Archivio del Tag ‘Donald Trump’
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Corbyn: web di Stato, libero e trasparente, per i cittadini
Parliamoci chiaro: uno dei grandi problemi dei nostri tempi è che la politica e il diritto non riescono a stare al passo con i progressi tecnologici, specialmente a partire dall’avvento dell’era di Internet. È accaduto infatti che, mentre alcune grandi aziende informatiche si affermavano e diventavano rapidamente monopoli, i nostri parlamenti sono rimasti perlopiù inermi, sia perché vittime dell’illusione che rappresenta Internet come il regno delle libertà, il massimo terreno di realizzazione della democrazia, sia per semplice inadeguatezza e mancanza di preparazione in materia. Si è dovuta attendere la totale scomparsa della privacy, prima di porsi il problema di come tutelarla. Si son dovuti perdere miliardi di euro in tasse, a fronte degli enormi fatturati di Google, Facebook e Amazon, prima di iniziare a discutere sulla possibilità di una “tassa del web”, da rimandare però in sede europea. I ceti politici invece inizialmente non hanno compreso le potenzialità offerte dai social network, perdendo bruscamente e a causa di ciò i loro consensi in favore di quelle nuove forze che invece ne hanno intuito i vantaggi in termini di propaganda, per poi farne, tutti insieme, un uso sistematico e spregiudicato, riducendo di fatto il loro rapporto con i cittadini ad una manciata di caratteri su Twitter (basti pensare che, a dispetto di una lunga tradizione che vedeva i candidati alla presidenza americani fare il proprio annuncio in discorsi tenuti nelle università, Hillary Clinton palesò le proprie intenzioni su Twitter).Quanto al funesto impatto che un sistema così articolato di collezione dei dati personali avrebbe avuto sulla salute nostre democrazie, nessuno se ne è occupato, salvo poi indignarsi in coro di fronte non ad una questione di etica pubblica o di tutela dei cittadini, ma all’effetto che i social network hanno direttamente o indirettamente avuto: l’elezione di Donald Trump. Ma qui non si vuole discutere su come le nuove reti sociali abbiano esacerbato dei problemi più o meno latenti della civiltà occidentale, favorendo l’ascesa di nuove élite reazionarie. Si vuole piuttosto introdurre nel dibattito pubblico, dopo il totale silenzio dei media, dei partiti e in generale dei principali mezzi di informazione e formazione dell’opinione pubblica nella nostra penisola, un nuovo modo di affrontare quella che è una delle questioni più importanti del nuovo millennio. Di fronte a un tale quadro desolante infatti, una risposta sembra provenire dalla Gran Bretagna. Jeremy Corbyn, il leader del Partito Laburista, già noto per le sue proposte di nazionalizzazione dei servizi pubblici principali, in alcune sue dichiarazioni ha avanzato una strategia per far fronte alla realtà che si è solidamente affermata con Internet.E il fatto che una simile novità provenga da lui è un’indicazione circa la lucidità e lo stato di salute dei laburisti inglesi, attualmente una delle poche forze politiche di sinistra, in Europa, che potrebbero affermarsi alla guida di un paese. Partendo dal presupposto che il Regno Unito non deve sedersi e restare guardare come poche mega aziende risucchiano diritti digitali, asset e, in definitiva, i nostri soldi, Corbyn ha proposto di affiancare, alla già esistente “Bbc” (British Broadcasting Corporation), una “Bdc” (British Digital Corporation). Tale ente, rigorosamente pubblico, sarà una sorta di grande archivio culturale, centralizzato, per offrire alla popolazione un punto di accesso per le conoscenze, le informazioni e i contenuti attualmente conservati negli archivi della “Bbc”, nella British Library e nel British Museum. Un’istituzione pubblica per definizione non persegue le finalità di un’organizzazione privata. Piattaforme come Google e Facebook erogano sì gratuitamente i loro servizi agli utenti, ma lo fanno solo dopo che questi ultimi hanno acconsentito – e questa è una condizione necessaria e impossibile da contrattare – al trattamento dei loro dati personali per fini quantomeno commerciali.Nell’idea di Corbyn, esclusa la logica del profitto, occorrerebbe sfruttare i big data a fin di bene. Sì, ma come? In due modi, entrambi rivoluzionari. In primo luogo una “Bdc” potrebbe sviluppare nuove tecnologie, e utilizzare le informazioni di cui entra in possesso, per la creazione dei programmi in base all’orientamento del pubblico e perfino un social network pubblico, che garantisca la privacy degli utenti e abbia il controllo su quei dati che rendono Facebook e altri così ricchi. Il tema della nazionalizzazione di Facebook diventa sempre più incalzante, dal momento che la conoscenza così accurata di una popolazione può servire a fini tutt’altro che trasparenti: al controllo sociale, per condizionamenti di massa, a bombardamenti mediatici mirati o ad instillare l’odio, inquietudini morali e paure striscianti in grado di modificare i comportamenti, le abitudini, il modo di pensare – o di votare – dei più. Non vogliamo essere apocalittici o tendere necessariamente a scenari di orwelliana memoria, ma occorre stare all’erta: si tratta di cose già successe e che, verosimilmente, senza le opportune contromisure, riaccadranno.In seconda misura un ente pubblico digitale potrebbe aprire nuovi spazi per la democrazia diretta, a partire dalla creazione di nuove modalità di coinvolgimento, supervisione e controllo delle leve chiave della nostra economia da parte della popolazione. Tutto ciò si inquadra, nell’ottica di Corbyn, in un più ampio piano di gestione della cosa pubblica. La “Bdc” lavorerà in stretta sinergia con altre istituzioni che il prossimo governo laburista istituirà, come la National Investment Bank, il National Transformation Fund, lo Strategic Investment Board, la Regional Development Banks, fornendo così un collegamento base tra di esse ai fini di una maggiore trasparenza e democrazia. La nuova istituzione è anche un tassello chiave per il rilancio attivo del ruolo dello Stato che, su un piano di servizi e commerciale, potrebbe arrivare ad essere concorrenziale con l’estero e con i privati. Essa infatti potrebbe utilizzare tutte le nostre migliori menti, le tecnologie più recenti e le risorse pubbliche disponibili non solo per fornire informazioni e intrattenimento come quelli di Netflix e Amazon, con la possibilità di competere e vendere bene anche Oltreoceano.Le proposte del leader dei Labour, seppur ancora vaghe e poco articolate, sembrano già molto interessanti. L’articolo apparso sul Guardian[2] non ha però praticamente trovato alcuna risonanza in Italia.[3] Si spera che le forze comuniste e della sinistra popolare presenti nella penisola rispondano alle idee proveniente da Oltremanica elaborandone di nuove e più definite, studiando per esempio un sistema di controlli e garanzie per fare in modo che l’enorme mole di dati personali, non più in mani private, non finisca per essere a disposizione dei governi per spiare e monitorare i comportamenti della propria popolazione. Ovviamente questa è solo una delle tante possibilità. Compito nostro è quello di accogliere il contributo iniziale di Corbyn e formulare una proposta politica adatta a contribuire al dibattito e ad arricchirlo.(Massimiliano Romanello, “Buone notizie da Oltremanica”, dal blog della Fcgi del 2 settembre 2018).Parliamoci chiaro: uno dei grandi problemi dei nostri tempi è che la politica e il diritto non riescono a stare al passo con i progressi tecnologici, specialmente a partire dall’avvento dell’era di Internet. È accaduto infatti che, mentre alcune grandi aziende informatiche si affermavano e diventavano rapidamente monopoli, i nostri parlamenti sono rimasti perlopiù inermi, sia perché vittime dell’illusione che rappresenta Internet come il regno delle libertà, il massimo terreno di realizzazione della democrazia, sia per semplice inadeguatezza e mancanza di preparazione in materia. Si è dovuta attendere la totale scomparsa della privacy, prima di porsi il problema di come tutelarla. Si son dovuti perdere miliardi di euro in tasse, a fronte degli enormi fatturati di Google, Facebook e Amazon, prima di iniziare a discutere sulla possibilità di una “tassa del web”, da rimandare però in sede europea. I ceti politici invece inizialmente non hanno compreso le potenzialità offerte dai social network, perdendo bruscamente e a causa di ciò i loro consensi in favore di quelle nuove forze che invece ne hanno intuito i vantaggi in termini di propaganda, per poi farne, tutti insieme, un uso sistematico e spregiudicato, riducendo di fatto il loro rapporto con i cittadini ad una manciata di caratteri su Twitter (basti pensare che, a dispetto di una lunga tradizione che vedeva i candidati alla presidenza americani fare il proprio annuncio in discorsi tenuti nelle università, Hillary Clinton palesò le proprie intenzioni su Twitter).
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Orban, gattopardo neoliberista: stampella Ue con Salvini?
Viktor Orban e Matteo Salvini? Campioni, «eroi del nostro tempo liquido e fautori della tanto discussa “internazionale populista”, che raccatta tutta la galassia nazionalista a partire da Trump, Putin, fino al gruppo di Visegrad». Il politico ungherese e quello italiano «appaiono agli occhi del mondo come due pericolosi eversori degli equilibri europei, capaci di far deflagrare l’Ue con la facilità di due Boeing 767 lanciati a razzo contro le Twin Towers». Ma se fossimo in grado di aguzzare meglio la vista e l’ingegno, scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”, «potremmo scorgere dietro le vesti tigrate nazional populiste, due gattopardi collusi col sistema neoliberista, che hanno la precisa missione di salvare le élites della destra europea da se stesse». Con la loro insistenza ossessiva sul tema immigrazione, e per le loro critiche sovraniste alla “dittatura” finanziaria di Bruxelles, secondo la Spadini i due «gattoni pardati» si sono guadagnati il titolo di paladini della rivoluzione nazionalista. Ma in realtà, dietro la reputazione da ribelli alimentata dall’isteria della stampa “liberal”, si nascondono «due politici legati a doppio filo proprio con quel sistema di potere europeo che dicono di volere abbattere».
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Carpeoro: il Lussemburgo, fogna d’Europa, accusa Salvini?
Si vergogni, il ministro del Lussembugo che osa insultare Matteo Salvini e, con lui, tutti gli italiani: il Granducato è il peggior paese d’Europa. Il ministro degli esteri Jean Asselborn? «E’ veramente uno dei personaggi più volgari e più idioti che io abbia mai visto: spero che mi quereli, perché dovrebbe farlo davanti a un giudice italiano, e lo voglio vedere un giudice italiano che mi condanna di fronte a questo personaggio». Parola di Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, all’indomani delle esternazioni dell’esponente del governo lussemburghese al summit europeo di Vienna. «In Lussemburgo – ha detto Asselborn – avevamo migliaia di italiani che sono venuti a lavorare da noi, erano migranti che guadagnavano i soldi affinché ne poteste avere per i vostri figli». Poi l’elegante chiosa finale («merda!»), pronunciata sbattendo il microfono, in perfetta consonanza con l’aggettivo “vomitevole” con cui il portavoce di Macron ha definito la politica italiana sui migranti. Carpeoro protesta: «Peggio ancora se l’insulto di Asselborn non era riferito a Salvini: vuol dire che era indirizzato a tutti gli italiani». Che hanno sì lavorato come immigrati nel Granducato, arricchendolo, ma mai quanto i maxi-evasori fiscali, anche italiani, di cui il Lussembugo è stato un sontuoso rifugio.«Il Lussembugo è lo Stato più volgare dell’Unione Europea», dice Carpeoro, senza giri di parole. «E’ il paradiso fiscale dove finiscono tutte le porcherie». Ne sa qualcosa lo stesso presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, che è stato «l’artefice delle porcherie fiscali più gravi e più importanti». Quindi, aggiunge Carpeoro, «non mi meraviglia se un ministro del Lussembugo dice che ci hanno dato loro i soldi per fare figli, in passato, perché erano i nostri soldi: hanno preso i soldi dai nostri evasori e poi, in qualche modo, li hanno un po’ riciclati». Tutti addosso a Salvini, oggi? Purché non ci si metta anche il Lussembugo, paese che farebbe meglio a tacere. Certo, aggiunge Carpeoro, sui migranti Salvini sta recitando una parte, come del resto lo stesso Trump. «A me le modalità di Salvini non piacciono», premette Carpeoro, che però aggiunge: «Il fatto che in questo momento si sia reso “nemico” di una serie di poteri e di espressioni del potere, per certi aspetti mi fa piacere». In altre parole: «Salvini fa quello che può, in un base a una situazione politica scardinata da una “sovragestione” che ha gestito crisi e risorse in maniera da metterla in ginocchio, l’Italia». Un establishment di cui anche l’increscioso Lussembugo fa parte, anche se il suo ministro degli esteri ha la faccia tosta – attaccando Salvini – di insultare gli italiani come popolo.Il Lussembugo, ricorda “Money.it”, è un piccolo paese di appena 550.000 abitanti, al confine con il Belgio, la Francia e la Germania. È a tutti gli effetti un paradiso fiscale, «perché applica una legislazione favorevole alle imprese, che permette alle società di risparmiare miliardi in tasse». Amazon, per esempio, ha la sua sede europea in Lussemburgo e trasferiva tutti i guadagni delle vendite realizzate in Europa attraverso il suo ufficio nel Lussemburgo. Banche e multinazionali: sono almeno 350 le società platenarie domiciliate fiscalmente nel Granducato: tra queste Abn Amro, Axa, Barclays, Bnp Paribas, Black e Decker, Carlyle e Citigroup. E poi Commerzbank, Credit Suisse e Deutsche Bank, FedEx, Gazprom, General Electric, Glaxo, Ikea. Ancora: Hsbc, Heinz, Jp Morgan e Pepsi, Procter & Gamble, Vodafone, Volkswagen, Walmart e Disney. Ben figurano anche marchi italiani come Banca Sella e Dolce e Gabbana, Finmeccanica, Intesa SanPaolo, Prada, Unicredit. Senza contare l’azienda più grande, Fiat-Chrysler, ora Fca. «Il trattamento fiscale ricevuto da Fiat in Lussemburgo grazie agli accordi sottoscritti nel 2012 con il Granducato – scriveva il “Fatto Quotidiano” nel 2016 – ha comportato un “vantaggio illegale”, riducendo di 20 volte l’utile imponibile». Per questo il gruppo automobilistico è stato chiamato a restituire «tra i 20 e i 30 milioni di euro», come stabilito dall’antitrust Ue.Quanto a Juncker, che Carpeoro definisce “l’architetto” di questo colossale sistema di evasione fiscale, l’attuale capo dell’Ue – già al vertice della Banca Mondiale, del Fmi e dell’Eurogruppo – guidò proprio il Lussembugo per 18 anni, dopo aver fatto del Granducato un paese-cavia: Juncker, ricorda “Rete Voltaire”, è stato l’uomo che, per anni, ha messo illegalmente sotto sorveglianza i tre quinti dei suoi concittadini, spiati segretamente dallo Srel, l’intelligence lussemburghese. Per questo, accusato nel 2013 da una commissione d’inchiesta, fu costretto alle dimissioni. Storica pedina dei poteri forti, Juncker fu accusato, in patria, di aver fatto schedare migliaia di persone a loro insaputa, dopo aver coperto la strategia della tensione di marca Gladio, basata su attentati “false flag” realizzati in collaborazione con i servizi segreti tedeschi. Strategia accuratamente collaudata proprio in Lussembugo, prima ancora che in Italia, con attentati a industrie, aeroporti, giornali, tribunali e commissariati di polizia. Sciolta ufficialmente la Gladio nel 1990, aggiunge “Rete Voltaire”, i servizi segreti di Juncker avrebbero poi «continuato a spiare illegalmente singoli individui per motivi privati senza che il premier intervenisse». Il loro direttore operativo, inoltre, creò «una società d’intelligence economica, la Sandstone, utilizzando risorse statali».Questo è il paese-modello dal quale il ministro Jean Asselborn dà lezioni a Matteo Salvini, ricordandogli che gli italiani “straccioni” dovrebbero dire grazie, in eterno, al generoso e nobile Lussembugo, il paradiso terrestre dei maggiori evasori fiscali. Un posto dove, secondo il giornale lussemburghese “Wort”, l’establishment politico tentò di fermare la magistratura che stava cercando di far luce sui sanguinosi attentati terroristici che avevano scosso il paese. Per zittire il giudice Robert Biever, che era giunto ad accusare direttamente il ministro della giustizia Luc Frieden di sabotare le indagini, fu scatenata una campagna di disinformazione e discredito, arrivando a incolpare il magistrato di turismo pedofilo in Thailandia. Gli oscuri attentati degli anni ‘80 contro l’innocuo Lussemburgo servivano a creare una tensione allarmante nella popolazione, al fine di far accettare leggi restrittive e un controllo totale su ogni singola persona, come afferma lo storico svizzero Daniel Ganser, che denuncia i contatti “coperti” tra l’intelligence lussemburghese e il Bnd, il servizio segreto della Germania. Legami storici: non a caso è stata Angela Merkel a piazzare Juncker a capo della Commissione Ue.Si vergogni, il ministro del Lussembugo che osa insultare Matteo Salvini e, con lui, tutti gli italiani: il Granducato è il peggior paese d’Europa. Il ministro degli esteri Jean Asselborn? «E’ veramente uno dei personaggi più volgari e più idioti che io abbia mai visto: spero che mi quereli, perché dovrebbe farlo davanti a un giudice italiano, e lo voglio vedere un giudice italiano che mi condanna di fronte a questo personaggio». Parola di Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, all’indomani delle esternazioni dell’esponente del governo lussemburghese al summit europeo di Vienna. «In Lussemburgo – ha detto Asselborn – avevamo migliaia di italiani che sono venuti a lavorare da noi, erano migranti che guadagnavano i soldi affinché ne poteste avere per i vostri figli». Poi l’elegante chiosa finale («merda!»), pronunciata sbattendo il microfono, in perfetta consonanza con l’aggettivo “vomitevole” con cui il portavoce di Macron ha definito la politica italiana sui migranti. Carpeoro protesta: «Peggio ancora se l’insulto di Asselborn non era riferito a Salvini: vuol dire che era indirizzato a tutti gli italiani». Che hanno sì lavorato come immigrati nel Granducato, arricchendolo, ma mai quanto i maxi-evasori fiscali, anche italiani, di cui il Lussembugo è stato un sontuoso rifugio.
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Il volto della nuova élite che pilota il populismo gialloverde
Ha tardato a fare il suo ingresso nel dibattito politico, ma ce la siamo trovata tra i denti senza accorgercene. È la parola “élite”, un termine impolverato, annacquato, dal sapore un po’ retro. Eppure ad oggi sono sempre di più gli operatori e i cronisti del mondo della politica che ne fanno uso. Si sente infatti parlare di una crisi delle élites. Ma prima di parlare della loro crisi, è bene parlare di questo concetto ambiguo, soggetto a molteplici interpretazioni e in cui si intersecano diversi piani di significato. Noi ci limiteremo a darne una definizione elementare: una ristretta cerchia di persone che detiene la maggior quantità di risorse intellettuali, economiche, politiche e simboliche esistenti. Ci basti dire, parafrasando Gaetano Mosca, che un’élite è quella minoranza organizzata che esercita il suo potere sulla maggioranza disorganizzata. Sono coloro che occupano le posizioni rilevanti di una struttura sociale e politica, meritatamente o immeritatamente. Secondo Pareto, le élites, in ogni epoca, possono formarsi, estinguersi, rinnovarsi o circolare, e tutto il decorso storico è un succedersi di conflitti tra diverse élites per la conquista del potere. Anche noi abbiamo assistito, in questi ultimi anni, a partire dalla crisi del 2008, a una serie di scontri ai vertici politici del paese tra diverse élites.Pensiamo a quel novembre del 2011, in cui la destituzione di Berlusconi e l’insediamento di Monti alla presidenza del Consiglio segnarono la vittoria dell’élite tecnocratica, loden, austerity, Bruxelles e rigorismo, sull’élite berlusconiana – élite imprenditoriale, delle telecomunicazioni, del porno-divertentismo. Questa élite antipolitica («meno tasse per tutti») a sua volta aveva guerreggiato con l’élite post-comunista che dal Pci era approdata fino al Pd (passando per Psd e Ds), un’élite politica (con le sue scuole di formazione, la sua gavetta interna). Poi avvenne un altro scontro. Il Commissario Monti, e il suo successore Letta, fronteggiarono una nuova élite, diversa dalle precedenti. Si tratta di una banda di ruba galline proveniente da Firenze e dintorni: è il giglio magico (Carrai, Lotti, Boschi&family), è il dream team renziano. Dopo il loden, il risvoltino. La parola magica per spaccare la vecchia egemonia socialdemocratica (D’Alema, Prodi, Bersani) è quella di “rottamazione”.Ecco che questa élite di estrazione provinciale (spregiudicata, trasformista, ignorante, legata a banche di credito e a cooperative) ha sfruttato la debolezza della vecchia politica dei partitocrati, degli imprenditori e dei tecnocrati, a suon di un populismo che Revelli ha giustamente definito “ibrido”, dall’alto, né identitario né indignato, e crollato su se stesso perché incapace di sanare le sue contraddizioni interne: obbligato a giostrarsi tra le richieste di Draghi, la vecchia guardia del Pd, l’elettorato e il patto del Nazareno, tra le promesse fatte in sede europea e il calo dei consensi in casa propria. Le élites, come abbiamo visto, sono diverse fra loro, adottano formule, discorsi, narrazioni diverse. Ma perché oggi tutta quella élite che possiamo riconoscere nell’establishment politico è in crisi? Ce lo spiegava con anticipo qualche anno fa un sociologo americano, Christopher Lasch, nel suo saggio, “La ribellione dell’élite”. Lasch, sulla falsariga di Pareto, aveva intuito che un’élite, nel momento in cui si allontana oltremodo dalla collettività e dal territorio di cui dovrebbe difendere gli interessi, soffre una crisi di legittimità.Questa élite, spesso infiacchita dai privilegi e dagli onori, finisce per perdere le virtù civiche, per avere inclinazioni cosmopolite, atteggiamenti snobistici, e al buonsenso sostituisce un discorso sofisticato, subendo così l’«invasione di sentimenti umanitari e di morbosa sensibilità» (Pareto) di cui il popolo non sente il bisogno concreto. Perde quindi quella facoltà di dominare le formule vincenti e quella di individuare un nemico, entrambi fattori che determinano il suo consenso tra la popolazione. Ecco che, inversamente a questa crisi, abbiamo vissuto l’ascesa del fenomeno populista – utilizziamo il termine in un’accezione neutra – coronato dal suo successo elettorale, e quindi conclusosi con la sua istituzionalizzazione. Quindi al momento in Italia la situazione è paradossale. C’è un élite senza popolo (e perciò in declino) che adotta pose populiste per recuperare i consensi perduti – si veda l’atteggiamento di tutti i partiti tradizionali nei confronti del nuovo governo, e insieme tutta la parabola renziana (inaugurata da un monito che se si fosse realizzato sarebbe risultato imprudente: «La mia scorta sarà la gente») contraltare dell’antipolitica berlusconiana e ultimo canto del cigno di una sinistra incapace di sintetizzare il malessere del paese.Poi abbiamo, dall’altro lato, un populismo che ha fondato la sua vittoria ideologica nella lotta contro l’élite politica e finanziaria e adesso si vede costretto a cercare le sue élite di governo proprio tra quella élite politica e finanziaria – si pensi alla scelta di Conte a premier, di Savona e poi di Tria all’economia, dell’ex montiano e atlantista Moavero Milanesi alla Farnesina. Come è possibile che da due entità populiste, le più populiste che l’Italia abbia conosciuto, sia venuto fuori il più tecnico dei governi politici? Questo elemento deve portarci a riflettere sulle contraddizioni del populismo. Può, un populismo che ha fatto protesta contro le élites, farsi istituzione senza diventare élite a sua volta? Senza élites la politica è impraticabile, perché la politica è gestione del potere, e il potere non è equamente divisibile, quindi, dobbiamo ammettere che anche il populismo gialloverde, nonostante abbia fondato la sua mitopoiesi sulla lotta contro le élites – la casta per i grillini, l’oligarchia europea per la Lega – rientra nel discorso di Pareto e di Michels: «Chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia».Perciò, ci sembra chiaro, noi non stiamo assistendo a nessuna rivoluzione, a nessun cambiamento nello schema classico della circolazione delle élite. Tuttavia, dobbiamo notare le novità apportate dalle modalità populiste di conquista del potere, ossia negando, o occultando, la propria impostazione, fatalmente elitaria. Si legga quanto veniva scritto sul Blog di Beppe Grillo nel 2013: «Il MoVimento 5 stelle è un movimento senza. Senza contributi pubblici, senza sedi; senza strutture; senza giornali; senza televisioni; senza candidati pregiudicati; […] senza compromessi; senza inciuci; senza leader; senza politici di professione; […] senza ideologie; […] senza banche». Il M5S ha fatto di una pletora di giovani disoccupati la sua classe dirigente dall’oggi al domani. Privi di qualsiasi formazione politica, imbevuti di un corso accelerato di democrazia diretta, gli eletti dei Cinque Stelle ragionano con quelle 4 o 5 linee guida ricavate dal mito dell’onestà, dalla lotta alla casta e altre menate urlate da un capo carismatico Grillo, teorizzate da un capo occulto, Casaleggio, con una sana ma ridotta spruzzata di massimofinismo.Il M5S tuttavia nasce tra diversi chiaroscuri, ed effettivamente il suo non è solo populismo, non è solo adesione incondizionata alle istanze provenienti dalla sempre tirata in ballo “base”, non c’è solo l’interpretazione e la politicizzazione degli umori diffusi tra la popolazione, nel M5S c’è un sostrato ideologico architettato da un’élite che Pareto avrebbe annoverato tra le “élite non di governo”, quella della Casaleggio Associati, che ai temi cari al populismo tenta di conciliare in una versione New Age e un po’ strampalata – pensiamo al video Gaia – alcuni temi del neoliberismo (la smartnation, l’universalismo, la governance globale). Non sappiamo quanta influenza abbia sugli eletti del movimento, e non vogliamo scadere in dietrologie, ma ci sembra chiaro che, di fronte alle ambiguità elettorali della piattaforma di voto interna al movimento, di fronte allo scandalo delle esplusioni, anche il M5S non sia immune a una tendenza élitaria.La Lega ci offre invece un esempio di populismo per certi versi immacolato, intriso della retorica piccolo-borghese poujadista, dei toni provocatori del qualunquismo di Giannini, e nonostante le diverse esperienze di governo, è un partito ancora poco a suo agio all’interno delle istituzioni. La Lega infatti nasce come outsider della politica, è un partito arrembante, cresciuto anno dopo anno a Pontida, grazie alle abilità oratorie di un leader, Bossi, di una classe politica fuoriuscita dai margini dei partiti tradizionali, e di una classe amministrativa emanazione per lo più dalla piccola imprenditoria padana, un po’ parrocchiale, abituata a gestire la cosa pubblica come si fa con un’azienda agricola. Tuttavia anche la Lega pur rimanendo sempre affezionata ad una narrazione vernacolare, localistica, popolare, anti-élitista – ricordiamo Bossi che si reca nella villa di Berlusconi in canottiera, come per sottolineare la differenza tra lui, l’uomo qualunque, e l’arricchito prestato alla politica – rispetta, in quanto partito, la «legge ferra dell’oligarchia» di cui parlava Michels.Perciò, siamo tentati dal dire che il populismo come ideologia – la contrapposizione popolo/élites – è una truffa, o più semplicemente una strategia di conquista del potere che un’élite mette a frutto per ribaltare l’élite precedente e da forza di protesta diventare istituzione. La sua tattica è quella di dimostrarsi più sensibile nei confronti di un popolo di cui si impegna a sintetizzare meglio i discorsi, intuirne i problemi e le paure, origliarne i disagi, fino ad accaparrarsi il monopolio delle “formule” vincenti. Ma adesso che da movimento è diventato regime, vediamo la trasformazione (non priva di incognite) del populismo. Di fatto chi si scandalizza per l’inversione di rotta da parte dei grillini sulla questione dell’alleanza con Salvini, o sulla nomina di un premier non eletto dal popolo «è sempre banale: ma, aggiungo, è anche sempre male informato». Così come chi crede a quanto dice Steve Bannon, l’ex stratega di Donald Trump, ossia che «i Davos Man (le élite, NdR) hanno paura del populismo perché hanno paura che il potere arrivi al popolo. E che succeda quello che è successo in Italia» è un po’ ingenuo.Le élite possono aver paura di essere sostituite da altre élite, il che nella storia è avvenuto soltanto all’indomani di violente rivoluzioni, ma non dal popolo. Nella maggior parte dei casi, i meccanismi sono più complessi, e le nuove élites tendono ad essere assimilate. Il populismo, perciò, è stato gestito da un’élite che non era a-élitaria, ma solo nemica (e neanche troppo) delle élites precedenti, un’élite in via di formazione politica e ideologica che non sappiamo se stia facendo scouting tra altre élite da cooptare al suo interno per mantenere gli equilibri di potere con delle élite più forti (quelle sovranazionali, finanziarie, atlantiche) che ne possono determinare la caduta, oppure se stia venendo cooptata da queste ultime. Tutto il problema tempistico della scelta del governo è dipeso da questa contraddizione, dal difficile equilibrio tra i programmi della nuova élite populista nata dalle piazze e imbottita di protesta, ancora vicina al territorio, alle istanze e ai malumori del popolo, e i giochi di Palazzo in cui deve giostrarsi.La nostra fortuna, che è insieme la nostra disgrazia, è l’inadeguatezza di questa nuova élite, ancora inconsapevole di esserlo. Livellando il discorso verso il basso – privi di un laboratorio culturale, dotati solo di una leadership carismatica – questi populismi non hanno fatto altro che appaltare molta della propria elaborazione ideologica al popolo del web, a tante piccole realtà intellettuali – testate, blog, singoli influencer – che hanno animato il dibattito politico, hanno sabotato l’informazione mainstream, hanno diffuso notizie diverse tra la popolazione, hanno creato una narrazione alternativa dei fatti, e hanno anche inquinato molti temi, hanno diffuso rabbia, malcontento, frustrazione, confusione, hanno dato via libera a troll e fanatici, complottismi e dietrologie, analisti improvvisati, studenti impreparati, incompetenti di buona volontà, animatori nerd di pagine facebook che hanno agitato il basso ventre del web a suon di Meme, ma anche a tanti think thank preparati, professori universitari non allineati, giornalisti e reporter seri, associazioni che hanno fatto un buon lavoro culturale sul proprio territorio occupando quegli spazi disimpegnati dalle sedi di partito.Questa élite è ancora legata alla base da cui proviene, ed è perciò in una fase di assestamento. Non è un’élite da salotto, da club del golf, da circolo della caccia, non è un’élite ripiegata su sé stessa, chiusa, ma può dimostrarsi permeabile e sensibile a talune istanze popolari di cui si è fatta latrice. Eppure, se questa sostanziale inadeguatezza è il risultato di una politica nata dalla piazza, dalla protesta, e perciò davvero vicina agli appelli della cittadinanza, è sempre questa inadeguatezza – l’idea grillina di fare politica in base al criterio dell’onestà (criterio etico, ma non politico), le antinomie di una Lega identitaria ma liberista – che ha obbligato l’élite populista ad aggregare dei tecnici e dei membri dell’élite precedente nel proprio governo, e a fare una serie di compromessi che ne sconfessano, da subito, i motivi della propria elezione. Asseconda di come si risolverà questa contraddizione potremo giudicare l’operato di questa élite.Contraddizione che trabocca da ovunque, dalle dichiarazioni di Tria, per esempio, del prima e dopo G7, laddove inizialmente parlava di «un vasto programma di investimenti pubblici infrastrutturali attuato e finanziato in deficit senza creare un problema di sostenibilità dei debiti pubblici», oggi afferma che «non puntiamo al rilancio della crescita tramite deficit spending». A chi guarda l’attuale governo – a questo ibrido concentrato di socio-securitarismo, liberista in economia e conservatore nel costume, euroscettico senza essere sovranista, russofilo ma atlantista – con ottimismo, con la convinzione che abbia vinto il popolo, chi pensa a un governo del cambiamento, a tutti costoro consigliamo di rileggere Pareto, ma anche Tomasi di Lampedusa. A Freccero e Magris che fanno l’elogio del populismo, e che Pareto lo hanno letto bene e che di un’élite intellettuale fanno parte, chiediamo se abbiano già cominciato a circolare.(Lorenzo Vitelli, “Il volto elitario del populismo”, da “L’Intellettuale Dissidente” dell’11 giugno 2018).Ha tardato a fare il suo ingresso nel dibattito politico, ma ce la siamo trovata tra i denti senza accorgercene. È la parola “élite”, un termine impolverato, annacquato, dal sapore un po’ retro. Eppure ad oggi sono sempre di più gli operatori e i cronisti del mondo della politica che ne fanno uso. Si sente infatti parlare di una crisi delle élites. Ma prima di parlare della loro crisi, è bene parlare di questo concetto ambiguo, soggetto a molteplici interpretazioni e in cui si intersecano diversi piani di significato. Noi ci limiteremo a darne una definizione elementare: una ristretta cerchia di persone che detiene la maggior quantità di risorse intellettuali, economiche, politiche e simboliche esistenti. Ci basti dire, parafrasando Gaetano Mosca, che un’élite è quella minoranza organizzata che esercita il suo potere sulla maggioranza disorganizzata. Sono coloro che occupano le posizioni rilevanti di una struttura sociale e politica, meritatamente o immeritatamente. Secondo Pareto, le élites, in ogni epoca, possono formarsi, estinguersi, rinnovarsi o circolare, e tutto il decorso storico è un succedersi di conflitti tra diverse élites per la conquista del potere. Anche noi abbiamo assistito, in questi ultimi anni, a partire dalla crisi del 2008, a una serie di scontri ai vertici politici del paese tra diverse élites.
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Bavaglio al web in Europa: ce l’hanno fatta, ora sarà legge
Bavaglio al web: alla fine ce l’hanno fatta. Il Parlamento Europeo ha dato il via libera alla proposta di direttiva sui diritti d’autore nel mercato unico digitale. La proposta sul copyright avanzata da Axel Voss è stata adottata con 438 voti a favore, 226 contrari e 39 astensioni, modificando leggermente i contestatissimi articoli 11 e 13, che furono bersaglio – a luglio – di una rumorosa campagna a favore della libertà di Internet. L’articolo 11, ricorda il “Corriere della Sera”, è quello che coinvolge anche la stampa e introduce l’obbligo del pagamento, da parte delle piattaforme come Google e Facebook, per l’utilizzo delle notizie, anche sotto forma di “snippet”, l’anteprima formata da titolo, sommario e immagini che i motori di ricerca catturano automaticamente. «Quindi: non si tratta più di riconoscere solo i diritti dell’intero testo, ma anche della sua presentazione online, che spesso è l’unica a essere consultata dai lettori». L’articolo 13 introduce invece l’obbligo per le piattaforme di mettere dei filtri per bloccare il caricamento dei contenuti protetti. YouTube, ad esempio, sarà direttamente responsabile delle copie e degli spezzoni pirata che vengono caricati dagli utenti. Il via libera della plenaria (arrivato il 12 settembre) apre ora la strada ai negoziati con il Consiglio.«Con la scusa della riforma del copyright, il Parlamento Europeo ha di fatto legalizzato la censura preventiva. Una pagina nera per la democrazia e la libertà dei cittadini», protesta Isabella Adinolfi, europarlamentare 5 Stelle. «Il testo approvato oggi dall’aula di Strasburgo contiene l’odiosa “link tax” e filtri ai contenuti pubblicati dagli utenti. È vergognoso, ha vinto il partito del bavaglio». Purtroppo, aggiunge la Adinolfi, sono stati respinti tutti gli emendamenti che il Movimento 5 Stelle aveva presentato, «in particolare l’articolo 11, che prevede l’introduzione della cosiddetta “link tax”, e il 13, che mira a introdurre una responsabilità assoluta per le piattaforme, nonché un meccanismo di filtraggio dei contenuti caricati dagli utenti», conclude. Che tirasse brutta aria, a Strasburgo, lo si capiva dalle premesse, anticipate di prima mattina dal “Blog delle Stelle”: «L’Europa dei banchieri e dei lobbisti ha scelto la sua preda: il web libero. Anziché scardinare i paradisi fiscali e salvare in modo serio il diritto d’autore, il Parlamento Europeo rischia di usare il copyright come una mannaia dei diritti dei cittadini».Non sono in pochi a ritenere che la riforma – avanzata nel 2016 dall’allora commissario Ue alla Digital Economy Günther Oettinger – potrebbe «distruggere Internet per come lo conosciamo». Per gli europarlamentari rappresentati da Julia Reda, relatrice per il Parlamento Europeo del dossier sulla riforma del copyright e membro del Partito Pirata tedesco, «il progetto limita la libertà di espressione online e mette in difficoltà i piccoli editori e le startup innovative». Di fatto, il divieto di citare liberamente le fonti (con l’introduzione della “link tax”) equivale alla censura preventiva sul web: fine della libera circolazione di contenuti, come finora è stato nella Rete. Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, punta il dito contro lo stesso Oettinger, il tedesco secondo cui sarebbero stati “i mercati” a “insegnare agli italiani come votare”. Proprio quell’Oettinger, dice Magaldi, milita nei circuiti supermassonici reazionari che hanno trasformato l’Ue in un mostro giuridico, gestito da tecnocrati al soldo di interessi privatistici che mirano a svuotare le democrazie e privatizzare Stati non più sovrani, a cui viene impedito di investire (sotto forma di deficit) per creare occupazione.Comunque lo si legga, l’attacco al web finisce per colpire uno strumento di comunicazione potentissimo, cercando di riportarlo sotto il completo controllo dei media mainstream, spesso protagonisti di un uso pressoché criminale di autentiche “fake news”. Il voto del Parlamento Europeo è stato salutato con soddisfazione da Antonio Tajani, coinvolto – secondo il saggista Gianfranco Carpeoro – nell’operazione che ha portato (premendo su Berlusconi) a bloccare la nomina, alla presidenza della Rai, di Marcello Foa, autorevole giornalista, autore del volume “Gli stregoni della notizia”, che smaschera le tante imposture del mainstream. Secondo Carpeoro, la manovra anti-Foa è nata dalle parti dell’Eliseo: Jacques Attali (mentore di Macron ed esponente della superloggia reazionaria “Three Eyes”) si sarebbe rivolto al massone Tajani e poi allo stesso Berlusconi, dopo essersi consultato con Giorgio Napolitano, che nel libro “Massoni” lo stesso Magaldi presenta come esponente della “Three Eyes”, la medesima superloggia nella quale milita Attali, contigua al mondo supermassonico di cui fa fa parte, da molti anni, il tedesco Oettinger, vero e proprio “architetto” del bavaglio europeo imposto al web.E’ noto a tutti che le oligarchie al potere, in Europa e non solo, hanno sviluppato un’enorme diffidenza nei confronti della Rete: un network che si ritiene abbia avuto un ruolo assai rilevante in tutti i “dispiaceri” che gli elettori hanno rifilato, negli ultimi anni, all’establishment – la Brexit e il referendum di Renzi, quindi l’elezione di Trump e infine il boom dei “gialloverdi” in Italia. «Se Grillo vuole fare politica fondi un partito, se ne è capace», disse Piero Fassino, non immaginando che l’ex comico non solo ce l’avrebbe fatta, ma sarebbe finito praticamente al governo, scalzando il Pd. Il Movimento 5 Stelle è stato creato proprio via web, a partire dalle candidature. Colpire il web in Europa, proprio oggi, significa predisporre contromisure in vista delle elezioni europee 2019, in cui i grandi poteri economici e oligarchici che si nascondono dietro la tecnocrazia Ue temono l’exploit dei partiti “sovranisti” e “populisti”, o meglio democratici. Mentre le televisioni sono letteralmente “militarizzate” dall’establishment, le vendite dei giornali sono in caduta libera. Ecco dunque la necessità, per gli oligarchi, di silenziare in ogni modo il web.Bavaglio al web: alla fine ce l’hanno fatta. Il Parlamento Europeo ha dato il via libera alla proposta di direttiva sui diritti d’autore nel mercato unico digitale. La proposta sul copyright avanzata da Axel Voss è stata adottata con 438 voti a favore, 226 contrari e 39 astensioni, modificando leggermente i contestatissimi articoli 11 e 13, che furono bersaglio – a luglio – di una rumorosa campagna a favore della libertà di Internet. L’articolo 11, ricorda il “Corriere della Sera”, è quello che coinvolge anche la stampa e introduce l’obbligo del pagamento, da parte delle piattaforme come Google e Facebook, per l’utilizzo delle notizie, anche sotto forma di “snippet”, l’anteprima formata da titolo, sommario e immagini che i motori di ricerca catturano automaticamente. «Quindi: non si tratta più di riconoscere solo i diritti dell’intero testo, ma anche della sua presentazione online, che spesso è l’unica a essere consultata dai lettori». L’articolo 13 introduce invece l’obbligo per le piattaforme di mettere dei filtri per bloccare il caricamento dei contenuti protetti. YouTube, ad esempio, sarà direttamente responsabile delle copie e degli spezzoni pirata che vengono caricati dagli utenti. Il via libera della plenaria (arrivato il 12 settembre) apre ora la strada ai negoziati con il Consiglio.
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Blair e Bannon: massoni reazionari da Salvini, ora indagato
Come leggere l’adesione di Salvini a “The Movement”, il movimento fondato da Steve Bannon? E’ conseguente all’incontro che Salvini ha avuto con Blair. Il capo di quella cosca massonica è Tony Blair – il referente europeo – e quindi Salvini ha aderito all’iniziativa di Bannon. Blair è il referente europeo di una delle più grosse Ur-Lodges. E’ interessato a Salvini perché questi sistemi sono sempre interessati a chi governa: Salvini in questo momento è al governo, e quindi Blair ha pensato di averlo come referente politico. Salvini è consapevole di cosa rappresenti, Blair? Be’, se ha letto un po’ di cose in giro, sì. Bannon viene associato al mondo della destra, mentre Blair ce lo ricordiamo sulla sponda opposta? Ma sono pessimi ricordi, perché Blair è colui che ha rovinato il socialismo europeo, scientemente. E’ un falso socialista, come ce ne sono tanti. L’iniziativa di Blair e Bannon è un modo per cooptare Salvini? “Cooptarlo” probabilmente no, ma averlo – finché è al governo – come referente politico, sì: è lo stesso motivo per cui gli americani hanno puntato su Di Maio. Michael Ledeen aveva puntato su Di Maio, mentre Steve Bannon e Tony Blair hanno puntato su Salvini. Non sono gruppi in competizione tra loro: sono aspetti, diversi, della massoneria reazionaria.Il problema è quello c’è dietro la massoneria reazionaria: è una falsa massoneria, che rappresenta interessi economici e politici rispetto a un certo tipo di disegno mondialista. Da qui il sospetto che gli intenti di cambiamento, di questo governo, di fatto non sarebbero attendibili? Non lo so, bisogna vedere se lo saranno ancora: se si accorgono di questo pericolo, se litigano – è difficile dirlo. Questo governo è partito con delle buone intenzioni. Poi, se queste buone intenzioni siano sincere o no, lo vedremo solo in futuro. Per intanto, un certo tipo di potere reazionario li sta corteggiando. Come reagiranno, i gialloverdi, a questo corteggiamento? Be’, sapete, le cose umane sono sempre in divenire, sono mobili. Salvini, sicuramente, non è un “cavallo” gestibile. Anche Trump pensavano di poterlo gestire, e poi non ci sono riusciti, o comunque non ci sono riusciti totalmente. Nel frattempo, certo, su Salvini incombono l’indagine sulla nave Diciotti e la conferma del sequestro dei fondi della Lega: tentativi di “accerchiare” il ministro dell’interno? Di solito, quando c’è un “accerchiamento” giudiziario, è perché – a monte – c’è una convergenza di interessi, di poteri, e quindi la magistratura diventa uno strumento di questo.Guardiamo le inchieste su Salvini: quella relativa alla Diciotti è una buffonata, dove i magistrati che l’hanno promossa fanno la figura dei buffoni. Mi riferisco soprattutto al magistrato di Agrigento, perché quello di Palermo, in realtà, ha fatto solo un atto formale: ha ricevuto le carte e ha mandato l’avviso di garanzia a Salvini, quindi ancora non possiamo giudicarlo. E’ comunque un’inchiesta per la quale a delle persone si impedisce di entrare nel nostro paese (ma non gli si impedisce di tornare nel loro). Se queste persone avessero detto “vogliamo tornare a casa”, la nave della Guardia Costiera le avrebbe riportate dov’erano partite. Quindi dov’è il sequestro di persona, tecnicamente? Altra cosa è il processo per i famosi 49 milioni, dove c’è ampia contestazione sulla cifra, perché i 49 milioni in realtà sarebbero la somma dei contributi che la Lega avrebbe incassato. Soldi di cui la magistratura ha ordinato la restituzione, dopo una sentenza di primo grado. Però non esiste la prova che quei milioni siano stati tutti utilizzati nella maniera che giustificherebbe la restituzione – prova anche difficile da fornire, ma che avrebbe dovuto essere inoppugnabile, prima di addivenire a un provvedimento cautelare come il sequestro esecutivo di primo grado.I leghisti in realtà dicono che i fondi male utilizzati sono 550.000 euro. Come vedete, la differenza fra 49 milioni e 550.000 euro è oceanica. Un sequestro così, fatto in questo modo, praticamente annulla qualunque possibilità di sopravvivenza politica della Lega, che è pur sempre un partito che ha preso dei voti e ha espresso dei rappresentati del popolo. Quindi, entrambe le inchieste hanno dei lati discutibili, quantomeno. L’inchiesta sulla Diciotti è un atto proditorio, ma bisognerà vedere cosa faranno la magistratura di Palermo e poi il Tribunale dei Ministri. Viene anche rimproverato a Salvini di aver reagito da ministro: ma lui è stato indagato proprio perché ministro. Gli atti per i quali è indagato li ha fatti da ministro, quindi ne risponde da ministro. Perché dovrebbe risponderne da persona fisica? Ovvero: Salvini risponde, sul versante della comunicazione, nella sua veste di ministro. Poi, se si accerterà che questi atti sono reato (cosa che mi sembra quasi impossibile), vedremo, perché la responsabilità penale è comunque personale. Ma, in questo momento, Salvini risponde per la sua responsabilità di ministro.Nel non far sbarcare migranti a bordo di una nave della Guardia Costiera (quindi italiana, e in un porto italiano) Salvini non ha fatto un’azione politicamente corretta. Non è un reato, ma non la approvo. Però considero questa reazione di Salvini non isolandola dal contesto, ma tenendo conto proprio del contesto, cioè di tutte le malefatte dei governi precedenti. Con la scusa dell’accoglienza, In Italia è sbarcato chiunque: navi che non si sapeva neanche che bandiera battessero. Salvini s’è impuntato nell’occasione sbagliata, diciamo, perché quella era una nave italiana, della Guardia Costiera. Ma in realtà è la pressione precedente, che è stata determinate per una reazione che possiamo definire politicamente sbagliata. Il problema è che, se porti le cose all’esasperazione, poi qualcuno fa a sua volta un gesto esasperato – e tutti a dire: che gesto esagerato! Già, ma cos’era avvenuto, prima? Io credo che sia sbagliata, la normativa europea che imporrebbe di accertare il diritto di asilo dei migranti una volta sbarcati. Io credo che il diritto d’asilo andrebbe accertato prima di far sbarcare le persone, non dopo.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming “Carpeoro Racconta” del 9 settembre 2018, su YouTube. Avvocato e massone, simbologo e scrittore, Carpeoro è autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che ricostruisce la matrice massonica degli attentati “false flag” targati Isis, condotti in Europa negli anni scorsi e riconducibili a servizi segreti atlantici. Lo stesso Carpeoro è esponente del Movimento Roosevelt presieduto da Gioele Magaldi, che nel saggio “Massoni” presenta l’ex premier laburista britannico Tony Blair come affiliato alla potente Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, insieme ai Bush, al francese Sarkozy, al turco Erdogan. La “Hathor”, definita “loggia del sangue e della vendetta”, sarebbe all’origine del devastante attentato dell’11 Settembre alle Torri Gemelle, nonché della “fabbricazione” del sedicente Isis. Alla “Hathor”, sostiene Magaldi, sono stati affiliati sia Osama Bin Laden che Abu-Bakr Al-Baghdadi, presunto leader del cosiddetto Stato Islamico. Sempre alla superloggia “Hathor Pentalpha” è attribuita la decisione di imprimere una svolta violenta alla globalizzazione neoliberista e privatizzatrice, utilizzando nel modo più spregiudicato la guerra e l’auto-terrorismo, per innescare una sorta di strategia della tensione internazionale).Come leggere l’adesione di Salvini a “The Movement”, il movimento fondato da Steve Bannon? E’ conseguente all’incontro che Salvini ha avuto con Blair. Il capo di quella cosca massonica è Tony Blair – il referente europeo – e quindi Salvini ha aderito all’iniziativa di Bannon. Blair è il referente europeo di una delle più grosse Ur-Lodges. E’ interessato a Salvini perché questi sistemi sono sempre interessati a chi governa: Salvini in questo momento è al governo, e quindi Blair ha pensato di averlo come referente politico. Salvini è consapevole di cosa rappresenti, Blair? Be’, se ha letto un po’ di cose in giro, sì. Bannon viene associato al mondo della destra, mentre Blair ce lo ricordiamo sulla sponda opposta? Ma sono pessimi ricordi, perché Blair è colui che ha rovinato il socialismo europeo, scientemente. E’ un falso socialista, come ce ne sono tanti. L’iniziativa di Blair e Bannon è un modo per cooptare Salvini? “Cooptarlo” probabilmente no, ma averlo – finché è al governo – come referente politico, sì: è lo stesso motivo per cui gli americani hanno puntato su Di Maio. Michael Ledeen aveva puntato su Di Maio, mentre Steve Bannon e Tony Blair hanno puntato su Salvini. Non sono gruppi in competizione tra loro: sono aspetti, diversi, della massoneria reazionaria.
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Occhio ai “custodi” della democrazia non eletti da nessuno
Dopo il summit Salvini-Orbán (e gli scontri etnici in Germania), Paolo Mieli ha ripetuto sul “Corriere della Sera” che i partiti populisti a caccia di leadership definitiva in Europa sono nulla più che sovversivi «barbari alle porte». Sulle stesse colonne, Sabino Cassese continua a vedere la coalizione di governo italiana come uno scivolo verso la «democrazia illiberale». L’immagine di fondo, cioè la sintesi storico-politica degli argomenti, rimanda puntualmente agli anni Venti e Trenta del secolo scorso in Italia, Germania, Ungheria e Austria, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”. La dittatura (“fascista” e prodromica alla guerra) è sempre in agguato, e si può fare strada senza difficoltà anche fra le urne: ogni suo simulacro più o meno presunto va quindi respinto e combattuto in via pregiudiziale, assoluta, dalla “democrazia legittima”. «E’ lo stesso atteggiamento dei politici, intellettuali e media Usa che da due anni osteggiano “a prescindere” la presidenza di Donald Trump», osserva Berti: l’establishment la dipinge infatti «come un incidente della storia, un pericolo mortale per la democrazia americana», un “mostro” «da annientare al più presto con ogni mezzo (a cominciare dalla via giudiziaria, rispolverando esplicitamente il modello italiano di Mani Pulite)».Salvini e Orbán, nondimeno, hanno dato ennesima sintesi alla loro polemica sull’Europa, incarnandola in un “barbaro” da combattere, anzi da espellere: si tratta del supermassone neo-aristocratico George Soros, finanziere di origine ungherese, noto fra l’altro per il devastante attacco speculativo alla lira italiana del 1992. E’ lui, scrive Berti, ad apparire un attendibile “cosmocrate” dei nostri tempi: un europeo trapiantato a Wall Street per lanciare dalla trincea americana la “guerra mondiale” della globalizzazione finanziaria, «quella che avrebbe brutalmente sostituito – principalmente in Europa – la politica con la tecnocrazia, finendo con l’assegnare all’oligopolio bancario apolide (travestito da “libero mercato”) le leve ultime sui destini degli ex Stati nazionali». Gestore di mega-hedge fund, nonché filosofo e mecenate di fondazioni politico-culturali mondialuste, rivestirebbe dunque con speciale verosimiglianza i panni del “dittatore” contemporaneo: il Grande Fratello di un capitalismo finanziario globalizzato «che non avrebbe più bisogno, come cent’anni fa, di un Hitler o di un Mussolini», dal momento che gli bastano un Obama truccato da progressista e l’ideologia politically correct «per preservare la propria egemonia dopo “l’incidente” del 2008 sui mercati finanziari».Chi è il vero barbaro? E chi può dare veramente del “barbaro” a chi? «Nell’Italia, nell’Europa, negli Usa del 2018 – scrive Berti – il solo porre la questione offre ormai il fianco ad accuse di connivenza con la “barbarie”». Ma la questione sostanziale, aggiunge l’analista, è questa: se il richiamo al primo dopoguerra mondiale è lecito, il rischio massimo risiede nel rifiuto di affrontare i nodi reali posti dalla storia. «Esattamente cent’anni fa l’Europa – dopo che tutti i contendenti continentali avevano più o meno perso la guerra – perse anche la pace, e in molti paesi la libertà, preparando un nuovo e più distruttivo conflitto. Questo – aggiunge Berti – avvenne perché governi ed establishment nazionali gestirono con categorie ottocentesche il dopoguerra, che segnava invece l’inizio del Novecento: sia all’interno dei sistemi-paese che nelle relazioni internazionali». Solo gli Stati Uniti, rileva l’analista, riuscirono ad attraversare il vero momento di passaggio, cioè la Grande Depressione del 1929, «senza stravolgere il loro sistema, e ridisegnando un archetipo di successo della democrazia mista di mercato».Il cambio di paradigma politico-economico del New Deal, sottolinea sempre Berti nella sua analisi, fu comunque drastico almeno quanto brutale fu la Grande Recessione: e sarebbe interessante rivedere chi, in quegli anni, dava del “barbaro” a chi, in America (al Congresso, sui media e nelle università). «Quarant’anni dopo, comunque, il paradigma fu di nuovo rovesciato su scala globale dal thatcherismo-reaganismo: e molti difensori odierni del “legittimismo democratico-liberista” erano fra i supporter del “sano sovversivismo” portato dalla nascente finanza di mercato (l’etichetta mediatica “barbarian at the gates” fu coniata in occasione dell’Opa Nabisco, il primo assalto riuscito da parte di hedge fund e junk bond all’industria tradizionale, alla fine degli anni Ottanta)». E’ in quella transizione “magnifica e progressiva”, continua Berti, che, fra l’altro, tre piccole agenzie private si affermano come decisori sovranazionali del rating, del merito finanziario di chiunque sul pianeta. «Dieci anni dopo il crack Lehman – il suo più clamoroso fallimento tecnico-politico – il rating detta ancora letteralmente legge: i voti delle tre agenzie di Wall Street, le stesse di allora, rimangono parte integrante della regolamentazione bancaria nell’Eurozona». Ma sono sempre più numerosi coloro che, per usare la terminologia di Cassese, denunciano come “mercato illiberale” quello creato dalla globalizzazione e oggi tenacemente difeso dai istituzioni finanziarie “too big” per essere controllabili dalle democrazie.«Roosevelt, il salvatore dell’Europa democratica – ricorda Berti – è stato l’unico presidente Usa ad essere stato eletto quattro volte: una “dittatura democratica” lunga 13 anni, successivamente vietata dalla legge». Gli succedette Eisenhower, che da militare aveva condotto la guerra di liberazione in Europa, e da presidente «governò con la guerra fredda e il terrore nucleare, tollerando inizialmente una “caccia alle streghe” nella politica interna». Kennedy? «Fu assassinato perché lottava per i diritti civili e l’integrazione razziale, ma aveva deciso anche la guerra in Vietnam». La “democrazia (sociale) di mercato” non è mai stata un “tipo ideale” neppure in quella che è considerata la sua patria, dice Berti. «E se deve guardarsi da scivolamenti e corruzioni non può neppure trasformarsi in ideologia né essere tutelata nella presunta ortodossia da custodi autonominati, né divenire arma di scontro politico». Ineccepibile, il ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi, nel ricordare – al meeting di Rimini – che l’Italia deve rispettare lo “Stato di diritto europeo”, partecipando al bilancio Ue. Gli fa eco il ministro dell’economia Giovanni Tria, sul rispetto dei parametri Ue per l’adesione all’Eurozona. Ma, aggiunge Berti, «non ha torto neppure chi sostiene che – proprio in democrazia – ogni norma è riformabile, anzi: è fatta per essere riformata. E non può essere imposto, dogmaticamente, un coefficiente numerico fissato un quarto di secolo prima». Il rapporto al 3% fra deficit e Pil? «Non è equivalente al 51% del principio democratico universale scolpito ad Atene 2.500 anni fa». Conmclude Berti: «La democrazia, fortunatamente, è antichissima. E, come sosteneva il “dittatore” britannico Winston Churchill, resta “il peggiore sistema politico, salvo tutti gli altri”».Dopo il summit Salvini-Orbán (e gli scontri etnici in Germania), Paolo Mieli ha ripetuto sul “Corriere della Sera” che i partiti populisti a caccia di leadership definitiva in Europa sono nulla più che sovversivi «barbari alle porte». Sulle stesse colonne, Sabino Cassese continua a vedere la coalizione di governo italiana come uno scivolo verso la «democrazia illiberale». L’immagine di fondo, cioè la sintesi storico-politica degli argomenti, rimanda puntualmente agli anni Venti e Trenta del secolo scorso in Italia, Germania, Ungheria e Austria, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”. La dittatura (“fascista” e prodromica alla guerra) è sempre in agguato, e si può fare strada senza difficoltà anche fra le urne: ogni suo simulacro più o meno presunto va quindi respinto e combattuto in via pregiudiziale, assoluta, dalla “democrazia legittima”. «E’ lo stesso atteggiamento dei politici, intellettuali e media Usa che da due anni osteggiano “a prescindere” la presidenza di Donald Trump», osserva Berti: l’establishment la dipinge infatti «come un incidente della storia, un pericolo mortale per la democrazia americana», un “mostro” «da annientare al più presto con ogni mezzo (a cominciare dalla via giudiziaria, rispolverando esplicitamente il modello italiano di Mani Pulite)».
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Brexit e Trump: gli anglosassoni volano, anziché crollare
«La catastrofe oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente». Cita il mitico Giorgio Gaber, il blogger Massimo Bordin, per ricordare – su “Micidial” – che nella Gran Bretagna “scappata” dall’Unione Europea la disoccupazione è al 4%, cioè il minimo storico dal lontanissimo 1975. «Il numero degli occupati nel Regno Unito è salito di 42.000 unità nel trimestre terminato a giugno», a dispetto degli economisti anti-Brexit, i soliti veggenti, che «si aspettavano un calo di 3.800 unità nel solo mese di giugno». E per Bordin, gli squillanti traguardi del sovranismo inglese sono soltanto l’antipasto: il piatto forte è l’America. «Quando l’impresentabile Donald Trump fece l’azzardo di presentarsi alle elezioni, gli analisti si scatenarono», ricorda l’autore di “Micidial”: «C’è chi giurava sui propri figli che, in virtù di statistiche precise al millimetro, il biondo non poteva vincere; altri scommettevano nel crollo dell’economia planetaria. I più severi furono i neocon europei, per i quali, dopo qualche sventagliata populista, sotto Trump la “Pravda” rappresentata dalla finanza globale avrebbe decretato un verdetto di fallimento». I dazi – secondo questi soloni dell’economia – avrebbero «costretto i capitali a fuggirsene dall’America, con la conseguente fine del monopolio di Wall Street».Da quando Trump è stato eletto, a fine 2016, la Borsa americana – da sempre quella con i maggiori capitali al mondo – è aumentata in valore di altri 6.000 miliardi, annota Bordin. «Questa cifra – che ricorda molto i fantastiliardi di Paperopoli, di Uncle Scrooge e del suo mitico deposito – è in pratica il Pil di Italia, Francia e Regno Unito messi assieme: lo ripeto per i Boldrin, gli Scacciavillani, i “noisefromamerika” e tutti gli incompetenti ideologizzati ed i trader iperliberisti che infestano questo declinante paese». Fatti, non parole: da quand Trump è alla Casa Bianca, sul piatto ci sono 6.000 miliardi in più. Nessun mistero: di fronte a segnali di evidente ripresa, anziché tagliare la spesa pubblica come avrebbe fatto qualsiasi governo dell’Eurozona, gli Stati Uniti hanno rilanciato, moltiplicando il deficit per investire sul sistema paese. Risultato: crescita esponenziale del Pil. «Continuerà? Ecchennesò, magari sì, probabilmente no», scrive Bordin, «ma certamente i soloni economisti europei si sono sbagliati, e si sono sbagliati per due anni – che per un investitore è la rovina (eppoi insegnano all’università, eppoi commentano)».I dati più importanti sull’America «riguardano occupazione e salari, visto che la finanza potrebbe benissimo essere in bolla». Il tempo ce lo dirà, aggiunge Bordin, «ma al momento Trump non è stato affatto una catastrofe per la finanza. Fu disastro con il liberista Bush junior, invece, sotto il cui mandato ci fu la più grande ecatombe borsistica dopo il 1929» Tornando a The Donald: la performance a New York durante questi due anni scarsi è stata del 34%. Com’è stato possibile? «Le Borse, da che mondo è mondo, basano le loro performance sulla fiducia e sul ruolo dei regolatori, la Fed in questo caso. Se ci concentriamo sul primo aspetto – scrive Bordin – a pompare fiducia è stata la politica fiscale. Con la riforma fiscale, le imprese in Usa si sono viste tagliare le tasse dal 35 al 20%. Se questa iniziativa viene sommata alla protezione sui prodotti americani, ecco che il mistero si svela». Non solo: grazie all’abbattimento delle tasse, «le aziende quotate hanno potuto comprarsi le proprie azioni, che in termini tecnici si chiama BuyBack: è superfluo aggiungere che questo sistema fa esplodere i titoli all’insù». Durerà? «E’ impossibile saperlo, ma ci sono almeno due elementi che potrebbero indicare una drastica inversione: una guerra monetaria con l’euro e l’impeachement al presidente», dopo le elezioni di medio termine. «Due ipotesi affatto improbabili».«La catastrofe oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente». Cita il mitico Giorgio Gaber, il blogger Massimo Bordin, per ricordare – su “Micidial” – che nella Gran Bretagna “scappata” dall’Unione Europea la disoccupazione è al 4%, cioè il minimo storico dal lontanissimo 1975. «Il numero degli occupati nel Regno Unito è salito di 42.000 unità nel trimestre terminato a giugno», a dispetto degli economisti anti-Brexit, i soliti veggenti, che «si aspettavano un calo di 3.800 unità nel solo mese di giugno». E per Bordin, gli squillanti traguardi del sovranismo inglese sono soltanto l’antipasto: il piatto forte è l’America. «Quando l’impresentabile Donald Trump fece l’azzardo di presentarsi alle elezioni, gli analisti si scatenarono», ricorda l’autore di “Micidial”: «C’è chi giurava sui propri figli che, in virtù di statistiche precise al millimetro, il biondo non poteva vincere; altri scommettevano nel crollo dell’economia planetaria. I più severi furono i neocon europei, per i quali, dopo qualche sventagliata populista, sotto Trump la “Pravda” rappresentata dalla finanza globale avrebbe decretato un verdetto di fallimento». I dazi – secondo questi soloni dell’economia – avrebbero «costretto i capitali a fuggirsene dall’America, con la conseguente fine del monopolio di Wall Street».
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Zuesse: Bannon sfida Soros ma non fidatevi, vuole l’Europa
Scrive Eric Zuesse, su “Strategic-culture.org”, che due schieramenti politici – uno guidato da George Soros e l’altro creato dal nuovo arrivato, Steve Bannon – sono entrati in competizione per il controllo politico dell’Europa. Soros ha guidato a lungo i grandi capitalisti liberal americani verso l’egemonia europea, mentre Bannon sta ora organizzando una squadra di miliardari (altrettanto conservatori) per strappare la vittoria ai liberal attraverso la leva del populismo sovranista. Lo scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”, sintetizzando la panoramica geopolitica fornita da Zuesse, scrittore e analista statunitense. Bannon contro Soros? Attenzione: «Nessuno di loro è progressista o populista di sinistra», avverte Zuesse. «L’unico populismo che attualmente ogni capitalista promuove è quello della squadra di Bannon. Comunque – aggiunge Zuesse – entrambe le squadre si demonizzano a vicenda, sia per il controllo del governo degli Stati Uniti che, a livello internazionale, per il controllo del mondo intero, opponendo due diverse visioni del mondo: liberale e conservatrice, o meglio globalista e nazionalista». Entrambi dicono di sostenere la democrazia? Sì, ma magari con le rivoluzioni colorate di Soros (Ucraina, Medio Oriente) o le guerre “democratiche” (Iraq) e i “regime change” (Egitto, Tunisia, Libia, Siria).
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Bordin: gli oligarchi neoliberisti temono l’Italia, e fan bene
Siamo stati noi. Inutile girarci attorno, la crisi del liberismo è partita dall’Italia ed è destinata a durare ancora a lungo. Secondo autorevoli analisti la crisi del liberismo – non del capitalismo, attenzione: del liberismo, che non è la stessa cosa – è partita nel 2008 con la crisi dei mutui subprime e il fallimento di Lehman Brothers. E invece è partita con noi euroscettici targati 2011 e, sissignori, dalla piccola addomesticata Italietta. Alla crisi tecnica in atto, “noi” abbiamo infatti aggiunto l’informazione, ed è per questo che ci odiano. Andatevi a vedere i tweet dei liberisti italiani, in stile Scacciavillani e Boldrin, per farvene un’idea. Sembrano impazziti! Mia nonna in cortile aveva delle galline che facevano meno casino quando giungeva il momento di tirar loro il collo. Molti “di noi” li insultano e rispondono punto su punto alle critiche e alle provocazioni. E invece hanno ragione: la causa del crollo della loro religione ideologica siamo noi. E abbiamo appena cominciato. L’Italia è il primo paese del vecchio continente e il primo membro fondatore dell’Unione Europea a essere governato da una leadership euroscettica. Per essere giusti, tuttavia, “leadership critica verso la Ue” sarebbe una definizione più appropriata, visto che non la smettono di rimarcare ogni santissimo giorno che non vogliono uscire dall’euro e bla bla bla.Leggendo la faccenda da parte di chi (noi) euroscettico lo è davvero, e non per convenienza momentanea, la nascita del governo di Conte segnala che la rete liberale euro-atlantica ha perso il controllo politico dell’Italia. Usando una terminologia finanziaria, direi che questo è un “trend” serio, e segue la scofitta dei liberal dell’Europa orientale e isolana: svolta in Austria, la Brexit e, prima fra tutte, la politica illuminante degli islandesi. Poco prima della grande svolta, quella italiana, abbiamo l’occupazione di un certo Donald Trump della Casa Bianca. La “destra” tradizionale non ha nulla a che fare con questo nuovo fenomeno: un movimento in crescita che rifiuta ciò che l’Europa (e il mondo occidentale in generale) è diventato nei decenni successivi alla fine della Guerra Fredda, così come le sue basi ideologiche. Contrariamente a ciò che molti scrivono per dare alla faccenda un tono nostalgico o neopauperistico, l’ondata euroscettica e antiliberista non combatte il pluralismo, il multiculturalismo, ecc, ma l’immigrazione di massa, la globalizzazione economica incontrollata, la repressione delle identità locali e nazionali, l’individualismo estremo, lo sradicamento culturale, l’islamizzazione e la cosiddetta “ideologia di genere”.Quel movimento (noi), variamente chiamato “nazionalista”, “populista”, “rossobruno”, “anti-establishment”, “sovranista”, in realtà contiene una sorprendente varietà di posizioni che spaziano dal comunismo ad Adam Smith e sta indubbiamente cavalcando un’onda storica simile a quella che portò alla fine del blocco sovietico. Se la devono mettere in saccoccia: il panorama della politica occidentale sta cambiando ed anzi ha già causato cambiamenti irreversibili. Occorre però tenere gli occhi bene aperti – spalancati! – perchè non mancano moltissimi agganci tra l’ascesa di questo movimento e liberali “sotto copertura”, nel senso che sembrano keynesiani, ma che in realtà sono liberali disposti a concedere qualche briciola mantenendo però saldamente in mano il potere. Di certo, i conservatori liberali classici, ma sedicenti progressisti, non hanno capito nulla della vicenda dei migranti; e questa incapacità di pensare alla politica è la migliore garanzia della loro scomparsa e dell’aumento dei loro avversari. Finora, questo pare essere il trend.L’Italia era tra i paesi con il più alto sostegno all’integrazione europea. Un decennio fa, i partiti anti-establishment ed euro-critici potevano mirare, tutti insieme, al 10% -15% dei voti. Come è diventato un posto dove possono raggiungere bene oltre il 60%? Dal mio punto di vista ciò è spiegato da una combinazione di fattori sistemici, politiche terribili e terribile comunicazione da parte dell’Ue come istituzione, dalle maggiori figure politiche europee e dai loro rappresentanti italiani. Fondamentalmente, la situazione attuale è stata generata dalla questione delle riforme economiche e dall’immigrazione. Sul primo fronte, è noto che l’Italia sia stata attaccata appositamente (spread), ma ha evitato un collasso finanziario nel 2011-2012, perché la Bce è intervenuta con una massiccia liquidità e, in seguito, acquisti di bond per stabilizzare le sue finanze. Questo tuttavia era basato su un accordo politico tra Roma da una parte e Bruxelles, Francoforte e Berlino dall’altra: l’Italia fu salvata ma dovette promettere una lunga lista di riforme economiche e sociali. L’idea dell’Ue germanica era piuttosto chiara: l’Italia è attualmente un sistema economico insostenibile (balle); mentre la Bce acquista un po’ di tempo, le riforme vengono attuate, riportando il paese su una traiettoria di sostenibilità.Peccato che la serie di riforme draconiane richieste dall’Ue era fondamentalmente impossibile da attuare nel contesto italiano. Ci sono formidabili limiti legali e persino costituzionali a ciò che il governo può fare per affrontare diritti, pensioni, sussidi, contratti stabiliti e così via. L’Italia, piaccia o non piaccia, ha una Costituzione keynesiana. Il tradimento di questa impostazione democratica ha provocato una dolorosa compressione della domanda interna. Tutto il resto, sono balle talmente giganti da non stare nelle mutande. Sul fronte dell’immigrazione, sia il governo di Letta che quello di Renzi hanno creato una situazione di assoluto caos: qualcosa che è stato riconosciuto persino, a suo merito, dal ministro degli interni Marco Minniti (sotto Gentiloni), che ha ammesso gli effetti disastrosi di tali politiche. Il comportamento dell’Ue su questa questione è stato completamente contraddittorio. Da un lato Bruxelles ha insistito su un piano per la redistribuzione dei migranti che nessuno vuole. Il piano appare al meglio assurdo, con possibilità minime di essere mai adottato; dall’altra, tutti i paesi confinanti con l’Italia hanno rafforzato i loro controlli sugli stranieri.Vale la pena ricordare che la crisi migratoria nel Mediterraneo deve essere ricondotta direttamente all’assurda campagna militare del 2012, avviata da Francia e Gran Bretagna, che non solo ha distrutto alcuni degli interessi di sicurezza più vitali dell’Italia (un alleato dell’Ue e della Nato), ma dell’Europa in generale, compresi in definitiva quelli di Francia e Gran Bretagna, accelerando la destabilizzazione della politica europea. Ancora una volta, la posizione della leadership dell’Ue e della sua filiale italiana sembra essere che questa situazione caotica nel Mediterraneo durerà potenzialmente per molti anni e persino decenni, e che gli italiani (come il resto degli europei) dovrebbero semplicemente sopportare… Nessuno sembrava rendersi conto che questo non era possibile – tranne noi. Quello che però gli elettori e i sostenitori dell’attuale governo non hanno ancora capito, e che li rende in parte diversi da noi, è che molti di “noi” non confidano in un grande successo di questo governo. In caso di fallimento, infatti, l’elettorato non si sposterà affatto nella direzione pregressa dei liberal euro-moderati, ma si radicalizzerà sempre di più su posizioni euroscettiche.(Massimo Bordin, “Perché i neoliberisti odiano l’Italia – e fanno benissimo”, dal blog “Micidial” del 13 agosto 2018).Siamo stati noi. Inutile girarci attorno, la crisi del liberismo è partita dall’Italia ed è destinata a durare ancora a lungo. Secondo autorevoli analisti la crisi del liberismo – non del capitalismo, attenzione: del liberismo, che non è la stessa cosa – è partita nel 2008 con la crisi dei mutui subprime e il fallimento di Lehman Brothers. E invece è partita con noi euroscettici targati 2011 e, sissignori, dalla piccola addomesticata Italietta. Alla crisi tecnica in atto, “noi” abbiamo infatti aggiunto l’informazione, ed è per questo che ci odiano. Andatevi a vedere i tweet dei liberisti italiani, in stile Scacciavillani e Boldrin, per farvene un’idea. Sembrano impazziti! Mia nonna in cortile aveva delle galline che facevano meno casino quando giungeva il momento di tirar loro il collo. Molti “di noi” li insultano e rispondono punto su punto alle critiche e alle provocazioni. E invece hanno ragione: la causa del crollo della loro religione ideologica siamo noi. E abbiamo appena cominciato. L’Italia è il primo paese del vecchio continente e il primo membro fondatore dell’Unione Europea a essere governato da una leadership euroscettica. Per essere giusti, tuttavia, “leadership critica verso la Ue” sarebbe una definizione più appropriata, visto che non la smettono di rimarcare ogni santissimo giorno che non vogliono uscire dall’euro e bla bla bla.
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Terre rare, la nuova guerra che oppone Cina e Stati Uniti
Lo scorso dicembre, alla vigilia delle tensioni commerciali tra Cina e Stati Uniti, il presidente americano Donald Trump firmava un ordine esecutivo per ridurre la dipendenza del paese da fonti estere di “minerali critici” vitali nella produzione di una vasta gamma di beni strategici per l’industria americana. Un ordine palesatosi nell’ultimo round di restrizioni commerciali varate dal governo americano questo 10 luglio con l’imposizione di un aumento del 10% di dazi su una serie di importazioni provenienti dalla Cina, tra le quali figurano appunto anche le “terre rare”. Sconosciute ai più, le terre rare o lantanidi sono un gruppo di diciassette elementi contenuti in diversi minerali diventati fondamentali nella produzione di un’innumerevole quantità di prodotti ad alto contenuto tecnologico grazie alla loro capacità di dar luogo a leghe con elevate proprietà magnetiche. In particolare, tutta la moderna elettronica così come la produzione di semiconduttori, fibre ottiche, sistemi di navigazione, laser e monitor, fino alla produzione di cd, carte di credito e telefoni cellulari sarebbe totalmente irrealizzabile senza questi elementi. A dipendere dalle terre rare cinesi è inoltre la produzione dei più sofisticati strumenti bellici dell’esercito statunitense e quasi tutta l’industria della cosiddetta “green economy”, dai pannelli solari alle batterie ricaricabili per auto elettriche ed ibride.Tuttavia, queste “terre” non sono affatto rare. La loro rarità si deve principalmente al fatto che, per ricavare questi elementi, è necessaria un’estesa attività di estrazione, con enormi costi sia in termini economici che ambientali dovuti anche alla radioattività degli scarti derivanti della loro lavorazione. L’ampia disponibilità (un terzo degli attuali giacimenti conosciuti), i bassi costi della manodopera e la scarsa protezione ambientale hanno però di fatto consentito alla Cina di sbaragliare qualsiasi concorrenza e di controllare, secondo la United States Geological Survey (Usgs) tra l’85% e il 95% dell’offerta mondiale e il 78% del mercato americano. L’importanza di questi materiali era già stata riconosciuta nel 1992 dall’allora leader cinese Deng Xiaoping il quale sostenne che avrebbero avuto lo stesso valore strategico del petrolio mediorientale. A distanza di quasi trent’anni la sua profezia sembra essersi avverata, anche se si tratta di un’arma che Pechino può utilizzare con molta attenzione e cautela evitando che si tramuti in un’arma “spuntata”.Già nel 2010 infatti le terre rare furono al centro di un’accesa disputa commerciale, determinata dalla decisione cinese di ridurre le sue quote all’esportazione del 40% per motivi di salvaguardia ambientale. Le misure comportarono un aumento immediato dei prezzi internazionali delle terre rare e una crescente preoccupazione da parte dei paesi occidentali; preoccupazione culminata nel 2012 con la presentazione del caso di fronte all’ Organo di Conciliazione (Dispute Settlement Body) dell’Organizzazione Mondiale del Commercio da parte degli Stati Uniti affiancati da Giappone e Unione Europea. La decisione dell’Organo di Conciliazione arrivò nel 2014. Pur riconoscendo la possibilità da parte degli Stati membri di applicare restrizioni determinate da motivi ambientali, si contestò alla Cina la violazione del principio di non discriminazione, visto che l’aumento delle quote all’esportazione garantivano un maggior accesso al mercato e prezzi più favorevoli per le imprese nazionali cinesi.Da parte sua Pechino, pur applicando la sentenza ed eliminando le quote stabilite in precedenza, rinviava con fermezza le accuse al mittente constatando, non solo il fatto di aver superato le quote di estrazione fissate e il crescente impatto ambientale derivante, ma anche l’“ipocrisia” di chi, che senza privarsi delle proprie riserve, vuole continuare a sfruttare in modo economico quelle cinesi. Dietro l’atteggiamento cinese si nasconde però anche una duplice ambizione. In primo luogo Pechino tenta attraverso queste limitazioni di spingere le principali industrie occidentali ad alto contenuto tecnologico a trasferire le loro produzioni in Cina. In secondo luogo, queste misure vengono ritenute funzionali ad aiutare lo sviluppo delle imprese cinesi secondo il piano “Made in China 2025” varato dal premier Li Keqiang nel 2015. Un piano ambizioso volto a far progredire la produzione cinese nella catena del valore, concentrandosi sempre di più nell’industria ad alto valore aggiunto. In particolare, il piano si pone l’obiettivo di riuscire a produrre localmente entro il 2025 il 70% dei materiali definiti strategici per l’industria del futuro, facendo della Cina un paese leader nella produzione di materiali ad alto contenuto tecnologico.Molti commentatori ritengono che le misure commerciali varate dall’amministrazione americana siano una risposta proprio al piano Made in China 2025. Le misure, volte a riequilibrare alcune pratiche sleali portate avanti dal governo di Pechino, dovrebbero infatti, secondo le intenzioni dell’attuale presidenza, favorire il “ritorno” in patria della produzione industriale ritenuta strategica. Tuttavia, nel caso specifico delle recenti limitazioni relative la produzione di terre rare cinesi, si contesta da più parti l’efficacia del provvedimento. Un aumento dei dazi del 10% infatti sarebbe troppo poco per indurre un cambio di fonti di approvvigionamento e troppo poco per spingere le aziende americane a tornare in patria, senza considerare la lunghezza dei tempi in caso di riattivazione di eventuali giacimenti nazionali di terre rare. La sfida si gioca dunque sul filo del rasoio. Se da una parte Pechino può sfruttare il proprio vantaggio competitivo riducendo ulteriormente la capacità di approvvigionamento per le imprese americane, d’altra parte, un rincaro eccessivo dei prezzi spingerebbe alla ricerca di fonti alternative. Il tutto, al netto dell’attuale partita commerciale tra Pechino e Washington i cui scenari incerti continueranno a tenere in tensione i mercati globali.(Alberto Belladonna, “La guerra delle terre rare tra Cina e Stati Uniti”, da “Medium” del 30 luglio 2018, ripreso da “Megachip”. Belladonna è docente di geoeconomia e commercio internazionale presso l’università Francisco Marroquin di Guatemala. Le terre rare comprendono minerali come scandio, ittrio, lantanio, cerio, praseodimio, nodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio e lutezio).Lo scorso dicembre, alla vigilia delle tensioni commerciali tra Cina e Stati Uniti, il presidente americano Donald Trump firmava un ordine esecutivo per ridurre la dipendenza del paese da fonti estere di “minerali critici” vitali nella produzione di una vasta gamma di beni strategici per l’industria americana. Un ordine palesatosi nell’ultimo round di restrizioni commerciali varate dal governo americano questo 10 luglio con l’imposizione di un aumento del 10% di dazi su una serie di importazioni provenienti dalla Cina, tra le quali figurano appunto anche le “terre rare”. Sconosciute ai più, le terre rare o lantanidi sono un gruppo di diciassette elementi contenuti in diversi minerali diventati fondamentali nella produzione di un’innumerevole quantità di prodotti ad alto contenuto tecnologico grazie alla loro capacità di dar luogo a leghe con elevate proprietà magnetiche. In particolare, tutta la moderna elettronica così come la produzione di semiconduttori, fibre ottiche, sistemi di navigazione, laser e monitor, fino alla produzione di cd, carte di credito e telefoni cellulari sarebbe totalmente irrealizzabile senza questi elementi. A dipendere dalle terre rare cinesi è inoltre la produzione dei più sofisticati strumenti bellici dell’esercito statunitense e quasi tutta l’industria della cosiddetta “green economy”, dai pannelli solari alle batterie ricaricabili per auto elettriche ed ibride.
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#MattonellaDimettiti, lesa maestà e fake news istituzionali
Cultori sfegatati del nuovo genere letterario di giornaloni, quello delle fake news sulle fake news, leggiamo e collezioniamo tutto. Non ci perderemmo una puntata per nessuna ragione al mondo. Lo spettacolo dell’establishment che prende scoppole in tutto il mondo perché sta sulle palle ai cittadini e, anziché guardarsi allo specchio, cerca in Russia la spiegazione dei suoi continui fiaschi, è semplicemente impagabile. L’establishment ordina agli inglesi di votare no alla Brexit e quelli votano sì? Dev’essere un complotto dei russi a suon di fake news. L’establishment intima agli americani di votare Hillary Clinton contro Trump e quelli eleggono Trump? Sarà per le fake news diffuse da Putin. L’establishment raccomanda agli italiani di votare sì al referendum costituzionale e quelli votano no? Ci dev’essere sotto la congiura delle fake news moscovite. L’establishment diffida gli italiani dal premiare il populismo sovranista 5Stelle e la Lega e quelli corrono a votare 5Stelle e Lega? Le solite fake news della propaganda moscovita. L’establishment beatifica Mattarella che rifiuta il governo Conte con dentro Savona e subito Facebook e (molto meno) Twitter pullulano di messaggi contro Mattarella e pro Conte&Savona? La solita regìa dei troll russi, provenienti stavolta da San Pietroburgo.Il bello è che i fabbricanti di complotti un tanto al chilo sono gli stessi che accusano i populisti sovranisti di complottismo. Dopodiché anche i loro complotti, alla prova dei fatti, si rivelano quello che sono: balle, bufale, patacche, fake news (al cubo). Memorabile il caso di “Beatrice Di Maio”, il nickname di Fb additato dalla “Stampa” come il Grande Vecchio grillin-casaleggiano delle fake news contro Renzi, Boschi, Lotti & C.: peccato fosse la moglie di Brunetta. Una storia da manuale del boomerang, che fa il paio con le accuse di razzismo lanciate dal Pd al governo Conte perché un gruppo di giovinastri aveva lanciato un uovo a un’atleta di colore, poi frettolosamente ritirate dopo la scoperta che un lanciatore era il figlio di un consigliere comunale Pd. Ora ci risiamo. I giornaloni non riescono proprio a digerire che il 27 maggio, quando Mattarella rispedì a casa Conte per via di Savona, molti italiani si siano incazzati da soli: se i social tracimavano di commenti critici o insultanti, non era perché chi aveva appena votato M5S e Lega si sentisse defraudato e invocasse le dimissioni del capo dello Stato; ma perché c’era dietro Putin con la sua fabbrica di troll a San Pietroburgo. Infatti, per un’intera settimana, ci hanno ammorbati con una cascata di articoloni e titoloni.Tutti ispirati dal Colle (bastava leggere le firme: quelle dei quirinalisti), finché il pool Antiterrorismo della Procura di Roma (non è uno scherzo: è tutto vero), la Dia, la Polizia Postale, i servizi segreti e il Copasir non hanno aperto inchieste per vilipendio al capo dello Stato e attentato alla sua libertà. Roba da 20 anni di galera, come minimo. Poi i servizi hanno subito detto che non c’è una sola prova sui famosi troll russi. E chi aveva titolato “L’attacco al Colle via Twitter. Alcune ‘firme’ del Russiagate dietro i messaggi contro il capo dello Stato”, “Le manovre dei russi sul web e l’attacco coordinato a Mattarella”, “Interventi sulla politica italiana dai troll russi che spinsero Trump”, (“Corriere”), “La questione russa in Italia. Interferenze cyber”, “Interferenze russe sul voto del 4 marzo” (“La Stampa”), “Dalla propaganda di Putin 1500 tweet per Lega e 5Stelle”, “Una pioggia sui social in arrivo da San Pietroburgo”, “Il Pd nel mirino dei troll russi” (“Repubblica”), che ha fatto? Ha chiesto scusa per tutte le balle raccontate e lasciato perdere? Macché: fischiettando con grande nonchalance, ha infilato un paio di righette qua e là negli articoli – non più nei titoli – per dire che i russi non c’entrano nulla, o non c’è alcuna prova che c’entrino. Cioè: le critiche al presidente italiano erano tutte italiane. Dunque su chi si indaga, e per quale reato? Sui cittadini che, tutelati dall’articolo 21 della Costituzione, postano sui social il loro legittimo dissenso sulla massima carica, manco fossimo nella Russia di Putin?Mentre il boomerang volteggia all’indietro su chi l’aveva lanciato – cioè il Quirinale sempre più simile al Cremlino – i quirinalisti ispirati dall’alto tentano di intercettarlo in tempo con le nude mani: «Si cerca – scrive ieri il “Corriere” – di far passare Mattarella come un uomo permaloso che, credendosi un semidio, vorrebbe rianimare almeno il reato di lesa maestà». Già, l’impressione è proprio questa. «Manca solo che accusino il Quirinale di istigare i magistrati a recuperare la cultura greca del delitto di hybris» per «veder marcire in galera chiunque si pronunci criticamente su di lui». Già, la sensazione è proprio questa. Invece no: Egli, «nella sua imperturbabilità zen» e immensa bontà, adora chi lo critica, ma solo «in una dialettica accettabile in democrazia, ciò che esclude insulti e minacce». Resta da capire dove siano insulti e minacce nell’hashtag #MattarellaDimettiti dei tweet sotto inchiesta, prima made in Russia e ora rientrati nella cinta daziaria (lo “snodo di Milano”). Ma tutto è bene quel che finisce bene, o quasi.“Repubblica”, mentre autosmentisce una settimana di titoli sulla Russia con una sola frasina («gli account utilizzati per le campagne di influenza dei russi della Internet Research Agency di San Pietroburgo hanno cessato di operare nell’autunno scorso», dunque solo «mani italiane»), monta un’intera pagina su una notizia sensazionale: in Italia i siti dei 5Stelle rilanciano i messaggi di Di Maio e degli altri 5Stelle. Roba forte. Non solo: le critiche a Mattarella furono «un assalto squadrista» (tipo quelli di “Repubblica” a Leone e Cossiga) finalizzato nientepopodimenoché a «eccitare la coscienza del paese». Accipicchia. E chi è stato? «Consolidati network di condivisione di contenuti para-giornalistici di segno sovranista, piuttosto che populisti». Mecojoni. E non è mica finita: «Sono evidenti le stimmate e la regia politica». Perbacco: le pagine Fb di «quelli che si dicono 5S» chiedevano l’impeachment di Mattarella. Chi l’avrebbe mai detto? Una addirittura postava una domanda dal chiaro contenuto eversivo: «Siete d’accordo con Di Maio che invoca la messa in stato d’accusa di Mattarella?». E qualcuno osò financo rispondere, non so se mi spiego. Seguono i nomi dei putribondi mandanti: «Tale Piergiorgio, alias ‘Pierre’ Cantagallo», «Grande Cocomero classic» (il nostro preferito), «tale Francesco Camillo Soro» da Las Palmas. E ho detto tutto. Che si aspetta ad arrestarli, fustigarli, convertirli in appositi campi di rieducazione? L’Antiterrorismo non ponga altro tempo in mezzo.E, già che c’è, non trascuri le indagini sulla leggendaria «fabbrica delle fake news» e sull’inquietante «fiume di denaro che porta a Londra, a Mosca, in Albania», smascherati mesi fa dai segugi di “Repubblica”, che ne inseguirono le tracce fino al covo operativo: «Una fabbrica di manufatti in alluminio a Terni». Lì, «in una sera gelida di novembre, durante una pausa di cambio turno, Leonardo, un metalmeccanico di 34 anni, ex punk, la terza media in tasca e i soldi per comprare il primo modem non più di sei anni fa, apre le porte del Sistema». Roba grossa, di cui però non si seppe più nulla. Se non che – fu sempre “Repubblica” a rivelarlo, con grave sprezzo del pericolo – «Leonardo di cognome fa Piastrella», ma quando diventa un «cavaliere nero dell’intossicazione online», si fa chiamare “Ermes Maiolica”, molto ricercato dai «broker pubblicitari». Perché voi non ci crederete, ma «più traffico hai, più soldi prendi dalla pubblicità». Strano, eh? Infatti «in Rete ha cominciato a fare capolino un certo Vincenzo Ceramica. Provate a indovinare chi sia». Sono mesi che tratteniamo il fiato, in attesa che qualcuno sveli l’arcano – se non “Repubblica”, che abbandonò la pista proprio sul più bello, almeno l’Antiterrorismo. Se il sor Piastrella c’entra col sor Maiolica, c’entrerà anche col sor Ceramica? E non è che l’hashtag eversivo #MattarellaDimettiti era un messaggio in codice per il sor Mattonella?(Marco Travaglio, “#MattonellaDimettiti”, dal “Fatto Quotidiano” del 9 agosto 2018, ripreso da “Il bene comune newsletter”).Cultori sfegatati del nuovo genere letterario di giornaloni, quello delle fake news sulle fake news, leggiamo e collezioniamo tutto. Non ci perderemmo una puntata per nessuna ragione al mondo. Lo spettacolo dell’establishment che prende scoppole in tutto il mondo perché sta sulle palle ai cittadini e, anziché guardarsi allo specchio, cerca in Russia la spiegazione dei suoi continui fiaschi, è semplicemente impagabile. L’establishment ordina agli inglesi di votare no alla Brexit e quelli votano sì? Dev’essere un complotto dei russi a suon di fake news. L’establishment intima agli americani di votare Hillary Clinton contro Trump e quelli eleggono Trump? Sarà per le fake news diffuse da Putin. L’establishment raccomanda agli italiani di votare sì al referendum costituzionale e quelli votano no? Ci dev’essere sotto la congiura delle fake news moscovite. L’establishment diffida gli italiani dal premiare il populismo sovranista 5Stelle e la Lega e quelli corrono a votare 5Stelle e Lega? Le solite fake news della propaganda moscovita. L’establishment beatifica Mattarella che rifiuta il governo Conte con dentro Savona e subito Facebook e (molto meno) Twitter pullulano di messaggi contro Mattarella e pro Conte&Savona? La solita regìa dei troll russi, provenienti stavolta da San Pietroburgo.