Archivio del Tag ‘dominio’
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L’Estonia non tollera la verità e arresta Giulietto Chiesa
Nella nuova Europa senza politica estera e interamente dominata dalla Nato non ci si fa scrupolo di espellere da uno dei paesi membri un giornalista di fama internazionale come Giulietto Chiesa, il primo ad affrontare – in mondovisione – i golpisti di Mosca che nel ‘91 avevano tentato di rovesciare Mikhail Gorbaciov, padre della “perestrojka” e Premio Nobel per la Pace. Sconcerto, sulla stampa italiana, per il fermo subito da Chiesa il 15 dicembre a Tallinn, capitale dell’Estonia, dove era invitato a un dibattito internazionale sul tema “la Russia è nemica dell’Europa?”. Evidente l’irritazione delle autorità estoni per l’attività del giornalista, già corrispondente da Mosca per i principali media italiani. Martellante la campagna d’informazione condotta da Chiesa su “Pandora Tv”, per denunciare il “golpe” con il quale l’Occidente ha rovesciato il governo Yanukovich per insediare un governo filo-Usa, dominato dall’estrema destra neonazista, responsabile di atrocità contro la popolazione ucraina di etnia russa, fino alla carneficina della “casa dei sindacati” di Odessa.Giulietto Chiesa è stato arrestato dalla polizia di Tallinn per essere poi espulso come “persona non gradita”: «Un fatto molto grave», per il suo avvocato, Francesco Paola: «Una violazione dei diritti politici». Già europarlamentare, eletto nel 2004 con la lista “Di Pietro – Occhetto” e poi passato come indipendente al gruppo socialista europeo, Chiesa si è ricandidato al Parlamento Europeo nel 2009 in Lettonia, rappresentando la minoranza russa del paese baltico. Uomo di vaste relazioni internazionali, promotore del “World Political Forum” presiduto dallo stesso Gorbaciov, Giulietto Chiesa ha anche insegnato negli Stati Uniti, al Woodrow Wilson International Center di Washington ed è stato inserito nel “panel” internazionale di New York per la verità sull’11 Settembre, dopo il bestseller “La guerra infinita” (Feltrinelli, 2002) e il documentario “Zero”, opere che contestano la verità ufficiale sui drammatici attentati alle Torri Gemelle.Un uomo scomodo, Giulietto Chiesa: al punto da essere impunemente espulso da un paese membro dell’Ue, solo per aver espresso le sue idee? Forte la sua denuncia sulle mistificazioni attorno alla crisi ucraina, completamente manipolata dai media mainstream a partire dal suo sanguinoso esordio, la strage di civili in piazza Maidan a Kiev. A “tradirsi”, rivelando la vera identità degli stragisti, fu proprio un politico estone, il ministro degli esteri Urmas Paet, al telefono con l’allora responsabile europea della politica estera, Catherine Ashton. Paet le disse di aver scoperto che a sparare sulla folla non erano stati gli agenti del regime di Yanukovich, ma cecchini addestrati dall’Occidente. Obiettivo: massacrare innocenti, per poi incolpare la polizia ucraina e scatenare una campagna di odio contro il regime di Yanukovich, non ostile a Mosca. Brutalità e cinismo denunciati con la massima fermezza da Giulietto Chiesa, chiarissimo anche nel rimarcare l’emergere di gruppi neonazisti e la pericolosa intolleranza, in Est Europa, verso chiunque si opponga al “pensiero unico” imposto dagli Usa. Al punto da finire arrestato, dopo aver messo piede in un paese che certo guarda con simpatia ai “golpisti” di Kiev?Nella nuova Europa senza politica estera e interamente dominata dalla Nato non ci si fa scrupolo di espellere da uno dei paesi membri un giornalista di fama internazionale come Giulietto Chiesa, il primo ad affrontare – in mondovisione – i golpisti di Mosca che nel ‘91 avevano tentato di rovesciare Mikhail Gorbaciov, padre della “perestrojka” e Premio Nobel per la Pace. Sconcerto, sulla stampa italiana, per il fermo subito da Chiesa il 15 dicembre a Tallinn, capitale dell’Estonia, dove era invitato a un dibattito internazionale sul tema “la Russia è nemica dell’Europa?”. Evidente l’irritazione delle autorità estoni per l’attività del giornalista, già corrispondente da Mosca per i principali media italiani. Martellante la campagna d’informazione condotta da Chiesa su “Pandora Tv”, per denunciare il “golpe” con il quale l’Occidente ha rovesciato il governo Yanukovich per insediare un governo filo-Usa, dominato dall’estrema destra neonazista, responsabile di atrocità contro la popolazione ucraina di etnia russa, fino alla carneficina della “casa dei sindacati” di Odessa.
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La rivoluzione digitale cancella il lavoro: rassegnatevi
Qualche giorno fa, Alessandro Gilioli ha pubblicato sul suo blog un commento alla recente intervista che uno dei due fondatori di Google, Larry Page, ha rilasciato al “Financial Times”. Il nodo evidenziato da Gilioli riguarda l’opinione, sempre più diffusa e ancorata a dati di fatto, secondo cui i progressi nel campo della robotica e dell’intelligenza artificiale sarebbero destinati a generare una contrazione irreversibile e permanente dell’occupazione, non solo fra i lavoratori che svolgono mansioni esecutive, ma anche, se non soprattutto, fra i cosiddetti lavoratori della conoscenza. Siamo abituati a sentir contestare tale tesi da quanti ricordando che tutte le precedenti rivoluzioni tecnologiche, dopo aver generato temporanei cali occupazionali, hanno puntualmente creato le condizioni per il loro riassorbimento; ma l’argomento che recita “è sempre andata così, quindi andrà così anche questa volta” non convince: sia perché smentito (almeno per ora) dai fatti, sia perché ignora le radicali differenze fra la rivoluzione digitale e le precedenti rivoluzioni tecnologiche.Ma torniamo a Page e Gilioli. Il secondo sottolinea come il primo ripeta più volte, nel corso dell’intervista, la frase «you can’t wish it away», come dire: le cose stanno così, vi piaccia o meno, né cambieranno. «Temo che abbia ragione», ammette a malincuore Gilioli – parere che condivido, così come condivido il fastidio per l’indifferenza manifestata da Page nei confronti degli “effetti collaterali” del tecnocapitalismo digitale. Nutro invece qualche dubbio sull’analisi di Gilioli in merito alle due possibili modalità di fronteggiare il fenomeno: la prima di destra, la seconda di sinistra. Possiamo non fare nulla, limitandoci a subire passivamente quanto succede e anzi sfruttandolo per diminuire l’uguaglianza, scrive, e questa è la risposta di destra. Fin qui l’accordo è totale. Oppure possiamo cercare di capire quanto accade e provare a governarlo politicamente e democraticamente, ridistribuendo ricchezze, lavoro e tempo libero, e questa è la risposta di sinistra. Qui invece dissento, perché sono convinto che disponiamo di analisi già sufficientemente ampie, approfondite e dettagliate di quanto accade per capire che non è più possibile governarlo politicamente e democraticamente, perlomeno nel senso che la sinistra tradizionale attribuisce a questi due concetti.Mi spiego facendo riferimento ad un autore, Colin Crouch, di cui mi sono qui recentemente occupato: Crouch – al pari di Ulrik Beck, Pierre Rosanvallon, Thomas Piketty e altri pensatori neo-socialdemocratici – prende lucidamente atto della mutazione postdemocratica che il tecnocapitalismo finanziarizzato ha indotto nei nostri sistemi politici, trasformandoli in oligarchie dominate dagli interessi dei soggetti che sfruttano le “leggi” del mercato e della tecnica per aumentare la disuguaglianza (la formula “diminuire l‘uguaglianza”, citata poco sopra, suona eufemistica), dopodiché (come gli altri autori citati) vede quale unica soluzione il rilancio di strategie riformiste simili a quelle evocate da Gilioli. Ebbene, io penso che questa sia oggi un’utopia impraticabile, e che la sola risposta di sinistra all’orrore che ci viene incontro sia tornare a immaginare se e come sia possibile una rottura radicale di sistema. Ma qui, purtroppo – a meno di non abbandonarsi a velleitari “insurrezionalismi” – l’analisi del che fare è assai più debole di quella sull’impatto socioeconomico del capitalismo alla Larry Page.(Carlo Formenti, “Se la rivoluzione digitale cancella il lavoro”, da “Micromega” del 10 novembre 2014).Qualche giorno fa, Alessandro Gilioli ha pubblicato sul suo blog un commento alla recente intervista che uno dei due fondatori di Google, Larry Page, ha rilasciato al “Financial Times”. Il nodo evidenziato da Gilioli riguarda l’opinione, sempre più diffusa e ancorata a dati di fatto, secondo cui i progressi nel campo della robotica e dell’intelligenza artificiale sarebbero destinati a generare una contrazione irreversibile e permanente dell’occupazione, non solo fra i lavoratori che svolgono mansioni esecutive, ma anche, se non soprattutto, fra i cosiddetti lavoratori della conoscenza. Siamo abituati a sentir contestare tale tesi da quanti ricordando che tutte le precedenti rivoluzioni tecnologiche, dopo aver generato temporanei cali occupazionali, hanno puntualmente creato le condizioni per il loro riassorbimento; ma l’argomento che recita “è sempre andata così, quindi andrà così anche questa volta” non convince: sia perché smentito (almeno per ora) dai fatti, sia perché ignora le radicali differenze fra la rivoluzione digitale e le precedenti rivoluzioni tecnologiche.
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Rottamare il popolo, Renzi realizza il sogno della destra
“Missione compiuta”, gigioneggia Matteo Renzi a fronte delle regionali emiliano-romagnole e calabresi. Certo che sì. Ma non tanto per la presumibile conquista della poltrona di governatore da parte dei due candidati sponsorizzati, personaggi tutto sommato insignificanti, latori di proposte politiche inesistenti. Niente di tutto questo. La vera missione giunta a compimento è l’aver rottamato, in un colpo solo, circa il dieci per cento del corpo sociale italiano; le donne e gli uomini che – in quanto cittadini – intendono concorrere a determinare la volontà generale. E l’effetto “piazza pulita” fa maggiormente impressione se il soggetto collettivo, in più fragoroso allontanamento da una concezione attiva della politica, è proprio l’antica “maglia rosa” nazionale del civismo: l’Emilia Romagna appassionata e socialdemocratica. Il nostro premier può farsi scrivere dal ghost-writer di fiducia tutti i temini che vuole sulla sua presunta natura di sinistra, può precettare la Gioconda Boschi allo sbandieramento dell’essenza newdealistica ed egualitaria del Jobs Act (ma perché questi anglicismi, visto che il Renzi si incarta quando bazzica l’anglofonia? Lo chiami Asfaltalavoro così ci capiamo meglio). Renzi può raccontarcela come vuole, anche se la gag mostra ormai la corda.Resta il fatto che l’obiettivo della Destra apparsa in Occidente da quattro decenni, diventando dominante da un quarto di secolo, ha come primario obiettivo quello di azzerare il popolo. Obiettivo che il giovanile di Rignano porta avanti con proterva determinazione sotto gli sguardi compiaciuti dei suoi mentori e precettori (Berlusconi e Verdini tra i più cari), di quanti avevano vendette da consumare a sinistra (tipo Sacconi) e con la benevola approvazione dei liquidatori internazionali della tradizione progressista novecentesca keynesiano-rooseveltiana (dai vari Blair ai tecno-killer di Bruxelles, al servizio del sistema bancario internazionale). Il senso generale dell’operazione discende da due inestirpabili retropensieri del nostro tempo: la logica finanziaria, in cui la ricchezza per riprodursi non ha più bisogno delle persone (la produzione di denaro a mezzo denaro; a differenza dell’età industrialista, in cui il capitale produceva masse che ne acquistassero i prodotti); la priorità del potere oligarchico che recalcitra ad ogni forma di controllo, in particolare quello democratico.Sicché fa specie, ma non troppo, che gli Orfini – già “giovani turchi, poi rivelatisi “vecchi ottomani” (nel senso di afferrare poltrone) – imbarcati felicemente sul carro renziano non emettano neppure un sospiro davanti alla mattanza in atto. Così, tanto per salvarsi l’anima. Il fatto è che la vicenda regionale si inserisce in un lungo processo di normalizzazione in corso non da oggi. Che nel nostro paese si accompagna alla sostituzione di seppur imperfette forme di democrazia deliberativa con il grande baraccone dello star-system; iniziato con il guitto di Arcore e proseguito da una lunga serie di imitatori, che avevano recepito dal maestro le virtù dell’illusionismo per la conquista del consenso. Quella sequenza di personaggi che pare giunta alla sua più compiuta espressione nel premier che gioisce davanti all’esodo dal voto di sei italiani su dieci; sostanzialmente perché l’intera offerta esposta sui banconi elettorali appariva loro inaccettabile.Certo, così facendo si consente alla banda che presidia il varco della politica di vincere per no-contest, per abbandono della controparte civica. E di questo dovrebbe farsi carico in termini autocritici chi ha dissipato le speranze riposte nel febbraio 2013 nell’Altra Politica da parte di un quarto di italiani. Intanto continua l’opera di abrogazione del popolo. Un vecchio sogno delle plutocrazie, se già all’inizio dell’età industriale l’abate Sismondi poteva scrivere: «In verità non resta che desiderare altro se non che il re, rimasto solo nell’isola, girando una manovella, faccia eseguire per mezzo di congegni meccanici tutto il lavoro dell’Inghilterra».(Pierfranco Pellizzetti, “Rottamare il popolo”, da “Micromega” del 24 novembre 2014).“Missione compiuta”, gigioneggia Matteo Renzi a fronte delle regionali emiliano-romagnole e calabresi. Certo che sì. Ma non tanto per la presumibile conquista della poltrona di governatore da parte dei due candidati sponsorizzati, personaggi tutto sommato insignificanti, latori di proposte politiche inesistenti. Niente di tutto questo. La vera missione giunta a compimento è l’aver rottamato, in un colpo solo, circa il dieci per cento del corpo sociale italiano; le donne e gli uomini che – in quanto cittadini – intendono concorrere a determinare la volontà generale. E l’effetto “piazza pulita” fa maggiormente impressione se il soggetto collettivo, in più fragoroso allontanamento da una concezione attiva della politica, è proprio l’antica “maglia rosa” nazionale del civismo: l’Emilia Romagna appassionata e socialdemocratica. Il nostro premier può farsi scrivere dal ghost-writer di fiducia tutti i temini che vuole sulla sua presunta natura di sinistra, può precettare la Gioconda Boschi allo sbandieramento dell’essenza newdealistica ed egualitaria del Jobs Act (ma perché questi anglicismi, visto che il Renzi si incarta quando bazzica l’anglofonia? Lo chiami Asfaltalavoro così ci capiamo meglio). Renzi può raccontarcela come vuole, anche se la gag mostra ormai la corda.
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Tasse, privatizzazioni e via il contante: Renzi, cioè Monti
Il monopolio delle multinazionali contro il sistema delle piccole e medie imprese, da caricare di tasse. Maxi-torta in arrivo: lo smantellamento dei servizi, da “regalare” ai grandi gruppi dopo aver smantellato il Titolo V della Costituzione, che ne tutela il controllo pubblico ancora affidato a Comuni e Regioni. E infine, la sparizione del denaro contante: fine della privacy nelle transazioni commerciali e «tracciabilità di tutti gli acquisti dei cittadini come nemmeno in Unione Sovietica accadeva». Sbucci Renzi e scopri Monti, sostiene Marcello Foa: il “bomba”, quello delle «promesse che non si realizzano mai», è stato piazzato a Palazzo Chigi al posto di Letta, troppo timido sul fronte della privatizzazione dello Stato, e ovviamente dopo Monti, penalizzato dall’immagine del rigore assoluto. Renzi? Fa la stessa politica di Monti, ma col sorriso. E, a differenza del predecessore, grazie al suo «ego ipertrofico» va avanti, distraendo gli italiani a suon di retorica e propaganda, in modo che nessuno capisca quello che sta avvenendo veramente, cioè il dominio definitivo dei poteri forti, a spese dei cittadini.«La politica economica di Renzi – scrive Foa nel suo blog sul “Giornale” – non è volta a difendere e incentivare la piccola e media impresa italiana, ma è favorevole soprattutto alle multinazionali, smaniose di trasformare ancor di più l’Italia in una riserva di talenti e di professionisti a buon mercato». Non è un caso che Renzi prediliga le sedi delle multinazionali nelle sue uscite pubbliche, prodigandosi in elogi nei loro confronti. «Ed è significativo l’atteggiamento elusivo del suo governo sui licenziamenti alla Thyssen Krupp: premuroso con i grandi gruppi, retorico e inconcludente con le piccole e medie imprese italiane». La verità? Più tasse e meno mercato. «Scusate, ma io i tanto promessi alleggerimenti fiscali e burocratici proprio non li vedo. Semmai, come ai tempi di Monti, assistiamo al moltiplicarsi di balzelli indiretti e occulti», come «la riforma per far pagare il canone Rai a tutti attraverso la bolletta della luce», esteso ai proprietari di case sfitte o di seconde o terze case. Ancora una volta, «emerge la volontà centralista vessatoria che caratterizza l’operato dei governi dalla caduta di Berlusconi in poi».Quindi, le privatizzazioni. Renzi ha predisposto la riforma del Titolo V: «Se passasse, permetterebbe al premier di privatizzare tutte le municipalizzate del settore delle utilities, con la conseguenza che ben conosciamo: non di liberalizzare e mettere in concorrenza più fornitori, ma di sostituire un monopolio pubblico con un monopolio privato, com’è inevitabile quando per la tipologia del servizio la concorrenza è di fatto impossibile». Valga l’esempio delle autostrade cedute ai privati: da Roma a Milano ne esiste solo una, o prendi quella o percorri le statali. Il mercato dov’è? Per molte utilities la situazione è analoga. Infine, si aggiunge la mazzata dell’abolizione del contante, come spiega Enzo Pennetta sul blog “Critica Scientifica”. Primo passo, informatizzare il paese – e sin qui, ok. Poi viene annunciato che si procederà all’eliminazione dello scontrino per ottenere la “tracciabilità totale”, «notizia criptica ma vagamente liberatoria». Quello che non viene detto, sottolinea Pennetta, è che questo significa procedere all’eliminazione del contante.«La tracciabilità assoluta e il superamento della necessità dello scontrino – scrive “Critica Scientifica” – non si possono conseguire che eliminando la possibilità di pagare in contanti, cosa che avrebbe dovuto essere detta con chiarezza». E così, senza neanche nominare il contante, è stato dato l’annuncio della sua prossima eliminazione. Notizia sfuggita al “Corriere della Sera”, che ha pubblicato per primo l’annuncio di Renzi, ma anche ai 58 lettori del “Corriere” che hanno commentato l’articolo. Nessuno ha intuito qual è la vera posta in gioco. E chi aveva proposto l’abolizione del contante? Mario Monti, risponde Foa, osservando che l’eliminazione del cash equivale alla cancellazione definitiva di ogni forma di privacy: saranno millimetricamente tracciati tutti gli acquisti dei cittadini, come non accadeva nemmeno in Urss. «Domenico Idone, su “Twitter”, mi ha ricordato questo articolo. Era il 2012 e Renzi diceva: “Sarò il Monti bis”. Ancora dubbi?».Il monopolio delle multinazionali contro il sistema delle piccole e medie imprese, da caricare di tasse. Maxi-torta in arrivo: lo smantellamento dei servizi, da “regalare” ai grandi gruppi dopo aver smantellato il Titolo V della Costituzione, che ne tutela il controllo pubblico ancora affidato a Comuni e Regioni. E infine, la sparizione del denaro contante: fine della privacy nelle transazioni commerciali e «tracciabilità di tutti gli acquisti dei cittadini come nemmeno in Unione Sovietica accadeva». Sbucci Renzi e scopri Monti, sostiene Marcello Foa: il “bomba”, quello delle «promesse che non si realizzano mai», è stato piazzato a Palazzo Chigi al posto di Letta, troppo timido sul fronte della privatizzazione dello Stato, e ovviamente dopo Monti, penalizzato dall’immagine del rigore assoluto. Renzi? Fa la stessa politica di Monti, ma col sorriso. E, a differenza del predecessore, grazie al suo «ego ipertrofico» va avanti, distraendo gli italiani a suon di retorica e propaganda, in modo che nessuno capisca quello che sta avvenendo veramente, cioè il dominio definitivo dei poteri forti, a spese dei cittadini.
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Chi tocca muore: fango su chiunque osi avvicinarsi a Putin
Come nel film il “Tocco del male” del 1998, interpretato da Denzel Washington e Donald Sutherland, chiunque viene sfiorato dai russi viene immediatamente posseduto da un demone che trasforma gli uomini in assassini della democrazia, persecutori di gay, violentatori di donne, violatori dei diritti umani e di tutte le altre amenità del politicamente corretto, tanto in voga nelle nostre culture decadenti. Le simpatie del Cremlino nei confronti di singoli personaggi politici europei o di interi raggruppamenti partitici che vengono incoraggiati o aiutati finanziariamente (si tratta di prestiti e non di regalie a fondo perduto) bastano e avanzano per dare la patente di impresentabili, di autoritari, di nemici della civiltà occidentale a tutti costoro. Poco importa se si tratta di amicizie e di legami che nascono da una comune visione del mondo e dalle riflessioni sulla situazione economico-politica in Europa, continente del quale anche Mosca fa parte.Così fan tutti, ma ai russi sono sempre precluse buona fede e sincerità. Qualità che, invece, vengono concesse automaticamente (a prescindere, direbbe Totò) alle Ong, alle fondazioni o alle banche americane che supportano individui, partiti, organismi e movimenti (anche sediziosi) in ogni angolo del pianeta, Italia compresa. Pecunia non olet, a meno che non sia in rubli. In questi giorni lo schema diabolico, questo sì davvero tale, si è ripetuto contro il Fn guidato da Marine Le Pen, colpevole di aver accettato un prestito di nove milioni di euro dalla First Czech Russian Bank, di proprietà di Roman Yakubovich Popov, il quale, si dice, sia vicino a Putin. Il tesoriere del partito non ha negato e, del resto, il Fn non aveva altra scelta, poiché gli istituti di credito francesi si sono rifiutati di concedere mutui ad una organizzazione che si dichiara apertamente contro l’euro e l’Europa dei potenti ed a favore di un recupero di prerogative sovrane.Il presidente dell’istituto di credito russo è stato prontamente definito dai giornali “l’oligarca dello Zar”. Essendo russo, il citato banchiere non può che essere un oligarca, almeno nella zucca vuota dei nostri scribacchini di regime. Nonostante Putin sia stato il primo vero nemico dell’oligarchia speculatrice nel suo paese, da Eltsin in poi, tanto da averla combattuta in ogni ambito, politico, economico, giudiziario e sociale, egli è e resta, per i nostri pennivendoli, il despota amico dei satrapi del denaro e del furto ai danni dello Stato. Invece, l’oligarca Poroshenko, vicino all’Occidente e arrivato al potere dopo un colpo di stato anticostituzionale, è un sincero democratico e liberale. Il tocco del bene, a regia obamiana.In Italia c’è un altro partito che sta seguendo le orme del Front National, almeno in termini di battaglie politiche e di nuove parole d’ordine che cozzano con quelle dei circuiti politici dominanti, spadroneggianti da destra a sinistra. E’ la Lega di Salvini, alla quale sono state repentinamente impresse le stimmate del partito antinazionale foraggiato da una potenza straniera. Salvini ha negato di aver mai preso soldi dall’estero ma poco importa, la campagna denigratoria è già cominciata e non si fermerà finché il movimento del Nord non sarà ridotto a più miti consigli (quelli che non si possono rifiutare, provenienti da Washington e da Bruxelles) o sprofondato nel fango. Fango che sta già sgorgando copiosamente ad ogni passo di avvicinamento che fanno questi leader per intendersi tra loro e per dare vita ad un fronte internazionale capace di produrre quella massa critica necessaria a combattere l’Europa dei banchieri e dei politici asserviti agli Stati Uniti. I delinquenti della stampa l’hanno già ribattezzata l’internazionale dell’odio o dei fasciocomunisti, perché oggi, anche solo parlare di sovranità nazionale e di mutamento dei rapporti di forza mondiali, ancora troppo sbilanciati a favore di una sola potenza, quella d’oltreatlantico, costituisce un reato di lesa maestà che può costare caro (qui penso alla malasorte di Christophe de Margerie).Salvini e Le Pen si guardino le spalle perché hanno toccato dei pericolosi fili scoperti sfidando i signori della prepotenza occidentale. Inoltre, il segretario del Carroccio si tenga pure a distanza dall’endorsement di Berlusconi perché non ha bisogno dell’imprimatur del Cavaliere per scalare un elettorato ormai stufo di questo gioco degli specchi tra schieramenti opposti ma uniti nel governo. Berlusconi ha consentito all’attuale obbrobrio istituzionale di consolidarsi, a nocumento del sistema-paese e dei suoi cittadini. Fa parte del problema, non delle eventuali soluzioni. Potremo anche capire i normali piccoli tatticismi per catalizzare i voti di Forza Italia, ma non un sodalizio organico con quest’ultima che sarebbe ferale per la Lega e per il notevole lavoro di opposizione, in “solitaria tenzone”, finora svolto. (Ps: oggi il “Fatto Quotidiano” è scatenato contro la Lega. Sono apparsi due o tre articoli di fuoco, ordinati espressamente da qualcuno. I giornalisti che li hanno scritti sono membri del “circolo atlantico”. Uno più uno fa ancora due. Uno di questi pezzi cita anche il nostro sito, “Conflitti e strategie”).(Gianni Petrosillo, “Il tocco del male, chi tocca i russi muore, da Salvini alla Le Pen”, da “Conflitti e Strategie” del 27 novembre 2014).Come nel film il “Tocco del male” del 1998, interpretato da Denzel Washington e Donald Sutherland, chiunque viene sfiorato dai russi viene immediatamente posseduto da un demone che trasforma gli uomini in assassini della democrazia, persecutori di gay, violentatori di donne, violatori dei diritti umani e di tutte le altre amenità del politicamente corretto, tanto in voga nelle nostre culture decadenti. Le simpatie del Cremlino nei confronti di singoli personaggi politici europei o di interi raggruppamenti partitici che vengono incoraggiati o aiutati finanziariamente (si tratta di prestiti e non di regalie a fondo perduto) bastano e avanzano per dare la patente di impresentabili, di autoritari, di nemici della civiltà occidentale a tutti costoro. Poco importa se si tratta di amicizie e di legami che nascono da una comune visione del mondo e dalle riflessioni sulla situazione economico-politica in Europa, continente del quale anche Mosca fa parte.
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Perché i palestinesi devono sparire dalla faccia della terra
La sociologia delle relazioni etniche/razziali identifica 3 tipi distinti di strutture razziste, ossia le relazioni strutturali tra i gruppi dominanti e le minoranze. Una è quella che è stata chiamata delle “minoranze di intermediari”. In questa struttura, il gruppo minoritario ha una relazione di mediazione tra il dominante e i gruppi subordinati. Questa è stata storicamente l’esperienza dei commercianti cinesi d’oltremare in Asia, dei libanesi e siriani nell’Africa occidentale, degli indiani nell’est Africa, dei meticci in Sudafrica e degli ebrei in Europa. Quando le “minoranze di intermediari” perdono la loro funzione mano a mano che cambiano le strutture, possono essere assorbite dal nuovo ordine o possono diventare capri espiatori, o addirittura subire un genocidio. Gli ebrei occuparono storicamente questo ruolo di “minoranza di intermediari” nell’Europa feudale e nel capitalismo in nuce. La struttura dell’Europa feudale assegnò agli ebrei certe funzioni vitali per l’espansione della società feudale europea. Queste includevano la gestione del commercio a lunga distanza e il prestito di denaro.Queste attività furono vietate dalla Chiesa cattolica e non erano parte normale delle relazioni tra padrone-servo nel cuore del feudalesimo; nonostante ciò erano vitali per il mantenimento del sistema. Quando il capitalismo si sviluppè nei secoli XIX e XX, nuovi gruppi capitalisti assunsero le funzioni di commercio e bancarie, perciò il ruolo degli ebrei risultò superfluo per le nuove classi dominanti. Come risultato gli ebrei in Europa soffrirono intense pressioni mano a mano che il capitalismo si sviluppava e sporadicamente soffrirono il genocidio, come capro espiatorio delle difficoltà del capitalismo, la perdita del loro ruolo economico che prima era vitale, la crisi mondiale del 1930, l’ideologia e il programma nazista. Un secondo tipo di struttura razzista è quella che chiamiamo “il supersfruttamento e/o la disorganizzazione della classe operaia”. Questa è una situazione nella quale il settore razziale subordinato e oppresso dentro la classe sfruttata occupa i gradini più bassi dell’economia e della società, in particolare dentro una classe operaia razziale o etnicamente stratificata. Il concetto chiave qui è che il lavoro del gruppo subordinato (i loro corpi, la loro esistenza) è necessario per il sistema dominante, anche se il gruppo sperimenta emarginazione culturale e sociale e la privazione dei diritti politici.Questa fu l’esperienza storica schiavista degli afroamericani in Usa, così come quella degli irlandesi in Inghilterra, dei latini attualmente in Usa, degli indios Maya in Guatemala, degli africani in Sudafrica sotto l’apartheid e così successivamente. Questi gruppi sono con frequenza subordinati sociali, culturali e politici sia che questo sia di fatto o per legge. Rappresentano il settore dei supersfruttati e discriminati, lavorativamente, razzialmente e etnicamente divisi e situati nelle classi popolari. Questa fu l’esperienza dei palestinesi nell’economia politica israeliana fino a poco tempo fa e nelle circostanze uniche di Israele e della Palestina nel XX secolo. La struttura razzista finale è l’esclusione e l’appropriazione delle risorse naturali. Questa è una situazione nella quale il gruppo dominante necessita delle risorse del gruppo subordinato, ma non del loro lavoro (né dei loro corpi, né della loro esistenza fisica). Questa è la struttura razzista che più facilmente conduce a un genocidio.Fu l’esperienza dei nativi americani nell’America del nord. I gruppi dominanti necessitavano della loro terra, però non del loro lavoro o dei loro corpi, dato che gli schiavi africani e gli europei già offrivano la mano d’opera necessaria per il nuovo sistema, e pertanto furono vittime del genocidio. E’ stata l’esperienza dei gruppi indigeni dell’Amazzonia. Lì furono scoperte, nella loro terra, nuove e enormi risorse minerarie e energetiche. E nondimeno e letteralmente, anche se non sono necessari, questi indigeni interpongono i loro corpi nel cammino del capitale verso le risorse. Per questo attualmente ci sono pressioni per riattivare il genocidio. Questa è la situazione più recente che gli afroamericani affrontano negli Usa. Molti afroamericani passarono dallo stare nel settore dei supersfruttati della classe operaia all’emarginazione quando i datori di lavoro cambiarono la mano d’opera sfruttata afroamericana per quella degli immigranti latini che diventarono i supersfruttati. Come gli afrostatunitensi, in quantità significativa, diventarono strutturalmente emarginati; sono oggetto di una crescente privazione dei loro diritti, di criminalizzazione, della falsa “guerra contro le droghe”, della incarcerazione di massa e del terrore della polizia e dello Stato. Sono visti dal sistema come necessari per controllare una popolazione non necessaria e ribelle.Allora, come i nativi americani prima di loro (e a differenza dei sudafricani neri) i corpi palestinesi non sono più necessari e semplicemente stanno intralciando lo Stato sionista, i gruppi dirigenti, i coloni e gli aspiranti coloni che necessitano delle risorse palestinesi, specificamente la terra, però non dei palestinesi. In verità, anche se i lavoratori palestinesi vengono eliminati dall’economia israeliana, migliaia di palestinesi di Cisgiordania ancora lavorano in Israele. Gli immigrati ebrei russi e altri che sostituirono la mano d’opera palestinese in Israele nella decade dei ‘90 continuarono negli anni seguenti confidando nel proprio privilegio razziale per entrare nella classe media israeliana, dato che non vogliono occupare posti di lavoro relazionati con gli arabi. Così successe che gli africani, gli asiatici e altri immigranti del Sud globalizzato continuarono ad arrivare in Israele. Questo cambio di direzione volta a farli divenire “l’umanità in eccesso” sembra essere più avanzato per gli abitanti di Gaza, che rimangono bloccati e relegati nel campo di concentramento nel quale Gaza si è convertita. I palestinesi di Gaza appaiono come il primo gruppo che affronta il tormento del genocidio.I sionisti e i difensori di Israele considerano come una grande offesa qualsiasi analogia tra i nazisti e le azioni dello stato di Israele, inclusa l’accusa di genocidio, in parte a causa del fatto che l’olocausto ebreo è utilizzato dallo Stato di Israele e del progetto politico sionista come meccanismo di legittimazione; perciò parlare di queste analogie significa rivelare il discorso di legittimazione israeliano. E’ cruciale indicare ciò, perché questo discorso è arrivato poco a poco a legittimare le politiche o le proposte israeliane in corso, che dimostrano una similitudine ogni volta più allarmante con altri esempi storici di genocidio. Il notevole storico israeliano Benny Morris, professore dell’università Ben Gurion del Negev, che si identifica strettamente con Israele, concesse una lunga intervista al periodico “Haaretz” nel 2004, dove si riferiva al genocidio dei nativi americani al riguardo di ciò che sono oggi gli Stati Uniti d’America con il fine di suggerire che il genocidio può essere accettabile. Disse nell’intervista: «Anche la grande democrazia statunitense non poté essere creata senza l’annichilazione degli indios. Ci sono casi nei quali il bene finale globale giustifica atti aggressivi e crudeli che si commettono nel corso della storia».Successivamente, fece un richiamo alla pulizia etnica dei palestinesi, dicendo: «Bisogna costruire per loro qualcosa di simile a una gabbia. So che suona terribile. E’ realmente crudele. Però non c’è altra opzione. C’è un animale selvaggio che bisogna rinchiudere in un modo o nell’altro». Le opinioni di Morris non rappresentano il consenso dentro Israele, molto meno nell’ambito internazionale e ci sono varie divisioni, punti di tensione e contraddizioni tra i gruppi di potere israeliani e transnazionali. C’è anche un crescente movimento mondiale di boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni (Bds) che fa pressione sui gruppi dominanti per arrivare a un accordo che difenda i loro propri interessi economici. Questo è un momento imprevedibile. Ci siano o no pressioni strutturali in favore del genocidio, in realtà la materializzazione del progetto di genocidio dipenderà dalla congiuntura storica della crisi, dalle condizioni politiche e ideologiche che fanno del genocidio una possibilità e un agente dello Stato con i mezzi e la volontà per attuarlo. Visibilmente a Gaza è già cominciato un genocidio al rallentatore, dove ci sono stati assedi israeliani per mesi ogni pochi anni che mietono migliaia di morti, decine di migliaia di feriti, centinaia di migliaia di profughi e tutta la popolazione privata delle condizioni basilari di vita, con l’eclatante appoggio pubblico israeliano che appoggia queste campagne. Queste condizioni generali necessarie a un progetto di genocidio sono lontane dal materializzarsi, però certamente in questo momento si stanno infiltrando. Tocca alla comunità internazionale lottare a fianco dei palestinesi e degli israeliani decenti per evitare tale risultato.(William Robinson, “La sociologia del razzismo e del genocidio, da Ferguson ai Territori Occupati”, estratto dall’articolo “L’economia politica dell’apartheid israeliano e lo spettro del genocidio”, pubblicato da “Truth-Out” il 19 agosto 2014 e tradotto da “Come Don Chisciotte”. Robinson è professore di sociologia, studi globali e latinoamericani nell’università di California a Santa Barbara. Il suo libro più recente è “Il capitalismo globale e la crisi dell’umanità”).La sociologia delle relazioni etniche/razziali identifica 3 tipi distinti di strutture razziste, ossia le relazioni strutturali tra i gruppi dominanti e le minoranze. Una è quella che è stata chiamata delle “minoranze di intermediari”. In questa struttura, il gruppo minoritario ha una relazione di mediazione tra il dominante e i gruppi subordinati. Questa è stata storicamente l’esperienza dei commercianti cinesi d’oltremare in Asia, dei libanesi e siriani nell’Africa occidentale, degli indiani nell’est Africa, dei meticci in Sudafrica e degli ebrei in Europa. Quando le “minoranze di intermediari” perdono la loro funzione mano a mano che cambiano le strutture, possono essere assorbite dal nuovo ordine o possono diventare capri espiatori, o addirittura subire un genocidio. Gli ebrei occuparono storicamente questo ruolo di “minoranza di intermediari” nell’Europa feudale e nel capitalismo in nuce. La struttura dell’Europa feudale assegnò agli ebrei certe funzioni vitali per l’espansione della società feudale europea. Queste includevano la gestione del commercio a lunga distanza e il prestito di denaro.
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Da soldati del capitale a uomini liberi, malgrado la Boldrini
L’immigrazione è uno dei temi più caldi del dibattito pubblico attuale. Del resto, in un mondo sempre più globale e insicuro, non potrebbe essere altrimenti. Come spesso capita, però, la discussione si è distanziata precocemente dalla ricerca della verità e di soluzioni concrete, fossilizzandosi in due macro-schieramenti: da un lato, c’è chi vede nell’immigrato un invasore, colpevole di rubare il posto di lavoro altrui; dall’altro, la difesa spasmodica di tale fenomeno ha portato ad affermazioni che farebbero rabbrividire qualsiasi appassionato di distopie. È questo il caso, relativamente recente, del presidente della Camera Laura Boldrini, la quale ha esplicitamente dichiarato in diretta nazionale che «il migrante è l’avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». Considerata da alcuni come massimo esempio di tolleranza e libertà, quest’idea se fosse del tutto realizzata sancirebbe la vittoria assoluta del sistema liberal-capitalista, già oggi dominante.Come una veggente di stampo neoliberista, infatti, la Boldrini fa riferimento ad un futuro dove si «dovranno muovere i capitali, le merci, gli esseri umani», vale a dire un mondo senza coesione sociale, valori condivisi e stabilità, in cui a comandare, sempre di più, saranno i marchi multinazionali e gli investitori privati. Non un futuro roseo, insomma, per chi è portatore di tradizioni millenarie e combatte contro i disagi della post-modernità da tutta la propria vita. La posizione “boldriniana”, inoltre, ha la presunzione di considerare la vita dell’immigrato come positiva e fiorente, senza interrogarsi su quanto l’esistenza di una persona, costretta ad abbandonare il proprio paese, la propria famiglia e le proprie consuetudini possa essere considerata un bene e dirsi veramente felice. Quest’atteggiamento denota un forte etnocentrismo che forse sarebbe ora di considerare come il razzismo del XXI secolo. Se è vero, infatti, che gran parte della storia coloniale ha visto nella presunta superiorità di una razza sull’altra la giustificazione del dominio e delle ingiustizie, oggi è l’imposizione di modelli propri di una determinata cultura, liberale e occidentale, ad altre, a svolgere la stessa funzione soggiogatrice.È così che le diverse popolazioni perdono la propria identità e il rispetto di se stesse, nella falsa speranza di divenire altro. Del resto, come osserva Jean Baudrillard, «la cultura occidentale si mantiene soltanto sul desiderio del resto del mondo di accedervi». In quanto tristemente reale, questo concetto si collega direttamente all’altra posizione accennata in precedenza, spesso popolare, che vede nell’immigrato il nemico numero uno, l’artefice del male. Questa visione confonde il vero problema in questione, individuandolo non nel fenomeno sistemico e manipolato dai poteri forti, ma nei suoi attori individuali e disperati. Erroneamente, sposta il bersaglio della critica dall’immigrazione agli immigrati. Questi ultimi, più che ad un esercito invasore, assomigliano a quello che Karl Marx, nel primo libro del “Capitale”, definisce «l’esercito industriale di riserva», ovvero quella massa di disoccupati particolarmente comoda ai capitalisti perché, a seguito della grande concorrenza, determina bassi salari e scarse rivendicazioni sociali.Ecco allora come l’immigrazione, difesa non a caso dai liberisti più accaniti, assomiglia più che ad un’invasione, ad una tratta di schiavi. L’immigrato è, allo stesso tempo, agente inconsapevole e vittima reale di un sistema planetario capace di minare la sicurezza e la dignità di tutti. Continuare a sostenere questo tipo di immigrazione, che di scambio tra culture non ha veramente nulla, significa semplicemente legittimare le logiche neoliberiste. Le stesse logiche che hanno ridotto i paesi del “Nord” alla crisi (culturale, sociale, economica) e, più o meno indirettamente, quelli del “Sud” alla miseria. Questo significherebbe volersi chiudere su se stessi ignorando i problemi, tra l’altro da noi creati, nelle parti più povere del mondo? Niente affatto. In realtà, questa presa di coscienza rappresenterebbe il primo passo concreto per agire veramente a difesa delle popolazioni ridotte oggi alla fame, perché intaccherebbe la struttura stessa del sistema liberal-capitalista, prendendo le distanze sia da slogan distanti dalla realtà di cose, sia da un moralismo molto politically correct che non ha davvero ragione di esistere.Questa critica, costruttiva e non distruttiva, dovrà partire dalla rivalutazione dei paesi, delle culture e della dignità stessa degli abitanti del “Sud” del mondo. Nel suo “Breve trattato sulla decrescita serena”, Serge Latouche parla di una «sfida della decrescita per il Sud», sostenendo come la sua popolazione è ancora in tempo per non ficcarsi in quel vicolo cieco, che è la società progressista, in cui l’altra parte del mondo è condannata da tempo. Oggi la società occidentale attira migliaia di persone con l’illusione della tecnica e di un marcio benessere, costruito proprio sulle spalle altrui; per questo, come osserva Latouche, «finché l’Etiopia e la Somalia saranno costrette, mentre infuria la carestia, a esportare alimenti per i nostri animali domestici, finché noi ingrasseremo il nostro bestiame con la pasta di soia prodotta sulle cenere delle foreste amazzoniche, noi soffocheremo qualsiasi tentativo di reale autonomia nel Sud». La “reale autonomia” di tutti i popoli, alimentata dal confronto e dalla scambio tra le diverse realtà presenti nel mondo, rappresenta l’obiettivo per cui lottare oggi. Una presa di posizione netta sul tema dell’immigrazione, al di là di posizioni stereotipate, è necessaria per far finire il circolo vizioso e conseguire questo fine.(Lorenzo Pennacchi, “Da soldati del capitale a uomini liberi”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 24 ottobre 2014).L’immigrazione è uno dei temi più caldi del dibattito pubblico attuale. Del resto, in un mondo sempre più globale e insicuro, non potrebbe essere altrimenti. Come spesso capita, però, la discussione si è distanziata precocemente dalla ricerca della verità e di soluzioni concrete, fossilizzandosi in due macro-schieramenti: da un lato, c’è chi vede nell’immigrato un invasore, colpevole di rubare il posto di lavoro altrui; dall’altro, la difesa spasmodica di tale fenomeno ha portato ad affermazioni che farebbero rabbrividire qualsiasi appassionato di distopie. È questo il caso, relativamente recente, del presidente della Camera Laura Boldrini, la quale ha esplicitamente dichiarato in diretta nazionale che «il migrante è l’avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». Considerata da alcuni come massimo esempio di tolleranza e libertà, quest’idea se fosse del tutto realizzata sancirebbe la vittoria assoluta del sistema liberal-capitalista, già oggi dominante.
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Zero disoccupazione: via l’euro, e 2 milioni di assunzioni
Disoccupazione zero. Uno slogan politico, che riassume il programma di piena occupazione messo a punto per l’Italia dai sostenitori della Mmt, Moderm Money Theory, partendo da un presupposto imprescindibile: il controllo pubblico e sovrano della moneta, senza il quale ogni sforzo è vano perché, eliminato lo Stato, a dominare sono i mercati finanziari, i poteri forti mondiali. Padre fondatore di questa impostazione è John Maynard Keynes, cervello del boom economico occidentale del ‘900: il sistema funziona e produce benessere solo se, a monte, il potere pubblico investe denaro creato dal nulla, attraverso il deficit positivo. Per un altro colosso dell’economia democratica, Hyman Minsky, la missione dello Stato è quella di diventare “datore di lavoro di ultima istanza”. Concetti lunari, se riletti oggi in pieno neoliberismo terminale globalizzato, con in più il guinzaglio mortale dell’euro che, come prima missione, elimina dalla scena proprio l’attore fondamentale del processo democratico macroeconomico, lo Stato, costretto a dipendere dal sistema bancario. Una farsa le immissioni di liquidità pilotate dalla Bce, perché sono destinate alle banche, ai loro buchi di bilancio e alla loro speculazione finanziaria, anziché al credito per l’economia reale.Nel regime dell’euro, caso unico al mondo – moneta senza Stato, per Stati senza più moneta, dunque ostaggio delle banche – si saldano due pulsioni egemoniche negative, quella “imperiale” atlantica (che proprio con l’euro ha azzoppato l’Europa, partner potenziale della Russia dopo la caduta dell’Urss), e quella neoconservatrice europea incarnata dall’élite post-coloniale franco-tedesca, fondata sul mercantilismo del super-export (lavoro a basso costo, salari da fame) e sul neoclassicismo, che pretende di estendere allo Stato l’antica dottrina di David Ricardo, risalente all’epoca napoleonica: prima di poter investire, anche lo Stato deve “risparmiare”, come se fosse un’azienda qualsiasi anziché l’unica istituzione democratica abilitata a emettere moneta a costo zero, in regime di monopolio. Di qui la politica di rigore preparata per decenni, a partire dal divorzio tra Tesoro e banche centrali, e culminata oggi nella catastrofe dell’Eurozona a guida tedesca, con un paese come l’Italia retrocesso oltre le prime 20 posizioni nella graduatoria dei redditi Ocse, e alle prese con una disoccupazione spaventosa.Con l’euro, risalire la china è materialmente impossibile: l’intera costruzione della non-moneta europea è stata concepita in base al preciso scopo politico di impedire allo Stato di continuare a sostenere l’economia nazionale, mettendola in crisi e ripristinando condizioni di dominio neo-feudale. Oggi infatti sono i pesi massimi del business euroatlantico a speculare sul disastro, anche con le privatizzazioni, acquisendo a prezzi stracciati beni, aziende, servizi e infrastrutture, cioè il patrimonio sviluppato nei “decenni del benessere” in regime di sovranità monetaria, prima della grande globalizzazione americana. Lo Stato piange perché non può più reggere i conti in rosso – non avendo più il debito pubblico denominato in moneta propria – e quindi non può fare altro che tagliare i servizi e aumentare le tasse, fino a provocare il progressivo collasso dell’economia. Non potendo più svalutare la moneta, né immetterla liberamente nel sistema, né tantomeno utilizzarla come in passato per investimenti strategici, nel regime padronale dell’Eurozona non resta che svalutare il lavoro, seppellendo in questo modo qualsiasi residuo fondamento dell’economia marxista e riducendo il lavoratore ad automa sempre meno pagato, intercambiabile al ribasso sul nuovo mercato dei migranti precari globalizzati.Per questo ha carattere apertamente rivoluzionario la proposta sovranista sviluppata da Warren Mosler e diffusa in Italia da Paolo Barnard: restituire la moneta allo Stato, cioè alla generalità dei cittadini, significa sottrarla al monopolio abusivo del sistema finanziario, che ha “sequestrato” la fondamentale leva monetaria agli Stati europei proprio quando la Russia cessava di essere un avversario formale della Nato. Inaffidabili, per il super-potere di Wall Street, le democrazie europee col loro welfare e le loro tutele sindacali. Un modello funzionante, pericolosamente prossimo alle nuove frontiere dell’Est Europa, da mettere in crisi – con il “golpe” monetario – prima ancora che la crisi della crescita e la finanziarizzazione dell’economia esplodessero in modo dirompente e palese. Secondo il “programma di piena occupazione” della Mmt, il semplice recupero sovrano della moneta può dare ossigeno a un singolo sistema-paese, a prescindere dal contesto internazionale, posto che esistano ovviamente le condizioni politiche per sfidare i poteri forti al punto da “restituire” ai cittadini, insieme alla moneta, un assetto economico funzionale e sociale: il denaro a disposizione del lavoro, e non viceversa. Si tratta dunque di un programma tecnico, in attesa di adozione. Primo punto: tamponare la voragine e dare un lavoro a tutti, subito. Come? Pagando uno stipendio a qualsiasi disoccupato disposto a lavorare e produrre l’equivalente del reddito ricevuto.Il salario sarebbe leggermente inferiore al compenso garantito dai contratti del settore privato. E sarebbe transitorio, cioè assicurato soltanto fino al momento in cui il disoccupato non viene assunto da un’impresa privata. Si tratterebbe in ogni caso un impiego produttivo, ma in campi che non creano concorrenza al settore privato (esempio: la tutela idrogeologica). Dotato nuovamente di moneta propria, lo Stato potrebbe ampliare la base monetaria nazionale, aumentando subito il deficit: dall’attuale 3% del Pil si passerebbe immediatamente all’8-10%. Prima conseguenza: taglio immediato della pressione fiscale, ridotta di almeno il 5%, agendo sull’Iva e sulle tasse sul lavoro. Valore della manovra: 75 miliardi, pari a 2 milioni di posti di lavoro. In parallelo, investimenti annuali da 30-40 miliardi per pilotare una riconversione sostenibile dell’economia: e quindi istruzione, risparmio energetico, sicurezza idrogeologica, ambiente e salute, con ricadute a cascata sul sistema delle aziende e sull’occupazione. Detassazione e investimento pubblico: con moneta sovrana (e politici onesti e capaci) si può fare. Senza moneta sovrana, la missione sarebbe fuori della portata del miglior politico. All’orizzonte, in ogni caso, non se ne vedono. Il che induce ormai molti economisti a ipotizzare che l’uscita dall’euro, giudicata inevitabile e prossima, avverrebbe attraverso un crollo del sistema, con conseguenze disastrose, non esistendo una struttura politica capace di sostenere un piano di salvezza nazionale come quello tracciato dalla Mmt di Mosler.Disoccupazione zero. Uno slogan politico, che riassume il programma di piena occupazione messo a punto per l’Italia dai sostenitori della Mmt, Moderm Money Theory, partendo da un presupposto imprescindibile: il controllo pubblico e sovrano della moneta, senza il quale ogni sforzo è vano perché, eliminato lo Stato, a dominare sono i mercati finanziari, i poteri forti mondiali. Padre fondatore di questa impostazione è John Maynard Keynes, cervello del boom economico occidentale del ‘900: il sistema funziona e produce benessere solo se, a monte, il potere pubblico investe denaro creato dal nulla, attraverso il deficit positivo. Per un altro colosso dell’economia democratica, Hyman Minsky, la missione dello Stato è quella di diventare “datore di lavoro di ultima istanza”. Concetti lunari, se riletti oggi in pieno neoliberismo terminale globalizzato, con in più il guinzaglio mortale dell’euro che, come prima missione, elimina dalla scena proprio l’attore fondamentale del processo democratico macroeconomico, lo Stato, costretto a dipendere dal sistema bancario. Una farsa le immissioni di liquidità pilotate dalla Bce, perché sono destinate alle banche, ai loro buchi di bilancio e alla loro speculazione finanziaria, anziché al credito per l’economia reale.
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La rivoluzione e il Muro della Vergogna tra ricchi e poveri
«Il pensare che la speranza della rivoluzione sia spenta, e sia finita soltanto perché l’utopia comunista è fallita, significa chiudersi gli occhi per non vedere». Così scriveva Norberto Bobbio nel 1989, prima ancora della caduta del Muro di Berlino, davanti alla repressione cinese di piazza Tienanmen. «E’ da stolti rallegrarsi della sconfitta», scriveva il filosofo, criticando il trionfalismo dell’Occidente di fronte alla grande ritirata dell’Urss di Gorbaciov. «Credete proprio che la fine del comunismo storico (insisto sullo “storico”) abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia?». Parole ricordate oggi da Angelo d’Orsi, all’indomani delle fastose celebrazioni berlinesi, in cui lo stesso Gorbaciov – che aveva sperato nell’avvento di un mondo multipolare e pacificato – ha ammonito gli Usa: voler stravincere è irresponsabile, significa trascinare il pianeta verso la guerra senza risolvere nessuno dei grandi problemi dell’umanità, devastata dalle diseguaglianze con l’avvento destabilizzante della globalizzazione neoliberista.Tra le pagine del settimanale tedesco “Die Welt”, scrive d’Orsi su “Micromega”, sopravvive la coscienza problematica del presente, lontano dallo spirito della celebrazione, «quella beota» di chi non ha perso l’occasione per inneggiare al “liberalismus triumphans”, «magari tirando in ballo la situazione geopolitica attuale, con cenni al ritorno alla guerra fredda per colpa dell’aggressività dell’“Orso russo”». La televisione ha riproposto «luoghi comuni, stucchevoli e spesso fuorvianti», anche se con «un minimo di pudore in più rispetto al passato», forse per effetto «della crisi che si sta impietosamente prolungando, lasciando una scia sempre più scura di dolore, tra rassegnazione inerte e rivolta incipiente». Eppure, «l’apologetica dell’Occidente domina, e prevale, di gran lunga, incurante di quel che le vicende internazionali ci hanno regalato come prodotto della fine del bipolarismo, e ingresso nell’era unipolare, con lo strapotere militare, economico, finanziario, culturale, degli Stati Uniti d’America, il vero Big Brother della famiglia umana».Il biennio 1989-1991, si interroga d’Orsi, fu davvero una rivoluzione? Produsse cambiamenti repentini di regimi politici e portò al potere classi sociali nuove? Sì e no: intanto, perché gli ex satelliti dell’Urss sono stati gestiti a lungo dalla vecchia nomenklatura, «semplicemente con un cambio di casacca politica». E poi perché «il sistema di garanzie sociali, di diritti sostanziali, di welfare, fu spazzato via». Cambiò il clima umano di quei paesi: «Pochi giorni fa ero in Polonia – racconta d’Orsi – e ho conversato con un ingegnere, che lucidamente ha ammesso i benefici del post-’89, ma altrettanto lucidamente ha elencato i danni, il primo dei quali per lui era proprio sul piano antropologico. Era emerso, diceva, parlando accoratamente, un individualismo prima sconosciuto; furono spezzati i legami sociali, cessarono tutte quelle attività collettive – dalle ferie al dopolavoro, dalle sezioni di partito agli eventi sportivi, dalle biblioteche al teatro – che facevano sentire le persone garantite da reti di protezione: oltre alle istituzioni, v’era “la gente”, a costituire la rete. Ora ciascuno finito il lavoro corre a casa, sbarra l’uscio e si fa gli affari suoi».Secondo fonti occidentali, aggiunge d’Orsi, «in molti paesi dell’Est Europa le aspettative di vita si sono ridotte, le disuguaglianze economiche sono diventate macroscopiche». E, per gli ultimi in fondo alla scala sociale, «la vita è più dura che in passato, anche se hanno i supermercati traboccanti di merci, e possono espatriare liberamente». Ma le conseguenze più gravi, per d’Orsi, sono sul piano internazionale, «nella terrificante definizione del “nuovo ordine mondiale”», col dominio economico-militare degli Usa, senza alcun bilanciamento, e senza più l’Onu, «ridotto al rango di notaio della superpotenza». Questo ha generato nella classe dirigente americana «una perversa volontà sopraffattoria», al punto che «il mondo è parso per un momento alla sua mercé: il bombardamento della sede dell’ambasciata cinese a Belgrado, nel corso della più infame delle “nuove guerre”, nel 1999, fu la prova di quella volontà». Poi però è cominciato un riassetto internazionale, «con fenomeni di resistenza diffusi, allo strapotere statunitense», e oggi l’unipolarismo si sta trasformando progressivamente in multipolarismo. «Oggi gli Usa non si potrebbero permettere di bombardare l’ambasciata cinese. E la Russia è ritornata al rango di grande potenza, piaccia o non piaccia, malgrado la corona di ferro che Nato e Ue cercano di disporre intorno al suo territorio che, benché ridotto dalla frammentazione dell’Urss post 1991, rimane il più esteso del mondo».Nello stesso tempo, proprio la riscossa di altre nazioni e la crescita economica e militare dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), hanno eccitato «l’eterna cupidigia degli Usa», i quali «nella situazione di crisi sistemica del capitalismo», oggi «cercano nuovi sbocchi commerciali e hanno bisogno di far girare a pieno ritmo la propria macchina militare, smaltendo armi e investendo, di conseguenza, in nuovi, sempre più sofisticati sistemi di distruzione e di morte». E’ un fatto: «L’esportazione della democrazia, la grottesca formula che ha giustificato tutte le guerre recenti, è la conseguenza evidente del “crollo del Muro”. Ossia, la dissoluzione del blocco sovietico, con “l’arrivo della democrazia” in quei paesi, ha avviato il gioco del domino, con il cosiddetto “contagio democratico”, che è consistito, in definitiva, in una serie di piccoli e grandi colpi di Stato, il cui fine era la eliminazione di leader (dittatori o capi eletti in libere elezioni) sgraditi a Washington, o in moti di piazza più o meno spontanei, che quando sfociavano in regimi politicamente accettabili all’Occidente venivano tollerati, ma quando producevano, magari, anche, con democraticissime elezioni, assetti politici non graditi (vedi l’Egitto), si provvedeva senza tanti complimenti a cassare con un tratto di penna, secondo il modello cileno».Non di rado, aggiunge d’Orsi, il pretesto è stato un ostentato sentimento di umanità verso popolazioni in difficoltà, nel vasto mondo: «E furono le “guerre umanitarie”, le più ipocrite, realizzate con una sfacciata cancellazione delle convenzioni internazionali, una destrutturazione del “diritto dei popoli” e un ritorno alla forme più estreme della umana ferocia». E così «il mondo, pacificato sotto il segno del “libero mercato”, ha palesato il suo volto orribile di una conflittualità permanente: Afghanistan, Iraq, Kosovo, Libia, Siria, Ucraina, per tacere di Israele che impunemente procede nella sua politica genocidaria verso i palestinesi». Proprio il “muro della vergogna” costruito dagli israeliani all’interno dei Territori Occupati, «una struttura rispetto alla quale il Muro di Berlino appare una specie di giocattolo», per d’Orsi è la prova della grande menzogna: «Lo slogan “mai più muri” è risuonato anche in questi giorni di celebrazione del 9 novembre 1989: ma evidentemente vale soltanto per i muri costruiti dagli “altri”; noi i “nostri” muri ce li teniamo e li rafforziamo e li moltiplichiamo: alla frontiera tra Usa e Messico, nei possedimenti spagnoli in Marocco, persino a Padova, per isolare gli extracomunitari».Ma il peggiore dei muri, conclude d’Orsi, è quello che ormai separa e contrappone, irrimediabilmente, quei quattro quinti di umanità, che giacciono nella miseria, dal rimanente quinto che invece vive nell’agiatezza. «E più noi, i cittadini del “Nord” del mondo, alziamo barriere protettive, più intorno a noi cresce la minaccia di chi nulla possiede. Se non ci apriremo all’accoglienza e alla solidarietà, queste enormi maree umane ci sommergeranno, e allora non varrà dire: noi eravamo dalla vostra parte. Saremo tutti colpevoli, ai loro occhi, e la nostra indifferenza odierna giustificherà la loro vendetta». Per questo vale la pena, oggi, ricordare Bobbio: la speranza della rivoluzione non si è spenta solo perché è fallita l’utopia comunista. «Personalmente non so se il comunismo fosse soltanto una utopia», dice d’Orsi, «ma certo era e rimane una speranza, per gli “schiacciati dai grandi potentati economici” (ancora Bobbio), per i “dannati della terra” (per dirla con Frantz Fanon). E questa speranza non verrà meno sino a quando ve ne saranno».«Il pensare che la speranza della rivoluzione sia spenta, e sia finita soltanto perché l’utopia comunista è fallita, significa chiudersi gli occhi per non vedere». Così scriveva Norberto Bobbio nel 1989, prima ancora della caduta del Muro di Berlino, davanti alla repressione cinese di piazza Tienanmen. «E’ da stolti rallegrarsi della sconfitta», scriveva il filosofo, criticando il trionfalismo dell’Occidente di fronte alla grande ritirata dell’Urss di Gorbaciov. «Credete proprio che la fine del comunismo storico (insisto sullo “storico”) abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia?». Parole ricordate oggi da Angelo d’Orsi, all’indomani delle fastose celebrazioni berlinesi, in cui lo stesso Gorbaciov – che aveva sperato nell’avvento di un mondo multipolare e pacificato – ha ammonito gli Usa: voler stravincere è irresponsabile, significa trascinare il pianeta verso la guerra senza risolvere nessuno dei grandi problemi dell’umanità, devastata dalle diseguaglianze con l’avvento destabilizzante della globalizzazione neoliberista.
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Aggirare l’euro: moneta sovrana a titolo di credito fiscale
Non ci lasciano evadere dalla prigione dell’euro? E allora, aspettando che l’Eurozona crolli, si potrebbe creare moneta fiscale, stampandone 200 miliardi all’anno. E’ la tesi sostenuta da Biagio Bossone, Luciano Gallino e Stefano Sylos Labini: li chiamano Ccf, certificati di credito fiscale. Sarebbero emessi liberamente dall’Italia, a costo zero, per sostenere l’economia reale, famiglie e aziende. Un escamotage, per aggirare i vincoli feudali europei attraverso cui la Germania, tramite l’Ue e la Bce, impone la “sua” moneta al resto d’Europa, condannando i paesi come l’Italia: persi 11 punti percentuali di Pil, produzione industriale crollata del 25%. Per chi se ne fosse dimenticato, «l’euro è infatti una moneta straniera concepita e creata a somiglianza del marco tedesco, e quindi intrinsecamente deflazionistica», scrivono Marco Cattaneo ed Enrico Grazzini: «Senza moneta nazionale, siamo ingabbiati in una doppia trappola, quella della liquidità e quella del debito».Gli italiani, aggiungono i due analisti su “Micromega”, stanno scoprendo sulla loro pelle che, senza moneta sovrana, lo Stato non può fare nulla per uscire dalla crisi. Uno come Renzi può solo fingere di ribellarsi, ma poi deve sottostare a tutti i diktat dell’austerity varata dai governi Monti e Letta, in esecuzione dell’euro-politica imposta dalla “moneta straniera” governata da Berlino. Retorica a parte, Renzi è un allievo modello: le sue riforme strutturali sono esattamente quelle dettate dalla politica dell’euro imposta da Bruxelles: giù il costo del lavoro, tagli al welfare, privatizzazioni dei beni pubblici, riforme istituzionali, tagli alla spesa pubblica. Tutto questo, riconoscono Cattaneo e Grazzini, avviene perché gli Stati, in particolare quelli dell’Eurozona, non hanno più il controllo della moneta, avendo perso la loro sovranità nazionale: «Solo controllando la moneta si può mettere in moto la spesa pubblica», quella che garantisce i servizi vitali e la salute dell’economia. «Se invece sono le banche private a creare e a controllare il denaro, allora lo Stato diventa inesorabilmente servo delle banche e della loro moneta».Non c’è vera democrazia, riconoscono Cattaneo e Grazzini, senza gestione nazionale della moneta da parte dello Stato e senza il controllo della società civile: «Quando uno Stato per finanziarsi dipende dal sistema finanziario nazionale o, peggio, dai mercati finanziari internazionali perché non crea e non controlla la sua moneta, allora diventa uno Stato subordinato e sostanzialmente eterodiretto, uno Stato costretto a servire i suoi creditori», coi cittadini costretti a pagare le tasse «per ripagare il debito alla finanza», senza poter godere dei servizi pubblici cui avrebbero diritto. La nostra è un’aberrante anomalia a livello planetario: «Non c’è nessun Stato che conta nel mondo che non stampi la sua moneta e non abbia la sua banca centrale per proteggere e governare la moneta nazionale. I grandi Stati e gli Stati emergenti – come Usa, Giappone, Gran Bretagna, Cina, India, Russia, Brasile, Corea, Svizzera, Israele – si basano sulla loro moneta nazionale». Con l’euro, invece, la Germania «impedisce le svalutazioni monetarie dei paesi deboli e le rivalutazioni di quelli forti», esasperando gli squilibri a favore dei paesi con la bilancia commerciale in attivo.Nonostante, ciò – come i contestatori di sinistra, da Landini a Syriza fino alla formazione spagnola “Podemos” – anche Bossone, Gallino e Sylos Labini rinunciano ad affrontare la prospettiva di uscita dall’euro, che ritengono irrealistica e rischiosa, e preferiscono proporre l’emissione dei Ccf, una “quasi moneta” nazionale, parallela all’euro, capace di «aumentare la capacità di spesa dell’economia senza però creare nuovo debito, rispettando cioè i parametri (rigidi e assurdi) imposti dalla moneta unica». Un provvedimento intermedio, «in attesa di poter riformare radicalmente il sistema monetario europeo». Per i tre tecnici, i Ccf dovrebbero essere emessi dallo Stato a costo zero e distribuiti gratuitamente all’economia reale, cioè ai lavoratori e alle aziende, senza passare dal sistema bancario, espressione dell’élite finanziaria che ha spodestato la politica. Siamo o non siamo nell’era della post-democrazia? Nel regno feudale dell’Ue – grazie all’euro – è l’oligarchia finanziaria a esercitare un potere assoluto, attraverso la Bce e la Commissione Europea, che trasformano l’Italia in una colonia da comprare a prezzi stracciati, cominciando dal lavoro sottopagato delle maestranze.In più, oggi la Bce boccia le banche italiane e assolve quelle del Nord Europa, che invece «operano con leve finanziarie elevatissime, pari anche a circa 30 volte il loro capitale, e che si dedicano più di quelle italiane al trading speculativo». Così, le nostre banche «dovranno ricapitalizzarsi ricorrendo ampiamente al capitale estero». Cadranno anch’esse in mani straniere, «dopo che gran parte del sistema industriale nazionale – Fiat, Pirelli, Telecom – è migrato o sta migrando all’estero». L’economia italiana? «Si sta smembrando, e le banche italiane sono prede importanti». Inoltre la Bce sta favorendo la creazione di banche “troppo grandi per fallire”, cioè «sta esattamente creando le condizioni per la prossima grande crisi finanziaria in Europa (e la probabile rottura dell’euro)». E’ infatti chiaro che, «senza un comune fondo pubblico europeo – sul quale il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha posto il veto – qualsiasi grande banca europea in difficoltà non potrebbe essere salvata, e crollerebbe trascinando in rovina l’intero sistema bancario e l’eurosistema», aggiungono Cattaneo e Grazzini.Tutto questo, per un motivo semplicissimo: gli Stati dell’Eurozona non hanno più alcun controllo democratico sulla moneta, che ha cessato – con l’euro – di essere uno strumento a disposizione della comunità nazionale. La creazione di moneta “dal nulla” oggi è infatti prerogativa del sistema bancario privato: «Nelle economie moderne, il 95% della moneta è creata dalle banche con scrittura elettronica sotto forma di creazione di depositi». Ormai «sono le banche a creare denaro dal nulla, creando prestiti, cioè generando debiti». Nel mondo si contano 100 triliardi di debiti, «una somma insostenibile che non potrà mai essere ripagata». La moneta “fiat” «è diventata un bene privato delle banche per il profitto delle banche stesse». Continuano Cattaneo e Grazzini: «Queste semplici verità, ben conosciute dagli economisti, sono tanto incontrovertibili e clamorose quanto poco note al largo pubblico». Il meccanismo lo spiega un recente report della Bank of England: «Ogni volta che una banca fa un prestito, simultaneamente crea un deposito nel conto della banca del debitore, e perciò crea moneta». Di fatto, la banca crea dal nulla i depositi, «mentre normalmente si pensa che riceva dei depositi legati al risparmio delle famiglie, e che solo successivamente faccia dei prestiti».Più si deregolamenta il mercato finanziario, più il mercato mostra i suoi limiti: l’offerta monetaria delle banche è pro-ciclica, abbondante in caso di crescita e scarsa non appena c’è aria di crisi. «Quando i primi debiti cessano di essere ripagati, quando si verificano i primi fallimenti, improvvisamente il rubinetto delle banche commerciali cessa di fare fluire la moneta nell’economia e arriva allora la crisi». Con la crisi arriva anche la deflazione: «I prezzi stagnano o calano mentre la merce rimane invenduta e la produzione si ferma», così «la disoccupazione impedisce la ripresa dei consumi e della domanda finale». L’attuale caso europeo di “trappola della liquidità” è esemplare: la Bce cerca di dare ossigeno monetario al sistema – con i limiti imposti dal governo tedesco – ma le banche trattengono la liquidità e non fanno prestiti, in particolare alle piccole e medie imprese. Le banche? «Sono cariche di sofferenze, a causa della crisi economica». Inoltre, «preferiscono investire nei titoli di Stato o nella finanza per ottenere remunerazioni elevate piuttosto che rischiare prestando soldi all’economia reale». E’ così che «la moneta non circola, la domanda manca, le aziende chiudono e l’economia langue o va in recessione».Di qui le proposte di ritorno alla sovranità monetaria: la moneta come bene comune, gestito a costo zero dallo Stato democratico, rappresentante legittimo della comunità nazionale. Le banche commerciali, separate da quelle d’affari, dovrebbero mantenere il 100% dei depositi della clientela presso la banca centrale e fungere da intermediari puri. Oggi, sotto il dominio dell’Eurozona, si tratta di obiettivi impossibili da realizzare, Così, in attesa di riforme radicali del sistema finanziario, secondo Bossone, Gallino e Sylos Labini ci sarebbe la strada dei certificati di credito fiscale per rilanciare la domanda e immettere nuova liquidità nel sistema, ridare ossigeno ai consumi e agli investimenti privati e pubblici tagliando le tasse senza però ridurre la spesa pubblica destinata ai servizi. La proposta: emissione gratuita dei Ccf a favore dei lavoratori (occupati, disoccupati e pensionati) e delle imprese. certificati «ad utilizzo differito, validi cioè a partire da due anni dopo l’emissione per pagare qualsiasi tipo di impegno finanziario verso la pubblica amministrazione: tasse, contributi, tariffe, multe».Secondo i proponenti, il governo italiano potrebbe emettere Ccf per 90-100 miliardi di euro il primo anno, da incrementare se necessario nei due anni successivi fino a un massimo di 200 miliardi annui, «almeno fino a quando non si verifichi una consistente ripresa della domanda e dell’occupazione». I Ccf sarebbero scambiabili sul mercato finanziario come qualsiasi altro titolo di Stato. Ed essendo appunto coperti da garanzia statale, «potrebbero essere utilizzati direttamente come mezzi di pagamento nel mercato interno». Risultato: «Aumenterebbero enormemente e immediatamente la capacità di spesa dei consumatori e delle aziende», che però è esattamente quello che gli oligarchi dell’Eurozona a guida tedesca non vogliono. Certo, la proposta sarebbe «compatibile con le regole e i vincoli posti dal sistema dell’euro», ma è difficile credere che Bruxelles, Berlino e Francoforte li accetterebbero, anche se la Bce ha il monopolio sull’emissione di moneta ma non sulla creazione di “quasi-moneta”, in questo caso nient’altro che sconti fiscali.A puro titolo di esempio, spiegano Bossone, Gallino e Sylos Labini, si supponga di assegnare gratuitamente, in tre anni, a partire dal 1° gennaio 2015, circa 70 miliardi di Ccf ai lavoratori, dipendenti e autonomi, in funzione inversa del loro livello di reddito, così da stimolare la spesa per il consumo, e di assegnare l’equivalente di 80 miliardi di euro ai datori di lavoro. «Quest’ultimo importo abbatterebbe del 18% circa il costo del lavoro, una percentuale equivalente alla differenza di competitività dell’economia italiana nei confronti della Germania. Si eviterebbe così che l’espansione della domanda interna produca squilibri nei saldi commerciali con l’estero: l’aumento delle importazioni sarebbe infatti bilanciato dalla crescita delle esportazioni derivato dalla diminuzione del costo del lavoro e dall’aumento conseguente di competitività». Altri 50 miliardi di Ccf, aggiungono i proponentim, dovrebbero essere utilizzati per finanziare investimenti pubblici, forme di reddito garantito, iniziative ambientali e infrastrutture, incentivi per giovani e donne. Ovvio, aumenterebbe l’occupazione e riprenderebbe a crescere il Pil. L’Italia uscirebbe dalla depressione. Ed è esattamente quello che l’élite tedesca teme.Non ci lasciano evadere dalla prigione dell’euro? E allora, aspettando che l’Eurozona crolli, si potrebbe creare moneta fiscale, stampandone 200 miliardi all’anno. E’ la tesi sostenuta da Biagio Bossone, Luciano Gallino e Stefano Sylos Labini: li chiamano Ccf, certificati di credito fiscale. Sarebbero emessi liberamente dall’Italia, a costo zero, per sostenere l’economia reale, famiglie e aziende. Un escamotage, per aggirare i vincoli feudali europei attraverso cui la Germania, tramite l’Ue e la Bce, impone la “sua” moneta al resto d’Europa, condannando i paesi come l’Italia: persi 11 punti percentuali di Pil, produzione industriale crollata del 25%. Per chi se ne fosse dimenticato, «l’euro è infatti una moneta straniera concepita e creata a somiglianza del marco tedesco, e quindi intrinsecamente deflazionistica», scrivono Marco Cattaneo ed Enrico Grazzini: «Senza moneta nazionale, siamo ingabbiati in una doppia trappola, quella della liquidità e quella del debito».
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Gorbaciov: fame e ingiustizia non si curano con la guerra
Il mondo ha mille problemi, causati da povertà e ingiustizia, e vengono affrontati con l’unico strumento incapace di risolverli: la guerra. Di riflesso, ne soffre anche l’Europa: strattonata dalla Nato e costretta a contrapporsi alla Russia, l’Ue sta diventando irrilevante. E di questo passo conterà sempre meno, sulla scena mondiale dove si sfferma il potere crescente dei Brics. Grande occasione sprecata, dunque, il crollo del Muro di Berlino: poteva, anzi doveva, aprire una stagione di pace e giustizia, anziché di guerre da esportare in tutto il pianeta. Lo sostiene Mikhail Gorbaciov, intervento a Berlino per il 25° anniversario della riunificazione tedesca. Dopo gli anni della “perestrojka” e l’esplosione della libertà nell’Est Europa, alla caduta dell’Urss la guerra è tornata a dianiare l’Europa, cominciando da Jugoslavia e Kosovo. «Lo spargimento di sangue in Europa e in Medio Oriente, sullo sfondo dell’interruzione del dialogo fra le grandi potenze, è motivo di enorme preoccupazione». Oggi, «il mondo si trova sul precipizio di una nuova guerra fredda». E per quanto drammatica sia la situazione, «non vediamo la più importante istituzione internazionale – il Consiglio di Sicurezza dell’Onu – svolgere alcun ruolo, né prendere alcuna iniziativa».Per Gorbaciov è venuta meno la fiducia reciproca, grazie alla quale fu possibile metter fine all’incubo nucleare della guerra fredda, «quella fiducia in assenza della quale le relazioni internazionali nel mondo globale risultano inconcepibili». Gli anni ‘90 dovevano portare a una nuova Europa e a un ordine mondiale più sicuro? «Ma invece di costruire nuovi meccanismi e nuove istituzioni a tutela della sicurezza europea, e di inseguire una decisiva smilitarizzazione della politica europea – cosa che per inciso era stata promessa nella Dichiarazione di Londra della Nato – alla fine della guerra fredda l’Occidente, e in particolar modo gli Stati Uniti, dichiararono vittoria». Peggio: «L’euforia e il trionfalismo diedero alla testa dei leader occidentali: approfittandosi dell’indebolimento della Russia, e dell’assenza di un contrappeso, proclamarono il proprio monopolio della leadership e del dominio del mondo, rifiutandosi di ascoltare gli inviti alla cautela». Alla crisi in Ucraina si è arrivati per gradi, attraverso l’allargamento della Nato, i nuovi piani missilistici, le guerre in Iraq, Libia e Siria. Chi paga più di tutti? «L’Europa, la nostra casa comune».«Invece di diventare un leader del cambiamento nel mondo globale – sostiene Gorbaciov – l’Europa si è trasformata in un’arena di sconvolgimenti politici, di competizione fra sfere d’influenza e, infine, di conflitto armato. Inevitabilmente, la conseguenza di tutto ciò è l’indebolimento europeo, proprio nel momento in cui altri centri di potere e d’influenza stanno crescendo. Se va avanti così, l’Europa perderà la possibilità di far sentire con forza la propria voce nelle questioni internazionali, finendo col diventare gradualmente sempre più irrilevante». Minaccioso e pericoloso il degradarsi della partnership russo-tedesca, senza la quale «in Europa non può esserci sicurezza». Come uscirne? «L’esperienza degli anni ‘80 dimostra che, anche in situazioni apparentemente disperate, ci dev’essere una via d’uscita», dal momento che «la situazione in cui il mondo si trovava allora non era né meno urgente né meno pericolosa di quella in cui si trova oggi». Quello che allora salvò il mondo fu il dialogo, oggi praticamente scomparso: persono Mitterrand e la Thatcher riuscirono ad accettare la riunificazione della Germania, che temevano.Prima regola: tornare a parlarsi, come sembrano suggerire gli accordi di Minsk sul cessate il fuoco e sul disimpegno militare in Ucraina, ma anche gli accordi trilaterali sul gas fra Russia, Ucraina e Ue, e la stessa sospensione dell’escalation delle sanzioni reciproche. «In questo contesto – aggiunge Gorbaciov – vi invito a prendere attentamente in considerazione le recenti dichiarazioni di Vladimir Putin durante il Forum di Valdai. Nonostante la durezza delle sue critiche nei confronti dell’Occidente, e in particolar modo degli Stati Uniti, nel suo discorso intravedo il desiderio di trovare il modo per abbassare il livello di tensione, e in ultima analisi di costruire delle nuove basi per una partnership». Due gli obiettivi: cooperazione nelle sfide globali e sicurezza paneuropea. «I problemi globali – terrorismo ed estremismo, incluso quello di natura settaria; la povertà e la disuguaglianza; l’ambiente, il problema delle risorse, e le migrazioni; le epidemie – stanno tutti peggiorando ogni giorno. Per quanto diversi essi siano fra loro, c’è un tratto che li accomuna tutti: nessuno di questi richiede una soluzione militare. Eppure i meccanismi politici necessari a risolverli mancano, o risultano disfunzionali. Le lezioni di una crisi globale continua dovrebbero convincerci della necessità di cercare un nuovo modello che garantisca sostenibilità politica, economica e ambientale. Questo è un problema che dev’essere affrontato adesso, senza ulteriori ritardi».Il mondo ha mille problemi, causati da povertà e ingiustizia, e vengono affrontati con l’unico strumento incapace di risolverli: la guerra. Di riflesso, ne soffre anche l’Europa: strattonata dalla Nato e costretta a contrapporsi alla Russia, l’Ue sta diventando irrilevante. E di questo passo conterà sempre meno, sulla scena mondiale dove si afferma il potere crescente dei Brics. Grande occasione sprecata, dunque, il crollo del Muro di Berlino: poteva, anzi doveva, aprire una stagione di pace e giustizia, anziché di guerre da esportare in tutto il pianeta. Lo sostiene Mikhail Gorbaciov, intervento a Berlino per il 25° anniversario della riunificazione tedesca. Dopo gli anni della “perestrojka” e l’esplosione della libertà nell’Est Europa, alla caduta dell’Urss la guerra è tornata a dianiare l’Europa, cominciando da Jugoslavia e Kosovo. «Lo spargimento di sangue in Europa e in Medio Oriente, sullo sfondo dell’interruzione del dialogo fra le grandi potenze, è motivo di enorme preoccupazione». Oggi, «il mondo si trova sul precipizio di una nuova guerra fredda». E per quanto drammatica sia la situazione, «non vediamo la più importante istituzione internazionale – il Consiglio di Sicurezza dell’Onu – svolgere alcun ruolo, né prendere alcuna iniziativa».
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Tifano Putin i leader che misero fine alla guerra fredda
Vladimir Vladimirovic Putin non è andato in Germania ad assistere alle celebrazioni su un’importante vicenda storica di un quarto di secolo fa, la rimozione del Muro di Berlino. Era a Pechino per fare la Storia del prossimo quarto di secolo, mentre firmava un altro storico mega-accordo sul gas con il presidente cinese Xi Jinping. A Putin non manca il senso della Storia. Venticique anni fa era proprio in Germania Est, e precisamente a Dresda, dove soggiornava da quattro anni in veste di ufficiale del Kgb. Aveva avuto modo tante volte di girare in tutto il vasto centro di quella città ricca di storia, che nei secoli si era guadagnata la definizione di Elbflorenz (“Firenze sull’Elba”). Ricca di storia, sì, eppure nessuno degli edifici che costeggiava le camminate di Putin aveva più di cinquant’anni. La città infatti era stata letteralmente rasa al suolo dal 13 al 15 febbraio 1945 dai bombardieri britannici e americani. Morirono decine di migliaia di persone, quasi tutte civili. La Repubblica Democratica Tedesca aveva ricostruito la città, facendo di essa un primario centro industriale e di ricerca.Quando la Germania Ovest annesse la Germania Est, non trovò certo una terra di nessuno. Era un paese industriale ricostruito dopo una catastrofe. Proprio nel rapporto con quello Stato era nata l’Ostpolitik, il modo di stemperare la Guerra Fredda per evitare un’altra catastrofe. Ci si spiava, ci si parlava. Putin ha fatto la gavetta lì. La vecchia guardia dei politici europei dei tempi andati non perde ormai occasione per dirlo: separare i destini dell’Europa dalla Russia è un suicidio politico, un errore strategico, una follia economica, un’avventura insensata. L’ultimo leader dell’Urss, Mikhail Gorbaciov, si è pronunciato in tal senso nell’occasione più solenne, proprio la celebrazione dei 25 anni dalla rimozione del Muro, con una dichiarazione che si schiera nettamente con quel fa e dice l’inquilino odierno del Cremlino, Vladimir Putin. Nel corso dei mesi della crisi ucraina abbiamo sentito anche le dichiarazioni dell’ex primo ministro francese Dominique De Villepin, quelle degli ex presidenti del Consiglio italiani Silvio Berlusconi e Romano Prodi, per non parlare degli ex cancellieri tedeschi Gerhard Schröder e Helmut Kohl (quest’ultimo praticamente silenziato da tutti i principali organi di informazione italiani), e altri ancora, come l’ex cancelliere austriaco Wolfgang Schüssel.Sono tutti politici che hanno dovuto fare i conti – al loro tempo – con l’ingombrante superpotenza degli Usa: tutti la vedevano come un interlocutore essenziale e indispensabile, ma agivano per salvaguardare spazi di manovra per sé, in modo da essere autonomi nel nome di interessi radicati presso le proprie classi dirigenti nazionali e nella “Casa comune europea”. All’alba del “momento unipolare” statunitense, quando crollava la cortina di ferro fra l’Est e l’Ovest dell’Europa, e poi negli anni successivi, ognuno di questi politici ha giocato le sue scommesse, vincendone e perdendone. Nessuno di loro pensava che il suo compito fosse obbedire ciecamente agli Usa. Gorbaciov fu sconfitto da coloro che vollero la fine dell’Urss; Kohl scommise sulla riunificazione tedesca ma assisté allo sconvolgimento degli equilibri europei che seguirono; De Villepin vide le istituzioni golliste della vecchia Francia indipendente travolte dalle presidenze atlantiste di Sarkozy e di Hollande; Berlusconi e Prodi – lungo i decenni – hanno contribuito gravemente al declino dell’Italia, ma si ricorda anche qualche tentativo da parte loro di non azzerare la capacità di manovra internazionale ereditata dalla Prima Repubblica. La cosiddetta “sovranità limitata” non era sinonimo di “sovranità azzerata”.Questi diversi governanti parlavano spesso della Casa comune europea. Questa casa non è stata poi costruita per vari motivi. Dov’è che sono mancati i mattoni? Perché quella casa non c’è? Perché tutti questi governanti avevano limiti e ambiguità, perché hanno proiettato gravi errori sulle generazioni successive, perché c’erano condizioni – storiche e oggettive – che non controllavano, perché maturava una crisi più grande che stava fuori e al di sopra della crisi europea, ossia la crisi dell’Impero atlantico e della potenza nordamericana. Intanto l’Impero in crisi puntava a far pagare a tutti il prezzo sempre più esoso della propria sopravvivenza. Il dollaro non era più quello di una volta, la finanza si faceva via via più devastante, ma anche la Nato non era quella di prima: in contrasto contro ogni altra logica, si espandeva. L’Impero doveva accentuare tutte le spinte militari, aumentare la dose di controllo fino a rendere la propria “intelligence” un incubo orwelliano e a trasformare la Casa comune europea in una Caserma.In pieno revival berlinese, visito a Berlino la sede della Stasi, diventata un museo che vorrebbe perpetuare la vergogna di un sistema che impiegava decine di migliaia di persone per violare “le vite degli altri”. Scatto molte foto ai microfoni nascosti negli orologi, alle macchine fotografiche mascherate da innaffiatoi o tronchi d’albero, ai campioni di tessuto degli oppositori (da far odorare ai cani per rintracciarli prima), ai registratori e alle bobine che carpivano migliaia di voci. Mentre fotografo questo tragicomico modernariato dello spionaggio, mi rendo conto di quanto esso sia poca cosa di fronte a quel che ha rivelato Edward Snowden. Potete anche voi visitare il museo della Stasi, ma non c’è ancora un museo che spieghi che tutte le vostre email – anche se siete uomini potenti, anzi, soprattutto se siete potenti – sono in pancia alla Nsa e ad altre strutture spionistiche atlantiche. Strutture con budget sterminati che vogliono e ottengono una sola cosa, la Tia – Total Information Awareness, ossia la sorveglianza totalitaria. Altro che il buffo innaffiatoio della vecchia Germania Est.Ecco perché le classi dirigenti europee di nuova generazione, dal lato atlantico, oggi sono molto cambiate: totalmente ricattabili, asservite, incapaci di affermare una propria elaborazione autonoma, disarticolate. Se la generazione dei grandi vecchi che abbiamo citato commetteva errori e subiva sconfitte, questa generazione è addirittura annichilita, almeno a Ovest: perché innanzitutto non è libera. E si fa portare in guerra, a partire dal disastro ucraino. Gli esponenti più avveduti delle classi dirigenti, ovunque in Europa, sanno che la Guerra Fredda e le sanzioni sono un pessimo affare e che la sicurezza collettiva non può esistere se va contro qualcuno, specie se quel qualcuno ha il peso della Russia. I più liberi di parlare restano i vecchi ed ex politici. Nessuno di loro ha consuetudine con i politici della generazione Obama. Li vedono come maggiordomi che – così come Barack – non possiedono pensiero autonomo, ma recitano un copione redatto presso i veri piani alti dell’Impero e della finanza, e lo recitano meccanicamente fino in fondo, anche quando sanno che annienterà la sovranità dei propri paesi, sacrificata all’altare di una nuova Guerra Fredda.Perciò, i vecchi, com’è naturale, guardano con attenzione speciale a Mosca, dove vedono una classe dirigente vera. Putin e Lavrov sovrintendono al proprio copione, e questo rende leggibile il loro operato. La politica internazionale del Cremlino mira a essere “prevedibile”, cioè esplicita nell’enunciare i propri interessi di lungo periodo, senza aree di ambiguità. Quando Putin dice di non voler ricostruire l’Unione Sovietica, è vero. E quando dice che non consentirà alla Nato di minare l’efficacia della deterrenza nucleare, è altrettanto vero. Capirlo ci consentirebbe di risparmiare sulle spese militari che ingrassano coloro per i quali Obama fa il piazzista. L’americano Paul Craig Roberts, un altro reduce di quando la politica governava ancora qualche decisione, è arrivato a definire Putin “il leader morale del mondo”. Suonerà una definizione controversa per molti potenziali lettori, letteralmente bombardati dalla campagna anti-russa e dall’isteria anti-Putin che fa scrivere a tutta la stampa occidentale anche le notizie più assurde pur di lordare con sangue e sperma la sua reputazione. Ma c’è qualcosa che spiega lo stesso la definizione usata da Roberts. Un tempo l’ideologia occidentale era riassunta nell’espressione “siamo il Mondo Libero”, un concetto già smentito dalle sue guerre e dai dittatori al suo servizio, e oggi sempre più inconsistente, fino a diventare un’autorappresentazione al limite della patologia. La nemesi è in atto: Vladimir Putin si sta ritrovando a essere il leader del Mondo Libero così come è da intendere oggi, ossia il mondo che per emanciparsi deve sganciarsi dal dominio di Washington, e perciò costruisce nuove alleanze fra continenti, popoli, gruppi di interesse, forze militari, movimenti politici molto diversi.Putin non aveva lavorato per questo obiettivo, perché stava lavorando a sollevare la marea geopolitica del suo immenso paese. Nel sollevarsi, la marea a sua volta ha sospinto la barca del Cremlino fino a un rango di relazioni autenticamente “globali”, a dispetto della definizione che i burattinai russofobi fanno leggere a Obama sul suggeritore elettronico: «Russia potenza “regionale”». Il che rivela il vero pensiero che le classi dirigenti imperiali rivolgono anche a tutti gli altri attori internazionali: a Washington non accettano il mondo multipolare e faranno di tutto per spegnere ogni ambizione da potenza globale, impedendo prima di tutto ai vari attori “regionali” di interagire, separandoli artificialmente contro i loro interessi. Con l’Europa la faccenda funziona, tanto che ora il Muro lo vogliono costruire da Ovest, per separare l’Ucraina dalla Russia sul modello del Muro israeliano, che hanno già digerito senza menare scandalo. Con la Cina e i Brics funziona molto meno, tanto che la velleità Usa viene travolta da giganteschi accordi economici che cambieranno gli assetti mondiali, e fuori dal dollaro.In Russia sanno che rimane loro poco tempo per sganciarsi dai mille fili che li legano ancora alla finanza anglosassone e alle leve che manovrano il prezzo degli idrocarburi, e sanno anche che l’esito non è scontato. In America sanno che rimane poco tempo per impedire il sorgere di un mondo multipolare e riallineare a sé interi continenti, dall’Africa, all’Europa asservita dei nuovi trattati, fino al Caos artificiale in Medio Oriente, mentre si prepara ogni grado di aggressione a danno delle grandi potenze eurasiatiche. In Europa, i vecchi politici sanno che rimane poco tempo alle loro vite per testimoniare l’urgenza di ricostruire un buon rapporto con la Russia, da cui passano le strade della sicurezza collettiva. Rimane quindi poco tempo all’Europa tutta per ascoltarli, anziché allearsi con i nazisti ucraini e farsi governare dagli incubi robotici del neoliberismo reale degli Juncker e dei Katainen.(Pino Cabras, “Ricercato, il leader del mondo libero”, da “Megachip” del 10 novembre 2014).Vladimir Vladimirovic Putin non è andato in Germania ad assistere alle celebrazioni su un’importante vicenda storica di un quarto di secolo fa, la rimozione del Muro di Berlino. Era a Pechino per fare la Storia del prossimo quarto di secolo, mentre firmava un altro storico mega-accordo sul gas con il presidente cinese Xi Jinping. A Putin non manca il senso della Storia. Venticique anni fa era proprio in Germania Est, e precisamente a Dresda, dove soggiornava da quattro anni in veste di ufficiale del Kgb. Aveva avuto modo tante volte di girare in tutto il vasto centro di quella città ricca di storia, che nei secoli si era guadagnata la definizione di Elbflorenz (“Firenze sull’Elba”). Ricca di storia, sì, eppure nessuno degli edifici che costeggiava le camminate di Putin aveva più di cinquant’anni. La città infatti era stata letteralmente rasa al suolo dal 13 al 15 febbraio 1945 dai bombardieri britannici e americani. Morirono decine di migliaia di persone, quasi tutte civili. La Repubblica Democratica Tedesca aveva ricostruito la città, facendo di essa un primario centro industriale e di ricerca.