsenale balistico statunitense. Ha del clamoroso, il recente annucio di Putin: i russi hanno a disposizione armamenti fino a ieri inimmaginabili. Missili atomici intercontinentali fulminei, non intercettabili: viaggiano a una velocità pari a 20 volte quella del suono, e non in base a un’orbita prestabilita. I missili Avangard e Sarmat sono a guida remota, pilotati a distanza e diretti sul bersaglio, su cui piombano dopo un volo a bassissima quota. In più, la Russia annuncia di aver varato il primo drone sommergibile della storia, un natante senza pilota in grado di filare a 200 chilometri orari a grande profondità, anch’esso armato con missili atomici. «Non esiteremo a impiegare questi armamenti – avverte Putin – per difendere il suolo russo e anche i nostri più vicini alleati». Il che, tradotto, «significa una sola cosa: la protezione strategica russa si estende alla Cina», sostiene Giulietto Chiesa su “Pandora Tv”. Di colpo, l’annuncio del Cremlino vanifica 15 anni di continue provocazioni da parte degli Usa, che hanno sostanzialmente accerchiato la Federazione Russa.