Archivio del Tag ‘Donald Trump’
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Linera: la globalizzazione è morta, Trump ne è il becchino
Il re è nudo. Finalmente una voce autorevole della sinistra mondiale – il vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera – ha il coraggio di dirlo forte e chiaro: la globalizzazione è morta. Incapaci di interpretare i sintomi dell’evento (dalla Brexit alla vittoria elettorale di Trump, senza trascurare il no del popolo italiano alla “riforma” costituzionale renziana – ennesima sconfitta referendaria dopo quelle subite in Francia, Irlanda e Grecia dal fronte liberal-socialdemocratico europeista) la maggioranza degli intellettuali post e neomarxisti rifiutano di prendere atto di quello che appare un vero e proprio cambio d’epoca. Il paradosso consiste nel fatto che quanto sta avvenendo è l’esito inevitabile di processi che loro stessi hanno contribuito a mettere in luce: finanziarizzazione dell’economia, de-democratizzazione dei sistemi politici, ristrutturazione tecnologica, guerra di classe dall’alto contro sindacati, movimenti e ogni forma di resistenza organizzata delle classi subordinate, crescita oscena delle disuguaglianze, immiserimento di settori sempre più ampi della popolazione mondiale, ecc.Dimenticano, fra le altre cose, di avere scritto e detto che la crisi è un fenomeno eminentemente politico, che si spiega a partire dai rapporti di forza fra classi sociali (e fra nazioni dominanti e nazioni dominate: urge rileggersi Samir Amin), e non dalle “leggi” dell’economia. Perché stupirsi, dunque, se la rottura si manifesta come brusco ritiro del consenso popolare alle élite che sfruttano e opprimono? Il fatto è che, a causa della totale insipienza politica, culturale e organizzativa delle sinistre “radicali” (quelle socialdemocratiche sono da tempo passate al nemico), tale rivolta avviene sotto le insegne del populismo di destra. Scandalizzati dal “tradimento” delle masse, i suddetti intellettuali gridano al pericolo fascista e convergono nel “fronte unito contro il populismo” guidato da partiti, istituzioni, media che fino a ieri indicavano al pubblico disprezzo. Così assistiamo a performance imbarazzanti come quella dell’ex nemico pubblico numero uno dell’ordine capitalista, Toni Negri, che intervistato da “La7”, difende una globalizzazione che avrebbe diffuso benessere, uguaglianza e democrazia (su che pianeta vive?), con argomenti analoghi a quelli del “compagno” Xi Jinping (lo stesso che vende il proprio popolo allo sfruttamento selvaggio delle imprese multinazionali) il quale ha riscosso, con il suo discorso a Davos, il plauso delle élite liberiste dimentiche delle sue credenziali totalitarie.Questa confusione mentale nasce dal fatto che post e neomarxisti non si sono mai emancipati da una visione della storia come un processo lineare e necessario verso il progresso: unificazione dei mercati mondiali= sviluppo delle forze produttive=creazione delle condizioni per la transizione al socialismo guidata – ça va sans dire – da lor signori (o, nella versione post operaista, autogestita dalle avanguardie del “lavoro cognitivo”). Invece la storia non è un processo lineare e, mentre la mondializzazione è associata al capitalismo dalle sue lontane origini mercantiliste, la globalizzazione nelle forme che ha assunto negli ultimi decenni è (o meglio è stata) una fase contingente destinata a esaurirsi come quella culminata e terminata fra fine Ottocento e primo Novecento. «La globalizzazione», scrive Linera, «come meta-racconto, questo è, come orizzonte politico-ideologico capace di canalizzare le speranze collettive verso un unico destino che permettesse di realizzare tutte le possibili aspettative di benessere, è esplosa in mille pezzi».Laddove la subordinazione delle condizioni di esistenza dell’intero pianeta alla valorizzazione del capitale, scandita dai cicli egemonici delle nazioni che si sono succedute alla guida del processo, è sempre stata imposta con la forza delle armi, quella attuale si è fondata anche su un progetto ideologico, sulla costruzione di un senso comune legittimante (Gramsci docet) cui anche le sinistre hanno attivamente contribuito. L’egemonia, scrive ancora Linera, ha iniziato a incrinarsi dopo la nascita dei governi rivoluzionari che in America Latina hanno avviato il tentativo di una transizione, se non al socialismo, verso modelli politici, sociali e culturali post neoliberisti. Altre cause di crisi si sono aggiunte in tutto il mondo – dagli Stati Uniti, all’Europa, al vicino e lontano Oriente – fino a determinare il crollo che oggi è sotto i nostri occhi: «Donald Trump non è il boia dell’ideologia trionfalista della libera impresa, bensì il medico legale al quale tocca ufficializzare una morte clandestina». Viviamo un tempo di incertezza assoluta, conclude Linera, un tempo che può essere fertile nella misura in cui spazzerà via le certezze ereditarie, obbligandoci a costruire nuove certezze con le particelle del caos «che si lascia dietro la morte delle narrazioni passate».(Carlo Formenti, “La globalizzazione è morta”, da “Micromega” del 27 gennaio 2017).Il re è nudo. Finalmente una voce autorevole della sinistra mondiale – il vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera – ha il coraggio di dirlo forte e chiaro: la globalizzazione è morta. Incapaci di interpretare i sintomi dell’evento (dalla Brexit alla vittoria elettorale di Trump, senza trascurare il no del popolo italiano alla “riforma” costituzionale renziana – ennesima sconfitta referendaria dopo quelle subite in Francia, Irlanda e Grecia dal fronte liberal-socialdemocratico europeista) la maggioranza degli intellettuali post e neomarxisti rifiutano di prendere atto di quello che appare un vero e proprio cambio d’epoca. Il paradosso consiste nel fatto che quanto sta avvenendo è l’esito inevitabile di processi che loro stessi hanno contribuito a mettere in luce: finanziarizzazione dell’economia, de-democratizzazione dei sistemi politici, ristrutturazione tecnologica, guerra di classe dall’alto contro sindacati, movimenti e ogni forma di resistenza organizzata delle classi subordinate, crescita oscena delle disuguaglianze, immiserimento di settori sempre più ampi della popolazione mondiale, ecc.
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Rivoluzione colorata negli Usa, prove di golpe contro Trump
«Da qui alla fine di aprile, cioè alla fine dei cento giorni di Trump, sono da attendersi colpi: non solo colpi di scena», avverte Giulietto Chiesa. Se infatti sono in molti ad accusare il neopresidente di aver convogliato la rabbia “populista” verso un governo che, alla fine, si metterà d’accordo col Big Business, l’ala sconfitta dell’establishment sta facendo di tutto per confermare indirettamente il ruvido carisma di “The Donald”, accreditandolo come autentico uomo-contro. Uno che dovrà guardarsi le spalle, che rischia di essere deposto o, peggio, addirittura assassinato, come ipotizza Paul Craig Roberts. Per “Zero Hedge”, quella in corso negli Stati Uniti è una classica, sinistra “rivoluzione colorata”: un copione in tutto simile a quelli che, in Medio Oriente e in Ucraina, sono partiti da pacifiche proteste di piazza (meticolosamente orchestrate e accuratamente finanziate) per poi sfociate in scontri con morti e feriti, fino alla “resa” del presidente eletto, ucciso o costretto a scappare. Segnali inquietanti giungono proprio da Kiev, o meglio dalla frontiera ucraina orientale, dove – in barba di propositi di distensione annunciati dalla Casa Bianca, è ripresa l’offensiva contro le milizie del Donbass, sostenute da Mosca.«Escludo che i nazisti di Kiev e i loro amici prendano iniziative di loro spontanea iniziativa», scrive Giulietto Chiesa su “Megachip”. «Se attaccano è perché glielo ha ordinato la Cia. Dunque la Cia attacca non solo in Donbass ma anche a Washington. Obiettivo è il presidente Donald Trump». Secondo segnale, altrettanto inquietante: il regista Michael Moore, «esponente tra i più esagitati della canea liberal-liberista promossa dell’élite clintoniana», ora proclama in una trasmissione televisiva che «il nostro presidente è Obama», tra le ovazioni di Hollywood, Google, Facebook, Yahoo, Twitter, e di tutto il mainstream occidentale. «Tecnicamente è una dichiarazione eversiva», osserva Chiesa. «Non sarebbe inammissibile (come opinione) se contemporaneamente forze potenti, che hanno organizzato rivoluzioni colorate in tutto il mondo, non stessero facendo la stessa cosa negli Stati Uniti, con propaggini a Londra, Berlino e altrove».Ci stanno provando, eccome, a rovesciare il verdetto democratico delle urne. Ci si mette anche l’ex presidente Obama, che scende in campo in modo inedito. Obama «rompe tutte le consolidate convenzioni americane e critica duramente, apertamente, il suo successore». Di fatto, «si mette a capo degli sconfitti», i quali «tutto fanno, fuorché restare immobili». Altro segnale, gravissimo: «Le più importanti agenzie di spionaggio americane tengono sotto controllo il generale Michael Flynn (per le sue telefonate con l’ambasciatore russo). E lo rendono noto». Ma Flynn è l’uomo che Trump ha scelto per riorganizzare tutti i servizi di sicurezza degli Stati Uniti. Quindi «dovrebbe essere lui al comando». E invece: «Cruciali agenzie dello Stato americano si coalizzano contro l’amministrazione legalmente in carica: questo è un atto eversivo vero e proprio». Giulietto Chiesa aggiunge che «i servizi segreti Usa e Nato stanno riarmando i tagliagole in Siria e Iraq. I soldi sauditi e del Qatar sono in movimento vorticoso». Sicuri che fra cento giorni Donald Trump sarà ancora alla Casa Bianca?«Da qui alla fine di aprile, cioè alla fine dei cento giorni di Trump, sono da attendersi colpi: non solo colpi di scena», avverte Giulietto Chiesa. Se infatti sono in molti ad accusare il neopresidente di aver convogliato la rabbia “populista” verso un governo che, alla fine, si metterà d’accordo col Big Business, l’ala sconfitta dell’establishment sta facendo di tutto per confermare indirettamente il ruvido carisma di “The Donald”, accreditandolo come autentico uomo-contro. Uno che dovrà guardarsi le spalle, che rischia di essere deposto o, peggio, addirittura assassinato, come ipotizza Paul Craig Roberts. Per “Zero Hedge”, quella in corso negli Stati Uniti è una classica, sinistra “rivoluzione colorata”: un copione in tutto simile a quelli che, in Medio Oriente e in Ucraina, sono partiti da pacifiche proteste di piazza (meticolosamente orchestrate e accuratamente finanziate) per poi sfociare in scontri con morti e feriti, fino alla “resa” del presidente eletto, ucciso o costretto a scappare. Segnali inquietanti giungono proprio da Kiev, o meglio dalla frontiera ucraina orientale, dove – in barba di propositi di distensione annunciati dalla Casa Bianca – è ripresa l’offensiva contro le milizie del Donbass, sostenute da Mosca.
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Giulietto Chiesa: illusionismo Trump, vincerà Wall Street
Non ho mai pensato, né detto dunque, che Trump sia “contro il sistema”. Del resto non so bene cosa significhi la parola “sistema”. Se per “sistema” s’intende il capitalismo, la risposta è no. Trump mi pare semmai un capitalista tradizionale. Mentre il turbocapitalismo impersonato da Wall Street è una cosa ormai sostanzialmente diversa. Trump è comunque un miliardario plurimo. Come potrebbe essere contro il capitalismo? Vedo che in molti c’è una grande confusione sui termini. Con quelli tradizionali non si va da nessuna parte. Trump è un fenomeno. Tutto interno alla crisi del capitalismo finanziario. La sua linea non è ancora definita. Come non lo è la sua cultura (non solo la sua cultura politica). Dà l’impressione di avere capito qualche cosa del mondo in cui vive. Ma nemmeno lui è consapevole di cosa sa e di cosa non sa. È inoltre evidente (a me, per lo meno) che non riesce a connettere piani diversi e a cogliere le connessioni tra di essi. Per esempio dice di non volersi ingerire troppo negli affari degli altri. Ma poi si ingerisce subito nel conflitto palestinese schierandosi con le richieste di Netanyahu e degli oltranzisti sionisti per trasferire la capitale di Israele (e quindi l’ambasciata americana) da Tel Aviv a Gerusalemme. Non so se qualcuno gli ha spiegato le conseguenze di questo gesto.Non parliamo del suo atteggiamento verso la Cina. Che sembra essere tornata il nemico principale, come lo era nel famoso documento del Pnac (Project for the New American Century) dei neocon. Se Trump confermerà questa linea, lo scontro con la Cina sarà inevitabile. Cioè sposta in là di qualche anno il pericolo della catastrofe nucleare, o peggio. Altro esempio: cancella il Trattato interpacifico di Obama (e quindi viene visto come un progressista da tutti coloro che erano e sono contro il Ttp e anche contro il Ttip) ma non lo fa per gli stessi motivi con cui, per esempio, io sono contro, insieme a tutti coloro che si sono battuti per fermarlo. Lo fa perché pensa che quei trattati avrebbero favorito la finanza e non fatto aumentare i posti di lavoro americani. Forse ha ragione, ma non è la nostra ragione. Dice di volere riaprire il dialogo con la Russia, ma solo perché pensa che oggi sia conveniente alla politica americana, non perché vuole realisticamente ridimensionare l’America e accettare che sia posta sullo stesso piano dei suoi interlocutori. Mostra aperto disprezzo per l’Europa, ma sembra inconsapevole che, così facendo (e riaprendo il dialogo con Putin), crea un terremoto in Europa di cui sicuramente non sa prevedere le ripercussioni.Insomma voglio dire che i suoi gesti possono apparire a molti di noi come positivi (e alcuni lo sono), ma lo fa sulla base di idee che sono lontanissime da quelle che tutti noi condividiamo, cioè quelle di un mondo giusto e pacifico. Io diffido moltissimo di lui e di coloro che lo circondano. Anche loro sono l’America. Anche loro sono portatori del virus che ci sta portando in guerra con la Natura. Se lui riaprirà il dialogo con la Russia sarà comunque un fatto positivo: perché ci consentirà di respirare qualche anno di più. Ma che questo sia l’inizio della trasformazione degli Stati Uniti in un fattore di pace per il mondo, questo non lo credo. Credo che sia la prosecuzione, in altre forme, del dominio americano sul mondo. Era impossibile quello di Clinton-Bush-Obama. Sarà impossibile anche quello di Trump. Il popolo americano non è in grado di operare questa svolta. Che implicherebbe una vera e propria rivoluzione. Il mostro del denaro ha già ingoiato i cervelli di troppa gente, in America. E gli altri sono in larga maggioranza privati di ogni capacità di organizzazione di un’alternativa.Alla fin fine io credo che non ci sia nessun presidente che possa torcere il braccio a Wall Street e che voglia fare la fine di Kennedy. Neanche Trump potrà farlo. Sarà la crisi di quello che molti chiamano il “sistema” che fermerà Wall Street. Il massimo sarebbe stato, forse, Sanders. Ma non c’è nessun presidente che possa torcere il braccio a Wall Street. Neanche Trump. E Wall Street è il male assoluto per il pianeta Terra. Ma non è nemmeno escluso che Wall Street faccia saltare in aria il mondo quando si accorgerà del disastro che ha creato. Potrà sembrare strano, ma nelle leggi fondamentali della stupidità umana del professor Carlo Maria Cipolla c’è quella che definisce lo stupido come il più pericoloso dei soggetti. Perché è colui che può fare del male agli altri e a se stesso, in quanto stupido. Lo stupido è imparabile. A Wall Street e nella sua filiale, la City di Londra, c’è una altissima concentrazione di stupidi strategici che hanno un potere sterminato. Il “sistema” sono loro. In queste condizioni chi è ottimista è stupido, anche se non abita a Wall Street.(Giulietto Chiesa, “Chi è Trump e dove ci porterà, se resterà”, da “Megachip” del 27 gennaio 2017Non ho mai pensato, né detto dunque, che Trump sia “contro il sistema”. Del resto non so bene cosa significhi la parola “sistema”. Se per “sistema” s’intende il capitalismo, la risposta è no. Trump mi pare semmai un capitalista tradizionale. Mentre il turbocapitalismo impersonato da Wall Street è una cosa ormai sostanzialmente diversa. Trump è comunque un miliardario plurimo. Come potrebbe essere contro il capitalismo? Vedo che in molti c’è una grande confusione sui termini. Con quelli tradizionali non si va da nessuna parte. Trump è un fenomeno. Tutto interno alla crisi del capitalismo finanziario. La sua linea non è ancora definita. Come non lo è la sua cultura (non solo la sua cultura politica). Dà l’impressione di avere capito qualche cosa del mondo in cui vive. Ma nemmeno lui è consapevole di cosa sa e di cosa non sa. È inoltre evidente (a me, per lo meno) che non riesce a connettere piani diversi e a cogliere le connessioni tra di essi. Per esempio dice di non volersi ingerire troppo negli affari degli altri. Ma poi si ingerisce subito nel conflitto palestinese schierandosi con le richieste di Netanyahu e degli oltranzisti sionisti per trasferire la capitale di Israele (e quindi l’ambasciata americana) da Tel Aviv a Gerusalemme. Non so se qualcuno gli ha spiegato le conseguenze di questo gesto.
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Barnard: leggete a chi vanno i miliardi della Bce. E vomitate
Mi prenderei a sberle. Avevo un documento agghiacciante in scrivania e non l’ho aperto per mesi. Dentro c’è la verità su chi Mario Draghi sta veramente finanziando coi miliardi del Quantitative Easing (Qe) mentre storce il naso se Roma chiede 20 euro per gli abruzzesi in ipotermia, sfollati da mesi, con morti in casa e la vita devastata, o per mettere 11 euro in più nel Job Act infame di Renzi e Poletti. Quando io gridavo a La7 “Criminali!” contro gli eurocrati, l’autore del programma, Alessandro Montanari, mi si avvinghiava alla giacca dietro le quinte e mi rampognava fino alla diarrea. Quel genio di Oliviero Beha mi rampognò in diretta, è in video. Ma voi leggete sotto, mentre pensate ai sofferenti d’Italia. Bacinella del vomito a portata di mano, raccomando. Il pdf in questione mi arrivò a fine ottobre via mail da Amsterdam, fonte autorevole oltre ogni dubbio. M’ingannò, porcaputtana, il subject mail che era “Draghi finanzia il Climate Change”. Pensai, ok, ci arrivo, un attimo, c’è la Siria, Trump, il referendum… Ma dentro quel pdf c’era ben di peggio. Ora alcuni fatti spiegati alla nonna per capire il resto dell’incubo Ue.La Banca Centrale Europea crea tutti gli euro che esistono. E’ una specie di governo di questa Ue. Dopo appena 13 anni la moneta unica aveva letteralmente fatto a pezzi ogni singolo paese dell’Eurozona, Germania inclusa (diedi i dati in Tv 3.000 volte). Tutto il mondo finanziario extra europeo sapeva (e sa) che l’euro è fallito. A quel punto l’unico modo perché l’unione monetaria non crollasse in una catastrofe economica da libri di storia era se il creatore dell’euro, la Bce, si metteva a comprare una gran massa dei beni finanziari emessi dagli Stati-euro che ormai erano visti come semi-spazzatura dal mondo. Questo per artificialmente tenerne i prezzi e gli interessi a un livello di decenza. Draghi con la Bce lo fece: l’operazione si chiama Quantitative Easing (Qe). Ma non bastò, anzi, le cose andarono anche peggio per motivi che già scrissi 3 milioni di volte. Il problema era che anche le aziende private nell’Eurozona andavano da vomitare.Dovete sapere che anche le aziende emettono beni finanziari, cioè titoli. E allora Draghi alla disperazione si presentò l’anno scorso a giugno e annunciò un altro Qe, però questa volta per le aziende, col nome di Cspp. E si mise a comprare miliardi in titoli di aziende per puntellarle anche se semidecomposte. Dovete capire che un’azienda ha in pratica due modi di finanziarsi con prestiti: chiedere in banca o emettere titoli. E Draghi annuncia che ora la Bce gli compra i titoli. Ok. Uno dice: be’, se serve a salvare il mobilificio di Ancona con 80 operai, perché no? La risposta è tragica e ci apre sulle porte dell’infamia della Bce. Le piccole aziende non possono emettere titoli, sono condannate alla gogna del prestito da banche, fine. Infatti la Bce di Draghi precisò che avrebbe acquistato titoli di aziende “corporate”. Che significa? Che avrebbe comprato i titoli dei cani grossi, come Telecom, o Vw. Ops! Ma per noi italiani già questa è una sciagura, perché da noi le piccole medie aziende sono il 98% delle imprese e creano il 78% della ricchezza dell’Italia. Sfiga. Crepate. Titoli Benetton? Certo che li compriamo, dice Draghi.E allora uno apre il pdf che mi arrivò a fine ottobre per mail, e scopre, transazioni bancarie alla mano, a chi stanno andando i 125 miliardi che Draghi ha programmato di sborsare per ‘puntellare’ le aziende. E uno vomita. Petrolieri, mega imprese di servizi, industrie di armi, auto di stralusso, nucleare, colossi delle privatizzazioni, giganti dal fashion o del farmaco, persino casinò e produttori di champagne. Centoventicinque miliardi di regali a ’sti tizi. Operaio, commessa, crepate in Liguria, Marche, Puglia… L’ipotermico di Teramo? Ma scherziamo? Mille eurooooo? Ma cosa pretende? Palate di miliardi di euro invece a Shell, Eni, Repsol, Total, una trentina di aziende spagnole di servizi del gas, produttori di centrali nucleari come Teollisuuden, come Siemens, e Urenco. Poi gli Agnelli con la finanziaria Fiat Exor (Ferrari), Renault, Mercedes, Vw. Poi criminali di guerra come Thales, che hanno venduto armi in Africa sulla puzza di milioni di cadaveri. Poi i nemici giurati dell’acqua pubblica, cioè i colossi francesi Vivendi e Suèz. E ancora i super-colossi: Solvay, Nestlé, Coca Cola, Unilever, Novartis, Michelin, Ryanair, Luis Vuitton, Danone, assicurazioni Allianz, Deutsche Telekom, Bayer, Telefonica, Moët & Chandon, e il mostro delle scommesse Novomatic…Soldiiiiiiiiiiiiii yes! La Bce fa proprio l’interesse del pubblico, con qualcosa come 17.900 piccole medie aziende europee che sono il cuore dell’impiego in Ue totalmente fuori dal festino. Ecco cosa dovete rispondere a chi vi rampogna “Ci vuole più Europa”. Basterebbe questo articolo per tagliargli la gola, a ’sti assassini. In Italia ’sta porcata vede fiumi di soldi versati in prima fila ai super big dell’energia, ma nessuno becca palate di liquidi come l’Eni; seguono Snam, Enel, Terna, Hera, e altri minori. Poi: Atlantia (Mediobanca, Goldman Sachs, BlackRock e Cassa Risp. Torino), le Generali, Telecom Italia, Luxottica, e i soliti Agnelli con Exor. E tu che cazzo vuoi? Tu chi sei, cittadino? Chi sei, sfigato piccolo imprenditore? Chi siamo noi, eh?, da quando Jaques Attali, uno dei padri della Bce, ci definì «la plebaglia europea»? Eccovi una notizia. Anche se, mi si perdoni, non sono immani tragedie come i 104 indagati del Pd di Travaglio-Gomez, la Raggi e la Cgil che fa i ruttini sul Job Act. Good luck Italians, good luck piccoli imprenditori e dipendenti che mai avete capito un cazzo.(Paolo Barnard, “A chi vanno i miliardi della Bce – zitta centrItalia, crepa”, dal blog di Barnard del 30 gennaio 2017).Mi prenderei a sberle. Avevo un documento agghiacciante in scrivania e non l’ho aperto per mesi. Dentro c’è la verità su chi Mario Draghi sta veramente finanziando coi miliardi del Quantitative Easing (Qe) mentre storce il naso se Roma chiede 20 euro per gli abruzzesi in ipotermia, sfollati da mesi, con morti in casa e la vita devastata, o per mettere 11 euro in più nel Job Act infame di Renzi e Poletti. Quando io gridavo a La7 “Criminali!” contro gli eurocrati, l’autore del programma, Alessandro Montanari, mi si avvinghiava alla giacca dietro le quinte e mi rampognava fino alla diarrea. Quel genio di Oliviero Beha mi rampognò in diretta, è in video. Ma voi leggete sotto, mentre pensate ai sofferenti d’Italia. Bacinella del vomito a portata di mano, raccomando. Il pdf in questione mi arrivò a fine ottobre via mail da Amsterdam, fonte autorevole oltre ogni dubbio. M’ingannò, porcaputtana, il subject mail che era “Draghi finanzia il Climate Change”. Pensai, ok, ci arrivo, un attimo, c’è la Siria, Trump, il referendum… Ma dentro quel pdf c’era ben di peggio. Ora alcuni fatti spiegati alla nonna per capire il resto dell’incubo Ue.
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Draghi: uscire dall’euro si può, ma prima dovrete pagare
Uscire dall’Eurozona è possibile, ma prima bisogna saldare i conti. Lo ha detto lo stesso Mario Draghi, rispondendo a una domanda di due europarlamentari italiani, Marco Zanni e Marco Valli. Nella risposta, diffusa dall’agenzia “Reuters”, Draghi smentisce stesso: appena quattro anni fa, ricorda Tyler Durden, rispondendo a “Zero Hedge” il governatore della Bce aveva affermato che «non esiste un piano-B», rispetto alla permanenza nell’area euro. «Per la prima volta – scrive Durden – il governatore della Bce ha fornito un quadro, per quanto vago, che mostra cosa potrebbe accadere in caso di “exit”». Abbandonare l’euro non è più un tabù, dunque? Non prima, però, di aver ripianato i debiti con il sistema di pagamenti Target2. Dettaglio: «Le economie più deboli, tra cui l’Italia, la Spagna e la Grecia, hanno accumulato enormi debiti verso Target2, mentre la Germania si distingue come il più grande creditore, con crediti netti per 754,1 miliardi di euro». In altre parole: è la Germania che ci tiene legati all’euro, perché le conviene. E l’uscita di Draghi va letta come una minaccia esplicita, in particolare all’Italia, nel clima di inquietudine diffusosi tra Bruxelles, Berlino e Francoforte a partire dalla Brexit.«Se un paese dovesse lasciare l’Eurosistema, i crediti o le passività della sua banca centrale nazionale verso la Bce dovrebbero essere risolti in toto», ha detto Draghi nella lettera, senza specificare in quale valuta dovrebbe aver luogo la “liquidazione”. Non è chiaro nemmeno quale sarebbe la reazione della Bce se un paese non “regolasse integralmente i suoi conti”, scrive Durden su “Zero Hedge”, in una nota tradotta da “Voci dall’Estero”. «In definitiva, la Bce non dispone di un esercito che garantisca il rispetto delle sue politiche». Come conferma la “Reuters”, il commento di Draghi costituisce «un vago riferimento da parte del governatore della Bce alla possibilità che l’Eurozona perda dei membri». Per Durden è «l’ammissione che un’Italexit è fin troppo possibile, e che tuttavia l’unico modo in cui la Bce lo permetterebbe sarebbe quello di far prima pagare all’Italia il suo conto Target2 di 357 miliardi di euro». Il beneficiario di questo mostruoso pagamento «sarebbe il paese che fa più affidamento sul persistere dello status quo: la Germania, che ha qualcosa come 754 miliardi di euro di “attività” nel sistema Target2, che potrebbero essere azzerate se uno o più paesi della zona euro dovessero uscire senza soddisfare i propri obblighi di pagamento».Nella lettera, Draghi ha ribadito che gli squilibri sono dovuti al programma di acquisto titoli della Bce, nel quale molti dei venditori sono investitori stranieri con conti in Germania, e al conseguente riequilibrio dei portafogli. L’ammissione di Draghi che il “QuItaly” – o UscIta come è chiamata all’interno del paese – è una possibilità fin troppo reale, coincide con un’ondata di sentimenti anti-euro in Italia e in altri Stati dell’Eurozona, alimentati in parte dalla decisione senza precedenti della Gran Bretagna nel giugno scorso di lasciare l’Unione Europea. «La minaccia di default sui debiti transfrontalieri è stata spesso ritenuta un elemento di coesione della zona euro durante la crisi finanziaria», aggiunge Durden. «Gli squilibri Target2 sono peggiorati negli ultimi mesi, quando l’economista di Harvard Carmen Reinhart ha lanciato l’allarme su una fuga di capitali dall’Italia». Sotto la calma apparente dei bassi rendimenti dei titoli italiani, anche se recentemente risultano in crescita, si stanno accumulando enormi squilibri di capitali.«L’ammissione di Draghi, da intendere quasi come una minaccia all’Italia, potrebbe aver aperto un nuovo vaso di Pandora per la stabilità europea, in aggiunta alle preoccupazioni per Trump, perché non solo Draghi ha confermato che l’uscita dalla zona euro è stata esplicitamente prevista dalla banca centrale, ma definisce anche le condizioni alle quali sarebbe presa in considerazione e consentita», sottolinea Durden. E, ancora più importante: una volta di più, tutto questo «fornisce la base per una “negoziazione” aggressiva, che potenzialmente può degenerare in una escalation di rancorose trattative tra l’Italia e la Germania, poiché la Bce ha messo di colpo in chiaro che il guadagno dell’Italia in una “ipotetica” uscita dalla zona euro costituirebbe una tremenda perdita per Berlino e per la Merkel». Lo stesso Durden si dice sicuro che, «in tempo brevissimo, emergerà anche la questione di “quanto” valga la pena per la Merkel prevenire tale perdita», la eventuale “fuga” dell’Italia. «Quanto al significato della dichiarazione di Draghi per i paesi con un debito Target2 molto inferiore, che potrebbero anche prendere in considerazione l’uscita dall’unione monetaria, la risposta è racchiusa in due parole: “via libera”».Uscire dall’Eurozona è possibile, ma prima bisogna saldare i conti. Lo ha detto lo stesso Mario Draghi, rispondendo a una domanda di due europarlamentari italiani, Marco Zanni e Marco Valli. Nella risposta, diffusa dall’agenzia “Reuters”, Draghi smentisce se stesso: appena quattro anni fa, ricorda Tyler Durden, rispondendo a “Zero Hedge” il governatore della Bce aveva affermato che «non esiste un piano-B», rispetto alla permanenza nell’area euro. «Per la prima volta – scrive Durden – il governatore della Bce ha fornito un quadro, per quanto vago, che mostra cosa potrebbe accadere in caso di “exit”». Abbandonare l’euro non è più un tabù, dunque? Non prima, però, di aver ripianato i debiti con il sistema di pagamenti Target2. Dettaglio: «Le economie più deboli, tra cui l’Italia, la Spagna e la Grecia, hanno accumulato enormi debiti verso Target2, mentre la Germania si distingue come il più grande creditore, con crediti netti per 754,1 miliardi di euro». In altre parole: è la Germania che ci tiene legati all’euro, perché le conviene. E l’uscita di Draghi va letta come una minaccia esplicita, in particolare all’Italia, nel clima di inquietudine diffusosi tra Bruxelles, Berlino e Francoforte a partire dalla Brexit.
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Magaldi: “grazie” a Trump risorgerà una sinistra autentica
«Io sono contro tutti i muri, ma non mettiamo in croce Donald Trump: ricordiamoci che quel muro alla frontiera col Messico esisteva già». Gioele Magaldi, esponente italiano della massoneria progressista internazionale, indossa altre “lenti” per valutare i primissimi passi del nuovo inquilino della Casa Bianca. Premessa: «Chi lo attacca è in malafede, oppure ha scambiato per “sinistra” la politica dei Clinton e di Obama». Di fatto, dice Magaldi a “Colors Radio”, un paio di ottime cose “The Donald” le ha già fatte: «Intanto ha tolto di mezzo Jeb Bush, cioè la prosecuzione della narrazione del mondo in salsa terroristica. E poi ha intimato l’alt all’espansione di potere della Cina, che è un colosso retto dalla nomenklatura “fasciocomunista” messa in piedi da Henry Kissinger». Per Magaldi, il maggior risultato strategico del controverso Capitan Fracassa insediato a Washington sarà un “regalo” indiretto alla sinistra, quella vera, oggi ancora dormiente: solo grazie al duro confronto con Trump, sostiene l’autore del bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata”, potrà finalmente emergere una nuova dirigenza politica progressista, consapevole del fatto che «l’unica ideologia non ancora pienamente realizzata è proprio la democrazia».Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt ispirato alla politica keynesiana (lo Stato che investe, promuendo benessere diffuso), ha abituato il suo pubblico a declinare gli scenari geopolitici tenendo conto del «back office del potere» che, sostiene, è interamente massonico, gestito da 36 superlogge internazionali (Ur-Lodges), che a loro volta utilizzano entità “paramassoniche” (Trilaterale, Bilderberg, Fmi e Banca Mondiale, think-tanks) per imporre i loro diktat ai governi eletti, svuotandoli in tal modo di legittimità e riducendo la democrazia a mero esercizio elettorale, sempre più inutile, di fronte alla mancanza di vere alternative al pensiero unico neoliberista, che è fondato sull’austerity per tutti, tranne che per l’élite finanziaria. Dalla politica economica alla geopolitica, per Magaldi tutto si tiene: Jeb Bush è esponente della pericolosa Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, ritenuta “incubatrice” della strategia della tensione internazionale, dall’11 Settembre alla creazione dell’Isis. «Bene ha fatto, la massoneria americana progressista, ad appoggiare Trump alle primarie repubblicane: un gioco certamente spregiudicato, che ha però contribuito a togliere di mezzo quello che sarebbe stato un continuatore degli orrori che hanno destabilizzato il pianeta negli ultimi anni».Magaldi vede poi la longa manus di un’altra “Ur-Lodge” di destra, la “Three Eyes”, nella “fabbricazione in vitro” della nuova Cina, ad economia capitalista ma retta in modo autoritario dal partito unico: «Operazione progettata da Kissinger, autorevole esponente della “Three Eyes”», che pilotò la svolta del “fratello” Deng Xiaoping verso l’economia di mercato, sottoposta però al rigidissimo controllo del regime. Donald Trump? «Vedremo che altro farà, ora, ma non processiamolo prima del tempo». Finirà per usare il suo nuovo potere per diventare ancora più ricco? Magaldi non lo crede: «Ormai è calato nella parte dello statista, la “roba” se l’è lasciata alle spalle». Non come Berlusconi, da più parti definito un “Trump italiano” ante litteram: «Silvio non è mai riuscito a staccarsi dalle sue aziende, Trump sarà più libero di agire». Più che di un “Trump italiano”, secondo Magaldi, il nostro paese ha bisogno di un vero leader di sinistra, autenticamente liberalsocialista e di spessore, non certo alla Renzi. Magaldi giudica «prolifico» il dibattito in corso nel Pd, fatta eccezione per «quel bel tomo di D’Alema, che governò con una spruzzatina di sinistra per abbellire il suo sostanziale neoliberismo di destra fondato sulle privatizzazioni, sulla scorta delle “terze vie” dei vari Clinton e Blair». Merita attenzione chi oggi critica Renzi “da sinistra”, «purché si evitino certe ipocrisie: i vari Bersani votarono tutte le porcherie del governo Monti».«Io sono contro tutti i muri, ma non mettiamo in croce Donald Trump: ricordiamoci che quel muro alla frontiera col Messico esisteva già». Gioele Magaldi, esponente italiano della massoneria progressista internazionale, indossa altre “lenti” per valutare i primissimi passi del nuovo inquilino della Casa Bianca. Premessa: «Chi lo attacca è in malafede, oppure ha scambiato per “sinistra” la politica dei Clinton e di Obama». Di fatto, dice Magaldi a “Colors Radio”, un paio di ottime cose “The Donald” le ha già fatte: «Intanto ha tolto di mezzo Jeb Bush, cioè la prosecuzione della narrazione del mondo in salsa terroristica. E poi ha intimato l’alt all’espansione di potere della Cina, che è un colosso retto dalla nomenklatura “fasciocomunista” messa in piedi da Henry Kissinger». Per Magaldi, il maggior risultato strategico del controverso Capitan Fracassa insediato a Washington sarà un “regalo” indiretto alla sinistra, quella vera, oggi ancora dormiente: solo grazie al duro confronto con Trump, sostiene l’autore del bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata”, potrà finalmente emergere una nuova dirigenza politica progressista, consapevole del fatto che «l’unica ideologia non ancora pienamente realizzata è proprio la democrazia».
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Soviet 5 Stelle, è il trucco perfetto per non governare mai
Avete presente quei vecchi film sulla guerra fredda, in cui i militari dell’esercito dell’Urss, anche i più alti in grado, agivano timidamente sotto l’occhio vigile dell’ufficiale politico, a cui bastava una parola per mandare chiunque nei campi di concentramento siberiani? Il nuovo diktat lanciato dal blog dell’ex comico diventato leader maximo è in pratica la stessa cosa: tutte le comunicazioni pubbliche degli eletti 5 Stelle, siano a mezzo stampa, tv o web, dovranno essere vagliate ed autorizzate dal sov, ehm, dagli addetti appuntati da Grillo in persona. Pena il “licenziamento”. Con buona pace della lotta di anni contro chi voleva mettere il bavaglio al web. Grillo, ai suoi, il bavaglio glielo mette prima che arrivino al web. «Com’è democratico, Lei…», direbbe Fracchia. L’imposizione arriva con la scusa delle trappole che i giornalisti cattivoni tendono ai giovani virgulti pentastellati. Ma forse a Grillo non sono andate giù le esternazioni degli europarlamentari del suo partito, che un paio di settimane fa erano rimasti sconcertati dalle manovre fatte alle loro spalle per portare via il partito dal gruppo degli euroscettici e farlo unire ai montiani di ferro.Alcuni europarlamentari avevano dichiarato il loro dissenso sui loro account social, e sono usciti dal partito dopo la votazione bulgara sulla piattaforma di Casaleggio, nonostante che poi i montiani dell’Alde hanno almeno avuto la coerenza di mandare Grillo a stendere. E così, tutti sottoposti a censura preventiva. Tutti tranne il capo, ovviamente, che poi spesso è quello che ne avrebbe più bisogno, viste certe sue uscite infelici. L’ultima delle quali è «la politica internazionale ha bisogno di uomini di Stato forti come Donald Trump e Vladimir Putin», frase che Grillo ha immediatamente smentito accusando i giornalisti di avere tradotto male le sue parole. Peccato solo che l’autore dell’articolo apparso su un giornale francese abbia, a quanto pare, una copia dell’articolo firmata da Grillo stesso dopo averlo riletto e approvato. Forse ha bisogno lui di un addetto personale che gli ficchi un tappo in bocca quando serve, più che ai suoi parlamentari. In realtà però anche queste spiegazioni sono insoddisfacenti. Chiunque abbia occhi non può non aver notato che i più grandi autogol del Movimento 5 Stelle non sono venuti dai parlamentari, anzi!Ciò che allontana sempre più persone dal sogno a 5 stelle è principalmente colpa dello stesso Grillo e dei suoi più intimi: le espulsioni dei dissidenti, poi il voltafaccia fallito in Europa, e ora la censura preventiva modello Stalin, sembrano proprio misure fatte apposta per perdere consensi. E in effetti dopo il fallimento di Renzi al referendum, i 5 Stelle corrono il rischio di essere il primo partito in ipotetiche elezioni. “Fortuitamente”, Gentiloni & Co. faranno in modo che si vada a votare il più tardi possibile, di modo che Grillo abbia tutto il tempo di ridurre i consensi dei 5 Stelle. D’altronde la strategia è chiara da anni: evitare il rischio di potere/dovere andare davvero al governo, e mantenere un contenitore del dissenso di dimesioni adeguate che sia formato il più possibile da individui fideizzati e poco critici. D’altronde Grillo stesso ha confermato che non farà mai alleanze con «i partiti che hanno devastato l’Italia», il che, a meno che i 5 stelle non prendano la maggioranza assoluta, significa che vuole stare all’opposizione pure dopo le prossime elezioni.I pentastellati di spicco blaterano di voler portare avanti il programma votato dai loro elettori nel 2013, ma come si fa a portare avanti un qualsiasi programma quando si è sempre in minoranza e non si fanno accordi? Se avessero voluto realmente portare avanti il programma, si sarebbero accordati con il debole Bersani all’epoca, potendo imporre molte condizioni; in quel modo di certo avrebbero avuto l’opportunità ed il peso per farne attuare almeno una parte. Si chiama democrazia, e la Costituzione che abbiamo appena difeso si basa proprio sul principio dell’ingovernabilità, ovvero è stata progettata per garantire che le varie fazioni si mettano d’accordo a tutti i livelli, i belli con i brutti, i santi coi peccatori, e nel periodo in cui è stata applicata ha funzionato benissimo. Invece la scelta infausta di 4 anni fa sembra che sarà ripetuta anche la prossima volta. E non ci sembra che in questi 4 anni siano state portate avanti parti rilevanti del programma grillino. La pena maggiore è per quei tanti bravi parlamentari che credevano veramente di stare partecipando ad una forza di cambiamento. Che hanno lavorato e lavorano sodo, ma che poi non vedono mai frutti realmente importanti.(Enrico Carotenuto, “Soviet a 5 stelle: tutte le comunicazioni dei parlamentari dovranno essere vagliate dagli ‘ufficiali politici””, da “Coscienze in Rete” del 25 gennaio 2017).Avete presente quei vecchi film sulla guerra fredda, in cui i militari dell’esercito dell’Urss, anche i più alti in grado, agivano timidamente sotto l’occhio vigile dell’ufficiale politico, a cui bastava una parola per mandare chiunque nei campi di concentramento siberiani? Il nuovo diktat lanciato dal blog dell’ex comico diventato leader maximo è in pratica la stessa cosa: tutte le comunicazioni pubbliche degli eletti 5 Stelle, siano a mezzo stampa, tv o web, dovranno essere vagliate ed autorizzate dal sov, ehm, dagli addetti appuntati da Grillo in persona. Pena il “licenziamento”. Con buona pace della lotta di anni contro chi voleva mettere il bavaglio al web. Grillo, ai suoi, il bavaglio glielo mette prima che arrivino al web. «Com’è democratico, Lei…», direbbe Fracchia. L’imposizione arriva con la scusa delle trappole che i giornalisti cattivoni tendono ai giovani virgulti pentastellati. Ma forse a Grillo non sono andate giù le esternazioni degli europarlamentari del suo partito, che un paio di settimane fa erano rimasti sconcertati dalle manovre fatte alle loro spalle per portare via il partito dal gruppo degli euroscettici e farlo unire ai montiani di ferro.
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“Ma Trump voleva solo appalti, non diventare presidente”
Il più grosso problema di Donald Trump? Essere diventato presidente degli Stati Uniti: mai più pensava di essere eletto, né tantomeno ci teneva. «Il suo obiettivo era un altro: ottenere appalti per le sue aziende, nella posizione privilegiata di grande sconfitto». Lo sostiene l’avvocato Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, autore del recente saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. «E’ la verità: Trump sperava solo di ottenere appalti una volta che fosse stata eletta Hillary Clinton. Che poi non è stata eletta soprattutto per un incidente di percorso a due settimane dal traguardo: la fuga di notizie sulle sue condizioni di salute. E gli americani, con il loro culto dell’efficienza, mai avrebbero eletto una presidente malata». Ed è così che “The Donald” si è ritrovato alla Casa Bianca, forse anche anche suo malgrado. Ma perché si era candidato? «Perché persino l’élite non avrebbe più tollerato alla Casa Bianca un altro esponente della famiglia Bush, specie dopo le notizie sul ruolo di quella famiglia nell’11 Settembre e nella nascita dell’Isis. Trump è stato candidato tra i repubblicani proprio per quello, per tagliare la strada a Jeb Bush».Affermazioni clamorose, che Carpeoro affida alla diretta web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nighs” il 29 gennaio. Sul tappeto, le roboanti iniziative del neo-presidente in materia di immigrazione. «Il Muro alla frontiera col Messico? Pochi lo dicono, ma quel muro esiste già: lo eresse Bill Clinton. Trump si è solo ripromesso di completarlo». In altre parole: cambiano gli orchestrali, non lo spartito. «Per il potere è indifferente il pullman su cui salire». L’annuncio del trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme? «Non è un fatto epocale, come si pretende: Gerusalemme è già sotto il pieno controllo ebraico». Nel suo saggio sul rapporto fra massoneria e terrorismo, lo stesso Carpeoro racconta che, a Yalta, «due massoni e mezzo», cioè Roosevelt e Churchill, più Stalin, «negando la nascita di uno Stato palestinese accanto a quello ebraico stabilirono, già nel 1945, che in Medio Oriente la guerra sarebbe durata per sempre: questo era l’interesse del grande potere, che non ammette deroghe». La riprova? «Chiunque si sia opposto, scommettendo sulla pace, ha fatto una brutta fine: Arafat, Hussein di Giordania e lo stesso Rabin, ucciso da estremisti ebraici».Morale: «Non aspettiamo chissà cosa, da Trump. Il neoeletto vedrà il da farsi, volta per volta». Secondo Carpeoro, “The Donald” è alla Casa Bianca essenzialmente per via della defaillance di Hillary. Ed era stato candidato per opporsi, anche con l’aiuto inatteso della super-massoneria “progressista”, al pericoloso Jeb Bush, che Gioele Magaldi (nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”) riconduce alla filiera della Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, creata da George Bush (padre) nel 1980, dopo la sconfitta subita per mano di Reagan alle primarie repubblicane. Magaldi la definisce «loggia del sangue e della vendetta», descrivendola come un circolo esclusivo e sanguinario, responsabile della strategia della tensione a livello internazionale, con il contributo di personaggi come George W. Bush, Nicolas Sarkozy, Tony Blair, Recep Tayyip Erdogan. «Quanto sta emergendo sul ruolo della “Hathor Pentalpha” in relazione al caso Bin Laden e all’Isis – afferma Carpeoro – ha motivato il sostegno a Trump per fermare Jeb Bush». E ora che Trump è alla Casa Bianca? Niente paura, conclude Carpeoro: «Come presidente non potrà più auto-assegnarsi appalti, ma li riceverà da Putin in Russia. E Trump contraccambierà, concedendo appalti a Putin in America».Il più grosso problema di Donald Trump? Essere diventato presidente degli Stati Uniti: mai più pensava di essere eletto, né tantomeno ci teneva. «Il suo obiettivo era un altro: ottenere appalti per le sue aziende, nella posizione privilegiata di grande sconfitto». Lo sostiene l’avvocato Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, autore del recente saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. «E’ la verità: Trump sperava solo di ottenere appalti una volta che fosse stata eletta Hillary Clinton. Che poi non è stata eletta soprattutto per un incidente di percorso a due settimane dal traguardo: la fuga di notizie sulle sue condizioni di salute. E gli americani, con il loro culto dell’efficienza, mai avrebbero eletto una presidente malata». Ed è così che “The Donald” si è ritrovato alla Casa Bianca, forse anche anche suo malgrado. Ma perché si era candidato? «Perché persino l’élite non avrebbe più tollerato alla Casa Bianca un altro esponente della famiglia Bush, specie dopo le notizie sul ruolo di quella famiglia nell’11 Settembre e nella nascita dell’Isis. Trump è stato candidato tra i repubblicani proprio per quello, per tagliare la strada a Jeb Bush».
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Tagliare i viveri ai blog scomodi, la prima vittima è ByoBlu
«Stampatevi bene questa data nella testa: 27 gennaio 2017. Il giorno in cui gli effetti della campagna contro le cosiddette “fake news” (ma in realtà con l’obiettivo di colpire l’informazione libera e indipendente), orchestrata da Hillary Clinton, dal Parlamento Europeo, da Laura Boldrini, da Angela Merkel e da tutti quelli che hanno paura che l’informazione libera possa scalzare i loro privilegi e la loro posizione di forza, hanno iniziato a colpire anche in Italia, togliendo la linfa vitale della monetizzazione Adsense, con motivazioni che avrebbero del ridicolo o del tragicomico, se non rappresentassero qualcosa di ben più grave». Così Claudio Messora, dopo che il servizio pubblicitario di Google ha improvvisamente “tagliato i viveri” a “ByoBlu”, il più seguito video-blog indipendente italiano, che vive di donazioni e, appunto, delle inserzioni pubblicitarie “random” veicolate da Adsense. «Oggi è un giorno pesante, il più pesante per l’informazione libera e indipendente in Italia e nel mondo – dichiara Messora – da quando ho iniziato a fare questo “mestiere” del blogger, dieci anni fa».Gli fa eco Pino Cabras su “Megachip”: «Fa molto bene Claudio Messora a sottolineare che il vero obiettivo della campagna contro le ‘fake news’ non erano certo quei cialtroni che infestano il web di notizie false, razziste e irresponsabili per acchiappare clic, che pure ci sono e da chissà chi sono mossi». No, il vero obiettivo politico era «ogni forma di dissidenza informativa, ogni voce non inserita in quell’oligopolio che controlla – con apparente pluralismo ma sostanziale totalitarismo – la galassia dei media tradizionali, un mainstream in radicale crisi di credibilità e ormai in modalità panico». Aggiunge Cabras: «Fa anche bene Messora a non fare tanti giri di parole quando fa i nomi dei maggiori artefici di questa sistematica volontà di censura, che stanno dentro le istituzioni e nelle aziende dominanti delle telecomunicazioni. Sono nomi che si muovono in un sistema legato mani e piedi al blocco d’interessi di cui Hillary Clinton sarebbe stata il maggiore garante, se non avesse subito il rovescio elettorale. E’ un blocco che ha una sua ideologia e che ha ancora molto potere: perciò vuole trasformare l’ideologia in misure concrete, mirate, inesorabili».Così, accanto al “lavoro ai fianchi” ideologico (in cui «si fa aiutare persino da gente che crede di difendere la libertà»), questa galassia di controllori «fa un lavoro più sporco, inteso a prosciugare le risorse del dissenso». Oltre alle personalità e alle istituzioni citate da Messora, Cabras ricorda anche la Nato, un’organizzazione sempre più attenta a inserire nelle azioni di guerra anche la “guerra della percezione”: ha persino redatto un “Manuale di Comunicazione Strategica” che intende coordinare e sostituire tutti i dispositivi antecedenti che si occupavano di diplomazia, pubbliche relazioni anche militari, sistemi elettronici di comunicazione (Information Operations) e, naturalmente, operazioni psicologiche (PsyOps). «Sono azioni coordinate ad ampio spettro, portate avanti da strutture dotate di risorse immani e che lavorano ventiquattr’ore su ventiquattro in coordinamento con i grandi amministratori delegati di imprese del calibro di Google».L’offensiva è dunque in atto e viene da lontano, prende nota Cabras, attivo su “Megachip” e su “Pandora Tv”, voci libere nate su iniziativa di Giulietto Chiesa. Un’eminenza grigia molto importante dell’amministrazione Usa uscente, Cass Sunstein, anni fa scrisse un saggio in cui – oltre a teorizzare l’«infiltrazione cognitiva» dei gruppi dissenzienti, da perfezionare spargendo disinformazione, confusione, e calunnie – invitava il legislatore a prendere «misure fiscali» (diceva proprio così) contro i propugnatori delle “teorie cospirazioniste” e per l’assoluto divieto di esprimersi liberamente su quanto sia disapprovato dalle autorità, ricorda Cabras. «Ci siamo a suo tempo chiesti dove volesse andare a parare, il professor Sunstein. Voleva dire che chi dissente paga pegno allo Stato? E come diavolo doveva chiamarsi questa nuova imposta? All’epoca erano misteri e deliri di un professore di Harvard, un costituzionalista che ripudiava i capisaldi della Costituzione scritta americana. Ma nel frattempo quel delirio si è fatto strada e si è fatto sistema di potere. E’ bene ricordarlo a quelli che si scandalizzano per Trump senza accorgersi che le ossessioni contro la libertà di espressione hanno colonizzato le istituzioni e i media in cui hanno riposto fiducia, anche a casa Clinton e a casa Obama. Oggi attaccano “Byoblu.com”. Ma sarà presto un attacco contro tutti i dissidenti. E’ una questione già maledettamente seria». In pericolo il pluralismo: è scattato un “maccartismo 2.0”, «un’isteria che vuol fare tabula rasa dell’informazione non allineata».«Stampatevi bene questa data nella testa: 27 gennaio 2017. Il giorno in cui gli effetti della campagna contro le cosiddette “fake news” (ma in realtà con l’obiettivo di colpire l’informazione libera e indipendente), orchestrata da Hillary Clinton, dal Parlamento Europeo, da Laura Boldrini, da Angela Merkel e da tutti quelli che hanno paura che l’informazione libera possa scalzare i loro privilegi e la loro posizione di forza, hanno iniziato a colpire anche in Italia, togliendo la linfa vitale della monetizzazione Adsense, con motivazioni che avrebbero del ridicolo o del tragicomico, se non rappresentassero qualcosa di ben più grave». Così Claudio Messora, dopo che il servizio pubblicitario di Google ha improvvisamente “tagliato i viveri” a “ByoBlu”, il più seguito video-blog indipendente italiano, che vive di donazioni e, appunto, delle inserzioni pubblicitarie “random” veicolate da Adsense. «Oggi è un giorno pesante, il più pesante per l’informazione libera e indipendente in Italia e nel mondo – dichiara Messora – da quando ho iniziato a fare questo “mestiere” del blogger, dieci anni fa».
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Trump e il Muro: il lavoro viene prima del business parassita
Prove generali di protezionismo: una crepa nel muro della globalizzazione, che ha finora premiato le multinazionali “impunite”, libere di delocalizzare il lavoro moltiplicando i profitti a spese dell’occupazione nei paesi d’origine? Il problema, con Donald Trump, è che per abbattere quel muro se ne erige un altro, contro la mobilità dei migranti. E a pagare sono innanzitutto loro, i poveri, quelli del sud del mondo. Donald Trump appare duro, spietato. Ma quello che propone (anzi, impone) è un rovesciamento di valori: il lavoro viene prima del profitto. Ovvero: la Casa Bianca agevola il business delle multinazionali, tagliando le tasse, ma solo a patto che la grande industria torni a investire in patria, sanando la piaga della disoccupazione che ha devastato i lavoratori e impoverito la classe media. Scenari che il neopresidente Usa lascia intravedere da subito, con l’annuncio della barriera anti-immigrazione messicana finanziata con super-dazi per colpire le importazioni dal paese confinante. «Prima lezione: qui si fa sul serio», avverte Federico Rampini su “Repubblica”. «Arrivati al settimo giorno dell’era Trump, almeno una cosa dovremmo averla imparata. Lui fa quello che dice». Credevate fossero solo promesse elettorali? Errore: «Trump va preso addirittura alla lettera».Prima vittima del neopresidente, i poveri emigranti: bloccati, a quanto pare, dall’estensione del Muro (che già esiste, per ampi tratti, lungo le frontiere di California e Texas). «E adesso arriva l’altra metà della promessa: lo pagheranno i messicani. Da oggi sappiamo pure il come: con un dazio del 20% sui prodotti che varcheranno la frontiera, ogni merce “made in Mexico” importata negli Stati Uniti». Due le domande, osserva Rampini. La prima: è lecito? Il Messico fa parte del trattato Nafta che istituì con Usa e Canada il mercato unico nordamericano nel 1994. Ma se un presidente Usa vuole recedere dall’accordo, gli basta annunciarlo con preavviso unilaterale di sei mesi. Seconda domanda: cosa può fare il Messico per difendersi? «Certo è sempre possibile immaginare una serie di ritorsioni e rappresaglie a cominciare da un analogo dazio sul “made in Usa”. Qui però entra in gioco l’evidente asimmetria: il Messico esporta sul mercato Usa più di quanto i vicini settentrionali riescano a vendere ai consumatori messicani».L’asimmetria – che si traduce in un deficit commerciale visto dagli Stati Uniti – fa sì che nella guerra commerciale il Sud abbia molto più da perdere, scrive Rampini, secondo cui «l’unica vera incognita riguarda le multinazionali americane». Molte di loro, ricorda il giornalista, cominciarono a delocalizzare in Messico negli anni ‘90 per sfruttare i costi di produzione inferiori (soprattutto salariali) nelle cosiddette “maquiladoras”, stabilimenti che assemblano per riesportare negli Usa. Di fatto, quindi, «buona parte del commercio tra le due nazioni è in realtà commercio “interno” ad aziende transnazionali che hanno il quartier generale e gli azionisti negli Stati Uniti. Sono loro a trovarsi “prese in mezzo”, e di certo si muoveranno per ridurre i danni». Ai colossi dell’automobile, Trump ha già proposto un do ut des: voi la smettete di costruire fabbriche oltre confine, tornate a produrre negli Stati Uniti, e io in cambio vi riduco le tasse sui profitti e le regole anti-inquinamento.«Vedremo se può proporre contropartite attraenti anche ad altri settori industriali», aggiunge Rampini, sapendo che, in ogni caso, «per le multinazionali Usa si pone il problema delle fabbriche già esistenti». Esempio: Ford può cancellare, come ha fatto, il progetto di costruirne una nuova in Messico, «ma su quelle che ha già, subirà la mannaia del superdazio, 20% di sovrapprezzo se prova a rivendere quelle Ford “messicane” ai suoi clienti americani». E’ un problema enorme, «che riguarda una lunga lista di aziende», le cui voci «ora è presumibile che si faranno sentire». Per la cronaca: è anche la prima volta, dopo almeno trent’anni, che un politico al vertice dell’Occidente antepone l’occupazione al super-reddito dell’élite, vincolandolo alla protezione sociale della comunità nazionale.E’ il contrario esatto del dogma neoliberista spacciato per Vangelo da tutte le destre (e le sinistre) che si sono avvicendate, in apparente alternanza, al governo dei nostri paesi, “sbriciolati” proprio dal crollo della domanda interna (meno lavoro e quindi meno redditi e meno consumi, meno gettito fiscale e dunque più tasse e più debito) fino a gonfiare l’ondata di “populismo”, in cui è presente anche il rifiuto democratico dell’attuale gestione tecnocratico-finanziaria presentata come “inevitabile”, ad esempio nell’Europa del rigore “tedesco” imposto attraverso Bruxelles con la politica dell’euro. Quella di Donald Trump (“gli americani prima di tutto”) è una politica di assoluta rottura, di cui oggi l’inquilino della Casa Bianca si presenta come il nuovo campione mondiale. Un virus che potrebbe contagiare l’Unione Europea? Se si dovesse invertire anche da noi l’ordine delle priorità strategiche – il lavoro prima del business – è evidente che l’euro salterebbe: senza moneta sovrana e piena autonomia fiscale, nessun governo avrebbe la possibilità di incrementare, con investimenti e sgravi, la domanda interna, unica possibile soluzione per ridare fiato alle aziende, al lavoro, al paese.Prove generali di protezionismo: una crepa nel muro della globalizzazione, che ha finora premiato le multinazionali “impunite”, libere di delocalizzare il lavoro moltiplicando i profitti a spese dell’occupazione nei paesi d’origine? Il problema, con Donald Trump, è che per abbattere quel muro se ne erige un altro, contro la mobilità dei migranti. E a pagare sono innanzitutto loro, i poveri, quelli del sud del mondo. Donald Trump appare duro, spietato. Ma quello che propone (anzi, impone) è un rovesciamento di valori: il lavoro viene prima del profitto. Ovvero: la Casa Bianca agevola il business delle multinazionali, tagliando le tasse, ma solo a patto che la grande industria torni a investire in patria, sanando la piaga della disoccupazione che ha devastato i lavoratori e impoverito la classe media. Scenari che il neopresidente Usa lascia intravedere da subito, con l’annuncio della barriera anti-immigrazione messicana finanziata con super-dazi per colpire le importazioni dal paese confinante. «Prima lezione: qui si fa sul serio», avverte Federico Rampini su “Repubblica”. «Arrivati al settimo giorno dell’era Trump, almeno una cosa dovremmo averla imparata. Lui fa quello che dice». Credevate fossero solo promesse elettorali? Errore: «Trump va preso addirittura alla lettera».
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Più crisi, meno democrazia: l’élite “deve” sottometterci
Non era il caso di illudersi: la vittoria del No nel referendum che ha bocciato la “riforme” renziane «non rallenterà gli sforzi delle élites per de-democratizzare il sistema politico», dal quale «decenni di controrivoluzione liberal-liberista hanno già espunto molti elementi di democrazia». Al contrario, sostiene Carlo Formenti, gli sforzi in questa direzione si moltiplicheranno «perché per le caste politiche, economiche, accademiche, e per il sistema dei media che le sostiene, la distruzione di quanto resta della democrazia è questione di sopravvivenza». Già dopo il referendum, nel giro di qualche giorno, «questa fin troppo facile previsione ha ottenuto numerose conferme». Per Formenti, la tesi che i “nemici della democrazia” difendono sempre più apertamente, e senza troppi giri di parole, è la seguente: «Visto che le condizioni socioeconomiche che hanno favorito l’ascesa dei “populismi”sono destinate a durare, non resta che modificare le regole del sistema politico in modo tale da poterlo governare a prescindere dal fatto che esso ottenga il consenso – e un riconoscimento di legittimità – da parte della maggioranza dei cittadini».L’ipotesi di combattere le cause dell’impoverimento di massa e della disuguaglianza, scrive Formenti su “Micromega”, non viene nemmeno presa in considerazione, «quasi si trattasse di fenomeni “naturali”». Meglio dunque ricorrere al comodo fantasma del “populismo”, «termine che continua a essere usato in modo propagandistico, senza alcuno sforzo di analisi politologica e senza compiere distinzioni ideologiche, mischiando nello stesso calderone Trump e Sanders, Maduro e Marine Le Pen, Podemos e la Lega, l’M5S e i neonazi tedeschi». Se tale è lo scenario, tanto vale ridurre ulteriormente gli spazi di democrazia, cambiando le regole, in modo da rendere superflua l’approvazione popolare. Un esempio, dice Formenti, viene dal “New York Times”, dove Eduardo Porter auspica leggi speciali e riforme che diano più potere al governo, «dopo essersi chiesto se globalizzazione, mutamenti demografici e rivoluzione culturale abbiano eroso il consenso del popolo americano nei confronti della “democrazia del libero mercato”, al punto da indurlo a votare per un uomo come Trump (Sanders non è nemmeno citato!), che ha fatto campagna sostenendo che il sistema serve gli interessi di un’élite cosmopolita contro quelli della gente comune».Porter, «bontà sua», ammette che «il popolo ha molte ragioni per lamentarsi», ma poi «conclude incongruamente che il vero motivo del successo populista non sta in queste ragioni, bensì nei difetti del sistema elettorale (!?)», quindi conclude «citando i suggerimenti di riforme orientate a garantire la “governabilità” offerti da alcuni solerti politologi». Stessa musica sul “Corriere della Sera” del 4 gennaio, dove Michele Salvati «ribadisce che sì, la vita della maggioranza dei cittadini è grama e tale resterà a lungo» per cui, appurato che «le “leggi” dell’economia non ammettono deroghe e che dunque occorrerà in ogni caso farle digerire al popolo», a tale scopo «servirà comunque “riformare” la Costituzione». Il compito si è rivelato impossibile per un’unica forza politica? E allora «non resta che lavorare alla costruzione di una grande coalizione “anti populista” che abbia la maggioranza necessaria per compiere le riforme senza che poi debbano essere sottoposte a referendum».Sempre sul “Corriere”, Gustavo Ghidini rilancia con forza «l’imprescindibile esigenza di “normalizzare” la comunicazione online». Gli argomenti sono i soliti: combattere le bufale, gli incitamenti all’odio, l’uso di termini offensivi e “politicamente scorretti”. E’ evidente, scrive Formenti, come «il senso di queste e altre definizioni possa essere opportunamente dilatato per colpire ben altri bersagli, come la libertà di opinione ed espressione, ed è altrettanto evidente come questa crociata sia, non casualmente, iniziata subito dopo che sondaggisti e studiosi di comunicazione hanno accusato Internet di avere favorito i successi elettorali “populisti”, bypassando un sistema dei media mainstream sempre più blindato a sostegno del pensiero unico liberal-liberista e delle forze politiche che ne incarnano gli interessi». Insomma: per Formenti «la grande controffensiva è iniziata, ed è destinata a farsi più feroce a mano a mano che l’insofferenza dei cittadini nei confronti delle élites si farà più forte, fino a generare (si spera) una domanda esplicita di rottura sistemica».Non era il caso di illudersi: la vittoria del No nel referendum che ha bocciato la “riforme” renziane «non rallenterà gli sforzi delle élites per de-democratizzare il sistema politico», dal quale «decenni di controrivoluzione liberal-liberista hanno già espunto molti elementi di democrazia». Al contrario, sostiene Carlo Formenti, gli sforzi in questa direzione si moltiplicheranno «perché per le caste politiche, economiche, accademiche, e per il sistema dei media che le sostiene, la distruzione di quanto resta della democrazia è questione di sopravvivenza». Già dopo il referendum, nel giro di qualche giorno, «questa fin troppo facile previsione ha ottenuto numerose conferme». Per Formenti, la tesi che i “nemici della democrazia” difendono sempre più apertamente, e senza troppi giri di parole, è la seguente: «Visto che le condizioni socioeconomiche che hanno favorito l’ascesa dei “populismi”sono destinate a durare, non resta che modificare le regole del sistema politico in modo tale da poterlo governare a prescindere dal fatto che esso ottenga il consenso – e un riconoscimento di legittimità – da parte della maggioranza dei cittadini».
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Bravi, odiate Trump. Per la Cia sarà più facile assassinarlo
Il breve discorso inaugurale del presidente Trump è stato una dichiarazione di guerra contro tutto l’establishment americano al potere. Tutto. Trump ha reso abbondantemente chiaro che i nemici degli americani sono proprio qui in casa: globalisti, economisti neoliberisti, neoconservatori e altri unilateralisti abituati ad imporre gli Stati Uniti nel mondo, che ci coinvolgono in costose guerre senza fine, e politici che servono l’establishment al potere piuttosto che gli americani; a dirla tutta, l’intera cupola di interessi privati che ha portato l’America allo sfinimento mentre gli interessati si arricchivano. Se si può dire la verità, il presidente Trump ha dichiarato guerra a se stesso, una guerra per lui molto più pericolosa che se avesse dichiarato guerra alla Russia o alla Cina. I gruppi di interesse designati da Trump come “Il Nemico” sono ben radicati e abituati a stare al potere. Le loro potenti reti di relazioni sono ancora al loro posto. Anche se ci sono maggioranze repubblicane sia alla Camera che al Senato, la maggior parte dei rappresentati del Congresso è tenuta a rispondere ai gruppi di interesse al potere che finanziano le loro campagne, e non al popolo americano e al presidente.Il complesso militare/della sicurezza, le multinazionali che delocalizzano, Wall Street e le banche, non cederanno a Trump. Né lo faranno i media prezzolati, che sono di proprietà dei gruppi di interesse il cui potere viene sfidato da Trump. Trump ha chiarito che sta dalla parte di ogni americano, nero, marrone e bianco. Pochi dubbi sul fatto che la sua dichiarazione di inclusività e apertura verrà ignorata dagli odiatori della sinistra, che continueranno a chiamarlo razzista, come già stanno facendo, mentre scrivo, i manifestanti pagati 50 dollari all’ora. In effetti, la leadership nera, per esempio, è educata al ruolo della vittima, ruolo al quale le sarebbe difficile sfuggire. Come si fa a mettere insieme persone alle quali per tutta la vita è stato insegnato che i bianchi sono razzisti e che loro sono vittime dei razzisti? Lo si può fare? Ho partecipato ad un breve programma su “Press Tv”, nel quale avremmo dovuto commentare il discorso inaugurale di Trump. L’altro commentatore era un nero americano, da Washington Dc. Il carattere inclusivo del discorso di Trump non gli ha fatto nessuna impressione, e l’ospite della trasmissione era interessato solo a mostrare le proteste dei manifestanti al fine di screditare l’America. Così tante persone hanno un interesse economico a parlare in nome delle vittime e a dire che l’apertura di Trump toglie loro lavoro.Quindi insieme ai globalisti, alla Cia, alle multinazionali che delocalizzano, alle industrie degli armamenti, all’establishment Nato in Europa, e ai politici stranieri abituati a essere pagati profumatamente per sostenere la politica estera interventista di Washington, si schiereranno contro Trump anche i leader dei gruppi vittimizzati, i neri, gli ispanici, le femministe, i clandestini, gli omosessuali e i transgender. Questa lunga lista ovviamente include anche i bianchi liberal, convinti che l’America da una costa all’altra sia abitata da bianchi razzisti , misogini, omofobi, e svitati amanti delle armi. Per quanto li riguarda, questo 84% della geografia degli Stati Uniti dovrebbe essere messo in quarantena o seppellito. In altre parole, rimane abbastanza buona volontà nella popolazione per consentire a un presidente di riunire il 16% che odia l’America con l’84% che la ama? Considerate le forze che Trump si trova contro. I leader neri e ispanici hanno bisogno del vittimismo, perché è quello che conferisce loro reddito e potere. Guarderanno con sospetto all’apertura di Trump. La sua inclusività è un bene per i neri e gli ispanici, ma non per i loro leader.I dirigenti e gli azionisti delle multinazionali sono arricchiti dalla delocalizzazione del lavoro che Trump dice che riporterà a casa. Se tornano i posti di lavoro, se ne andranno i loro profitti, i bonus e le plusvalenze. Ma tornerà la sicurezza economica della popolazione americana. Il complesso militare e della sicurezza ha un bilancio annuale di 1.000 miliardi che dipende dalla “minaccia russa”, minaccia che Trump dice di voler sostituire con una normalizzazione dei rapporti. L’assassinio di Trump non può essere escluso. Molti europei devono il proprio prestigio, il proprio potere, e i propri redditi alla Nato, che Trump ha messo in discussione. I profitti del settore finanziario derivano quasi interamente dalla schiavitù del debito cui sono sottoposti gli americani e dal saccheggio delle loro pensioni private e pubbliche. Il settore finanziario con il suo agente, la Federal Reserve, può distruggere Trump con una crisi finanziaria. La Federal Reserve di New York ha una sala operativa completa. Può mandare nel caos qualsiasi mercato. O sostenere qualsiasi mercato, perché non vi è alcun limite alla sua capacità di creare dollari.L’intero edificio politico degli Stati Uniti si è completamente isolato dal volere, dai desideri e dalle esigenze del popolo. Ora Trump dice che i politici risponderanno al popolo. Questo, naturalmente, significherebbe un forte colpo alla continuità dei loro incarichi, al loro reddito e alla loro ricchezza. C’è un gran numero di gruppi, finanziati da non-sappiamo-chi. Ad esempio, oggi RootsAction ha risposto al forte impegno di Trump di stare al fianco di tutto il popolo contro l’Establishment al Potere, con la richiesta al Congresso “di incaricare la Commissione Giustizia della Camera per un’iniziativa di impeachment” e di inviare denaro per l’impeachment di Trump. Un altro gruppo di odio, Human Rights First, attacca la difesa di Trump dei nostri confini in quanto chiude “un rifugio di speranza per coloro che fuggono dalle persecuzioni“. Pensateci per un minuto. Secondo le organizzazioni liberal-progressiste di sinistra e i gruppi di interesse razziali, gli Stati Uniti sono una società razzista e il presidente Trump è un razzista. Eppure, le persone soggette al razzismo americano fuggono dalle persecuzioni verso l’America, dove subiranno persecuzioni razziali? Non ha senso. I clandestini vengono qui per lavoro. Chiedete alle imprese di costruzione. Chiedete ai mattatoi. Chiedete ai servizi di pulizia nelle aree turistiche.La lista di quelli a cui Trump ha dichiarato guerra è abbastanza lunga, anche se se ne potrebbero aggiungere degli altri. Dovremmo chiederci perché un miliardario di 70 anni con imprese fiorenti, una bella moglie, e dei figli intelligenti, sia disposto a sottoporre i suoi ultimi anni alla straordinaria pressione di fare il presidente con il difficile programma di riportare il governo nelle mani del popolo americano. Non c’è dubbio che Trump ha fatto di sé stesso un bersaglio. La Cia non ha intenzione di mollare il colpo e andare via. Perché una persona dovrebbe farsi carico dell’imponente ricostruzione dell’America che Trump ha dichiarato di voler fare, quando poteva invece trascorrere i suoi ultimi anni godendosela immensamente? Qualunque sia la ragione, dovremmo essergli grati per questo, e se è sincero lo dobbiamo sostenere. Se viene assassinato, dobbiamo prendere le armi, radere al suolo Langley [sede centrale della Cia] e ucciderli tutti. Se avrà successo, merita il titolo: Trump il Grande! La Russia, la Cina, l’Iran, il Venezuela, l’Ecuador, la Bolivia, e qualsiasi altro paese sulla lista nera della Cia dovrebbe capire che l’ascesa di Trump non basta a proteggerlo. La Cia è una organizzazione a livello mondiale. I suoi redditizi affari forniscono delle entrate indipendenti dal bilancio degli Stati Uniti. L’organizzazione è in grado di intraprendere azioni indipendentemente dal presidente o anche dal proprio direttore. La Cia ha avuto circa 70 anni per consolidarsi. Ed esiste ancora.(Paul Craig Roberts, “La dichiarazione di guerra di Trump”, dal sito di Craig Roberts del 20 gennaio 2017, post tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).Il breve discorso inaugurale del presidente Trump è stato una dichiarazione di guerra contro tutto l’establishment americano al potere. Tutto. Trump ha reso abbondantemente chiaro che i nemici degli americani sono proprio qui in casa: globalisti, economisti neoliberisti, neoconservatori e altri unilateralisti abituati ad imporre gli Stati Uniti nel mondo, che ci coinvolgono in costose guerre senza fine, e politici che servono l’establishment al potere piuttosto che gli americani; a dirla tutta, l’intera cupola di interessi privati che ha portato l’America allo sfinimento mentre gli interessati si arricchivano. Se si può dire la verità, il presidente Trump ha dichiarato guerra a se stesso, una guerra per lui molto più pericolosa che se avesse dichiarato guerra alla Russia o alla Cina. I gruppi di interesse designati da Trump come “Il Nemico” sono ben radicati e abituati a stare al potere. Le loro potenti reti di relazioni sono ancora al loro posto. Anche se ci sono maggioranze repubblicane sia alla Camera che al Senato, la maggior parte dei rappresentati del Congresso è tenuta a rispondere ai gruppi di interesse al potere che finanziano le loro campagne, e non al popolo americano e al presidente.