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Reporter senza frontiere, ora sindaco lepenista a Béziers
«Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi». Non è certo che l’infelicissima frase – sterminare l’intera popolazione di una città che ospitava 500 càtari – sia stata testualmente pronunciata dall’abate Arnaud Amaury, capo della “crociata contro gli albigesi”. Né è sicuro che i morti di quel fatidico 22 luglio 1209 siano stati davvero così tanti, 20.000 civili. Ma è invece accertato che la città di Béziers, pure circondata dalle schiaccianti milizie crociate, avesse sdegnosamente rifiutato, il giorno prima, di salvarsi consegnando ai carnefici gli eretici che ospitava: la morte, piuttosto che il tradimento della protezione accordata agli inermi “veri cristiani” del medioevo. Otto secoli dopo quella strage, che segnò l’inizio della sanguinosa Crociata Albigese, oggi la città di Béziers – ribelle e martire – ha un sindaco eletto coi voti del Front National di Marine Le Pen, la donna che sfida a viso aperto il regime di Bruxelles. Ma la notizia è un’altra: il nuovo primo cittadino è il giornalista Robert Ménard, fondatore di “Reporters Sans Frontières” e icona francese della difesa dei diritti civili.I francesi, scrive Leonardo Martinelli sul “Fatto Quotidiano”, se lo ricordano per anni a difendere con entusiasmo e determinazione «il diritto a informare e a essere informati in tutto il mondo». Protagonista di blitz sorprendenti, Ménard: nel 2008 salì di notte in cima a Notre-Dame, a Parigi, per poi sventolare una bandiera con la scritta “Freedom in China”, in occasione del passaggio della fiamma dei Giochi olimpici di Pechino nelle strade della capitale francese. «Oggi, ecco il nuovo Ménard: sindaco di Béziers, città del profondo Sud francese, una delle più degradate e povere del paese», nel cuore della regione dove nacque la lingua d’Oc. Ménard è stato un uomo simbolo, in Francia, delle tradizionali battaglie sociali della sinistra: gli stessi francesi faticano a comprenderne la “metamorfosi”, ora che si è schierato con un partito sovranista ed euroscettico, che la gauche – francese e non solo – continua a definire “sciovinista e di estrema destra”, non volendo riconoscere il “patriottismo socio-economico” invocato dalla Le Pen, per tornare alla “sovranità democratica nazionale” contro i diktat dell’Unione Europea.Classe 1953, Ménard è nato a Orano, in Algeria. «È quindi un pied-noir, figlio di coloni dell’Algeria francese, che dovette abbandonare dopo la raggiunta indipendenza», scrive Martinelli. Famiglia di origini modeste, il padre era un sindacalista comunista che poi passò all’Oas, l’organizzazione paramilitare che voleva mantenere il dominio della Francia sull’Algeria. La madre, una fervente cattolica. «Sono elementi non secondari, se si guarda alla vita che verrà del piccolo Robert». Lasciata in fretta Orano, andarono a vivere a Béziers, nel quartiere (ancora oggi) popolare della Devèze. «Negli anni Settanta il giovane Robert aderì alla Lega comunista rivoluzionaria, per poi prendere la tessera del Partito socialista nel 1979, abbandonato, a dire il vero, poco dopo l’elezione di François Mitterrand», uno dei massimi artefici dell’attuale Unione Europea. Ménard continuò negli anni Ottanta a impegnarsi animando radio libere, per poi entrare a far parte, come giornalista, della redazione locale di “Radio France”, l’emittente di Stato.A Montpellier, ancora nel Sud, fondò nel 1985 con un gruppo di amici “Reporters Sans Frontières”, «una Ong che in seguito ha assunto un ruolo importante, anche a livello internazionale, nella difesa dei giornalisti perseguitati in tutto il mondo», ricorda Martinelli. Sebbene Rsf non sia legata direttamente ad alcun partito, ha sempre avuto in Francia un’immagine di sinistra. «Ménard veniva invitato sempre più spesso in tv: diretto nell’eloquio, perfino un po’ irascibile. Ormai era diventato un personaggio pubblico». A sorpresa Ménard lasciò Rsf nel settembre 2008 per andare a Doha, in Qatar, a dirigere il “Centro per la libertà dell’informazione”, «finanziato dall’emirato, che non si può proprio definire una democrazia perfetta». Ma «fuggì anche da lì, l’anno seguente, in mezzo alle polemiche, per rientrare in Francia e ricominciare la sua carriera di giornalista, con trasmissioni alla tv e in radio». È a quel momento, continua il “Fatto”, che è emersa chiaramente la virata verso il Front National, firmando il libro “Vive Le Pen!”, uscito nel 2011. Il paladino francese della libertà d’informazione ha sempre rifiutato di iscriversi al partito. E anche a Béziers, la città della sua giovinezza, quando ha deciso di presentarsi alle comunali ha costituito una lista indipendente, con personaggi provenienti da vari orizzonti culturali, non solo quello del Fn, di cui ha chiesto solo in seguito l’appoggio esterno.In ogni caso, riguardo al discorso politico di Marine Le Pen, dice di «condividerne almeno l’80%», in modo assolutamente spiazzante: è favorevole alla linea dura sull’immigrazione mentre è contrario al maggior cavallo di battaglia del Fronte Nazionale, cioè l’uscita della Francia dall’euro. «Adesso – ha dichiarato – dico quello che penso e che prima non osavo dire o non ammettevo neanche a me stesso». Si è quindi lanciato contro il «perbenismo della sinistra», accusata di essere troppo “politicamente corretta”. «Sul matrimonio gay, ad esempio – scrive Martinelli – si è espresso in maniera critica, definendolo un “capriccio” e assicurando che, una volta eletto a Béziers, si sarebbe rifiutato di celebrarne al municipio della città». Il “Fatto” sottolinea che Ménard ha scritto quasi tutti i suoi ultimi libri assieme a Emmanuelle Duverger, sua moglie, che proviene da una famiglia cattolica di destra.Partita in sordina nell’estate scorsa, la campagna elettorale di Ménard è diventata progressivamente un caso in Francia e soprattutto a Béziers, città rivierasca del sud-ovest mediterraneo con 76.000 abitanti, di cui il 32% vive al di sotto della soglia di povertà. Béziers, che ha vissuto un lento declino economico a partire dagli anni Ottanta, esce da 19 anni ininterrotti di dominio dell’Ump, il partito conservatore, protagonista di un governo locale accusato a più riprese di corruzione. «Anche questo ha favorito la lista di Ménard, oltre al fatto che la sinistra è storicamente debole in città», conclude Martinelli. «L’ex agitatore di Rsf ha costituito una lista “con l’obiettivo di riunire elettori di sinistra e di destra”. Obiettivo decisamente centrato».«Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi». Non è certo che l’infelicissima frase – sterminare l’intera popolazione di una città che ospitava 500 càtari – sia stata testualmente pronunciata dall’abate Arnaud Amaury, capo della “crociata contro gli albigesi”. Né è sicuro che i morti di quel fatidico 22 luglio 1209 siano stati davvero così tanti, 20.000 civili. Ma è invece accertato che la città di Béziers, pure circondata dalle schiaccianti milizie crociate, avesse sdegnosamente rifiutato, il giorno prima, di salvarsi consegnando ai carnefici gli eretici che ospitava: la morte, piuttosto che il tradimento della protezione accordata agli inermi “veri cristiani” del medioevo. Otto secoli dopo quella strage, che segnò l’inizio della sanguinosa Crociata Albigese, oggi la città di Béziers – che fu ribelle e martire – ha un sindaco eletto coi voti del Front National di Marine Le Pen, la donna che sfida a viso aperto il regime di Bruxelles. Ma la notizia è un’altra: il nuovo primo cittadino è il giornalista Robert Ménard, fondatore di “Reporters Sans Frontières” e icona francese della difesa dei diritti civili.
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Sorvegliati e felici: è il capolavoro del Sesto Potere
Le preoccupazioni per l’uso intensivo dei media digitali come strumenti di sorveglianza pervasiva sono aumentate esponenzialmente dopo le rivelazioni della “gola profonda” Edward Snowden sulle pratiche di spionaggio messe in atto dai suoi ex datori di lavoro, la maggiore agenzia di sicurezza Usa, la Nsa, ai danni dei cittadini americani e di tutti gli altri paesi, nonché di capi di Stato (anche alleati) e imprese pubbliche e private. A mano a mano che Snowden rendeva noti nuovi documenti che denunciavano tali pratiche – intercettazioni di conversazioni telefoniche, email e quant’altro – i media sfoderavano gli immancabili riferimenti al romanzo “1984” di Orwell, o al Panopticon di Bentham, utilizzato da Michel Foucault come emblema di una modernità assurta a regno della sorveglianza e del controllo. Ora un libro a quattro mani di David Lyon e Zygmunt Bauman (si tratta di una conversazione a distanza, realizzata attraverso lo scambio di email) dal titolo “Sesto Potere. La sorveglianza nella modernità liquida” (ed. Laterza) suggerisce una prospettiva diversa.Lyon, da sempre attento analista dei problemi della sorveglianza, e Bauman, il filosofo che ha sostituito il concetto di “modernità liquida” alla categoria di postmodernità, ribaltano gli scenari orwelliani e foucaultiani di cui sopra, ai quali contrappongono quattro tesi di fondo: 1) viviamo in un mondo post-panottico in cui le nuove forme di controllo e sorveglianza assumono le caratteristiche tipiche del consumo e dell’intrattenimento; 2) i principali oggetti al centro dell’attenzione dei sistemi di sorveglianza non sono le persone in carne e ossa, bensì i loro “doppi” elettronici, cioè i dati che li riguardano; 3) ciò che più dobbiamo temere non è la fine della privacy e dell’anonimato bensì l’inquadramento in categorie in grado di determinare a priori il nostro futuro di consumatori e cittadini; 4) la costruzione di questa macchina infernale procede con la collaborazione spontanea, se non gioiosa, delle sue vittime. Proverò ora a illustrare le quattro tesi nell’ordine appena enunciato.Il concetto di Panopticon, argomentano Lyon e Bauman, implicava la concentrazione dei soggetti sottoposti a sorveglianza in determinati luoghi – carceri, fabbriche, scuole, ospedali, ecc. – e sfruttava il “controllo delle anime” come strumento per cambiare comportamenti e motivazioni. Lo sguardo del controllore, temuto ma non visto e quindi presunto come costantemente presente, induce l’autodisciplina di lavoratori, prigionieri, pazienti e allievi che si adeguano alle aspettative del sistema di controllo per non subire sanzioni. Queste modalità punitive di controllo, osservano gli autori, riguardano ormai esclusivamente le “zone ingestibili” della società come le prigioni e i campi profughi, sono cioè riservate agli esseri umani dichiarati “inutili” ed esclusi nel senso pieno e letterale della parola. Viceversa il nuovo potere globale – che Lyon e Bauman contrappongono al potere politico tradizionale, confinato nel locale – non si esercita erigendo barriere, recinzioni e confini che vengono anzi considerati come ostacoli da superare e aggirare; esso deve poter raggiungere tutti in modo da poterli valutare e giudicare uno per uno e, a tale scopo, si impegna affinché tutti siano motivati a esporsi volontariamente al suo sguardo, a cercarlo avidamente più che a sottrarvisi.Passiamo alla seconda tesi. Qui Lyon e Bauman riprendono un tema che Stefano Rodotà ha già ampiamente sviscerato negli anni scorsi, analizzando il fenomeno del “doppio elettronico”. La costruzione di veri e propri “duplicati” delle persone è un processo costantemente in atto a partire dai frammenti di dati personali che ognuno di noi fornisce continuamente e quotidianamente al sistema di sorveglianza navigando in rete, usando la carta di credito, frequentando i social media, usando i motori di ricerca. Ciò di cui non siamo consapevoli è che questi frammenti di dati, estratti per scopi diversi, vengono poi remixati e utilizzati per altri scopi, sfuggendo completamente al nostro controllo (la sorveglianza tende così “a farsi liquida”, dice Bauman riproponendo la sua metafora favorita). Ma soprattutto ciò di cui non ci rendiamo sufficientemente conto è che questa informazione sganciata dal corpo finisce per esercitare un’influenza decisiva sulle nostre opportunità di vita e di lavoro. Il punto è infatti che i nostri duplicati divengono oggetto di analisi statistiche che servono a prevedere comportamenti futuri (Lyon e Bauman citano in merito il film “Minority Report”) e, sulla base di tali previsioni, a incasellarci in determinate categorie di consumatori appetibili o marginali e/o di cittadini buoni cattivi o “pericolosi”.Siamo così alla terza tesi, la più inquietante, secondo cui la nuova sorveglianza si propone di selezionare le persone allo stesso modo in cui, nei campi di concentramento nazisti, si selezionava chi doveva essere eliminato subito e chi poteva ancora tornare utile. Oggi è sparita la violenza omicida, ma non il principio della classificazione come presupposto di un trattamento differenziale per le diverse categorie di consumatori e cittadini. Il marketing ci valuta in base ai nostri “profili”, cioè ai nostri precedenti comportamenti di consumo; i sistemi di sicurezza non rivolgono più la loro attenzione ai singoli potenziali malfattori ma alle “categorie sospette” (vedi le disavventure delle persone di origine araba ai controlli negli aeroporti occidentali). Ecco perché la privacy non è più soltanto minacciata, ma diventa addirittura sospetta.Quante volte vi siete sentiti rispondere da qualcuno a cui ponevate il problema “che m’importa tanto non ho nulla da nascondere”? Come dire: se qualcuno tiene troppo alla propria invisibilità è automaticamente sospettato di avere commesso un crimine. Una mentalità che alimenta la tendenza alla delazione: per non essere classificati fra i sospettati, siamo infatti disposti a puntare il dito (o gli occhiali di Google) contro gli altri. Infine la quarta tesi: esporsi alla sorveglianza è oggi divenuto un gesto spontaneo, se non addirittura gratificante. Se il sorvegliato del Panopticon era ossessionato dall’incubo di non essere mai solo, il nostro incubo è diventato quello di non essere notati da nessuno; quello che vogliamo è non sentirci mai soli. Addestrati dai reality show televisivi e dall’esibizionismo dei social media, i nativi digitali considerano l’esibizione pubblica del privato come una virtù, se non come un dovere; “diventiamo tutti, al tempo stesso, promotori di merci e le merci che promuoviamo”, siamo costantemente impegnati a trasformare noi stessi in una merce vendibile.La seduzione sostituisce la polizia come arma strategica del controllo e ciò non riguarda solo consumi e sicurezza, ma anche la nuova organizzazione del lavoro: i manager si liberano del fardello di gestire e controllare una forza lavoro che ormai si autocontrolla h24 (come le lumache, scrivono Lyon e Bauman, ci portiamo sempre dietro quei Panopticon personali che sono cellulari, smart phone e iPad). In molti dei concetti del libro di Lyon e Bauman – e soprattutto in quest’ultima tesi della collaborazione volontaria delle vittime – ritrovo quanto io stesso scrivevo qualche anno fa (“Felici e sfruttati”, Ed. Egea). Tuttavia, pur condividendo questi argomenti, non posso fare a meno di provare un certo disagio, perché mi sembra che nell’analisi manchi qualcosa. Nella loro critica all’idolatria della tecnica risuonano infatti echi dei discorsi di un autore come Jacques Ellul, discorsi in cui l’autonomia della tecnica e la sua capacità di “spersonalizzare” i sistemi di dominio e controllo vengono presentati come assoluti: «La guerra d’indipendenza delle scuri contro i boia», si legge in un passaggio del libro, «ormai si è conclusa con la vittoria delle scuri, ormai sono le scuri a scegliere i fini, cioè le teste da tagliare».Qui il pensiero corre ai droni e alla loro capacità di “anestetizzare” il senso di colpa di chi li manovra (o, in futuro prossimo, di fare del tutto a meno di manovratori umani); ma per quanto inquietanti ci appaiano simili fenomeni, credo che non andrebbero mai dimenticati i fattori politici ed economici – leggi le relazioni di potere fra dominati e dominanti – che rendono possibili certi sviluppi tecnici e che, quindi, rappresentano l’unico terreno su cui si possa sperare di lottare per cambiare direzione. Altrimenti l’unica speranza di salvezza, come mi pare succeda nell’ultimo capitolo del libro, resta affidata alla fede (è il caso di Lyon) o a un’etica laica (è il caso di Bauman) che rinvia solo a sé stessa.(Carlo Formenti, “Felici e sorvegliati”, da “Micromega” del 5 marzo 2014. Il libro: Sygmunt Bauman e David Lion, “Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida”, Laterza, 159 pagine, 16 euro).Le preoccupazioni per l’uso intensivo dei media digitali come strumenti di sorveglianza pervasiva sono aumentate esponenzialmente dopo le rivelazioni della “gola profonda” Edward Snowden sulle pratiche di spionaggio messe in atto dai suoi ex datori di lavoro, la maggiore agenzia di sicurezza Usa, la Nsa, ai danni dei cittadini americani e di tutti gli altri paesi, nonché di capi di Stato (anche alleati) e imprese pubbliche e private. A mano a mano che Snowden rendeva noti nuovi documenti che denunciavano tali pratiche – intercettazioni di conversazioni telefoniche, email e quant’altro – i media sfoderavano gli immancabili riferimenti al romanzo “1984” di Orwell, o al Panopticon di Bentham, utilizzato da Michel Foucault come emblema di una modernità assurta a regno della sorveglianza e del controllo. Ora un libro a quattro mani di David Lyon e Zygmunt Bauman (si tratta di una conversazione a distanza, realizzata attraverso lo scambio di email) dal titolo “Sesto Potere. La sorveglianza nella modernità liquida” (ed. Laterza) suggerisce una prospettiva diversa.
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Giannuli: punita la sinistra, complice dell’euro-dittatura
Il crollo dei socialisti e la parallela affermazione del Fn di Marine Le Pen non hanno sorpreso nessuno, ma l’entità degli spostamento è andata al di là delle previsioni. Il Ps paga l’impopolarità di Hollande, dovuta alle sue scelte di governo, ma, più in generale paga la sua posizione scomodissima di gestore della crisi. La sinistra “riformista” non ha e non può avere spazio nell’ordinamento liberista, perché la sua ragion d’essere sta nella mediazione fra capitale e lavoro, mentre il neoliberismo non cerca alcuna mediazione, perché postula semplicemente il dominio capitalistico e la totale subalternità del lavoro. C’è un errore di fondo: pensare che il liberismo sia la faccia economica del pensiero liberale. Sbagliato: il liberismo è indifferente alla qualità del regime politico e, nella sua variante neoliberista, ha un’anima essenzialmente totalitaria che sopporta la democrazia liberale (debitamente svuotata di senso e con istituzioni rappresentative prive di reale potere decisionale) solo perché teme che un regime autoritario potrebbe ridestare il fantasma del primato della politica.Dunque, non ha bisogno di sindacati e Parlamento, che devono sopravvivere solo come feticci, mentre lo stato sociale deve semplicemente sparire e la stessa Costituzione diventa un inutile intralcio. Ma la sinistra riformista senza Parlamento, sindacati e stato sociale, semplicemente non esiste. E tanto più nel tempo della crisi, quando il capitalismo tende a fuoriuscire dalla democrazia in favore dello stato d’eccezione. La sinistra moderata, che si candida a gestire una forma temperata di dittatura neoliberista, può reggere con difficoltà questa posizione sin quando non precipiti la crisi; dopo, se conquista il governo è costretta solo a fare il lavoro sporco. Quello che rende debole la posizione della sinistra “riformista” è la sua incapacità di immaginare un “altro” rispetto all’ordinamento esistente. Costitutivamente, la sinistra moderata accetta la dittatura dell’esistente e ritiene che il suo compito sia quello di temperare le ingiustizie del capitalismo, con una serie di conquiste parziali e creando “nicchie” di giustizia sociale.Quando poi, con la crisi, il capitalismo travolge irresistibilmente conquiste parziali e nicchie di equità, la sinistra moderata in un primo momento cerca di resistere, poi si appiattisce, in attesa di tempi migliori. Ma, così facendo, perde il contatto con la sua base e inizia fatalmente a declinare, mentre la protesta sociale contro la repressione capitalistica prende altre strade. A volte assai sbagliate o pericolose. Ora, come in altre circostanze storiche simili, la sinistra moderata diventa la sinistra dell’impotenza, perché non comprende che, lungi dal ridurre il tiro e abbassare i toni, queste situazioni esigono un confronto radicale sul modello di società: se il capitalismo tende a fuoriuscire dalla democrazia, alla sinistra spetta fuoriuscire dall’ordinamento esistente in direzione opposta. Nelle circostanze storicamente presenti – qui ed ora – la questione che si pone è quella dell’ordinamento neoliberista dell’Europa, costruito intorno alla Ue ed all’euro: c’è da decidere se cercare di mantenere in piedi tutta la baracca o buttarla giù a spallate.Su questo sta montando una fortissima protesta popolare, di cui il risultato francese è uno dei sintomi, ma non l’unico e non il più pesante. Quello che si capisce, senza troppa difficoltà, è che vasti settori di ceti popolari (che ormai sfiorano il 25%-30% del corpo elettorale, senza tener conto degli astenuti) attribuiscono all’euro e alle politiche di mantenimento di esso (come il Fiscal Compact) la responsabilità dell’inasprirsi della crisi e, conseguentemente, chiedono il superamento della moneta unica. E si badi che la protesta viene sia da chi guarda dal punto di vista dei paesi debitori (come Italia e Grecia), ma anche dio paesi creditori (come la Germania, l’Olanda o la Finlandia), che chiedono di tornare alla moneta nazionale o del Nord Europa, perché si ritengono danneggiati dalla condivisione della moneta con i “peccatori del debito”. Le elezioni francesi, in questo senso, sono solo il vento che annuncia la tempesta di fine maggio.Di fronte a questo, chi si schiera più risolutamente in difesa dell’attuale ordinamento europeo è proprio la sinistra moderala del Pd, Ps francese e spagnolo, Spd. E persino la “Sinistra Europea”- Gue (accusata di essere euroscettica perché osa mettere in discussione il Fiscal Compact) pur vagheggiano una vaga ed improbabile “altra Europa”, non osa mettere in discussione l’attuale assetto istituzionale europeo. A testimoniare dell’incredibile ottusità dei socialisti francesi, viene l’appello alla “solidaritè repubblicaine” verso la destra gaullista. Geniale: c’è una protesta che monta sulla base del fatto che la gente ritiene uguali sinistra e destra moderate ed i socialisti che fanno? Propongono il blocco elettorale comune fra loro e i gaullisti! Con maggiore intelligenza, la destra ha lasciato subito cadere la proposta e si predispone ad avere le mani libere nel rintuzzare l’assalto lepenista. Adesso, magari capite perché è una fortuna che in Italia ci sia il M5s, senza del quale rischieremmo che il malessere si incanali verso la Lega o magari Forza Nuova.Il crollo dei socialisti e la parallela affermazione del Fn di Marine Le Pen non hanno sorpreso nessuno, ma l’entità degli spostamento è andata al di là delle previsioni. Il Ps paga l’impopolarità di Hollande, dovuta alle sue scelte di governo, ma, più in generale paga la sua posizione scomodissima di gestore della crisi. La sinistra “riformista” non ha e non può avere spazio nell’ordinamento liberista, perché la sua ragion d’essere sta nella mediazione fra capitale e lavoro, mentre il neoliberismo non cerca alcuna mediazione, perché postula semplicemente il dominio capitalistico e la totale subalternità del lavoro. C’è un errore di fondo: pensare che il liberismo sia la faccia economica del pensiero liberale. Sbagliato: il liberismo è indifferente alla qualità del regime politico e, nella sua variante neoliberista, ha un’anima essenzialmente totalitaria che sopporta la democrazia liberale (debitamente svuotata di senso e con istituzioni rappresentative prive di reale potere decisionale) solo perché teme che un regime autoritario potrebbe ridestare il fantasma del primato della politica.
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Non crea una banca pubblica? E io denuncio lo Stato
Per «dolosa omissione governativa», coperta da «combutta del silenzio tra mass media, istituzioni, politica», l’avvocato Marco Della Luna annuncia che, insieme a Loris Palmerini, sta lavorando alla redazione di una denuncia alla Corte dei Conti per “danno erariale”. Un buco colossale, da 80 miliardi di euro l’anno. E’ quanto lo Stato potrebbe “risparmiare”, tagliando di colpo il debito pubblico, semplicemente facendo ricorso all’articolo 123 del Tue, il Trattato di Maastricht, fondativo dell’Unione Europea. Il trattato, scrive Della Luna nel suo blog, «consente agli Stati dell’Eurozona di dotarsi di una banca statale e di usarla per finanziarsi presso la Bce ai tassi che questa pratica alle banche, cioè ora allo 0,25%». Risultato: «Lo Stato italiano potrebbe così risparmiare circa 80 miliardi l’anno». Perché nessuno si decide a imboccare questa strada? Germania e Francia già lo fanno, evitando di tassare a morte i cittadini e svendere il patrimonio nazionale a colpi di privatizzazioni.A far impennare i tassi di interesse, il deficit e l’indebitamento pubblico, scatenando il declassamento del nostro paese, ricorda Della Luna, è stata innanzitutto la scelta, già nel 1981, di rinunciare alla sovranità pubblica della Banca d’Italia, che garantiva lo Stato, costringendo in tal modo il governo a finanziare il proprio debito pubblico sui mercati finanziari speculativi internazionali. «Prima, il debito pubblico era sotto controllo. Da allora in poi, e sempre più, l’impennata dei rendimenti sta operando un massiccio trasferimento di redditi e asset, attraverso le tasse e i tassi, dalla popolazione generale e dal settore pubblico alla comunità bancaria-finanziaria sovrannazionale». L’Italia ha un forte avanzo primario. E il suo deficit, gonfiato dagli interessi passivi, è arrivato a 2.100 miliardi. Tutto questo serve solo a «“mungere” il lavoro e il risparmio degli italiani, anche attraverso un artificioso liquidity crunch che li costringe a svendere e a svendersi».Questo drammatico travaso, continua Della Luna, è aggravato in modo decisivo dal sistema dell’euro: la Bce ha infatti prestato migliaia di miliardi allo 0,50% non più allo Stato ma alle banche. Denaro col quale gli istituti di credito comprano Btp che rendono anche oltre il 4%. Se questa è la regola aberrante dell’Eurozona – privilegiare le banche e colpire lo Stato – è pur vero però che il Trattato di Maastricht concede una scappatoia: lo Stato può farsi prestare gli euro direttamente dalla Bce attraverso una banca pubblica, o di cui sia comunque azionista di maggioranza. Perché i governi non vogliono approfittarne, salvando le finanze pubbliche senza più imporre “sacrifici umani”, super-tasse e tagli ai servizi vitali? «Perché sono al servizio degli stessi beneficiari di questo travaso», si risponde Della Luna, secondo cui l’ormai lontano divorzio tra Tesoro e Bankitalia resta una tappa fondamentale, sulla via della soppressione della sovranità monetaria e quindi della democrazia, insieme a Maastricht, all’euro, al Fiscal Compact.Una tappa fondamentale «non solo per la destabilizzazione finanziaria permanente dell’Italia e il suo perpetuo sfruttamento», ma anche per «la sottomissione politica dell’Italia al potere e all’interesse finanziario: è il grande golpe iniziale, rispetto a cui quelli recenti e ripetuti di Napolitano sono solo sotto-golpe attuativi». Due analisti indipendenti come Giovanni Zibordi e Claudio Bertoni hanno ottenuto conferma dalla Bce: se solo volesse, l’Italia potrebbe ottenere denaro a interesse bassissimo dalla Banca Centrale Europea, tagliando il debito di decine di miliardi l’anno, proprio in base all’articolo 123 del Tue. Obiettivo teoricamente a portata di mano, ma secondo Della Luna in realtà non realizzabile, perché «va contro gli interessi e i poteri che hanno, con successo e profitto, realizzato quanto sopra, acquisendo il dominio delle istituzioni nazionali ed europee».Per «dolosa omissione governativa», coperta da «combutta del silenzio tra mass media, istituzioni, politica», l’avvocato Marco Della Luna annuncia che, insieme a Loris Palmerini, sta lavorando alla redazione di una denuncia alla Corte dei Conti per “danno erariale”. Un buco colossale, da 80 miliardi di euro l’anno. E’ quanto lo Stato potrebbe “risparmiare”, tagliando di colpo il debito pubblico, semplicemente facendo ricorso all’articolo 123 del Tue, il Trattato di Maastricht, fondativo dell’Unione Europea. Il trattato, scrive Della Luna nel suo blog, «consente agli Stati dell’Eurozona di dotarsi di una banca statale e di usarla per finanziarsi presso la Bce ai tassi che questa pratica alle banche, cioè ora allo 0,25%». Risultato: «Lo Stato italiano potrebbe così risparmiare circa 80 miliardi l’anno». Perché nessuno si decide a imboccare questa strada? Germania e Francia già lo fanno, evitando di tassare a morte i cittadini e svendere il patrimonio nazionale a colpi di privatizzazioni.
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Piano Usa: guerra in Europa, prima che crolli il dollaro
«C’è l’intento del Pentagono di colpire la Russia prima del collasso planetario del dollaro». In questa chiave Carlo Tia inquadra i drammatici sviluppi che oppongono Mosca e Washington in Ucraina. «Gli scambi tra la Cina e la Russia sono ormai in yuan, fra la Cina e l’Iran in oro», scrive Tia su “Megachip”. «La stessa Cina si sta liberando di circa 50 miliardi di dollari al mese – trasformati in obbligazioni “ricomprate” forzosamente dal Belgio, non si sa esattamente da chi – per sostenere il dollaro (più esattamente, i petrodollari). Lo stesso George Soros sta pesantemente speculando al ribasso a Wall Street. Sono tutti segni di una prossima depressione mondiale, da cui forse gli Stati Uniti potrebbero uscire solo con una prolungata guerra in Europa». A conferma del “pilotaggio” della crisi esplosa a Kiev, lo scoop del “Giornale”: in una telefonata alla “ambasciatrice” dell’Ue, Catherine Ashton, il ministro degli esteri dell’Estonia, Urmas Paet, dice che i cecchini che hanno sparato sulla folla di piazza Maidan non erano uomini di Yanukovich ma probabilmente «della coalizione appoggiata dall’Occidente».Resta la domanda: perché gli europei non si sono resi conto della trappola mortale tesa a loro dagli Usa? E’ ormai chiaro, sostiene Tia, che secondo i piani dei registi delle Ong operanti in Ucraina (gente del calibro di George Soros e Zbigniew Brzezinski) è contemplata una guerra civile fra i russofoni dell’est e gli ucraini dell’ovest. «Pochissimi media occidentali – continua Tia – hanno trasmesso la registrazione trapelata del colloquio di Victoria Nuland, incaricata Usa della cura dei rapporti diplomatici con Europa ed Eurasia, con l’ambasciatore statunitense in Ucraina». La Nuland disponeva e comandava la composizione del nuovo governo di Kiev dopo aver cacciato Yanukovich, presidente pessimo ma regolarmente eletto. La “strategia della tensione” innescata a Kiev darebbe agli Usa e alla Nato «il pretesto di intervenire per “pacificare” l’Ucraina, stabilirsi minacciosamente nel Mar Nero e proiettarsi sempre di più nel Caucaso e verso il Mar Caspio, ricchissimo di risorse petrolifere e di gas».Grazie alle nuove tecnologie di “fracking”, aggiunge Tia, la stessa Ucraina è diventata nel giro di pochi anni un campo d’interesse primario per esplorazioni e sfruttamento di nuove aree. Lo sviluppo di simili giacimenti (specie da parte di compagnie nordamericane) insidia direttamente la posizione dominante russa di Gazprom. Molto evidente anche la volontà di colpire la Cina, che in questa crisi è schierata con Putin: «I cinesi – rivela l’analista di Megachip – hanno di recente acquistato diritti di sfruttamento agricolo su circa 6 milioni di ettari di terre ucraine coltivabili. Cosa che ha fatto venire il sangue alla testa alla Monsanto e affini. Dico “aveva”, perché il governo fantoccio messo su dagli americani ha revocato subito i diritti concessi l’anno scorso ai cinesi». Per Carlo Tia, il rischio concreto è drammatico: «I meccanismi della guerra sono innescati. Se dovesse fare fino in fondo la sua corsa il gioco automatico delle alleanze, fra non molti giorni ci troveremo in guerra».Nel piano bellico, secondo Tia, si collocano anche le dotazioni del Muos in Sicilia, l’installazione di scudi antimissile in Polonia, l’apertura di basi americane in Romania e Bulgaria, senza contare la Turchia, membro della Nato, che controlla gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli. Il governo di Ankara ha appena concesso a una grande nave da guerra Usa di entrare nel Mar Nero, in violazione della Convenzione di Montreaux, mentre ad Atene c’è una presenza navale ancora più pesante, la portaerei “George Bush”. Secondo la Russia, la convenzione che vieta l’ingresso nel Mar Nero di navi da guerra non appartenenti a paesi affacciati su quel mare, è già avvenuta in questi giorni con la comparsa della fregata statunitense “Taylor” e della “Mount Whitney”, nave-comando della Sesta Flotta».Da questa crisi, è evidente, l’Europa ha tutto da perdere. Perché allora asseconda l’offensiva statunitense alla frontiera russa? «La Germania – scrive Tia – ha abboccato all’amo di una espansione verso un mercato ucraino di 46 milioni e mezzo di abitanti, previa distruzione del modello di economia sociale di mercato dell’Ucraina, e della sua industria, soprattutto all’est del Paese». E la Francia di François Hollande «è stata pesantemente minacciata a partire dal dossier iraniano nel corso del recente viaggio del presidente francese a Washington». Bocciata, di fatto, la missione a Teheran condotta da 140 grandi industriali francesi, «che avevano creduto al clima (fasullo) di buoni nuovi rapporti con l’Iran». Motivo: «Obama ha detto senza peli sulla lingua che tutte le relazioni della Francia (e dell’Europa) devono rispettare non solo le sanzioni che non sono ancora state tolte, ma anche quelle, soprattutto commerciali e finanziarie, che gli Usa dettano unilateralmente».Un gioco pericoloso, che potrebbe chiamarsi Terza Guerra Mondiale, se gli Usa faranno precipitare la situazione con l’adesione dell’Ucraina all’Ue, spingendo i missili della Nato fino ai confini con la Russia. «La Cina, da parte sua, ben sapendo di essere il prossimo obiettivo, ha dichiarato di sostenere la Russia, ed è comunque sotto attacco, sia finanziariamente sia economicamente: il piano americano attuale consiste nel far deragliare l’economia cinese e poi destabilizzarla nelle regioni occidentali, che saranno, per la Cina, l’equivalente dell’Ucraina per la Russia». Di fatto, aggiunge Tia, il mondo si sta avviando ad una bipolarizzazione molto pericolosa: Cina e Russia da un lato, Stati Uniti e Europa al suo guinzaglio dall’altro lato. «È questa una tappa del disegno di dominio planetario degli Usa: ricreare un clima di tensione continua, di fronte alla quale gli europei non potranno che compattarsi attorno allo Zio Sam, per non buttarsi nelle braccia dell’altro blocco».«C’è l’intento del Pentagono di colpire la Russia prima del collasso planetario del dollaro». In questa chiave Carlo Tia inquadra i drammatici sviluppi che oppongono Mosca e Washington in Ucraina. «Gli scambi tra la Cina e la Russia sono ormai in yuan, fra la Cina e l’Iran in oro», scrive Tia su “Megachip”. «La stessa Cina si sta liberando di circa 50 miliardi di dollari al mese – trasformati in obbligazioni “ricomprate” forzosamente dal Belgio, non si sa esattamente da chi – per sostenere il dollaro (più esattamente, i petrodollari). Lo stesso George Soros sta pesantemente speculando al ribasso a Wall Street. Sono tutti segni di una prossima depressione mondiale, da cui forse gli Stati Uniti potrebbero uscire solo con una prolungata guerra in Europa». A conferma del “pilotaggio” della crisi esplosa a Kiev, lo scoop del “Giornale”: in una telefonata alla “ambasciatrice” dell’Ue, Catherine Ashton, il ministro degli esteri dell’Estonia, Urmas Paet, dice che i cecchini che hanno sparato sulla folla di piazza Maidan non erano uomini di Yanukovich ma probabilmente «della coalizione appoggiata dall’Occidente».
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I fallimenti di Padoan? Sono strepitose vittorie dell’élite
I giornali, tolti alcuni più fedeli a Renzi e alla Merkel, si diffondono in esempi di clamorosi fallimenti del nuovo ministro dell’economia come economista. Citano le sue marcatamente erronee previsioni, ripetute, sulla fine della crisi. Citano la sua fedeltà al principio della austerità fiscale e quello bella alta pressione tributaria, fedeltà che resiste all’evidenza del fallimento di questi due principi che stanno, nel mondo reale, producendo effetti contrari a quelli che dovevano produrre. Cioè più indebitamento, più deficit, più recessione. Citano Paul Krugman, che di lui dice che la sua regola è: bisogna colpire l’economia finché non si riprende. Lo dipingono, insomma, come un dogmatico ottuso che rifiuta di vedere i fatti, cioè come un perfetto cretino. Io però non credo che Padoan sia un cretino. Non credo nemmeno che sia un economista fallito, perché si può parlare di fallimento dei principi che egli propugna e difende soltanto se si guarda ai loro effetti dal punto di vista dell’interesse della popolazione generale, non dal punto di vista dell’interesse dell’élite.È vero che la loro applicazione ha prodotto un impoverimento generale, ma è anche vero che ha prodotto un arricchimento dei vertici della società. Un arricchimento in termini sia di ricchezza economica che di potere politico sulla popolazione generale. Un gigantesco trasferimento economico dal basso verso la punta della piramide. Ha consentito una profonda ristrutturazione dei rapporti giuridici e sociali in favore delle classi dominanti a livello globale. Ma ha anche fatto gli interessi della classe dominante italiana, della cosiddetta casta, una classe parassitaria che deriva sia il suo benessere economico che la sua capacità di mantenere la poltrona dalla quantità di risorse che riesce a prendere al resto della popolazione. E le prende attraverso le tasse, perlopiù. I principi economici portati avanti da Padoan aumentano la pressione tributaria, aumentano le risorse che tale classe riesce a prendere per sé. Quindi vanno bene per la casta.Vorrei evidenziare, inoltre, che la pressione tributaria, in una società dominata da questo tipo di casta “estrattiva”, parassitaria, che non si sa se sia più delinquente o più deficiente, non può mai ridursi, perché la casta non può logicamente rinunciare a quote di reddito e ricchezza nazionale che ha fatte già proprie, anche perché le servono per comprare i consensi. Può solo aumentare con l’aumento delle aliquote, con l’introduzione di nuove tasse, con l’introduzione o l’inasprimento delle presunzioni di reddito o di valore dei patrimoni, con l’aumento della cosiddetta lotta all’evasione fiscale. Quindi ognuna di queste mosse peggiora strutturalmente e funzionalmente l’economia perché distoglie stabilmente e definitivamente reddito e risorse dall’economia produttiva in favore del parassitismo. E le distoglie in via irreversibile.Riprendere quelle risorse alla casta per riportarle all’economia produttiva quindi alla possibile ripresa economica, può avvenire solamente attraverso un’azione violenta e rivoluzionaria nei confronti della casta. Violenta, perché si tratta di togliere la carne di bocca ai cani. E perché la casta comprende i vertici dei poteri giudiziario, militare e poliziesco. Al punto di rottura del sistema, l’appoggio e la spinta dei potentati esteri ed europei saranno decisivi in un senso o nell’altro, anche se io rimango dell’opinione che una rivoluzione sia impossibile in Italia (altrimenti sarebbe avvenuta tempo fa) e che la soluzione pragmatica stia nell’emigrazione-delocalizzazione. Sarà decisivo anche il fattore comprensione. Esiste una concezione liberale dello Stato, secondo la quale lo Stato è un apparato erogatore di servizi, un fornitore: economicamente parlando la gente paga tasse a esso, e deve ricevere in cambio servizi corrispondenti alle tasse; se i servizi non corrispondono alle tasse, lo Stato va cambiato e in mancanza di correzione bisogna rifiutare il pagamento delle tasse.Questa concezione è ingenua se non tiene conto del fatto che vi è una classe sociale o casta che ha in mano le leve di poteri dello Stato, e per la quale lo Stato è uno strumento per arricchirsi e per mantenere ed aumentare il proprio potere sulla popolazione generale. Per essa, l’erogazione dei servizi alla popolazione generale è un costo, un costo aziendale, mentre è un utile, un utile aziendale, tutto quello che essa riesce a prendere attraverso lo Stato dalla popolazione generale e a trattenere a proprio vantaggio. Come per il pastore la lana lasciata indosso alle pecore è lana persa, così per questa classe sociale, per la casta italiana, il gettito fiscale è, aziendalmente, il ricavo; la spesa per servizi al corpo sociale è un costo; la differenza, tolti degli oneri finanziari, è il suo profitto.Perciò essa tende ad aumentare il prelievo fiscale indipendentemente dai bisogni effettivi del paese, e gestire la spesa pubblica clientelarmente, inefficacemente, e non verso i bisogni effettivi del paese, ma verso i suoi propri. Col che si spiega come mai in Italia abbiamo tasse altissime e servizi pessimi. Non è vero “più tasse, più servizi”. Non è vero che se si eliminasse l’evasione fiscale le tasse calerebbero: la casta tratterrebbe tutto. Stiamo già pagando tasse più che sufficienti, se non le pagassimo ai ladri. Padoan è il ministro giusto per questa gestione. Non è affatto un cretino o un economista fallito. È l’economista vincente, al contrario. Se lo ha scelto lui, Renzi ha scelto saggiamente: ha scelto un uomo che unisce gli interessi della casta italiana con gli interessi dell’élite capitalista finanziaria globale. Il suo governo è in linea perfetta coi precedenti.(Marco Della Luna, “Padoan, un economista fallito alla guida dell’economia italiana”, dal blog di Della Luna del 22 febbraio 2014).I giornali, tolti alcuni più fedeli a Renzi e alla Merkel, si diffondono in esempi di clamorosi fallimenti del nuovo ministro dell’economia come economista. Citano le sue marcatamente erronee previsioni, ripetute, sulla fine della crisi. Citano la sua fedeltà al principio della austerità fiscale e quello bella alta pressione tributaria, fedeltà che resiste all’evidenza del fallimento di questi due principi che stanno, nel mondo reale, producendo effetti contrari a quelli che dovevano produrre. Cioè più indebitamento, più deficit, più recessione. Citano Paul Krugman, che di lui dice che la sua regola è: bisogna colpire l’economia finché non si riprende. Lo dipingono, insomma, come un dogmatico ottuso che rifiuta di vedere i fatti, cioè come un perfetto cretino. Io però non credo che Padoan sia un cretino. Non credo nemmeno che sia un economista fallito, perché si può parlare di fallimento dei principi che egli propugna e difende soltanto se si guarda ai loro effetti dal punto di vista dell’interesse della popolazione generale, non dal punto di vista dell’interesse dell’élite.
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Cardini: soldati privati e polizie agli ordini dell’élite
«Più il soldato era estraneo e magari perfino ostile rispetto all’ambiente nel quale espletava il suo servizio, più la sua fedeltà si indirizzava esclusivamente ai suoi superiori e meglio lo si poteva usare come strumento di repressione». Un tema che torna d’attualità oggi, nell’Europa travolta dalla crisi socio-economica e sull’orlo di rivolte. Per lo storico Franco Cardini, «siamo all’anno zero; e poiché siamo governati da anonimi poteri, è ovvio che il corpo di polizia sovranazionale serva ai loro interessi». A Cardini, intervistato da Alberto Melotto per “Megachip”, non sfugge il ricorso sistematico a nuove forme di repressione: dalla valle di Susa militarizzata alla Sicilia «ferita dal Muos», fino alla nuova inquietante gendarmeria europea, Eurogendfor. «Questa euro-milizia, che andrà ad incorporare in futuro la stessa Arma dei carabinieri, dovrà gestire crisi legate all’ordine pubblico», ricorda Melotto. «Si parla di un’immunità giudiziaria per gli appartenenti a questo corpo speciale di polizia: gli ufficiali di Eurogendfor non potranno essere intercettati dalle autorità giudiziarie dei singoli Stati».È facile supporre che un simile marchingegno verrà impiegato in situazioni dove si verifica una forte protesta sociale contro decisioni inique dei governi, argomenta Melotto, ragionando con Cardini sulla recente ripubblicazione del volume “Quell’antica festa crudele”, un viaggio – prima edizione nei primi anni ‘80 – lungo i secoli che vanno dal medioevo alla Rivoluzione Francese. Guerra e pace: «La guerra che crea nuove classi sociali, sollecita spostamenti di popolazioni affamate in cerca di ingaggi mercenari e terrorizza plebi contadine», e la pace che, dpo l’anno mille, «diffonde il proprio messaggio esigente e chiede risposte adeguate, col formarsi di movimenti che pongono seri limiti alle guerre private». Guerre private, organizzate da élite? La certezza del diritto si incrina appena viene meno la sovranità statale: «La sovranità nazionale – dice Cardini – l’Italia non ce l’ha più da quando il sistema Usa-Nato è entrato potentemente nella penisola, innervandola con le sue basi militari senza che i nostri governi abbiano mosso un dito, anzi sulla base di un’evidente loro connivenza».Cardini, osserva Melotto, nella sua analisi storica vuole «mettere l’accento su una civiltà che possedeva una forte consapevolezza di quel che significasse l’andare in battaglia, che trovava in sé gli anticorpi che potessero salvarla da un definitivo tracollo, da un totale cedimento alla barbarie del sangue versato». Consapevolezza che, secondo Cardini, risulta assente ingiustificata ai nostri giorni. Riproporre oggi “Quell’antica festa crudele”, infatti, «è utile per marcare la distanza che separa un periodo di impegno e di scontro culturale e politico dai nostri anni inconsapevoli». Se nei secoli passati la guerra poteva essere “umanizzata”, “razionalizzata” e quindi dominata, oggi «la mancanza di una morale condivisa nell’opinione pubblica pare far da preludio al trionfo delle guerre non più legate ai voleri degli Stati-nazione. Oggi, l’istituzione di una milizia come Eurogendfor fa pensare a un fronte di guerra interno: «È la prosecuzione della costruzione di Eurolandia a favore di chi la gestisce e ne ricava i frutti».Non era meglio la leva obbligatoria? Un esercito difensivo, una forza di protezione civile? «Un esercito che nasca con i soli scopi difensivi e di aiuto alla popolazione civile non è un esercito», dice Cardini. «Quello di cui avremmo bisogno sarebbe un vero esercito europeo, non un’organizzazione di ascari al servizio della Nato. La leva obbligatoria non è più concepibile: il processo di destrutturazione della società civile italiana è andato ormai troppo oltre». Altro segnale allarmante: il movimento pacifista si è quasi dissolto. «Siamo nella fase delle operazioni di polizia internazionali, funzionali al governo delle lobbies multinazionali che sta sempre più governando il mondo intero, con alcune zone ancora poco chiare. Per esempio, dove va la Cina? Si adatterà a questo tipo di gioco, e in che modo?». Quest’anno ricorre l’anniversario dello scoppio della Grande Guerra: quanto vi era di consapevole, nei governanti dell’epoca, nella decisione di mandare al massacro i proletari d’Europa l’un contro l’altro? «Il punto – replica Cardini – non era massacrare i proletari, ma perseguire una politica di potenza: la Russia voleva raggiungere il Mediterraneo, la Francia vendicarsi dei tedeschi e recuperare le aree ferrifere e carbonifere dell’area renano-mosellana. Certo, la guerra era un diversivo rispetto all’affrontare la questione sociale».La sinistra italiana, incarnata allora nel Partito Socialista – ricorda Melotto – fu l’unica in Europa a non chinare il capo alle intimidazioni del nazionalismo, diversamente da quanto fecero i socialisti francesi, che votarono i crediti di guerra dopo l’assassinio del loro dirigente Jean Jaurés. Non fu uno dei momenti più alti della storia del movimento operaio italiano? «Sì, e anche del mondo cattolico che in genere era nemico del conflitto», concorda Cardini. «Ma c’erano ormai larghe aree d’inquinamento nazionalista, tra i socialisti e tra i cattolici. Quanto all’interventismo rivoluzionario, che nasceva su altre basi, alla prova si rivelò un cavallo di Troia del nazionalismo». Oggi, la riflessione storica rischia di essere intorbidita: i «fanatici», decisi a «minimizzare le responsabilità dei nazisti» negando la tragedia della Shoah, finiscono col danneggiare anche «i ricercatori seri», che rivendicano il diritto di rivedere la storia, correggendo errori e mistificazioni. Cè poco da stare allegri: «Ci vorrebbe una Costituzione europea e una raggiunta maturità di coscienza appunto federale o confederale da parte dei popoli, che non c’è». C’è invece il dominio egemonico della Troika. «Chi lo ha voluto? Quali sono i suoi poteri? Chi li ha determinati? Una decisione di questo tipo non può esser presa nel totale silenzio dei governati».(Il libro: Franco Cardini, “Quell’antica festa crudele”, Il Mulino, 520 pagine, 30 euro).«Più il soldato era estraneo e magari perfino ostile rispetto all’ambiente nel quale espletava il suo servizio, più la sua fedeltà si indirizzava esclusivamente ai suoi superiori e meglio lo si poteva usare come strumento di repressione». Un tema che torna d’attualità oggi, nell’Europa travolta dalla crisi socio-economica e sull’orlo di rivolte. Per lo storico Franco Cardini, «siamo all’anno zero; e poiché siamo governati da anonimi poteri, è ovvio che il corpo di polizia sovranazionale serva ai loro interessi». A Cardini, intervistato da Alberto Melotto per “Megachip”, non sfugge il ricorso sistematico a nuove forme di repressione: dalla valle di Susa militarizzata alla Sicilia «ferita dal Muos», fino alla nuova inquietante gendarmeria europea, Eurogendfor. «Questa euro-milizia, che andrà ad incorporare in futuro la stessa Arma dei carabinieri, dovrà gestire crisi legate all’ordine pubblico», ricorda Melotto. «Si parla di un’immunità giudiziaria per gli appartenenti a questo corpo speciale di polizia: gli ufficiali di Eurogendfor non potranno essere intercettati dalle autorità giudiziarie dei singoli Stati».
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Freccero: perché i giornalisti non tollerano chi protesta
La Tav viene presentata dalla stampa come un problema di ordine pubblico, di devianza e addirittura di terrorismo. La domanda da porsi sarebbe: perché la Tav entra in agenda solo come un problema di ordine pubblico? E ancora: perché la stampa ha perso il suo ruolo storico di strumento critico – pensate a tutti quei film che hanno immortalato attraverso l’immaginario hollywoodiano la stampa come controsistema – per diventare oggi completamente asservita al potere dominante? La risposta che si da solitamente è che la stampa è alla dipendenza della casta politica e ne segue i diktat. Bene, non solo. Meglio: il giornalismo rappresenta a sua volta una casta: c’è una casta che muove in qualche modo le fila come un burattinaio, le fila che muovono l’opinione pubblica sono i giornalisti asserviti al potere. E se il problema fosse più complesso? Se anziché essere persuasori occulti i giornalisti fossero in buona fede persuasi (sottolineo persuasi) dal pensiero unico?Preso atto che naturalmente l’agenda dei media influenza l’opinione pubblica, la domanda da porsi è: in base a quali principi si costruisce questa agenda, quali sono gli elementi che hanno indotto la stampa a cambiare radicalmente la sua funzione da giornalismo d’inchiesta e critica sociale a difesa del consenso? Queste sono le domande da porsi. Bene. La cosa più interessante è che pensiamo alla parola “dissenso”. E qui iniziamo un ragionamento. Negli anni delle lotte per i diritti civili, la parola dissenso era sinonimo di democrazia. Oggi invece è piuttosto sinonimo di: devianza, delinquenza, terrorismo. Il movimento No Tav esprime il dissenso delle popolazioni coinvolte rispetto al progetto approvato a livello centrale: pertanto è un caso di “insubordinazione”, è fuori dalla maggioranza. Ritengo che il caso No Tav non sia un caso singolo, ma un format, che si replica in tutti i casi di minoranze che si oppongono all’ordine del discorso quantitativo della nostra epoca.Noi viviamo attualmente le contraddizioni di vivere con una Costituzione formalmente basata sul principio illuministico di difesa delle minoranze ma cerchiamo di applicarla in modo contrario (è questo il tema della discussione politica di oggi) affinché la maggioranza possa esercitare quella che è di fatto una dittatura. Per vedere come questo format si può estendere prendiamo il caso del Parlamento. La dialettica parlamentare nasce per permettere anche alle minoranze di esporre le proprie idee e partecipare alla costruzione della legge. Piglio l’esempio della Boldrini: intervistata da Fabio Fazio sul decreto Imu-Bankitalia (scandaloso) la Boldrini ha giustificato la “ghigliottina” dicendo che era suo dovere, in veste di presidente della Camera, troncare il dibattito parlamentare per permettere alla maggioranza (sottolineo “permettere alla maggioranza”) di governo di legiferare. Interessante.Dunque il Parlamento va esautorato, le leggi sono un prodotto dell’esecutivo in quanto appoggiato dalla maggioranza, e le minoranze sono di per sé qualcosa di illegale, che dev’essere in qualche modo ricondotto al volere dei più. Ecco questo format che si ripete anche nella situazione della Boldrini. Io, guardate, è dagli anni ’80 che mi occupo di maggioranza e sono stato forse il primo a segnalare in qualche modo, partendo dall’analisi dell’audience televisiva, come l’uso continuo del sondaggio avesse a poco a poco sostituito a livello sociale la ricerca del sapere foucoltiano o della verità in generale. E se tutte le scelte – anche politiche e morali – avvengono su base quantitativa, non è più possibile esprimere dissenso, è chiaro. Abolito il concetto di verità da parte del pensiero debole (altra cosa molto importante) non esiste più alcun elemento valido per opporsi ai valori della maggioranza.Ecco che a tutto ciò si è poi aggiunto in qualche modo, dopo l’11 Settembre, un clima – come posso dire – di guerra permanente, che giustifica in qualche modo un permanente stato di eccezione. Ecco, questa qua è l’altra cosa fondamentale, e sottolineo “stato di eccezione” che a sua volta giustifica il superamento di qualsiasi garanzia democratica. Ricordo un programma di Santoro, “Servizio Pubblico”, che mesi fa ha intervistato due No-Tav come “terroriste” in quanto così presentate dalla stampa e dalla forza pubblica. Erano due ragazze giovanissime, simpatiche, belle, tranquille. Ma questo cosa vuol dire: che oggi che il semplice dissenso è sinonimo di terrorismo. Questa è una cosa che sta passando tranquillamente: chi si difende perché aggredito, anche se vede in parte riconosciute le sue ragioni, viene comunque presentato come dalla parte del torto perché (orrore!) ha operato in modo violento opponendosi all’ordine della maggioranza. La violenza è tollerata solo nel senso della forza pubblica.Altro elemento fondamentale: dopo l’11 Settembre, in America, sono state sdoganate la tortura, Guantanamo e tutte le forme di guerra. Apro questo inciso perché un altro elemento che ha lavorato nel nostro inconscio, quella violenza che genera orrore e in qualche modo raccapriccio se messa in opera da parte dissenziente, viene vissuta come buona e giusta qualora sia un’emanazione del potere costituito. In “24”, la serie americana, Jack Bauer combatte il terrorismo con la violenza e la tortura, e scene di punizione corporale. Bene, in Italia la polizia (già col G8 si era entrati in uno stato di eccezione che ricordo molto bene, e prima ancora che a Genova anche a Napoli) può picchiare, usare lacrimogeni pur di contenere comunque ogni e qualsiasi forma di dissenso, anche il più pacifico ed innocuo. E’ il dissenso in sé ad essere considerato criminale perché rallenta il raggiungimento degli obiettivi della maggioranza. E il pensiero critico, che è stato il mito della mia giovinezza, della nostra generazione, appare ormai come elemento di disturbo. In vent’anni di berlusconismo, la scuola è diventata una fabbrica per replicare il pensiero unico. Solo un valore ottiene riconoscimento: l’obbedienza al conformismo vigente. E questo vale in particolare per il giornalismo.(Carlo Freccero, “No Tav e media”, estratti dell’intervento pronunciato il 18 febbraio 2014 al Circolo dei Lettori di Torino, ripreso dal sito No-Tav “Controsservatorio Valsusa”).La Tav viene presentata dalla stampa come un problema di ordine pubblico, di devianza e addirittura di terrorismo. La domanda da porsi sarebbe: perché la Tav entra in agenda solo come un problema di ordine pubblico? E ancora: perché la stampa ha perso il suo ruolo storico di strumento critico – pensate a tutti quei film che hanno immortalato attraverso l’immaginario hollywoodiano la stampa come controsistema – per diventare oggi completamente asservita al potere dominante? La risposta che si da solitamente è che la stampa è alla dipendenza della casta politica e ne segue i diktat. Bene, non solo. Meglio: il giornalismo rappresenta a sua volta una casta: c’è una casta che muove in qualche modo le fila come un burattinaio, le fila che muovono l’opinione pubblica sono i giornalisti asserviti al potere. E se il problema fosse più complesso? Se anziché essere persuasori occulti i giornalisti fossero in buona fede persuasi (sottolineo persuasi) dal pensiero unico? -
De Benoist: guarire il mondo, oltre destra e sinistra
Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».Per Preve, ricorda Zarelli su “La Voce del Ribelle” (post ripreso da “Come Don Chisciotte) la società contemporanea è dominata da un’ideologia che intreccia due formule dogmatizzate, destra e sinistra intese come «categorie generiche, non più identificate con concrete forze sociali». Di destra è il cosiddetto “pensiero unico”, ovvero l’idea che la società di mercato e il capitalismo internazionale – con tutti i suoi corollari, compresa la guerra intesa come operazione di “polizia internazionale” – costituiscano l’unico orizzonte possibile e auspicabile; di sinistra invece è lo stile “politically correct”, imperniato sull’esaltazione dei diritti dell’individuo, sul moralismo e sull’esigenza di politeness della politica, che viene ridotta a mero dibattito o pura chiacchiera. «Pressoché tutte le agenzie operanti all’interno dell’industria culturale, così come il sapere accademico, si muovono all’interno di questo codice dominante, la cui funzione è quella di legittimare il sistema vigente, raccogliendone i benefici in termini di visibilità mediatica e di carriere “intellettuali”».Idee di destra, valori di sinistra? De Benoist non è allineato con questa combinazione, dato che il suo pensiero politico potrebbe essere rappresentato con una formula esattamente contraria: valori di destra, idee di sinistra. Oggi, scrive Zarelli, destra e sinistra sono state entrambe «soppiantate dall’adozione di un trasversale criterio di governance, che evita accuratamente di mettere in discussione il quadro generale di riferimento di una società di mercato – ovvero di una società che è diventata mercato – sulla quale ormai quasi tutti concordano». Alain de Benoist invece «esprime una posizione che è esattamente l’opposto rispetto a quella dominante, la quale sostiene l’uguaglianza di principio tra gli uomini e al contempo cristallizza però le differenze sociali e le conseguenti ingiustizie». Il che, come sostenne già nel 1995 a Perugia, «non significa dunque che non esisterà più una destra o una sinistra», ma «le linee di frattura sono ormai trasversali: passano all’interno della destra come all’interno della sinistra». Le due categorie sono destinate a diventare complementari, «assumendo ciò che di meglio e di più vero esse possono avere».La ricerca meta-politica di de Benoist è orientata verso un ambito «in cui collocare la sua prospettiva di valore», che però «non coincide più con l’appartenenza a un’identità politica data». Per questo, lanciando la rivista “Krisis” alla fine degli anni ‘80, la definì «di sinistra, di destra, del fondo delle cose e del mezzo del mondo». Intellettuale “non catalogabile”, de Benoist considera post-moderno il suo pensiero, che critica la modernità. Dal suo avamposto isolato, riflette: la dicotomia destra-sinistra è un’invenzione «recente e localizzata», cioè «legata all’avvento delle democrazie di tipo parlamentare». Infatti, «non appena ci si allontana dall’Occidente per andare verso il terzo mondo, i concetti di destra e sinistra appaiono sempre meno pertinenti». E visto che quei concetti sorgono in Europa solo con la Rivoluzione Francese, bisogna ammettere che ciò che designano «non esisteva prima», e quindi non contengono «niente di immutabile». Dato che si tratta di categorie moderne, andrebbero riscritte in modo diacronico: la modernità (individual-universalista) sarebbe “di sinistra” e le società dell’Ancien Régime “di destra”. Ma questo è vero solo per noi occidentali: «Che cosa dire, allora, delle società tradizionali? E di quale utilità per l’analisi può essere una “destra” che finirebbe con l’inglobare i nove decimi della storia dell’umanità?».Il dogma fondamentale della civilizzazione moderna, scrive Zarelli, è lo sviluppo economico, o “progresso”, che consiste «nella sistematica sostituzione dell’ecosfera o mondo reale (la fonte dei benefici naturali) con la tecnosfera o mondo surrogato (la fonte dei benefici artificiali)». Problema: «Nessun “credente” accetta l’idea che sia proprio questo “sacro” processo la causa della sistematica distruzione sociale e ambientale cui stiamo assistendo, che egli imputa invece a deficienze o difficoltà nella sua realizzazione; di conseguenza, la visione del mondo del “modernismo” gli impedisce di comprendere il rapporto con il mondo reale, quello in cui vive, e di adattarsi a esso in modo da massimizzare il proprio benessere e la propria reale ricchezza». La visione del mondo del modernismo, e in particolare i paradigmi della scienza e dell’economia, «servono invece a razionalizzare lo sviluppo economico, o “progresso”, che sta portando l’uomo alla distruzione del mondo naturale». Com’è possibile che l’obiettività scientifica si comporti in modo tanto poco oggettivo? Semplice: «La scienza non è oggettiva, e questo è stato ben argomentato da alcuni dei maggiori filosofi della scienza contemporanea, come Thomas Khun, Imre Lakatos o Paul Feyerabend».Gli scienziati, continua Zarelli, accettano il paradigma della scienza – e quindi la concezione del modernismo – perché «razionalizza le politiche che hanno fatto nascere il mondo moderno in cui essi credono». Del resto, «è molto difficile, per una persona, evitare di considerare il mondo in cui vive – l’unico che ha mai conosciuto – come la condizione normale della vita umana su questo pianeta». Sicché, «è improrogabile l’affermazione di una “visione del mondo” ecologica, alla luce della quale sia possibile invertire la tendenza e ricomporre la frattura tra natura e cultura, aprendosi a una interpretazione sacrale del vivente che reincanti la realtà». Per Edward Goldsmith, l’obiettivo primario di una “società ecologica” deve essere un modello di comportamento teso a preservare l’ordine fondamentale del mondo naturale e del cosmo.In molte culture tradizionali esiste una parola per definire quel modello di comportamento: gli indiani dell’epoca vedica lo chiamavano “rta”, nell’Avesta il termine è “a_a”, gli antichi egizi lo chiamavano “maat”, gli indù e i buddisti “dharma”, i cinesi “Tao”. «Il Tao come “principio primo”, onnicomprensivo. Gli esseri umani, seguendo il Tao, o la Via, si comportano naturalmente». In termini spirituali, questo significa attenersi al principio del “Wu wei” (agire senza agire) di Lao-Tzu, perché «le cose, quando obbediscono alle leggi del Tao, formano un tutto armonioso e l’universo diventa un tutto integrato». In altre parole, quello che comunemente viene definito come “progresso” è la negazione stessa della “evoluzione” all’interno del processo naturale, sostiene Zarelli. «Poiché l’evoluzione deve essere identificata con la Via, che mantiene l’ordine naturale e quindi la stabilità dell’ecosfera», il progresso (o anti-evoluzione) «sconvolge l’ordine naturale pregiudicandone la stabilità».La “rivoluzione conservatrice”, controversa tendenza culturale affermatasi tra le due guerre mondiali, tentò di conciliare mito e scienza. Una vocazione che ricorda la l’impegno culturale di «rifondazione dei riferimenti filosofico-politici» sviluppato da Alain de Benoist «in una prospettiva comunitaria e pluralista». Impegno riassumibile in due punti: la fine della dicotomia destra-sinistra (in favore dell’elaborazione di una nuova cultura) e l’intuizione secondo cui «la trasversalità tra destra e sinistra deve essere raggiunta attraverso nuove sintesi», come «positiva contraddizione» e non «mera reciproca negazione». Da qui la ricerca di «nuovi, ulteriori e proficui paradigmi» per interpretare e cogliere le contraddizioni della civilizzazione occidentale. Riuscirà De Benoist a rinnovare lessico, modalità ideative e contenuti del dibattito politico-culturale contemporaneo? Siamo certi, conclude Zarelli, che l’impegno «è all’altezza della sua intelligenza», confortata dall’onestà intellettuale di questo «pensatore “epocale”, oltre il moderno».Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».
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Chomsky: padroni dell’umanità, hanno ucciso l’Europa
Si credono i padroni dell’umanità, e purtroppo lo stanno diventando: la politica democratica ha cessato di resistere loro, spianando la strada alla dittatura incondizionata dei poteri forti, economici e finanziari, che ormai dettano le condizioni della nostra vita pubblica. Parola di Noam Chomsky, considerato il maggior linguista vivente, autore del capolavoro “Il linguaggio e la mente”. A 86 anni, il professore statunitense dimostra una lucidità di pensiero e di visione che non lascia spazio a dubbi. Nessuna illusione: «Le nostre società stanno andando verso la plutocrazia. Questo è il neoliberismo», dice Chomsky, in Italia per il Festival delle Scienze di Roma, gennaio 2014. Il titolo dell’ultima raccolta di testi inediti tradotti in italiano è estremamente esplicito: loro, gli oligarchi globali, signori delle multinazionali e grandi banche d’affari, sono “I padroni dell’umanità”.«La democrazia in Italia è scomparsa quando è andato al governo Mario Monti, designato dai burocrati seduti a Bruxelles, non dagli elettori», afferma Chomsky. In generale, come risporta il newsmagazine “Contropiano”, per Chomsky «le democrazie europee sono al collasso totale, indipendentemente dal colore politico dei governi che si succedono al potere». Sono “finite”, le democrazie del vecchio continente – Italia, Francia, Germania, Spagna – perché le loro sorti «sono decise da burocrati e dirigenti non eletti, che stanno seduti a Bruxelles». Decide tutto la Commissione Europea, che non è tenuta a rispondere al Parlamento Europeo regolarmente eletto. Puro autoritarismo neo-feudale: «Questa rotta è la distruzione delle democrazie in Europa e le conseguenze sono dittature».Per Chomsky, il neoliberismo che domina la dottrina tecnocratica di Bruxelles è ormai un pericolo planetario. Il fanatismo del “libero mercato” come via naturale per un’economia sana poggia su dogma bugiardo e clamorosamente smentito: senza il supporto pubblico (in termini di welfare e di emissione monetaria) nessuna economia privata può davvero svilupparsi. Oggi il neoliberismo si configura come «un grande attacco alle popolazioni mondiali», addirittura «il più grande attacco mai avvenuto da quarant’anni a questa parte». Desolante il silenzio dell’informazione, che coinvolge gli stessi “new media”: la loro tendenza è quella di «sospingere gli utenti verso una visione del mondo più ristretta». In modo sempre più automatico, «le persone sono attratte verso quei nuovi media che fanno eco alle loro stesse vedute», quelle cioè dei “padroni dell’umanità”.Si credono i padroni dell’umanità, e purtroppo lo stanno diventando: la politica democratica ha cessato di resistere loro, spianando la strada alla dittatura incondizionata dei poteri forti, economici e finanziari, che ormai dettano le condizioni della nostra vita pubblica. Parola di Noam Chomsky, considerato il maggior linguista vivente, autore del capolavoro “Il linguaggio e la mente”. A 86 anni, il professore statunitense dimostra una lucidità di pensiero e di visione che non lascia spazio a dubbi. Nessuna illusione: «Le nostre società stanno andando verso la plutocrazia. Questo è il neoliberismo», dice Chomsky, in Italia per il Festival delle Scienze di Roma, gennaio 2014. Il titolo dell’ultima raccolta di testi inediti tradotti in italiano è estremamente esplicito: loro, gli oligarchi globali, signori delle multinazionali e grandi banche d’affari, sono “I padroni dell’umanità”.
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Schiavi o disoccupati: è l’unica scelta che ci concedono
Schiavitù o disoccupazione, prendere o lasciare. Nel passaggio da “Fabbrica Italia” al “modello Electrolux”, accusa Eugenio Orso, si compie «la privatizzazione della disperazione sociale – fra le masse immemori dell’antica ed estinta lotta di classe – con il supporto decisivo dei media, di economisti e intellettuali, della politica collaborazionista nel semi-Stato italiano e dalle centrali sindacali al servizio del neocapitalismo». E si compie il passaggio dal lavoro ancora umano, oggetto di tutele e rapportato alla persona, al mero fattore-lavoro neocapitalistico, che non può avere alcun diritto «perché concepito come un qualsiasi bene e servizio nel circuito produttivo». Un bene «disgiunto dal suo prestatore», perché «i lavoratori, in quanto tali, diventano delle non-persone. Non-persone come lo furono gli schiavi del mondo antico». “Oggetti animati” di cui è possibile liberarsi «chiudendo interi stabilimenti produttivi, se non si accettano inaccettabili (in altre epoche) riduzioni di paga».Qual è la ragione più profonda della passività sociale che caratterizza le masse pauperizzate italiane, paese in cui una famiglia su tre è ormai da considerarsi povera? E’ una passività che continua – o addirittura aumenta – mentre procedono spediti deindustrializzazione, taglio delle paghe e dei redditi, disoccupazione indotta. «La direzione di marcia così scontata che gli allarmi non suscitano ormai alcuna sorpresa, né possono provocare alcuna reazione di massa, dentro o fuori gli schemi politici e sindacali», scrive Orso in un intervento su “Pauperclass” ripreso da “Come Don Chisciotte”. Il ferale gennaio 2014 illumina una realtà deprimente con due eventi decisivi: la fine della vecchia Fiat e il brutale ricatto alla Electrolux, che in Veneto e Friuli vorrebbe operai “polacchi”, da pagare pochissimo. In entrambi i casi, la lezione è la medesima: il grande capitale impone i suoi diktat senza più argini, e gli italiani assistono rassegnati.La “snazionalizzazione” della Fiat si coniuga infatti con il super-ricatto svedese nei confronti degli operai della Electrolux: si va verso la “cinesizzazione” del fattore-lavoro in Italia e in Europa, «comprimendone i costi senza troppe cerimonie». Costi che d’ora in poi «potranno essere compressi all’estremo, fino alla soglia minima di sopravvivenza o anche al di sotto». Ormai è «anacronistico» parlare di “lavoratori”, «guardando alle persone e ai loro diritti». Aggiunge Orso: «Sorriderà compiaciuto, nella tomba, l’agente di cambio anglo-olandese David Ricardo – padre del liberismo economico e “bestia nera” di Marx, nonché classico dell’economia – la cui legge dei salari altro non prevedeva, per i lavoratori, che il minimo per la sopravvivenza di sé e del proprio nucleo familiare (il cosiddetto salario di sussistenza)». Il modello Electrolux, se applicato diffusamente in grandi numeri, «supererà le sue attese, perché in futuro, nei semi-Stati neocapitalistici come l’Italia, si potrà andare liberamente molto al di sotto del minimo».Dopo il modello “Fabbrica Italia” «adottato da una Fiat infedele al paese (quella “finanziaria e globale” del manager canadese Marchionne e degli eredi Agnelli, gli ebrei Elkann)», ecco spuntare il “modello Electrolux”, non limitato al settore degli elettrodomestici. «Un modello fondato su un ricatto brutale, da realizzare per le vie brevi: o il taglio delle paghe senza alcuna vera contrattazione, oppure la delocalizzazione delle produzioni altrove (nella fattispecie in Polonia) e la chiusura degli stabilimenti italiani». Oggi il sistema dell’economia mondiale lo permette, anzi lo incoraggia. «Si avanza così di un passo, oltre Marchionne e la Fiat “internazionalizzata” oggi fusa con Chrysler in Fca, verso il pieno dominio del mercato globale e la totale libertà di scelta del capitale finanziario». Si passa dall’attacco portato con successo alla contrattazione nazionale collettiva da una Fiat ancora formalmente italiana (con sede nella penisola ma già fuori da Confindustria) a un attacco più diretto per colpire al cuore le deboli resistenze residue al progetto neocapitalistico.Un progetto, continua Orso, che prevede la compressione estrema del fattore-lavoro e la totale libertà nella scelta delle aree d’investimento, non più ostacolata da alcuna barriera. Infatti, «dello Stato sovrano non c’è più alcuna traccia, in Italia». E, dal direttorio Monti-Napolitano in poi, «si è definitivamente affermato un semi-Stato europoide e neocapitalistico». Ovvero «un semi-Stato “da operetta”, estraneo agli interessi della popolazione italiana e tenuto formalmente in vita dai veri decisori, come supporto locale ai processi di globalizzazione economico-finanziaria in atto». In questo contesto generale, il “sub-mercato” europoide che imprigiona l’Italia si muove nella stessa direzione dei grandi mercati asiatici e del Pacifico. La rotta, per tutti, è stabilita dagli agenti strategici neocapitalistici, che attraverso le “istituzioni” sovranazionali controllano in modo ferreo «la penisola, le sue risorse (popolazione compresa) e il suo patetico semi-Stato».«Dopo aver abilmente disgiunto la persona dal fattore-lavoro, negando l’unità dell’esperienza esistenziale umana», secondo Orso oggi «si privatizza anche la conseguente disperazione sociale di massa, rendendola un mero dramma individuale e individualizzato, privo di rappresentanza politica nel semi-Stato e orfano delle vecchie tutele sindacali». Non è più possibile resistere: «Non esistono più rappresentanze effettive per i futuri schiavi, o i futuri espulsi dal ciclo produttivo». E il dramma è vissuto esclusivamente nel privato, in solitudine. «Ecco cosa impongono l’“apertura al mercato” e la cosiddetta competitività in uno scenario globale, per agganciare una chimerica ripresa produttiva e occupazionale nel semi-Stato. Che la riduzione di paga richiesta per mantenere la produzione in Italia sia di poco più del 10%, come millanta la proprietà, o addirittura del 50%, oppure, più probabilmente, vicina a una percentuale intermedia fra le due, poco importa. Comunque finisca la vicenda degli stabilimenti italiani di Electrolux, il dado è tratto, il ricatto è servito ed è il capitale finanziario a dettare imperiosamente la sua legge».Schiavitù o disoccupazione, prendere o lasciare. Nel passaggio da “Fabbrica Italia” al “modello Electrolux”, accusa Eugenio Orso, si compie «la privatizzazione della disperazione sociale – fra le masse immemori dell’antica ed estinta lotta di classe – con il supporto decisivo dei media, di economisti e intellettuali, della politica collaborazionista nel semi-Stato italiano e dalle centrali sindacali al servizio del neocapitalismo». E si compie il passaggio dal lavoro ancora umano, oggetto di tutele e rapportato alla persona, al mero fattore-lavoro neocapitalistico, che non può avere alcun diritto «perché concepito come un qualsiasi bene e servizio nel circuito produttivo». Un bene «disgiunto dal suo prestatore», perché «i lavoratori, in quanto tali, diventano delle non-persone. Non-persone come lo furono gli schiavi del mondo antico». “Oggetti animati” di cui è possibile liberarsi «chiudendo interi stabilimenti produttivi, se non si accettano inaccettabili (in altre epoche) riduzioni di paga».
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Sapelli: via tutti, l’Italia si salva solo con una rivoluzione
«Fino al 1450 eravamo l’economia più florida del mondo. Poi abbiamo conosciuto la crisi del ‘600. Perché i figli della borghesia comunale hanno lasciato le città e sono andati a vivere in villa come nobili: quando si guadagnano troppi soldi, non si risponde più a se stessi». Secondo il professor Giulio Sapelli, per l’Italia «forse non c’è più speranza. «A forza di imporre l’ortodossia monetarista e deflazionista, i tedeschi stanno facendo dell’Europa un deserto». Italia addio: «Questa è una nazione ricca, con un grande risparmio. E la cultura. Ma i risparmi si stanno erodendo. E tra 20 anni, forse, saremo un paese desertificato». Come uscirne? Licenziare immediatamente l’attuale classe dirigente, e puntare a una svolta radicale, «socialista e rivoluzionaria», per dire no alla politica della Troika di Bruxelles.Per l’economista che ha conosciuto l’Italia di Olivetti, la grande e la media impresa, le cooperative e i distretti, scrive Giovanna Faggionato su “Lettera 43”, la crisi di oggi è il frutto di un male antico: la persistenza di una classe dirigente che ci condanna alla sudditanza estera. Così, mentre la Commissione Europea certifica che siamo il paese in cui «la situazione sociale si è deteriorata maggiormente», e in cui una quota consistente di occupati non riesce più ad arrivare a fine mese, lo studioso non si dà pace. E si chiede come il Parlamento Ue abbia potuto firmare il Fiscal Compact. Risposta: «Le nostre classi dirigenti cercano approvazione, legami e inserimento nella finanza internazionale. Lo ha fatto Romano Prodi. E poi Mario Monti. E ora anche Enrico Letta punta alle cariche all’estero». Quindi non fanno gli interessi italiani? «Monti ha fatto gli interessi di chi lo ha sempre sostenuto, cioè le istituzioni finanziarie». Draghi? «Lui viene da Goldman Sachs, dalla scuola americana. E prova a fare la politica Usa».La Germania, aggiunge Sapelli nell’intervista, «ci vuole fare morire di deflazione». Meglio gli Stati Uniti, perché a loro «in questo momento serve un’Europa forte». E’ vero, sono proiettati verso il Pacifico perché «preparano la guerra che verrà con la Cina», ma hanno bisogno di avere le spalle coperte, cioè un’economia europea in salute. «Stiamo trattando un accordo di libero scambio transatlantico: possiamo negoziare», dice Sapelli. «E comunque, meglio gli Stati Uniti del dominio tedesco», a cui Draghi “non osa” opporsi. Andiamo verso un crack come quello argentino del decennio scorso? «Dell’Argentina stiamo iniziando a copiare i leader peronisti», a comiciare da Renzi. «Abbiamo avuto due sole “rivoluzioni” generazionali in Italia. Una l’ha fatta Benito Mussolini ed era il fascismo. E l’altra è stata il ‘68. Basta guardare come sono finite». Spiragli? «Avete votato il Pd, Berlusconi…». E cosa bisogna votare, Grillo? «Nessuno. Bisogna rifondare un partito socialista, rivoluzionario. Come Syriza, in Grecia. Che non vuole uscire dall’Europa, ma rinegoziare il debito».«Fino al 1450 eravamo l’economia più florida del mondo. Poi abbiamo conosciuto la crisi del ‘600. Perché i figli della borghesia comunale hanno lasciato le città e sono andati a vivere in villa come nobili: quando si guadagnano troppi soldi, non si risponde più a se stessi». Secondo il professor Giulio Sapelli, per l’Italia «forse non c’è più speranza. «A forza di imporre l’ortodossia monetarista e deflazionista, i tedeschi stanno facendo dell’Europa un deserto». Italia addio: «Questa è una nazione ricca, con un grande risparmio. E la cultura. Ma i risparmi si stanno erodendo. E tra 20 anni, forse, saremo un paese desertificato». Come uscirne? Licenziare immediatamente l’attuale classe dirigente, e puntare a una svolta radicale, «socialista e rivoluzionaria», per dire no alla politica della Troika di Bruxelles.