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Odio nucleare: era Israele il peggior nemico di Kennedy
Natural born killers, assassini nati. Tesi più che ardita, ma storicamente supportata da prove: cinque diversi primi ministri israeliani, prima di approdare alla politica, si erano fatti le ossa nel terrorismo sionista, firmando omicidi e stragi, per poi passare al Mossad. Perché mai non avrebbero potuto organizzare proprio loro l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, ovvero il più grande mistero irrisolto – dopo cinquant’anni – nella storia americana del secolo scorso? Se lo domanda Said Alami su “Rebelion”, citando nuovi dossier desecretati e libri-denuncia come “Final Judgment, the Missing Link in the Jfk assassination controversy”, del giornalista investigativo Michael Collins Piper. La tesi esplora un possibile movente: la centrale nucleare semi-clandestina che Israele stava allora costruendo a Dimona, nel deserto del Neghev, con tecnologia francese. Kennedy, molto contrariato, fece scendere il gelo sui rapporti con Tel Aviv. Ma non aveva calcolato che la Cia – con la quale era in guerra – era largamente infiltrata dal Mossad.La teoria secondo sui sarebbe stata proprio la Cia ad assassinare Kennedy si basa sulla profonda inimicizia che regnava tra Jfk e l’intelligence, dopo che il presidente si era rifiutato di sostenere militarmente l’agenzia durante l’invasione della Baia dei Porci nel 1963, fallita poi miseramente, causando il rafforzamento del regime rivoluzionario di Fidel Castro a Cuba. Stanco degli eccessi della Cia, Kennedy confidò al suo collaboratore Clark Clifford di voler smantellare la Cia in mille pezzi. E Israele, attraverso i suoi uomini nell’agenzia di Langley, era a conoscenza di questi rapporti di tensione tra Kennedy e l’intelligence, scrive Alami in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Possibile manovalanza dell’omicidio messo a segno a Dallas il 22 novembre 1963, la vasta rete criminale facente capo al gangster Meyer Lansky, boss della potentissima mafia ebraica negli Usa, anch’essa in stretto collegamento col servizio segreto israeliano.Le tensioni tra Usa e Israele cominciano tre anni prima dell’omicidio Kennedy, nel 1960, quando già il presidente uscente, Eisenhower, chiede spiegazioni al premier israeliano Ben Gurion sul misterioso impianto di Dimona, in pieno deserto. Gli israeliani mentono, sostenendo che si tratta di una innocua fabbrica tessile. La Cia però indaga fino a ottenere fotografie dell’installazione, classificate “top secret” ma poi pubblicate in prima pagina sul “New York Times”. Quando si insedia Kennedy, il 20 gennaio 1961, il caso Dimona è ormai diventato «un’autentica bomba a orologeria nelle relazioni fra Tel Aviv e Washington», ricorda Alami. La Casa Bianca aumenta le pressioni, e ottiene la prima ammissione: l’impianto in effetti è nucleare, ma “per scopi pacifici”. Kennedy allora rifiuta di invitare Ben Gurion a Washington, così il premier israeliano – per allentare la tensione – autorizza un’ispezione di due scienziati statunitensi, Ulysses Staebler e Jess Croach, che in un rapporto confermano la versione israeliana: Dimona non è un impianto militare. Questo sblocca il veto di Kennedy, che finalmente incontra Ben Gurion il 30 maggio e si fa promettere che Israele consentirà agli Usa (che non si fidano dell’alleato mediorientale) un monitoraggio costante dell’installazione.«Nei due anni successivi al colloquio, però – scrive Alami – la volpe israeliana non mantenne le promesse». Così, Kennedy si spazientisce e il 13 maggio 1963 intima a ben Gurion di riaprire alle ispezioni il sito di Dimona, pena l’isolamento mondiale di Israele. Per tutta risposta, Ben Gurion si dimette da primo ministro. A metà giugno, Jfk rivolge lo stesso ultimatum al successore di Ben Gurion, Levi Eshkol. Ed è qui – suggerisce Said Alami – che forse nasce il cambio radicale di strategia: far fuori il presidente-nemico, con l’aiuto della Cia. Il curriculum dei premier israeliani non è certo rassicurante, aggiunge Alami, ricordando le responsabilità della leadership di Tel Aviv nell’attività terroristica condotta per anni in Palestina, dalla pulizia etnica contro la popolazione civile agli attentati per colpire il protettorato britannico e ottenere lo status di paese indipendente.Ben Gurion, padre dello Stato di Israele, è responsabile di genocidio contro i civili palestinesi: il leader sionista fondò il primo gruppo armato, Hashomer, già nel 1909. Il suo successore al governo di Tel Aviv, Levi Eshkol, era uno dei capi dell’Haganah, organizzazione terroristica generata da Hashomer. Entrambi erano considerati «due criminali», peraltro «reclamati negli anni ’30 e ’40 dalla polizia britannica in Palestina e nel resto del mondo per i loro numerosi omicidi e attentati», ricorda Alami. Terzo illustre terrorista e futuro primo ministro di Israele è Yitzhak Shamir: era membro del gruppo terroristico ebraico Irgun e poi del gruppo Lehi, altra organizzazione terroristica in Palestina. Quando Eshkol diventò primo ministro, Shamir era a capo del comando omicidi del Mossad, dove ha servito dal 1955 al 1965, periodo in cui risiedeva per la maggior parte del tempo a Parigi, sede europea del Mossad.«Shamir serviva il Mossad, tra le altre cose, per eseguire l’Operazione Damocle, operazione in cui vennero uccisi vari scienziati tedeschi trasferiti in Egitto dopo la Rivoluzione degli Ufficiali Liberi in Egitto nel 1952 e l’arrivo al potere di Nasser», continua Alami. L’elenco prosegue col nome del quarto uomo, Menachem Beghin, anch’egli prima terrorista e poi premier. Già ricercato dalla giustizia britannica, Begin aveva militato fra i terroristi dell’Irgun fino a diventarne leader nel 1943. «E’ stato colui che ordinò la mattanza all’Hotel Rey David, a Gerusalemme, nel 1946, dove morirono 91 persone». Due anni più tardi, aggiunge Alami, 132 terroristi di Irgun, comandati proprio da Begin, furono protagonisti della famosa strage di Deir Yasin, in cui vennero assassinate centinaia di persone in due villaggi palestinesi, donne e bambini compresi. E’ dimostrato, dice Alami, che proprio Beghin abbia incontrato un gangster della mafia ebraica statunitense due settimane prima dell’omicidio di Kennedy: si tratta di Micky Cohen, uomo di fiducia di Meyer Lansky nella West Coast. Secondo Collins Piper, fu proprio Cohen a reclutare un altro ebreo, Jack Rubenstein, meglio conosciuto come Jack Ruby, per assassinare Lee Harvey Oswald, l’uomo accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di Dallas.Dalla ricostruzione, tacciata di “antisemitismo” dall’epoca dell’uscita del libro di Collins Pipier, negli anni ‘90, non si salva neppure il quinto futuro premier israeliano, il coraggioso Yitzhak Rabin, protagonista della storica pace con Arafat (gli accordi di Oslo del 1993) che gli valsero il Premio Nobel per la Pace ma anche la “condanna a morte”, eseguita nel ‘95 da un colono ebreo estremista. La notizia è che Rabin si trovava a Dallas il giorno dell’omicidio Kennedy. «Non sarebbe proprio una coincidenza – sostiene Alami – tenendo conto del fatto che anche Rabin lavorava per il Mossad». Collins Pipier ipotizza che proprio Rabin, in veste di giornalista, abbia intervistato Jack Ruby il giorno prima dell’assassinio di Oswald nel quartier generale della polizia di Dallas. Anche il dossier di Said Alami mette in luce un clamoroso intreccio di potenti uomini d’affari americani collegati a Israele, al Mossad, alla Cia e alla criminalità ebraica negli Usa. «In realtà, la teoria che Israele stia dietro all’omicidio Kennedy non è né nuova né strana», ammette Alami. La “notizia”, semmai, è che Washington e i media l’hanno semplicemente dimenticata. Magico potere della mitica “lobby ebraica” che presidia Wall Street? Una cosa è certa: i tempi in cui la Casa Bianca osa fare la voce grossa con Israele, pretendendo trasparenza, sono finiti esattamente cinquant’anni fa, nella stessa tomba di Kennedy.Natural born killers, assassini nati. Tesi più che ardita, ma storicamente supportata da prove: diversi primi ministri israeliani, prima di approdare alla politica, si erano fatti le ossa nel terrorismo sionista, firmando omicidi e stragi, per poi passare al Mossad. Perché mai non avrebbero potuto organizzare proprio loro l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, ovvero il più grande mistero irrisolto – dopo cinquant’anni – nella storia americana del secolo scorso? Se lo domanda Said Alami su “Rebelion”, citando nuovi dossier desecretati e libri-denuncia come “Final Judgment, the Missing Link in the Jfk assassination controversy”, del giornalista investigativo Michael Collins Piper. La tesi esplora un possibile movente: la centrale nucleare semi-clandestina che Israele stava allora costruendo a Dimona, nel deserto del Neghev, con tecnologia francese. Kennedy, molto contrariato, fece scendere il gelo sui rapporti con Tel Aviv. Ma non aveva calcolato che la Cia – con la quale era in guerra – era «largamente infiltrata dal Mossad».
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Nato, Quirinale e carabinieri: quei dossier restano segreti
Squilli di trombe, rulli di tamburo: Renzi cancella il segreto di Stato sulle stragi. Era ora! Solo che si tratta di chiacchiere. Perché già da una ventina d’anni il segreto di Stato non è opponibile alla magistratura che procede per reati di strage o eversione dell’ordine democratico. Di conseguenza, la magistratura, sia direttamente che tramite agenti di polizia giudiziaria e periti, ha abbondantemente esaminato gli archivi dei servizi e dei corpi di polizia, acquisendo valanghe di documenti che sono finiti nei fascicoli processuali. Anche le commissioni parlamentari che si sono succedute, sul caso Moro, sulle stragi, sul caso Mitrokhin, hanno acquisito molta documentazione in merito (anche se poi è finita negli scatoloni di deposito e non in archivi pubblici). Una larghissima parte della documentazione finita nei fascicoli processuali e nelle commissioni di inchiesta è stata resa consultabile dalla “Casa della Memoria di Brescia”, dove chiunque può accedere, e dalla Regione Toscana. Strano che Renzi non lo sappia.Già a suo tempo, la documentazione acquisita dai magistrati è stata consultata da giornalisti che l’hanno avuta dagli avvocati delle parti ed è finita in migliaia di articoli. Diversi consulenti parlamentari e giudiziari (a cominciare dal più importante, Giuseppe De Lutiis, a finire al sottoscritto) hanno successivamente utilizzato abbondantemente quella documentazione per i loro libri. Per cui, siamo alla “quinta spremitura” di queste olive: ci esce solo la morga, robaccia. Viceversa, restano ancora da risolvere i problemi degli archivi inarrivabili e per i quali occorrerebbe far qualcosa per renderli accessibili: quello della Presidenza della Repubblica, che ha sempre rifiutato ogni accesso, per quanto minimo, alla magistratura in nome dell’immunità presidenziale; quello dell’Arma dei carabinieri (alludiamo all’archivio informativo, non a quello amministrativo) che non si capisce dove stia; quelli delle segreterie di sicurezza dei vari enti e dei relativi uffici Uspa che sono protetti dal segreto Nato.Per cui, se Renzi vuol davvero fare qualcosa di nuovo sulla strada della fine dei segreti della Repubblica, può invitare il Capo dello Stato a valutare l’opportunità di rendere accessibile il proprio archivio oltre le carte del Protocollo attualmente visibili; può chiedere all’Arma dei carabinieri un rapporto ufficiale sulla sistemazione dei propri archivi informativi; può porre in sede Nato la questione del superamento del segreto dopo un congruo periodo di segretazione (per esempio, poco dopo la “Rivoluzione dei Garofani” in Portogallo, la Nato avocò a sé tutto il materiale della e sulla Aginter Presse: possiamo vederlo?). Ma soprattutto, se il presidente del Consiglio vuol fare sul serio, è bene che si ricordi che il suo ente è in ritardo di anni su precisi impegni presi.Nel 2007, per far digerire quell’orrore di legge di “riforma” sui servizi, venne inserito un complicato sistema che avrebbe dovuto assicurare la decadenza automatica della classifica di segretezza dopo un certo periodo; premessa necessaria per poter inviare i documenti agli archivi di Stato (non solo quelli sulle stragi, ma tutti). Però occorreva prima fare i regolamenti attuativi: stiamo ancora aspettando questi regolamenti, dopo sette anni. Poi il governo Monti promise che entro il 2012 avrebbe comunicato l’elenco dei vari archivi esistenti con le diverse sedi dei depositi (cosa che non è stato mai possibile avere). E stiamo aspettando ancora anche questo elenco. Se la sente Renzi di fare sul serio o è solo fumo elettorale?(Aldo Giannuli, “Segreto di Stato: Renzi vende solo fumo, ecco perché”, dal blog di Giannuli del 22 aprile 2014).Squilli di trombe, rulli di tamburo: Renzi cancella il segreto di Stato sulle stragi. Era ora! Solo che si tratta di chiacchiere. Perché già da una ventina d’anni il segreto di Stato non è opponibile alla magistratura che procede per reati di strage o eversione dell’ordine democratico. Di conseguenza, la magistratura, sia direttamente che tramite agenti di polizia giudiziaria e periti, ha abbondantemente esaminato gli archivi dei servizi e dei corpi di polizia, acquisendo valanghe di documenti che sono finiti nei fascicoli processuali. Anche le commissioni parlamentari che si sono succedute, sul caso Moro, sulle stragi, sul caso Mitrokhin, hanno acquisito molta documentazione in merito (anche se poi è finita negli scatoloni di deposito e non in archivi pubblici). Una larghissima parte della documentazione finita nei fascicoli processuali e nelle commissioni di inchiesta è stata resa consultabile dalla “Casa della Memoria di Brescia”, dove chiunque può accedere, e dalla Regione Toscana. Strano che Renzi non lo sappia.
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Stragi e segreti, Renzi e lo strano amico americano
Mentre il premier Matteo Renzi lancia l’ennesimo annuncio spot (via il segreto di Stato dai dossier sulle stragi), Paolo Guzzanti precisa: in Italia non c’è nessun “segreto di Stato”, ma solo i faldoni dei servizi già visionati dagli inquirenti e rimasti protetti dal vincolo di segretezza («per desecretare quelli ci vorranno almeno tre anni – dice Guzzanti – perché occorreranno apposite leggi»). Nessun “segreto”, in ogni caso, da portare per la prima volta alla luce. In compenso, “Il Giornale” mette a fuoco lo strano “amico americano” di Renzi, Michael Ledeen, definito «un nome sorprendente e inquietante, certamente non “nuovo”», che Massimo Malpica inserisce nel “cerchio magico” del neo-premier, in qualità di consulente per la politica estera. Oggi esponente dell’influente think-tank neocon “American Enterprise Institute”, già collaboratore delle amministrazioni Reagan e Bush, il 72enne Ledeen sarebbe legato a filo doppio all’Italia dei misteri: dal sequestro Moro al rapimento del generale Dozier, dalla strage di Bologna alla crisi di Sigonella, dall’attentato al Papa al “Nigergate”.Nel lontano 1975, «mentre Renzi nasceva», in Italia Ledeen «ha esordito come intellettuale», in veste di autore delle domande della celebre “Intervista sul fascismo” di Renzo De Felice. Da lì in poi, scrive Malpica, il nome di Ledeen «è finito, di riffa o di raffa, in mezzo a gran parte dei misteri e dei gialli del Bel Paese». L’interessato «talvolta si è chiamato fuori, negando ruoli riferiti da altri, spesso a colpi di querele. Soprattutto, è sempre rimasto in piedi. Tanto in piedi che ora il suo nome viene accostato al nuovo premier italiano». Il tramite, scrive il “Giornale”, sarebbe lo stratega economico della carriera politica di Renzi, Marco Carrai, ma i rapporti risalirebbero al 2007, quando il super-falco della destra Usa dedicò un articolo allo chardonnay siciliano, raccontando di aver scoperto quel vino un paio d’anni prima, a pranzo «col mio amico Matteo Renzi».Un renziano della prima ora, Ledeen, i cui rapporti con politici e intelligence nostrani sono ben più datati. Nel 1984 l’allora capo del Sismi Fulvio Martini raccontò ai membri del Copaco di aver detto all’ambasciatore americano a Roma, Maxwell Raab, che Ledeen «non deve più tornare in Italia», dandogli di fatto dell’«indesiderabile». Ledeen annunciò querele contro lo 007. Martini confermerà tutto 15 anni dopo, di fronte alla commissione Stragi: «Avevo chiesto all’ambasciata americana di non far entrare Mike Ledeen in Italia: era un tizio che lavorava ai margini della Cia». E perché Ledeen non era gradito? Ancora Martini: «Intanto quando Ledeen veniva in Italia andava direttamente dal presidente della Repubblica, che aveva conosciuto quando era ministro dell’interno. E la cosa non mi piaceva. Secondo, perché Ledeen aveva avuto da uno dei miei predecessori 100mila dollari per fare conferenze sul terrorismo, che erano assolutamente rubati. E poi lavorava a margine della Cia, e la cosa non mi piaceva».Il presidente “amico” era Francesco Cossiga, che per la verità al Colle sarebbe arrivato solo nel 1985, un anno dopo lo “sgradimento” di Ledeen espresso da Martini. Ma durante il sequestro Moro, secondo il consulente di Cossiga nei giorni del rapimento, Stefano Silvestri, Ledeen, definito «un pataccaro d’alto bordo», propose «a Cossiga e ai servizi» di «effettuare simulazioni, usando materiali preparati dall’esperto di terrorismo Walter Laqueur». «Detti parere negativo – spiega Silvestri – ma seppi in seguito che era riuscito a piazzare qualcuno dei suoi giochi». Forse, aggiunge il “Giornale”, si trattava dei corsi antiterrorismo organizzati per la nostra intelligence tra ‘80 e ‘81, per i quali Ledeen sostiene di non essere mai stato pagato. «Secondo il faccendiere Francesco Pazienza – continua Malpica – Ledeen più che un consulente era organico al Sismi guidato da Giuseppe Santovito, e il suo nome in codice sarebbe stato “Z3”, un dettaglio che l’interessato nega».Di certo il neocon che ora sussurra consigli a Matteo (al “Sole 24 Ore”, Ledeen ha spiegato che a Renzi parla «delle cose che forse mi illudo di conoscere, Medio Oriente, Russia, chi sale e chi scende nella politica Usa»), negli anni ‘80 era in buoni rapporti anche con Craxi. La notte della crisi di Sigonella, ricorda il “Giornale”, fu proprio lui a fare da interprete («manipolando qualche risposta, confesserà lui stesso nel 1994») al telefono tra Reagan alla Casa Bianca e il premier socialista all’Hotel Raphael, mentre i terroristi della Achille Lauro erano contesi tra Delta Force e carabinieri. Amicizia, quella con Bettino, che non impedirà a Ledeen di invitare negli Usa, nel 1995, proprio Antonio Di Pietro, per tenere un discorso all’“American Enterprise Institute”: «Venne a cena da me», confermò Ledeen al “Corriere della Sera” nel 2010.A metà anni 2000, Mike Ledeen è di nuovo nella bufera per il Nigergate: secondo i giornalisti Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo, della “Repubblica”, l’intelligence militare italiana avrebbe consegnato alla Cia falsi documenti per “dimostrare” l’importazione di uranio dal Niger da parte dell’Iraq di Saddam Hussein. Documenti che sarebbero stati utilizzati dal presidente George W. Bush come prova dei tentativi del dittatore iracheno di procurarsi armamenti nucleari, causa scatenante la seconda Guerra del Golfo. Michael Ledeen ha negato di avere avuto un ruolo nell’operazione. A sua volta, l’allora presidente del Copaco, Enzo Bianco, negò l’esistenza di rapporti dei servizi italiani con il politologo americano, anche se a proposito dei suoi rapporti con politici italiani aggiunse: «Se fossi ministro, non lo inviterei a pranzo». Conclude Malpica: «Renzi, già da presidente della Provincia di Firenze, non ha seguito il consiglio».Mentre il premier Matteo Renzi lancia l’ennesimo annuncio spot (via il segreto di Stato dai dossier sulle stragi), Paolo Guzzanti precisa: in Italia non c’è nessun “segreto di Stato”, ma solo i faldoni dei servizi già visionati dagli inquirenti e rimasti protetti dal vincolo di segretezza («per desecretare quelli ci vorranno almeno tre anni – dice Guzzanti – perché occorreranno apposite leggi»). Nessun “segreto”, in ogni caso, da portare per la prima volta alla luce. In compenso, “Il Giornale” mette a fuoco lo strano “amico americano” di Renzi, Michael Ledeen, definito «un nome sorprendente e inquietante, certamente non “nuovo”», che Massimo Malpica inserisce nel “cerchio magico” del neo-premier, in qualità di consulente per la politica estera. Oggi esponente dell’influente think-tank neocon “American Enterprise Institute”, già collaboratore delle amministrazioni Reagan e Bush, il 72enne Ledeen sarebbe legato a filo doppio all’Italia dei misteri: dal sequestro Moro al rapimento del generale Dozier, dalla strage di Bologna alla crisi di Sigonella, dall’attentato al Papa al “Nigergate”.
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Gli 007: l’Italia soffre e protesta, ma non farà rivoluzioni
L’Italia in preda alla grande crisi sta soffrendo molto, ma la protesta è rimasta finora all’interno di limiti accettabili, grazie anche agli ammortizzatori sociali e all’azione moderatrice dei sindacati. Lo sostengono i servizi segreti, nella relazione annuale indirizzata al Parlamento. Secondo l’Aisi, per cui l’estremismo di destra non supera il folklore dei “forconi” o la violenza sporadica degli ultras del calcio, il problema sono le «strumentalizzazioni estremiste», che – potenziate dalla capacità di comunicazione del web – conterrebbero una potenziale «minaccia eversiva». Nel mirino degli 007, le “frange estreme” ai margini dei principali movimenti sociali: No-Tav e No-Muos, movimento per la casa, Terra dei Fuochi, comitati milanesi contro l’Expo 2015. E’ l’Italia che alza la voce nella sua protesta anti-crisi, quella che contesta il Fiscal Compact e i trattati neoliberisti della Troika europea, «con l’obiettivo di aggregare la militanza attorno all’appello “anticapitalista”», una lotta dal basso «per costruire un’alternativa all’attuale sistema economico, sociale e politico».In pratica, segnala Federico Rucco su “Contropiano”, a suscitare l’attenzione dei servizi segreti sono «i movimenti di sinistra e antagonisti», quelli che «intervengono nel “sociale” in tutte le sue declinazioni (sindacali, problema abitativo, ambientale, antimilitarista». Non mancano gli anarchici, che «continuano ad essere identificati come la minaccia principale». Una “lettura politica” estremamente interessante, annota Rucco. Premessa: «Gli ammortizzatori sociali e il ruolo di mediazione dei sindacati confederali – scrive l’Aisi – hanno continuato ad agire da depotenziatori del conflitto, limitando i margini d’intervento delle frange estreme della sinistra antagonista». Per “Contropiano”, «non si potrebbe definire in modo più chiaro quello che siamo andati denunciando in questi anni rispetto al ruolo di Cgil, Cisl e Uil». Le lotte nei call center e nella logistica vengono indicate come «sporadiche, emergenti forme di autorganizzazione operaia».Per i servizi di sicurezza, «il ruolo del web si è confermato determinante quale amplificatore delle iniziative di lotta funzionale allo sviluppo di campagne condivise». Interessante l’analisi sulla dinamica dei conflitti sociali. All’Aisi non sfugge l’importanza della due giorni di mobilitazione nazionale del 18 e 19 ottobre «con lo sciopero generale dei sindacati di base e la manifestazione per il diritto alla casa e contro la crisi». Agli analisti dell’intelligence non sfugge l’importanza di forme di lotta come «la pratica dell’occupazione della piazza», che – pensando a Turchia, Grecia e Spagna – potrebbe «diventare una pratica di aggregazione del consenso facilmente replicabile anche altri ambiti, sia territoriali che tematici». Allarme rosso, ovviamente, per la mobilitazione in Sicilia contro l’insediamento militare Usa del Muos a Niscemi. Secondo i servizi, «il movimento No-Muos continua a vedere impegnati da un lato i “comitati popolari” intenzionati a muoversi in un contesto legale, e dall’altro componenti radicali determinate a compiere, con il supporto di esponenti antagonisti e anarchici siciliani, azioni di lotta più incisive, incentrate prioritariamente sulla tematica antimilitarista».Oltre alla crescita «dell’attivismo degli ambienti antimperialisti a sostegno della causa palestinese», l’Aisi rileva le «proteste di crescente spessore dell’antagonismo lombardo contro l’Expo di Milano 2015» e di quello pugliese contro il gasdotto Tap. Riferendosi poi alla Campania e alla Terra dei Fuochi, i servizi segreti sottolineano che è sotto «attenzione informativa» il tentativo, da parte di «settori dell’antagonismo locale», di «strumentalizzare la tematica, inserendosi nella protesta animata dalla popolazione locale». Ovviamente, aggiunge Rucco, un ampio dossier è dedicato al movimento No-Tav. In valle di Susa, secondo i servizi, c’è una netta differenziazione tra le «frange oltranziste» e la «componente popolare» del movimento, decisa a continuare una “resistenza “pacifica” alla grande opera, «anche se nel suo ambito – sempre secondo i servizi – si sono talora registrate posizioni di acquiescenza ad episodi di sabotaggio». E attenzione: alla lunga, la popolazione potrebbe dare segni di esasperazione. I servizi temono «l’innalzamento del livello di contrapposizione quale inevitabile conseguenza della “reazione” della popolazione a politiche decise dall’alto e al dispositivo repressivo».Quanto alle frange a vocazione violenta – anarchiche o marx-leniniste – la conclusione a cui giungono i servizi segreti è che «si tratta di gruppi esigui, in condizione di minoranza rispetto all’area antagonista». Al più, è possibile temere «azioni violente di limitato spessore operativo da parte di aggregazioni estemporanee o di individualità, intese non tanto a colpire il cuore del sistema, quanto piuttosto a dimostrare la capacità di ribellione, al fine di alimentare una progressiva radicalizzazione delle istanze contestative». Forte la sottolineatura sul ruolo di “pompieri sociali” svolto dalle organizzazioni sindacali, efficaci nel contenere il conflitto sociale in modo che resti «più ribelle che rivoluzionario». Conclude Rucco: «Chissà se l’iconoclastia di Renzi verso i sindacati e gli ammortizzatori sociali terrà conto di questo suggerimento dei servizi di sicurezza».L’Italia in preda alla grande crisi sta soffrendo molto, ma la protesta è rimasta finora all’interno di limiti accettabili, grazie anche agli ammortizzatori sociali e all’azione moderatrice dei sindacati. Lo sostengono i servizi segreti, nella relazione annuale indirizzata al Parlamento. Secondo l’Aisi, per cui l’estremismo di destra non supera il folklore dei “forconi” o la violenza sporadica degli ultras del calcio, il problema sono le «strumentalizzazioni estremiste», che – potenziate dalla capacità di comunicazione del web – conterrebbero una potenziale «minaccia eversiva». Nel mirino degli 007, le “frange estreme” ai margini dei principali movimenti sociali: No-Tav e No-Muos, movimento per la casa, Terra dei Fuochi, comitati milanesi contro l’Expo 2015. E’ l’Italia che alza la voce nella sua protesta anti-crisi, quella che contesta il Fiscal Compact e i trattati neoliberisti della Troika europea, «con l’obiettivo di aggregare la militanza attorno all’appello “anticapitalista”», una lotta dal basso «per costruire un’alternativa all’attuale sistema economico, sociale e politico».
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Appello alla Boldrini: fuori quel dossier su Ilaria Alpi
Un grazie alle oltre trentamila persone, molte delle quali lettrici e lettori di questo giornale, che, in un solo giorno, hanno firmato la petizione per reclamare verità e giustizia sull’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Le ragioni di questa iniziativa sono già state descritte, nel suo blog, dal direttore di “Articolo 21” Stefano Corradino. Tra qualche giorno, il prossimo 20 marzo, saranno passati 20 anni dal giorno della esecuzione di Ilaria e Miran. I due stavano portando a compimento una rigorosa inchiesta sul traffico di rifiuti tossici tra Italia e Somalia e, stando alle ricostruzioni, si erano “pericolosamente” avvicinati alla cupola che gestiva gli affari e alle connessioni tra il ciclo dei rifiuti, la criminalità organizzata, e i protettori politici. Le indagini e la vicenda processuale hanno ripercorso il copione già visto in tanti altri processi simili: depistaggi, amnesie, segreti di stato, veline di regime.A combattere questa battaglia civile sono restati i familiari di Ilaria e di Miran, gli amici di sempre, le ragazze e i ragazzi del Premio Ilaria Alpi, giornalisti e legali coraggiosi che non hanno mai mollato la presa. Tra qualche giorno, in tutta Italia, ci saranno le iniziative per ricordare il 20 marzo di 20 anni fa, una delle più importanti si svolgerà alla Camera dei deputati, alla presenza di Laura Boldrini. Alla vigila di questa ricorrenza il legale della famiglia Alpi, Domenico D’Amati, che ha dedicato la vita a contrastare bavagli, censure, oscurità, ha rivolto un appello alle istituzioni affinché siano desecretati tutti gli atti relativi non solo a questo caso, ma anche al materiale acquisito dalla commissione parlamentare che ha indagato sul ciclo dei rifiuti tossici ed anche sui rapporti tra Italia e Somalia.Questo appello, raccolto da “Articolo 21”, é stato rilanciato dalla piattaforma “Change.org” e ha trovato l’adesione di migliaia di cittadine e di cittadini. La speranza è che, in occasione del ventennale, possa arrivare una risposta positiva che consenta alla Procura della Repubblica di Roma di acquisire documenti utili alla ricerca della verità e della giustizia. Non sappiamo se quelle carte contengano elementi dirompenti, ma abbiamo tutti il dovere di tentare il tentabile, di non fornire altri alibi ai depistatori, di provare ad illuminare quello che hanno voluto oscurare e cancellare. Per queste ragioni vi chiediamo non solo una firma, ma anche un aiuto a far conoscere e a condividere l’appello “Niente segreti sulla morte di Ilaria Alpi e sul traffico di armi e rifiuti”.I giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono stati uccisi a Mogadiscio il 20 marzo del 1994. Erano in Somalia per indagare su un traffico internazionale di armi e di rifiuti tossici illegali. Ed è per questa ragione che sono stati assassinati. Ma a venti anni di distanza siamo ancora in attesa di conoscere tutta la verità su quella vicenda. Questa verità potrebbe essere contenuta nella pila di carta (ottomila documenti) che i servizi di sicurezza militare, l’ex Sismi, oggi Aise, hanno accumulato su fatti che attengono all’esecuzione dei due giornalisti. Carte messe sotto chiave negli archivi della Camera a cui sembra essere stato negato l’accesso dall’Agenzia Aise – come rivela un’inchiesta de “Il Manifesto” firmata dai giornalisti Andrea Palladino e Andrea Tornago – che pare «abbia negato l’autorizzazione a un ufficio di Montecitorio che chiedeva la declassificazione dei documenti riservati acquisiti dalla Commissione parlamentare sui rifiuti presieduta da Gaetano Pecorella».«E’ fondamentale che queste carte siano rese pubbliche e che ai cittadini sia data la possibilità di sapere», ha affermato sul sito di “Articolo 21” Domenico D’Amati, legale della famiglia Alpi. «C’è molto da fare e speriamo che tutti gli organi dello Stato collaborino. In primo luogo la Camera dei deputati che deve desecretare questi documenti fondamentali sui traffici dei rifiuti tossici». Per questo, facciamo appello al Presidente della Camera Laura Boldrini, di cui conosciamo e apprezziamo la sensibilità umana e civile, affinché si possa consentire l’accesso ai dossier, per squarciare “il muro di gomma” dei poteri che hanno ostacolato la ricerca della verità.(Giuseppe Giulietti, “Niente segreti sulla morte di Ilaria Alpi e sul traffico di armi e rifiuti”, da “Micromega” del 13 marzo 2014).Un grazie alle oltre trentamila persone, molte delle quali lettrici e lettori di questo giornale, che, in un solo giorno, hanno firmato la petizione per reclamare verità e giustizia sull’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Le ragioni di questa iniziativa sono già state descritte, nel suo blog, dal direttore di “Articolo 21” Stefano Corradino. Tra qualche giorno, il prossimo 20 marzo, saranno passati 20 anni dal giorno della esecuzione di Ilaria e Miran. I due stavano portando a compimento una rigorosa inchiesta sul traffico di rifiuti tossici tra Italia e Somalia e, stando alle ricostruzioni, si erano “pericolosamente” avvicinati alla cupola che gestiva gli affari e alle connessioni tra il ciclo dei rifiuti, la criminalità organizzata, e i protettori politici. Le indagini e la vicenda processuale hanno ripercorso il copione già visto in tanti altri processi simili: depistaggi, amnesie, segreti di Stato, veline di regime.
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Foa: se Grillo regala un autogoal al club dei bugiardi
Circa un anno fa scrissi un post intitolato “Far fuori Berlusconi e poi Grillo”. Cos’è successo al Cav lo sappiamo, così come sappiamo cos’è destinato ad accadere quando la magistratura lo riterrà opportuno: arresti domiciliari o servizi sociali. Ora tocca a Grillo. Non per via giudiziaria, ma mediatica. Con il gentilissimo e inaspettato contributo dello stesso Movimento 5 Stelle. Mi spiego: esaurita la fase della protesta pacifica di piazza (Vaffaday) e della straordinaria mobilitazione via internet che ha consentito un risultato elettorale travolgente (chapeau a Casaleggio), il Movimento 5 Stelle avrebbe dovuto modificare la propria strategia, sdoppiandola: da un lato continuare a interpretare il (peraltro crescente) malumore del paese, dall’altro dosare attentamente le provocazioni e le sparate mediatiche al fine di proporsi sempre di più come forza credibile a autorevole.E’ quel che, ad esempio, sta facendo da anni in Gran Bretagna il leader anticonformista e antieuropeista Nigel Farage, di gran lunga superiore a Beppe Grillo per dialettica, conoscenza dei dossier, credibilità personale. L’esercizio è difficile ma obbligato. Chi non lo capisce è destinato se non all’autodistruzione perlomeno a farsi tanto male; come sta accadendo a Grillo e Casaleggio, che negli ultimi giorni sono stati protagonisti di un autentico disastro mediatico. Non entro nel merito della protesta contro il decreto Imu e Bankitalia, né della richiesta di impeachment di Napolitano, sacrosanta la prima, giustificatissima la seconda. Il mio punto di vista è del comunicatore che, per valutare l’impatto mediatico di ogni azione politica, si mette nei panni del cittadino comune, che non legge il blog di Grillo ma che da Grillo è tentato come molti italiani di destra e di sinistra.E che in queste ore ha assistito ai seguenti fatti in rapida successione: gazzarra su un decreto di cui non ha capito bene il senso perchè la materia è complicata (regalo a Bankitalia? E cosa c’entra Bankitalia con l’Imu?); rissa in Parlamento documentata dalle tv; insulti contro le deputatesse e schiaffi in commissione; libro bruciato; filmato provocatorio contro la Boldrini, incitamento allo stupro della stessa, battute inopportune e sessiste su Twitter da parte di rappresentanti ufficiali; accuse a Casaleggo di manipolare i deputati attraverso la Programmazione Neuro-Linguistica; attacco improvvido e assai sciocco di un personaggio pubblico, Rocco Casalino, che gli italiani conoscono più come partecipante al Grande Fratello che come (inverosimile) portavoce del Movimento, alla giornalista Daria Bignardi (che con le domande insistite sul padre fascista di Di Battista cercava visibilmente la provocazione).Risultato: all’italiano medio, moderato, che non segue quotidianamente la politica, ma il cui voto è decisivo in ogni elezione, resta una sensazione di disagio, di confusione, di diffidenza. Non capisce perché, non capisce come, ma matura l’impressione che il Movimento sia animato da esagitati, che lo stesso Grillo non riesce a controllare. In queste ore si è creato un frame collettivo molto pericoloso per il M5Stelle: nella mente di molti italiani ora è incorniciato come un Movimento disorganizzato, estremo, inaffidabile. Proprio il risultato a cui l’establishment mirava da circa un anno. E che, dopo tanti tentativi falliti, è stato ottenuto nel modo più soprendente: con l’amplificazione dei media ma essenzialmente per autocastrazione degli stessi grillini, per una volta incapaci di comunicare, di gestirsi, di maturare politicamente. Vittime di loro stessi e della superficialità di Grillo e Casaleggio. Gli altri partiti sentitamente ringraziano.(Marcello Foa, “Grillo, autocastrazione di un leader”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 4 febbraio 2014).Circa un anno fa scrissi un post intitolato “Far fuori Berlusconi e poi Grillo”. Cos’è successo al Cav lo sappiamo, così come sappiamo cos’è destinato ad accadere quando la magistratura lo riterrà opportuno: arresti domiciliari o servizi sociali. Ora tocca a Grillo. Non per via giudiziaria, ma mediatica. Con il gentilissimo e inaspettato contributo dello stesso Movimento 5 Stelle. Mi spiego: esaurita la fase della protesta pacifica di piazza (Vaffaday) e della straordinaria mobilitazione via internet che ha consentito un risultato elettorale travolgente (chapeau a Casaleggio), il Movimento 5 Stelle avrebbe dovuto modificare la propria strategia, sdoppiandola: da un lato continuare a interpretare il (peraltro crescente) malumore del paese, dall’altro dosare attentamente le provocazioni e le sparate mediatiche al fine di proporsi sempre di più come forza credibile a autorevole.
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La grande truffa della storia, scritta dai vincitori
Alla fine bisogna sempre fare “i conti con la storia” e non sono mai conti facili: sono come gli esami che non finiscono mai. Quando Atene si liberò dei Trenta tiranni chiudendo uno dei periodi più foschi della sua storia (nel regolamento di conti che ne seguì Socrate fu messo a morte di fatto per collaborazionismo, altro che corrompere i giovani) fu promulgata una “legge bavaglio” che vietava di rivangare il passato, scriverne, rievocare. L’ordine regna ad Atene: il dibattito è chiuso – si stabilì – pena il collasso della società. Da noi, in Italia, non ci fu una legge, ma solo una canzone napoletana: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… Chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdammoce ‘o ppassato”. Quello di Atene dopo la dittatura dei Trenta è il più clamoroso esempio che Paolo Mieli porta nel suo ultimo libro “I conti con la storia” (Rizzoli) sul ventaglio di soluzioni possibili quando finisce un conflitto che riverbera odio, dolore e desiderio di vendetta.Ma davvero l’oblio è il medicamento da somministrare dopo ogni conflitto? No, si può fare anche il contrario, se i vincitori sono generosi patrioti. L’esempio è quello degli Stati Uniti che, dopo la fine della guerra civile a metà degli anni Sessanta del XIX secolo (proprio mentre l’Italia si unificava malamente), scelsero di includere i vinti, elevandoli al rango di co-fondatori della nuova nazione. Questo fatto, da noi poco noto, mi colpì molto quando vivevo negli Stati Uniti perché non ti aspetti quella quantità di monumenti, nomi di strade, memorial, che trasformano i nemici di un tempo in patrioti degni di onore. Sarebbe come se in Italia, dopo l’8 settembre 1943, i vinti repubblichini fossero stati promossi al rango di “patrioti avversari” co-fondatori della nuova Repubblica.Sappiamo come andò nella realtà. E a questo proposito Mieli affronta il caso di Giampaolo Pansa, famoso giornalista “di sinistra” che provocò una rottura verticale nel conformismo italiano, guidato dalla legge dell’oblio e, peggio, dalla legge della memoria asimmetrica dei vincitori. Ho sempre pensato che se la guerra l’avesse vinta la Germania, avremmo avuto poi infiniti musei e celebrazioni della memoria dei genocidi di Stalin e dei suoi campi di concentramento, e la Shoah sarebbe stata ignorata, o trattata come un fatto marginale su cui alcuni storici anticonformisti avrebbero sollevato il velo mezzo secolo più tardi. Il tabù infranto da Pansa vieta ai non fascisti di parlare del sangue dei vinti durante la guerra, ma poi anche delle esecuzioni pianificate per classe sociale nel “triangolo della morte” emiliano.Le imprese della Volante Rossa e le stragi successive alla Liberazione, che non furono lo strascico di «comprensibili vendette contro gli aguzzini», ma il passaggio dalla guerra contro tedeschi e fascisti repubblichini alle procedure per instaurare un regime comunista manu militari: ci volle il freddo realismo di Stalin e del suo impassibile portavoce Palmiro Togliatti per bloccare l’ondata insurrezionale, in nome del nuovo ordine nato a Yalta. La convenzione impose che di quei fatti nessuno dovesse più parlare e una lastra di piombo ateniese asfaltò ogni memoria e ogni verità. Nulla nelle scuole, nulla in tv. Degli effetti di quell’oblio sono stato io stesso testimone e vittima. Quando fui eletto nel giugno 2002 presidente della Commissione d’inchiesta sugli agenti russi in Italia (non soltanto le banali e oneste spie, ma anche agenti d’influenza) ebbi la candida idea di proporre ai post comunisti che occupavano la metà del nostro parlamentino un patto d’onore: sediamoci, dissi, intorno a un tavolo e lavoriamo insieme per voltare finalmente pagina, affrontando tutti i temi roventi del passato (la Commissione Mitrokhin era stata chiesta per primo da D’Alema quando la notizia di uno schedario russo reso pubblico fece impazzire la sinistra per le accuse reciproche di “collaborazionismo” sovietico).La condizione che pongo, aggiunsi, è che prima dobbiamo leggere tutti insieme e con accuratezza quella pagina, e poi voltarla. Ma avevo avuto torto: nessuno, da quella parte, aveva intenzione di condividere alcuna verità e di restituirla al Paese. La risposta che ebbi fu sprezzante: venne lanciata una campagna diffamatoria preventiva accusandomi di voler usare la Commissione «come una clava». La parola d’ordine lanciata da D’Alema sulla “clava” diventò una goccia cinese. I giornali russi fecero eco scatenando una campagna di derisione e di falsità contro la commissione del Parlamento italiano e i giornali si schierarono dalla parte della legge-bavaglio, certificando che io non potevo che essere un provocatore. Al mio informatore segreto Alexander “Sasha” Litvinenko fu inflitto il supplizio di Socrate con una pozione letale di moderna cicuta, l’isotopo Polonio 210. La legge di Atene dopo la cacciata dei Trenta era e resta in vigore. Per fortuna, Scotland Yard non ha mollato l’osso quanto a Litvinenko, ma questa è un’altra storia.E dunque, seguendo la linea de “I conti con la storia”, viene da chiedersi chi e che cosa scriverà fra un secolo, o fra cinquanta anni, sull’Italia di oggi, sui veleni della guerra civile a bassa intensità intorno a Berlusconi e all’antiberlusconismo. Ci penseranno gli storici? Secondo Mieli è possibile: la pratica dovrebbe essere gestita dagli storici nei tempi e modi necessari per spurgare le incandescenze emotive ed ideologiche a causa delle quali la storia è usata proprio come “una clava” dalla politica. Come dire che a un certo punto bisogna saper dire basta. L’Italia più di ogni altro Paese mostra quanto indigesto sia il proprio passato anche recente, su cui gli storici professionisti in fondo non possono granché: è un dato di fatto, ricorda, che la sua unità sia stata costruita su molte menzogne. I cittadini degli Stati preunitari dovettero rinnegare le loro identità precedenti raccontandosi a suon di urla e marcette militari di essere stati tutti da sempre ardenti patrioti italiani.Quando arrivò il momento, tutti diventarono entusiasti reduci della Grande Guerra, compresi i milioni che l’avevano avversata nelle piazze. Poi arrivò il momento in cui tutti si dichiararono fascisti da sempre e, subito dopo, antifascisti da sempre, quando si assistette all’improvvisa comparsa in ogni famiglia di indomabili zii e nonni anarchici, meglio se ferrovieri, che con eroica ostinazione avevano rifiutato la tessera del fascio. Nello stesso momento milioni di italiani dichiararono di aver salvato uno o più ebrei, che non erano più di cinquantamila. Alla caduta della Prima Repubblica non si trovava più un socialista craxiano o un democristiano del Caf a pagarlo oro: il camaleontismo opportunista continuerà ad essere l’elemento distintivo del carattere degli italiani, come aveva notato Leopardi. Quanti sono oggi i forconisti “da sempre”? E quelli che «mi ha telefonato Matteo» dopo anni in cui «mi ha telefonato Massimo» e l’ormai lontano «mi ha chiamato Bettino»?Si può davvero scrivere la storia con gente come questa fra i piedi? Mieli ne dubita. Tuttavia può capitare persino che gli storici, se possono alternare sulla testa il cappello dell’opinion leader oltre quello dello storico, abbiano l’opportunità di modificare il corso della storia come fece Mieli quando, direttore del “Corriere della Sera”, decise di pubblicare nel 1994 il famoso avviso di garanzia che provocò il ribaltone e la caduta del primo governo Berlusconi da cui fu generato il governo Dini, la conseguente sconfitta del centrodestra in Italia del 1996 costretto a una lunga apnea fino al 2001. Cito l’evento perché ho ragionevoli dubbi sulla neutralità degli storici. A complicare le cose ci si mettono pure figure retoriche e organismi reali che agiscono e interagiscono sui fatti come il “politicamente corretto”. L’ipocrisia ha poi perfezionato le sue armi con le agenzie delle Nazioni Unite e con i Tribunali internazionali a baricentro non occidentale che hanno come target finale Israele un po’ come la Procura di Milano punta a Berlusconi.Il “politicamente corretto” impedisce per esempio di dire che la tratta degli schiavi africani venduti, trasferiti in catene in America, dal Brasile ai Caraibi, dalla Martinica alle colonie britanniche, non fu fatta dai bianchi europei (mai dagli americani) ma dagli arabi che si servivano di tribù schiaviste di neri africani in un continente che praticava lo schiavismo da oltre mezzo millennio prima che arrivassero i bianchi a comperare insieme agli sceicchi. Ebbene, oggi ci sono Stati africani le cui leggi spediscono in galera chi osa dubitare che lo schiavismo africano sia stato un crimine dei bianchi colonialisti. Il libro di Mieli è una straordinaria e quasi infinita serie di narrazioni certificate autentiche e paradossali d’ipocrisie. È un libro fortemente anticonformista e sconvolgente.Se Calvino fa ardere vivo lo studioso della circolazione sanguigna Michele Serveto in combutta con l’Inquisizione spagnola (fascine verdi per il rogo e un collare di paglia cosparso di zolfo), che dire del grande cancelliere tedesco Bismarck (ammiratore del Risorgimento italiano) che ordinò di impiccare tutti gli abitanti maschi (compresi vecchi e bambini) della città di Ablis dove i francesi avevano catturato sessanta soldati tedeschi? L’ordine fu immediatamente eseguito senza che nessun avversario di Bismarck avesse nulla da ridire. La storia che Mieli viviseziona è quasi sempre falsificata dai vincitori: quando Hitler invase la Polonia nel 1939, il suo alleato e fervido ammiratore Stalin invase secondo gli accordi russo-tedeschi la Polonia da Est. L’Armata Rossa compì ogni sorta di violenza e crimini, senza contare lo scandalo della consegna reciproca fra svastica e falce e martello di rifugiati ebrei contro rifugiati anticomunisti sul ponte di Brest-Litovsk. Il risultato è che dopo la fine della guerra si conoscono solo i crimini tedeschi, non quelli sovietici.E ancora sui fatti di casa nostra: Mieli sostiene che i leghisti non hanno tutti i torti quando dicono che l’unità fu fatta in un modo che non aveva nulla a che fare con gli ideali risorgimentali che prevedevano un’Italia del Nord. Invece le cose andarono diversamente: gli inglesi mollarono il re di Napoli, la mafia e la camorra scesero in campo con Garibaldi e il re sabaudo, così come sarebbero scese in campo con gli americani che risalivano la penisola dalla Sicilia. Per due volte tenuti a battesimo dalla mafia, quale sorpresa di fronte a uno Stato in parte geneticamente mafioso? I conti con la storia non finiranno mai, è vero, ma bisogna pur cominciare a farli se vogliamo dare una mano non solo agli storici ma anche ai cittadini futuri per aiutarli, aiutarci, a guarire dalla genetica ipocrisia.(Paolo Guzzanti, “Dall’Unità a Berlusconi, la storia è un’arma politica”, da “Il Giornale” del 21 dicembre 2013. Il libro: Paolo Mieli, “I conti con la storia”, Rizzoli, 422 pagine, euro 19,50).Alla fine bisogna sempre fare “i conti con la storia” e non sono mai conti facili: sono come gli esami che non finiscono mai. Quando Atene si liberò dei Trenta tiranni chiudendo uno dei periodi più foschi della sua storia (nel regolamento di conti che ne seguì Socrate fu messo a morte di fatto per collaborazionismo, altro che corrompere i giovani) fu promulgata una “legge bavaglio” che vietava di rivangare il passato, scriverne, rievocare. L’ordine regna ad Atene: il dibattito è chiuso – si stabilì – pena il collasso della società. Da noi, in Italia, non ci fu una legge, ma solo una canzone napoletana: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… Chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdammoce ‘o ppassato”. Quello di Atene dopo la dittatura dei Trenta è il più clamoroso esempio che Paolo Mieli porta nel suo ultimo libro “I conti con la storia” (Rizzoli) sul ventaglio di soluzioni possibili quando finisce un conflitto che riverbera odio, dolore e desiderio di vendetta.
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Omeopatia, a rischio i farmaci per 11 milioni di italiani
Dal Parlamento al Tar, si consuma in queste settimane la battaglia per salvare centinaia di medicinali omeopatici dalla scomparsa. Il casus belli? Le modalità con cui il legislatore italiano ha recepito la direttiva europea che prevede la “schedatura” dei medicinali omeopatici in commercio e la valutazione sulle modalità produttive per garantirne la qualità. Il cosiddetto “decreto Balduzzi”, poi convertito in legge, ha imposto tariffe di registrazione per le specialità medicinali 700 volte superiori a quelle precedenti e questo ha gettato nel panico le aziende, soprattutto quelle medio-piccole che si troverebbero costrette a chiudere o a fare tagli drastici per poter andare avanti. Peraltro, la procedura, nella distorsione italiana, come ha spiegato anche Omeoimprese (l’associazione industriale italiana dei produttori di rimedi omeopatici), impone che i medicinali omeopatici vengano registrati come se fossero nuovi, mentre sono sul mercato da decenni.
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Italia vicina al collasso voluto dall’Ue, e la casta obbedisce
Svalutazione interna del 10%, vale a dire: l’Italia deve “costare” meno. Meno soldi per salari, pensioni e servizi, mettendo mano alle “riforme strutturali” neoliberiste invocate da Mario Monti e ora sul tavolo di Letta, Alfano e Saccomanni, cioè la “squadra” messa insieme da Napolitano. E’ la drammatica “ricetta” avanzata dall’élite finanziaria mondiale per tramite del famigerato Fmi, che nella settimana della crisi-burla ha recapitato a Roma un dossier di 300 pagine in cui il braccio armato della Troika disegna l’imminente fallimento del nostro paese, prenotandone la resa: cessione dello Stato a prezzi di realizzo, smantellamento di quel che resta del welfare, ulteriore compressione degli stipendi. Il rapporto rivela che il saldo della nostra bilancia dei pagamenti è migliorato solo “per disgrazia ricevuta”: spendiamo meno per le importazioni perché stanno franando i consumi sotto la scure dell’austerità, mentre le aziende chiudono e il 25% dei giovanissimi vive in famiglie che non sanno più come arrivare alla fine del mese.
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Foa: disastro Obama, in mano a un’élite avida e miope
A quanto pare l’intervento militare in Siria non ci sarà, almeno per ora. Ed è un bene: prevale la ragione. Ma la vicenda resta inquietante. Chi segue questo blog sa cosa pensi di Obama: sin dall’inizio – addirittura già durante campagna elettorale del 2008 – espressi, in quasi assoluta solitudine, il mio scetticismo sulla statura politica di un presidente che veniva salutato come il Messia di un Mondo Migliore e più Giusto. Oggi non posso che ribadire il mio giudizio: non è uno statista, non è il Salvatore. Quel che è emerso in queste settimane, però, rivela un disagio e, verosimilmente, un’inettitudine, che non riguarda solo Obama ma l’élite che lo attornia e che di fatto governa l’America. Fino a pochi anni fa, la Corte dei consiglieri era composta da personalità con cui si poteva o meno essere d’accordo, ma che erano indubbiamente dotate di un’intelligenza, di una preparazione, di una raffinatezza intellettuale superiori alla media. Molto ciniche, all’occorrenza, ma in grado di contrastare e alla fine sconfiggere l’Unione sovietica e, soprattutto, i cervelli piû raffinati del Kgb.
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Calabresi solo una pedina, chi c’era nella stanza di Pinelli?
Scriveva Louis-Ferdinand Céline che la verità si dice arrangiandola. Non pochi libri-inchiesta, romanzi storici e film documentari sulla “madre di tutte le stragi” – ovvero la bomba che esplose il 12 dicembre 1969 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano – sembrano aver preso alla lettera il suggerimento dello scrittore francese, al punto da arrangiare a proprio uso e consumo uno dei fatti storici che hanno segnato la Repubblica italiana nel secondo dopoguerra. A che fine? Per confondere ancor più le acque di una vicenda così torbida sul piano giuridico (ben sette i processi conclusi con l’assoluzione di tutti gli accusati, peraltro alcuni in seguito condannati per altre stragi, mentre altri si gioveranno della prescrizione) ma così limpida sul piano storico, da esser scritta sui muri di questo paese fin dai giorni successivi al terribile atto terrorista: “La strage è di Stato. Valpreda è innocente. Pinelli non si è suicidato”.
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Libro-choc: c’era George Bush dietro all’omicidio Kennedy
A mezzo secolo dal fatale attentato di Dallas del 22 novembre 1963 si scopre che, oltre ai nomi già noti – Lyndon Johnson, Allen Dulles e Edgar Hoover – c’era un politico di prima grandezza dietro al complotto per assassinare John Fitzgerald Kennedy. Si tratta nientemeno che di George Bush padre, secondo la clamorosa ricostruzione offerta da un libro che uscirà negli Usa in ottobre, firmato dall’ex stratega repubblicano Roger Stone, già braccio destro di Richard Nixon, a sua volta coinvolto per la “copertura” del piano. Secondo Stone, fu Nixon – quand’era ancora un semplice deputato al Congresso – ad assoldare Jack Ruby, cioè Jacob Leon Rubinstein, l’uomo che poi assassinò il “capro espiatorio” Lee Harvey Oswald poche ore dopo il suo arresto-lampo. Ma – questa è la novità clamorosa – dietro le quinte c’era la regia occulta del futuro presidente Bush, padre di George W., poi capo della Cia prima di ascendere alla Casa Bianca. All’epoca fu spedito a Dallas come leader dei repubblicani del Texas e garante della potentissima lobby dei petrolieri texani, direttamente minacciata dai Kennedy. Un incrocio pericoloso – tenuto nascosto per decenni – fatto di depistaggi, omissioni, intimidazioni, menzogne e omicidi per eliminare testimoni scomodi.