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Da Fassino a Salvini, il sovranismo nato nel 2005 in val Susa
Matteo Salvini si rassegni: dovrà davvero governare, ininterrottamente, per i prossimi trent’anni. Chi lo dice? La statistica. O meglio: la cronometrica precisione (a rovescio) delle famosissime previsioni-auspicio formulate da Piero Fassino. «Trent’anni di Salvini? Vediamo se gli darannoi i voti», ha detto l’ex dirigente del Pci-Pds, quindi ex ministro, ex capo dei Ds ed ex sindaco di Torino. Non gli era bastato, scrive Massimo Mazzucco, il celebre pronostico su Beppe Grillo, messo alla porta quando chiese – provocatoriamente – di partecipare alle inedite primarie del neonato Pd. «Grillo vuole governare? Fondi un suo partito – disse Fassino – e poi vediamo se prenderà i voti». Non pago, in qualità di primo cittadino torinese, lo stesso Fassino concesse una spassosa replica, rivolgendosi a Chiara Appendino, allora all’opposizione, portavoce a Torino della forza politica puntualmente fondata, nel frattempo, da Grillo: «Vuole governare lei? Si candidi come sindaca, e vedremo se la eleggono». La Appendino oggi siede al posto di Fassino, mentre gli uomini di Grillo governano l’Italia insieme a Salvini? C’è il rischio che lo facciano in eterno, dice Mazzucco sul blog “Luogo Comune”, stando all’ormai leggendaria chiaroveggenza fassiniana: «Ora, con il suo nuovo vaticinio – se la ride Mazzucco – Fassino ha appena regalato trent’anni di dominio politico a Matteo Salvini. Che uomo fantastico, questa “punta di diamante” del Pd».Tutto si può imputare, a Fassino, tranne la mancanza di schiettezza. Gran faticatore della politica, vissuta come missione palingenetica ai tempi eroici del Pci berlingueriano, Piero il Lungo – come lo ribattezzò Giampaolo Pansa – incarna bene le luci e le ombre, in versione sabauda, dell’ex sinistra incarnata dall’Elefante Rosso. Una sinistra rivoluzionaria solo a parole, ma in realtà prudentemente riformista, che visse il trauma della caduta del Muro di Berlino come la fine di un universo marmoreo e basato, per settant’anni, sull’indicibile tradimento di una grande promessa. Più di ogni altra città Italia, forse, proprio Torino ha rivelato la natura doppia di quello che fu il partito di Togliatti: orizzonti quasi onirici di riscatto sociale per il Quarto Stato ma, al tempo stesso, estremo pragmatismo nell’azione di governo, attraverso l’inedita alleanza di potere – non dichiarata – con il vertice industriale e finanziario dell’ex capitale Fiat, alle prese col declino operaio e l’incerta riconversione post-industriale. Negli anni più sguaiati del berlusconismo, con Roma e Milano trasformate in trincee mediatiche per scatenare la caccia all’immigrato clandestino presentato come pericoloso criminale, Torino ha brillato per misura, equilibrio e capacità di integrazione, smussando gli spigoli e investendo al meglio nelle strategie di convivenza: la città di Fassino e Chiamparino, che nell’immediato dopoguerra esibiva cartelli-vergogna del tipo “non si affittano case ai meridionali”, è diventata la metropoli italiana probabilmente più tollerante e con meno problemi di micro-criminalità, proprio grazie alle politiche sociali sapientemente messe in atto dagli esponenti del futuro Pd.A cancellare però l’illusione che il consenso politico possa essere eterno, anche quando motivato da solide ragioni come la buona amministrazione di una grande città, ha provveduto un territorio periferico ma contiguo, la valle di Susa, da sempre “seconda casa” dei torinesi che amano la montagna e lo sci. Spaventata dal progetto di una maxi-opera faraonica come la linea Tav Torino-Lione, potenzialmente devastante e classificata come desolatamente inutile dai massimi esperti dell’università italiana, la valle di Susa – una comunità di quasi centomila abitanti, orientata a sinistra anche in virtù della sua tradizione antifascista – si è sentita letteralmente tradita dai suoi storici rappresentanti politici. Gli uomini del centrosinistra rimasero risolutamente sordi di fronte alla protesta popolare esplosa nel 2005 in forma di esemplare rivolta nonviolenta, capitanata dai sindaci in fascia tricolore: una quasi-sommossa, che riuscì a fermare per ben cinque anni l’avvio dei cantieri. Per la valle di Susa, dalla sponda prodiana, si spesero comunisti come Paolo Ferrero e verdi come Edo Ronchi – ma non Sergio Chiamparino, passato disinvoltamente dalla guida di Torino a quella della Compagnia di San Paolo, potente fondazione bancaria, per poi tornare tranquillamente alla politica nei panni di presidente della Regione Piemonte, come se finanza e democrazia oggi non rappresentassero un bionomio stridente.Dalla parte dei valsusini si è invece schierato in modo nettissimo Beppe Grillo, protagonista di interventi decisivi – a livello politico – per rinfrancare la popolazione, con la promessa che non sarebbe più stata abbandonata al suo destino di paura, angoscia e rabbia. E’ come se il Movimento 5 Stelle avesse conquistato Torino partendo proprio dalla negletta valle di Susa, territorio accanitamente emarginato e isolato, infine anche criminalizzato. Con almeno dieci anni di anticipo sul resto del paese, proprio la valle di Susa – nel 2005 – sperimentò sulla propria pelle il crollo della vecchia politica fondata sulla presunta dicotomia destra-sinistra. Fu chiaro, ai valsusini, che si imponeva un’altra visione del mondo: da una parte la democrazia, cioè il rispetto della sovranità popolare, e dall’altra le oscure ragioni di un’oligarchia finanziaria che, in vent’anni, non ha ancora avuto modo di spiegare chiaramente a cosa mai servirebbe, davvero, quell’ipotetico super-treno che forse al Pd è già costato anche la clamorosa perdita di Torino. Inutilmente, i valsusini si erano rivolti – in prima battuta – proprio a Piero Fassino, figlio di un comandante partigiano della valle. Ma quando Fassino salì in montagna a commemorare i caduti, tra cui gli uomini di suo padre, gli esponenti locali del Pd lo rampognarono soltanto per certe alleanze locali con Forza Italia, e non invece per il silenzio assordante – del partito, e dello stesso Fassino – sulla grande opera percepita dalla popolazione come un’autentica calamità. Così oggi il Pd sembra guardare – con gli occhi smarriti di Fassino – all’inspiegabile trionfo di Salvini, emblema di un’Italia che l’ex centrosinistra ha smesso, da molto tempo, di capire.Matteo Salvini si rassegni: dovrà davvero governare, ininterrottamente, per i prossimi trent’anni. Chi lo dice? La statistica. O meglio: la cronometrica precisione (a rovescio) delle famosissime previsioni-auspicio formulate da Piero Fassino. «Trent’anni di Salvini? Vediamo se gli daranno i i voti», ha detto l’ex dirigente del Pci-Pds, quindi ex ministro, ex capo dei Ds ed ex sindaco di Torino. Non gli era bastato, scrive Massimo Mazzucco, il celebre pronostico su Beppe Grillo, messo alla porta quando chiese – provocatoriamente – di partecipare alle inedite primarie del neonato Pd. «Grillo vuole governare? Fondi un suo partito – disse Fassino – e poi vediamo se prenderà i voti». Non pago, in qualità di primo cittadino torinese, lo stesso Fassino concesse una spassosa replica, rivolgendosi a Chiara Appendino, allora all’opposizione, portavoce a Torino della forza politica puntualmente fondata, nel frattempo, da Grillo: «Vuole governare lei? Si candidi come sindaca, e vedremo se la eleggono». La Appendino oggi siede al posto di Fassino, mentre gli uomini di Grillo governano l’Italia insieme a Salvini? C’è il rischio che lo facciano in eterno, dice Mazzucco sul blog “Luogo Comune”, stando all’ormai leggendaria chiaroveggenza fassiniana: «Ora, con il suo nuovo vaticinio – se la ride Mazzucco – Fassino ha appena regalato trent’anni di dominio politico a Matteo Salvini. Che uomo fantastico, questa “punta di diamante” del Pd».
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Stiglitz: ma all’Italia conviene lasciare l’euro, ecco come
Qual è il modo migliore per lasciare l’euro? Questa domanda è riaffiorata dopo che in Italia è salito al potere un governo euroscettico. Sì, i ministri chiave si sono formalmente impegnati a mantenere la valuta comune, ma quegli impegni non sono immutabili. Devono essere considerati nel contesto del più ampio potere di contrattazione italiano: il nuovo governo vuole chiarire che non si tratta solo di un parvenu. Preferirebbe rimanere all’interno dell’Eurozona, ma pretende dei cambiamenti. I nuovi leader italiani hanno ragione a dire che l’Eurozona ha un forte bisogno di riforme. L’euro è viziato sin dal suo concepimento. Per paesi come l’Italia, ha eliminato due meccanismi chiave di regolazione: il controllo dei tassi di interesse e di cambio. E invece di mettere qualcosa al loro posto, ha introdotto strette restrizioni su debiti e deficit – ulteriori ostacoli alla ripresa economica. Il risultato per la zona euro è stato una crescita più lenta, soprattutto per i paesi più deboli al proprio interno. L’euro avrebbe dovuto inaugurare una maggiore prosperità, che a propria volta avrebbe portato ad un rinnovato impegno per una maggior integrazione europea. Ha fatto esattamente il contrario – aumentare le divisioni all’interno dell’Ue, in particolare tra paesi creditori e debitori.Le divisioni risultanti hanno inoltre reso più difficile la risoluzione di altri problemi, in particolare la crisi migratoria, per la quale le norme europee impongono un onere ingiusto ai paesi in prima linea, come Grecia e Italia. Questi sono anche i paesi debitori, già afflitti da difficoltà economiche. Non c’è da stupirsi si ribellino. Cosa bisogna fare è ben noto. Il problema è che la Germania non vuole farlo. L’Eurozona ha da tempo riconosciuto la necessità di un’unione bancaria. Berlino insiste però nel rinviare la riforma chiave – una comune assicurazione sui depositi – che ridurrebbe la fuga di capitali dai paesi deboli: quest’ultima è uno dei fattori chiave che spiega la profondità del declino dei paesi in crisi. Le politiche economiche interne della Germania aggravano i problemi della zona euro. La principale sfida economica affrontata dai paesi in un’unione monetaria è l’incapacità di adeguare i tassi di cambio disallineati. Nell’Eurozona, l’onere dell’adeguamento è attualmente imposto ai paesi debitori, che già soffrono di bassi crescita e redditi. Se la Germania avesse una politica fiscale e salariale più espansiva, parte della pressione verrebbe tolta da questi paesi.Se la Germania non è disposta ad intraprendere i passi necessari per migliorare l’unione monetaria, dovrebbe fare la cosa migliore: lasciare l’Eurozona. Come detto da Soros, dovrebbe o guidare l’area o andarsene. Con la Germania (e forse altri paesi dell’Europa settentrionale) fuori dall’unione monetaria, il valore dell’euro si ridurrebbe e le esportazioni dell’Italia e di altri paesi dell’Europa meridionale aumenterebbero. La principale fonte di disallineamento sparirebbe. Allo stesso tempo, l’aumento del tasso di cambio tedesco farebbe molto per curare uno degli aspetti più destabilizzanti dell’economia globale: lo squilibrio commerciale a favore di Berlino. Il guaio, naturalmente, è che la Germania non vuole intraprendere nessuna delle due strade. Ciò lascia i cittadini di paesi come Grecia ed Italia con una scelta che non dovrebbero esser costretti a fare: tra l’appartenenza all’Eurozona e la prosperità economica. Un timido e inesperto governo greco ha scelto di rimanere nell’unione monetaria. Il risultato è stato stagnazione. Nel 2015 il Pil del paese era crollato del 25% rispetto al livello pre-crisi. Da allora, si è appena mosso.L’Italia ha l’opportunità di fare una scelta diversa. In assenza di riforme significative, i benefici di lasciare l’euro sono chiari e considerevoli. Un cambio più basso le consentirebbe maggiori esportazioni. I turisti troverebbero il paese una destinazione ancor più attraente. Tutto ciò stimolerebbe la domanda e aumenterebbe le entrate del governo. La crescita aumenterebbe e l’alto tasso di disoccupazione (11,2%, con il 33,1% di disoccupazione giovanile) diminuirebbe. Ci sono, naturalmente, molte altre ragioni per il malessere italico, e queste saranno tutt’al più parzialmente risolte lasciando l’euro. Governi come quelli di Trump o di Berlusconi – dominato da corrotti cercatori di rendite, senza comprensione delle vere basi della crescita sostenibile a lungo termine – non forniscono la leadership politica necessaria per una crescita forte e sostenibile. Allo stesso tempo, tuttavia, la crescita lenta ed iniqua che l’Italia ha vissuto come risultato dell’euro fornisce terreno fertile a partiti populisti. Ci sarebbero anche ulteriori vantaggi politici. Un’Italia più prospera avrebbe maggiori probabilità di cooperare in altri settori chiave in cui l’Europa ha bisogno di lavorare insieme: migrazione, una forza di difesa europea, sanzioni contro la Russia, politica commerciale.Le politiche commerciali o migratorie producono benefici per l’intero paese, ma ci sarebbero anche dei perdenti – e i vincoli fiscali imposti dalla zona euro hanno reso quasi impossibile fornire una tutela adeguata a chi perde. Un’Italia al di fuori dell’Eurozona sarebbe in una posizione migliore per condividere i benefici delle proprie politiche internazionali, mitigando al contempo il dolore ad esse associato. La sfida, ovviamente, sarà trovare un modo per lasciare la zona euro in modo da minimizzare i costi economici e politici. Una massiccia ristrutturazione del debito, fatta con particolare attenzione alle conseguenze per le istituzioni finanziarie nazionali, è essenziale. Senza di essa, l’onere del debito denominato in euro salirebbe, controbilanciando forse gran parte dei potenziali guadagni. Tali ristrutturazioni sono una parte fisiologica di grandi svalutazioni. A volte viene fatto di nascosto – come quando gli Usa abbandonarono il gold standard. A volte apertamente, come in Islanda ed Argentina. Tali ristrutturazioni del debito dovrebbero però essere viste come un rischio intrinseco dell’investimento transnazionale, una delle ragioni per le quali le obbligazioni “straniere” spesso danno un premio per il rischio.Da un punto di vista economico, la cosa più semplice da fare sarebbe che le entità italiane (governi, aziende e privati) semplicemente ridenominino i debiti dall’euro alla nuova lira. A causa però di complessità giuridiche all’interno dell’Ue, e degli obblighi internazionali del paese, potrebbe essere preferibile adottare una super-legge sul fallimento, sul modello del Chapter 11 americano. Questa permette un rapido ricorso alla ristrutturazione del debito a qualsiasi entità per la quale la nuova valuta presenta gravi problemi economici. Le leggi sulla bancarotta restano un’area di competenza di ciascuno degli Stati nazionali dell’Ue. L’Italia potrebbe persino scegliere di non annunciare che sta per lasciare l’euro. Potrebbe semplicemente emettere, ad esempio, titoli di Stato, che dovrebbero essere accettati come pagamento per qualsiasi obbligo di debito in euro. Una diminuzione del valore di queste obbligazioni equivarrebbe a una svalutazione. Ciò allo stesso tempo ripristinerebbe l’efficacia della politica monetaria italiana: cambiamenti nella politica della banca centrale inciderebbero sul valore delle obbligazioni.Si leverebbe naturalmente un polverone da parte degli altri membri. Introdurre una moneta parallela, ancorché in modo informale, violerebbe quasi certamente le regole della zona euro e sarebbe certamente contro il suo spirito. In questo modo però l’Italia lascerebbe decidere gli altri membri se espellerla. Roma potrebbe scommettere sul fatto che i membri più irritabili dell’Unione non compieranno mai un’azione così forte, che confermerebbe la sfilacciamento della zona euro. L’Italia avrebbe allora ottenuto due risultati con una sola mossa: rimarrebbe parte dell’Eurozona ma avrebbe compiuto una svalutazione. E se dovesse perdere la scommessa, l’onere politico dell’aver lasciato la zona euro cadrebbe ancor più chiaramente sui suoi “partner”. Sarebbero loro ad aver fatto la scelta finale. La Grecia si è arresa ad esser strangolata dalla Bce. Ma non doveva. Atene era infatti già ben avviata nella creazione di un sistema (un meccanismo di pagamento elettronico sotto la nuova dracma) che avrebbe facilitato una transizione dall’Eurozona. I progressi tecnologici degli ultimi tre anni rendono la creazione di sistemi di moneta elettronica sempre più semplice ed efficace. Se l’Italia decidesse di usarne uno, non dovrebbe nemmeno affrontare le difficoltà di stampare nuova valuta. Potrebbe anche alleviare il dolore della propria dipartita coordinando l’uscita con altri paesi in posizione simile.Il variegato gruppo di paesi che ora forma l’Eurozona è ben lungi da quella che gli economisti chiamano un’area valutaria ottimale. Ci sono troppe diversità, per farlo funzionare occorrono migliori assetti istituzionali, di quelli del tipo su cui la Germania ha posto il veto. Una zona meridionale sarebbe molto più vicina ad un’area valutaria ottimale. Ed anche se è difficile organizzare un’uscita coordinata in un breve periodo di tempo, se l’Italia dovesse avere successo, altri paesi quasi sicuramente seguiranno. Non bisogna ovviamente sottovalutare i costi di una grande svalutazione. Qualsiasi grande cambiamento in un prezzo-chiave in un’economia è una perturbazione significativa. Il prezzo del cambio estero è, ovviamente, fondamentale in qualsiasi economia aperta. Ha un effetto-domino sui prezzi di tutti i beni e servizi. Alcune – forse molte – aziende falliranno. Alcuni – forse molti – privati vedranno i propri redditi reali abbassarsi. È però altrettanto importante non sottovalutare i costi dell’attuale malessere italiano. Se la sua economia, nei 20 anni dalla creazione dell’euro, fosse cresciuta al tasso della zona euro nel suo insieme, il suo Pil sarebbe stato più alto del 18%.Il costo della disoccupazione persistente, specialmente tra i giovani, è enorme. I giovani tra i 20 e i 30 anni dovrebbero affinare le proprie abilità nella formazione sul posto di lavoro. Invece sono a casa oziosi, molti di loro a sviluppare un risentimento verso le élite e le istituzioni che incolpano per la propria situazione. La conseguente mancanza di formazione del capitale umano ridurrà la produttività anche per gli anni a venire. In un mondo ideale, l’Italia non dovrebbe essere costretta a lasciare l’Eurozona. L’Europa potrebbe riformare l’unione valutaria e fornire una migliore protezione a chi è danneggiato dal commercio e dalla migrazione. In assenza però di un cambio di direzione da parte dell’Ue nel suo insieme, l’Italia deve ricordare che ha un’alternativa alla stagnazione economica e che ci sono modi per lasciare la zona euro in cui i benefici probabilmente supererebbero i costi. Se il nuovo governo dovesse pilotare con successo tale uscita, l’Italia starebbe meglio. E così il resto d’Europa.(Joseph Stiglitz, “L’Italia ha ragione a voler lasciare l’euro”, da “Politico.Eu” del 25 giugno 2018, post tradotto fa Hmg per “Come Don Chisciotte”).Qual è il modo migliore per lasciare l’euro? Questa domanda è riaffiorata dopo che in Italia è salito al potere un governo euroscettico. Sì, i ministri chiave si sono formalmente impegnati a mantenere la valuta comune, ma quegli impegni non sono immutabili. Devono essere considerati nel contesto del più ampio potere di contrattazione italiano: il nuovo governo vuole chiarire che non si tratta solo di un parvenu. Preferirebbe rimanere all’interno dell’Eurozona, ma pretende dei cambiamenti. I nuovi leader italiani hanno ragione a dire che l’Eurozona ha un forte bisogno di riforme. L’euro è viziato sin dal suo concepimento. Per paesi come l’Italia, ha eliminato due meccanismi chiave di regolazione: il controllo dei tassi di interesse e di cambio. E invece di mettere qualcosa al loro posto, ha introdotto strette restrizioni su debiti e deficit – ulteriori ostacoli alla ripresa economica. Il risultato per la zona euro è stato una crescita più lenta, soprattutto per i paesi più deboli al proprio interno. L’euro avrebbe dovuto inaugurare una maggiore prosperità, che a propria volta avrebbe portato ad un rinnovato impegno per una maggior integrazione europea. Ha fatto esattamente il contrario – aumentare le divisioni all’interno dell’Ue, in particolare tra paesi creditori e debitori.
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Foa: ma gli insulti non fermeranno la marcia dei sovranisti
E dire che, fino a poco tempo fa, gli intellettuali mainstream tentavano di screditare i sovranisti come pericolosi neofascisti. Oggi possiamo dirlo: i sovranisti avevano ragione e non c’è insulto che riuscirà a fermarci, per una ragione tanto semplice quanto inaspettatata: gli elettori stanno distruggendo scheda dopo scheda quel costrutto neoglobalista e transnazionale che anni di incessante propaganda hanno tentato di trasformare in un Destino ineludibile. Lo confesso: era difficile immaginarlo in queste proporzioni. La campagna mediatica (ma non solo) lanciata dall’establishment per fermare i populisti in ogni paese (dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, dall’Austria all’Italia) è stata di una virulenza senza precedenti ed è destinata a durare. Pensate solo alle ultime vergognose accuse di “Repubblica”, che ha etichettato come “rosso-bruni” molti intellettuali rei di essere favorevoli al governo legastellato e che accusa Matteo Salvini di essere un nazista. Fango, spazzatura, nient’altro che spazzatura.Trump negli Stati Uniti ha subito lo stesso trattamento. Eppure la diffamazione non fa più presa, nemmeno se è strillata dal 90% dei media; anzi, produce l’effetto contrario. La popolarità del presidente degli Stati Uniti è altissima, la Lega passa di vittoria in vittoria e i 5 Stelle hanno schiantato a sinistra quel Pd per cui tifano quasi tutti i talk show. Tutto questo accade perché i cittadini sono stufi di non essere più padroni del proprio destino e non si fanno più incantare dalla narrativa, inzuppata di spin, volta a creare l’impressione che lo Stato sia una reliqua del passato e che il mondo sarà ineluttabilmente multiculturale, multietnico, governato da democrazie virtuali ma controllato di fatto da élite autonominatesi e prive di legittimità popolare. Altro che reliqua, lo Stato è più vivo che mai!Ecco perché un saggio di un pensatore raffinato come Giuseppe Valditara, “Sovranismo. Una speranza per la democrazia”, pubblicato da Book Time lo scorso mese di gennaio, con prefazione di Thomas D. Williams e postfazione del sottoscritto, oggi non solo è più che mai attuale ma risulta profetico. Valditara in appena 150 pagine condensa le ragioni per mantenere la sovranità nelle mani di un popolo, ovvero di ribadire un concetto che in teoria è cardinale di ogni Costituzione ma che nel corso degli ultimi decenni è stato via via svuotato di significato. In fondo, essere sovranisti vuol dire credere semplicemente nei principi fondanti delle nostre democrazie; il che non implica, contrariamente a quanto sostengono arbitrariamente i pensatori globalisti, favorire un ritorno del nazionalismo, questo sì veramente superato dalla storia.Significa, invece, credere che ogni Stato abbia la necessità di rappresentare un popolo, un’identità e una cultura comuni, e che solo difendendo quelli che sono bisogni insopprimibili e caratteristici di ogni vera comunità, sappia porsi in maniera cooperativa e costruttiva nei confronti degli altri paesi. Significa riconoscere alcune verità basilari, non solo giuridiche, che con eloquenza e l’ausilio di una penna felice, Valditara espone nel suo saggio. Significa porre le premesse di un nuovo mondo, meno destrutturato e destabilizzante di quello che i globalisti tentano di imporre, privandoci surretiziamente dei nostri diritti e, a ben vedere, delle nostre radici e dei nostri valori.(Marcello Foa, “Diciamolo, i sovranisti hanno ragione e gli insulti non li fermeranno”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 27 giugno 2018. Il libro: Giuseppe Valditara, “Sovranismo, una speranza per la democrazia”, Book Time, 150 pagine, 15 euro).E dire che, fino a poco tempo fa, gli intellettuali mainstream tentavano di screditare i sovranisti come pericolosi neofascisti. Oggi possiamo dirlo: i sovranisti avevano ragione e non c’è insulto che riuscirà a fermarci, per una ragione tanto semplice quanto inaspettatata: gli elettori stanno distruggendo scheda dopo scheda quel costrutto neoglobalista e transnazionale che anni di incessante propaganda hanno tentato di trasformare in un Destino ineludibile. Lo confesso: era difficile immaginarlo in queste proporzioni. La campagna mediatica (ma non solo) lanciata dall’establishment per fermare i populisti in ogni paese (dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, dall’Austria all’Italia) è stata di una virulenza senza precedenti ed è destinata a durare. Pensate solo alle ultime vergognose accuse di “Repubblica”, che ha etichettato come “rosso-bruni” molti intellettuali rei di essere favorevoli al governo legastellato e che accusa Matteo Salvini di essere un nazista. Fango, spazzatura, nient’altro che spazzatura.
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Dugin: Italia, l’inizio della rivoluzione che cambierà il mondo
Oggi la democrazia liberale si definisce come il potere delle minoranze non elette sulla maggioranza dei cittadini. Quelle fanno i colpi di Stato contro la Costituzione, le maggioranze reagiscono allora votando i Salvini, i Di Maio, le Marine Le Pen, o i Kurz. Destra o sinistra, non conta più. È una rivolta di popolo contro le élite, cioè contro le minoranze che vogliono difendere apertamente gli interessi delle minoranze. Se questa è la nuova forma della democrazia, ecco, al popolo non piace. In tutto questo però ci sono anche i migranti, spesso al centro di questo scontro. È il punto simbolico più grande. I migranti sono il caso in cui una questione tecnica e marginale, cioè la gestione dell’immigrazione, rivela un contrasto ideologico insanabile: l’ideologia liberale dominante si fonda sull’assimilazione dell’uomo con il cittadino. È, in altre parole, l’effetto dell’ideologia dei diritti dell’uomo. Secondo questa visione, ogni essere umano gode di particolari diritti universali. Questa posizione ideologica ha come conseguenza che gli Stati siano obbligati a trattare tutti, anche gli stranieri e gli immigrati, come se fossero loro cittadini. Ma questa è solo l’applicazione pratica di un’ideologia più ampia, che invece vuole distruggere e assimilare le tradizioni, le culture e le storie dei popoli.E allora il popolo ha una reazione: sarà pure viscerale, sarà organica, ma va al punto perché ha una sua origine politica, ideologica, metafisica. Resiste, anzi combatte questa ideologia. E allora succede che il semplice migrante, la semplice nave che li trasporta – elementi che di per sé non avrebbero alcun interesse sociale – diventano in questo campo di battaglia qualcosa di più grande: il segno della grande scelta di radicalità di questa civiltà. I liberali insistono in questa ideologia di forte ostilità al popolo. Per loro il popolo è una cosa negativa, perché è rischioso e incontrollabile e, se male indirizzato, potrebbe portare all’instaurarsi della dittatura o al governo di un leader forte. Allora la lotta che oggi viene fatta dalle élite contro Salvini, Di Maio e Orban altro non è che la lotta contro l’idea che l’identità sia una cosa positiva. Per i liberali difendere il valore dell’identità di un cittadino o difendere l’identità nazionale costituisce il peggior male possibile, una cosa da distruggere. Ma distruggere l’identità significa distruggere il popolo: e da qui nasce il populismo, che altro non è che l’accusa fatta al popolo di essere popolo.Noi stiamo vedendo, di fronte a questa repressione, la reazione dei sovranisti: ebbene, questo è l’inizio della grande rivoluzione anti-liberale. Non è una correzione del liberalismo, no: è l’inizio della grande lotta sistematica dei popoli contro le élite liberali, contro le ideologie portate avanti dai Clinton, da Obama, da Soros, contro la promozione della globalizzazione sociale e politica. Non – e sia chiaro – non contro il controllo dell’immigrazione. E’ il popolo o è l’élite a governare? Si può dire che ci siano, in realtà, due governi: quello del popolo, rappresentato legittimamente in Italia, in Ungheria e in Austria, e quello europeo, che decide ogni volta in senso opposto. Questo è interessante. È l’inizio della lotta politica della nuova generazione, anzi della politica stessa della nuova generazione che – secondo me – dovrà portare alla creazione del populismo integrale. Un populismo che non sia né di destra né di sinistra, ma rappresentativo del popolo.Oggi in Italia assistiamo a una novità politica importante, un primo passo, cioè un’alleanza tra destra e sinistra. Già questo è notevole: cosa sarebbe successo se Marine Le Pen si fosse alleata con Jean-Luc Mélénchon? Il caos. O Donald Trump con Bernie Sanders? Sarebbe scoppiato tutto il sistema. O se Syriza si fosse unita ad Alba Dorata? Avrebbero cacciato la Grecia da tutto, sia dall’euro che dall’Unione Europea. E invece, ecco: in Italia è successo. Per la prima volta si supera la divisione destra-sinistra. Ha vinto Salvini, che con le sue felpe e le sue magliette ha contribuito a far smetter di demonizzare il populismo, e anche Di Maio. Insieme a loro ha vinto anche il popolo, in questa nuova lotta contro le élite per ritrovare la propria identità. Ma dove si trova l’identità di un popolo? Nella sua cultura. È una questione aperta. Per me il Rinascimento italiano è la forma culturale assoluta. Ha avuto effetti grandissimi su tutti gli altri popoli, anche su noi russi. Io adoro il Rinascimento e credo che l’identità italiana (poi magari mi sbaglio) sia nella sua radice un’identità rinascimentale, non medievale. Credo anche che il Risorgimento sia la continuazione del Rinascimento in un altro ciclo storico.(Alexander Dugin, dichiarazioni rilasciate a Dario Ronzoni per l’intervista “L’Italia è l’inizio della grande rivoluzione populista che cambierà il mondo”, pubblicata da “Linkiesta” il 23 giugno 2018. Filosofo, Dugin è presentato come “controverso ma notevole personaggio dell’estrema destra russa”).Oggi la democrazia liberale si definisce come il potere delle minoranze non elette sulla maggioranza dei cittadini. Quelle fanno i colpi di Stato contro la Costituzione, le maggioranze reagiscono allora votando i Salvini, i Di Maio, le Marine Le Pen, o i Kurz. Destra o sinistra, non conta più. È una rivolta di popolo contro le élite, cioè contro le minoranze che vogliono difendere apertamente gli interessi delle minoranze. Se questa è la nuova forma della democrazia, ecco, al popolo non piace. In tutto questo però ci sono anche i migranti, spesso al centro di questo scontro. È il punto simbolico più grande. I migranti sono il caso in cui una questione tecnica e marginale, cioè la gestione dell’immigrazione, rivela un contrasto ideologico insanabile: l’ideologia liberale dominante si fonda sull’assimilazione dell’uomo con il cittadino. È, in altre parole, l’effetto dell’ideologia dei diritti dell’uomo. Secondo questa visione, ogni essere umano gode di particolari diritti universali. Questa posizione ideologica ha come conseguenza che gli Stati siano obbligati a trattare tutti, anche gli stranieri e gli immigrati, come se fossero loro cittadini. Ma questa è solo l’applicazione pratica di un’ideologia più ampia, che invece vuole distruggere e assimilare le tradizioni, le culture e le storie dei popoli.
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Summa Symbolica: conoscere i simboli per sfuggire al Mago
Ecco, arriva il mago e risolve tutto. Si chiama Macron? Libera i francesi dall’Uomo Nero,che in quel caso era una donna, Marine Le Pen – l’unica, peraltro, a denunciare le cause eurocratiche delle sofferenze sociali della nazione. Siamo in Italia e il mago si chiama Matteo Renzi? Ha in mano quei famosi 80 euro, che infatti gli valgono il 40% dei consensi alle europee. Ha poi risolto qualcosa, il mago Renzi? Assolutamente no: infatti, in capo a pochi mesi, l’Harry Potter di Rignano sull’Arno ha dovuto sloggiare dal palazzo, dove oggi altri ipotetici maghi – di diversa scuola – provano a loro volta a convincere l’opinione pubblica con analoghe trovate, sempre nel campo miracoloso del “tutto e subito”. E’ colpa loro, dei maghi? Sì e no, dice Gianfranco Carpeoro, esoterista coltissimo e dotato di un raro talento nel diffondere generosamente il suo sapere anche presso i non addetti, quelli che i massoni – bontà loro – chiamano profani, cioè rimasti fuori dalla porta del tempio dove si tramanda, “da bocca a orecchio”, la cosiddetta conoscenza iniziatica. Non sarebbe ora di farlo uscire dalle segrete stanze, quel benedetto corpus di informazioni e codici? E’ esattamente la missione che si prefigge Carpeoro con la pubblicazione, a puntate, dei volumi di “Summa Symbolica”, primo studio sistematico – destinato a tutti – sulla “scienza dei simboli”.Una disciplina oscura perché non svelata, che persino Umberto Eco – per poterla introdurre in ambito universitario – ha dovuto camuffare, chiamandola “semiotica”. Tuttora, la simbologia non è materia di insegnamento, da nessuna parte: lo è stata, solo per un certo periodo, nell’università statunitense di Princeton, nel New Jersey, da cui – non a caso – transitarono personaggi come Albert Einstein, il presidente americano Thomas Woodrow Wilson e il matematico John Nash, Premio Nobel per l’Economia come gli altri “princetoniani” Paul Krugman e Angus Deaton. Niente di strano, direbbe Michele Proclamato, allievo di Carpeoro ed eminente simbologo italiano, autore di libri straordinari sui “numeri dell’universo” che emergono, sempre gli stessi, dai rosoni delle cattedrali e dagli antichi zodiaci egizi, dai “sigilli ermetici” di Giordano Bruno e dalla fisica di Newton, dalla matematica “metafisica” di Cartesio e dalle opere di Leonardo, di Arcimboldo, di Vitruvio, di Bach e Mozart, e persino dai “cerchi nel grano”. «Se penetri il simbolo e ne impari a cogliere il messaggio, alla fine diventi più intelligente», sostiene Proclamato: «Il linguaggio dei simboli è fondato sull’analogia e stimola la nostra capacità di intuizione. E in fondo, anche ridotto alla sua essenza numerica, racconta sempre la stessa cosa: la dinamica delle emozioni, che mette gli esseri umani in relazione diretta con qualsiasi altra forma di vita, terrestre e celeste».Da Proclamato a Carpeoro, il passo è breve. Entrambi scrivono libri e animano appassionate conferenze. Tutte cose impensabili, vent’anni fa: «All’epoca – sorride Carpeoro – ad ascoltarmi c’era solo mia sorella, più il gestore della sala». Cos’è successo? Deluso dal consumismo e dalla politica post-ideologica, il pubblico ha scoperto la “new age”, «di cui si è prontamente impossessato il potere, quello che oggi sforna guru, corsi e libri che ti spiegano come avere successo, in modo istantaneo, in ogni campo della vita». Carpeoro presidia strade assai meno battute, quelle dei leggendari Rosacroce, regolarmente maltrattati: l’ufficialità nega ostinatamente la loro esistenza storica, mentre associazioni come l’Amorc – di marca statunitense – ne propongono una versione mistico-occultistica. Sono fuori strada, sostiene Carpeoro: la ricerca dei Rosacroce – fratellanza iniziatica “fantasma”, sempre in clandestinità per sfuggire al dominio cattolico – ha ben poco di mistico. Riguarda casomai la metafisica e soprattutto l’estetica, il codice della bellezza: «Attraverso i loro artisti, tra cui i massimi esponenti del Rinascimento italiano, i Rosacroce hanno creato innanzitutto un linguaggio, ben sapendo che soltanto l’estetica può alimentare l’etica, dal momento che ognuno di noi – pur non essendone consapevole – ha dentro di sé quella stessa bellezza che l’artista riproduce, emozionandoci».L’operazione? Sofisticata e decisiva: «Elevare tutto questo alla portata della nostra consapevolezza. Ecco a cosa serve conoscere il linguaggio simbolico: a non subire più il potere del mago». In materia, Carpeoro è categorico: «Siamo pieni di cosiddetti maestri, che rappresentano la nostra schiavitù psicologica. Nessuno può dirsi maestro, tantomeno io, perché ognuno di noi è maestro in qualcosa: insegnamo e impariamo gli uni dagli altri». Ed è quello che il mago, cioè il cattivo maestro, si guarda bene dall’ammettere: finirebbe disoccupato. «In realtà non ci serve nessun maestro», taglia corto Carpeoro. «Tutto quello che dobbiamo sapere è già dentro di noi. Abbiamo già tutto ciò che ci serve, per raggiungere i nostri obiettivi. La domanda, semmai, è questa: siamo proprio sicuri di sapere che cosa vgliamo? Perché in questo sta la libertà: non nel fare quello che si vuole, ma nel sapere di cosa abbiamo davvero bisogno». E questo, assicura Carpeoro, te lo “insegna” proprio il linguaggio dei simboli, i segni ricorrenti che popolano il mondo, spesso in incognito e a nostra insaputa: li subiamo, facendocene condizionare, ma senza coglierne il significato.Il potere – politico, economico, religioso – fa un uso massiccio dei simboli. Perché funzionano? Lo spiega benissimo il primo volume di “Summa Symbolica”: i simboli sono una traduzione degli archetipi, che sono eterni. Si tratta di eventi materiali (fatti) o immateriali (pensieri) che vivono, da sempre, in una dimensione impalpabile, che Carpeoro chiama “memoria ancestrale dell’universo”. «Entrano in contatto diretto con noi soltanto in un modo: attraverso i sogni che facciamo durante il sonno profondo. Sogni che non possiamo ricordare, perché il nostro linguaggio – limitato – non riesce a catturare l’assoluto archetipico». Ci restano due strade: quella del mito, che l’archetipo lo racconta, e quella – parallela – del simbolo, dove l’archetipo viene rappresentato: con un segno, un numero, una parola, un suono, un colore, persino un odore. In base una “legge” identificata dall’esoterista francese René Guénon, il simbolo è un microcosmo che allude a un macrocosmo: il piccolo contiene il grande, non viceversa. «Il simbolo ti interroga, ti costringe a pensare». E il “pensiero” del simbolo – che spinge a domandarsi “perché” – è il contrario esatto del non-pensiero del mago, che ti spiega solo il “come” (che è una semplice conseguenza del “perché”).Secondo Carpeoro, la nostra società – ormai interamente “magica” – ha saltato sistematicamente il “perché”, concentrandosi solo sul “come” (avere successo, fare soldi, conquistare una donna). Ed è proprio su questa nostra debolezza che il mago, anche politico, gioca facile. Traccia sempre lo stesso cerchio, nel quale ti rinchiude. Prima ti astrae dal tuo mondo reale, dettando le sue regole. Si chiama: astrazione. Poi ti ci trasloca mentalmente, nella nuova casa (estrazione). Ti insegna come abitarla (istruzione) ma fa in modo che tu non possa tornare indietro (ostruzione). Quando ti accorgi che hai vissuto in una bolla immaginaria, ormai è troppo tardi (distruzione). Oggi, oltre il 60% dei francesi reputa Macron una specie di cialtrone, deludente e addirittura pericoloso. E’ il finale perfetto di ogni parabola “magica” che si rispetti. Macron è un mago politico di prima grandezza. Viene da un’alta scuola di esoterismo finanziario. Lo conosce, eccome, il linguaggio dei simboli. Il guaio è che, a non conoscerlo affatto, sono le sue “vittime”.Non si sono accorte, dice Carpeoro, della simbologia – non islamica, ma templare – nascosta dietro ai più atroci attentati recenti, da Charlie Hebdo al Bataclan, all’epoca in cui Macron “studiava” da presidente in pectore. Né si sono accorti, i belgi, del terribile significato del doppio attentato di Bruxelles, dove stati colpiti l’aeroporto e la metropolitana. «Il messaggio? Come in Cielo, così in Terra. Che significa: noi siamo Dio». Puro delirio di onnipotenza, scrive Carpeoro nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, in cui svela la natura massonica della “sovragestione” occidentale che ha organizzato, in Europa, la strategia della tensione affidata a servizi segreti deviati e manovalanza islamista targata Isis. Risultato finale: ecco il mago Macron all’Eliseo. Veniva dalla Banca Rothschild, ma è stato presentato come outsider. Cerchio magico: uno slogan imbecille, “En Marche”. Et voilà, il gioco è fatto: il mago getta la maschera e annuncia di voler tagliare un terzo del pubblico impiego, di “tosare” il mitico welfare francese. Gli elettori gridano al tradimento? Troppo tardi: ostruzione, distruzione.Leggere “Summa Symbolica” non basta, ovviamente, per liberarsi dei Macron. Ma forse aiuta a non cadere in trappola così facilmente. Il primo volume, uscito nel 2017, svela il legame che unisce i simboli agli archetipi. Il secondo, da poco in libreria e già ottimamente piazzato nelle classifiche, si addentra in un viaggio affascinante: si parte dalla croce (l’Ankh egizio, il Tau ebraico, la croce cristiana, il Cardo e il Decumano dei romani nonché la “croce laica” di Cartesio) per arrivare al Cerchio, al Quadrato, all’Ottagono. Creazione e distruzione? Ecco la tradizione biblica, quella cristiana e quella islamica. Poi il millenarismo e l’alchimia, per verificare “tutte le volte che il mondo doveva finire”, incluso il mitico 2012 dei Maya. “Summa Symbolica” è un sentiero: tra nascita, vita, morte e resurrezione. Il Natale e Orione, le tante nascite “divine”. Stelle e divinità: Sirio e Iside. Il Cigno: la croce nelle stelle. Carpeoro si interroga sul ruolo archetipico di Thanatos e sulla morte di Mario Monicelli, preconizzata nel film “Brancaleone alle Crociate”. Cinema, arte e letteratura propongono anche i simboli (rosacrociani) della resurrezione, dal Pellicano alla Fenice. E poi ci sono gli schemi simbolici collegati a un archetipo fondamentale, quello dell’eroe, che si riverbera nelle maschere immortali create da Omero e Virgilio.«Dopo l’inatteso e imprevedibile successo della prima parte di quest’opera – scrive l’autore, in premessa – è con comprensibile timore che ci accingiamo alla pubblicazione della seconda, consistente nel primo volume della trattazione degli archetipi». Se infatti era insolita e originale la parte precedente (sulle dinamiche dei simboli e sui metodi d’analisi), questo intero volume dedicato a singoli archetipi di particolare rilievo affronta contesti di maggiore complessità. «Quindi – avverte Carpeoro – sicuramente questa lettura sarà più faticosa. Ma – aggiunge – non ci stancheremo mai di ripetere che la vera ricerca esoterica non può mai essere agevole». In altre parole: «Grande la ricompensa, maggiore è la fatica del percorso per ottenerla». Ovvero: questo libro non è per chi cerca risposte facili. Ovvio, ci vuole impegno: «Se voglio farti apprezzare la buona tavola posso cucinarti un’ottima cena», dice Carpeoro, che è anche gastronomo. «Ma se vuoi imparare a cucinare non c’è alternativa: posso darti istruzioni, ma il lavoro devi farlo tu». Socrate la chiamava: maieutica. Tradotto: meglio se ci arrivi da solo, alle conclusioni.E’ la “scuola”, senza tempo, del simbolo. E può portare molto lontano – fino al centro di se stessi – grazie alla regina delle domande: “perché”. Vanno bene tutte le risposte, concede Carpeoro, purché non siano definitive e non precludano la domanda successiva. Lo sanno bene i vari cercatori di Graal: la meta è il vaggio, il Graal è la ricerca stessa. Lo scopre, con struggente dolcezza, il grande Toma Alistar, musicista nomade, alla fine dei suoi giorni, dopo un’intera esistenza consacrata al vano inseguimento del grande amore della sua vita. Toma Alistar è il protagonista di un film che fece epoca, “I Lautari”, diretto dal moldavo Emil Loteanu, iniziato Rosacroce. La sua missione: commuovere il pubblico, costringedolo a specchiarsi nella purezza archetipica dell’eroe. “Bello di fama e di sventura”, scrive Foscolo di Ulisse. Quella bellezza – che il simbolo si incarica di trasferire intatta, alludendo all’archetipo sovrastante – ha un messaggio per ognuno di noi: ci rende più consapevoli di appartenere a un universo infinito e senza tempo, che frequentiamo soltanto in sogno. Proprio da lì viene il mondo sulle cui tracce si mette in cammino, la preziosa “Summa Symbolica” di Carpeoro.(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Summa Symbolica. Istituzioni di studi simbolici e tradizionali. Vol. 2\1: Studi sugli archetipi”, edizioni L’Età dell’Acquario, 334 pagine, 28 euro).Ecco, arriva il mago e risolve tutto. Si chiama Macron? Libera i francesi dall’Uomo Nero, che in quel caso era una donna, Marine Le Pen – l’unica, peraltro, a denunciare le cause eurocratiche delle sofferenze sociali della nazione. Siamo in Italia e il mago si chiama Matteo Renzi? Ha in mano quei famosi 80 euro, che infatti gli valgono il 40% dei consensi alle europee. Ha poi risolto qualcosa, il mago Renzi? Assolutamente no: infatti, in capo a pochi mesi, l’Harry Potter di Rignano sull’Arno ha dovuto sloggiare dal palazzo, dove oggi altri ipotetici maghi – di diversa scuola – provano a loro volta a convincere l’opinione pubblica con analoghe trovate, sempre nel campo miracoloso del “tutto e subito”. E’ colpa loro, dei maghi? Sì e no, dice Gianfranco Carpeoro, esoterista coltissimo e dotato di un raro talento nel diffondere generosamente il suo sapere anche presso i non addetti, quelli che i massoni – bontà loro – chiamano profani, cioè rimasti fuori dalla porta del tempio dove si tramanda, “da bocca a orecchio”, la cosiddetta conoscenza iniziatica. Non sarebbe ora di farlo uscire dalle segrete stanze, quel benedetto corpus di informazioni e codici? E’ esattamente la missione che si prefigge Carpeoro con la pubblicazione, a puntate, dei volumi di “Summa Symbolica”, primo studio sistematico – destinato a tutti – sulla “scienza dei simboli”.
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Magaldi: guerra ai massoni che hanno ucciso la democrazia
«Oggi non è più possibile assassinare massoni progressisti di peso o loro “protetti” senza innescare una spirale micidiale di boomerang e contrappasso distruttivo e devastante per quei massoni controiniziati, reazionari e neoaristocratici che, un tempo, hanno utilizzato l’omicidio politico-massonico come chiave di volta della loro lotta per il potere». Lo afferma Gioele Magaldi, che nel besteller “Massoni”, edito da Chiarelettere con prefazione di Laura Maragnani, ha puntato l’indice contro le oscure trame del massimo potere, il cui back-office è dominato da 36 Ur-Lodges, superlogge sovranazionali in cui, negli ultimi decenni, hanno preso il sopravvento le correnti reazionarie che hanno forgiato la globalizzazione neoliberista basata sulla privatizzazione universale. Ma il vento è cambiato, avverte Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt ed esponente del circuito massonico progressista: «Oggi, in molti casi, i massoni neoaristocratici controiniziati neanche riescono ad avvicinarsi alle loro potenziali “vittime” o a concepirne l’eliminazione, senza essere prima dissuasi dalla pericolosità estrema della faccenda e dal suo carattere “anti-economico” e controproducente». Aggiunge Magaldi: «Oggi, “angeli e demoni” formidabili vegliano sulla sicurezza e l’incolumità dei più ragguardevoli liberi muratori impegnati nella ricostruzione/rigenerazione delle reti sovranazionali progressiste».C’è stato un tempo, invece, in cui uomini decisivi come Mohandas Karamchand Gandhi, Enrico Mattei, John Fitzgerald e Robert Kennedy, Martin Luther King e Salvador Allende, insieme ad Aldo Moro, Olof Palme, Thomas Sankara, Yithzak Rabin ed altri «poterono essere assassinati senza ritegno, vergogna e giusta vendetta per i loro aguzzini», scrive Magaldi sul blog del Movimento Roosevelt, mettendo in fila i maggiori omicidi politici del ‘900 (più quello di Rabin) per accusare la regia “controiniziatica” di quelle uccisioni, orchestrate da elementi della supermassoneria reazionaria ai vertici del potere. «Ora è giunto il tempo della memoria celebrativa per questi eroi della massoneria progressista brutalmente eliminati e sottratti all’affetto di chi li amava, ammirava e seguiva», scrive Magaldi, rivelando in tal modo la cifra massonica dei leader citati. «Ora – aggiunge – è arrivato il tempo di una condanna storica e morale severissima per quegli assassini controiniziati che violarono tanto i propri giuramenti massonici quanto ogni legge ed etica umana». A partire dalla lettura di “Massoni”, cui seguirà il secondo volume – in uscita nella primavera 2019 – l’autore ha fornito «nomi e cognomi di certi personaggi e spiegazioni esaurienti e circostanziate dei loro misfatti», portando il caso all’attenzione della pubblica opinione.Nel libro, Magaldi ha descritto chiaramente «le gesta eroiche di quelle avanguardie massoniche progressiste che hanno rivoluzionato il mondo sin dal XVIII secolo e dato vita a società libere, aperte, democratiche, laiche, tolleranti, ecumeniche, parlamentarizzate, costituzionali e fondate sullo Stato di diritto, sull’uguaglianza delle opportunità, sulla giustizia e mobilità sociale». Avverte Magaldi: «Adesso e in futuro, comunque, nessuno potrà più perpetrare crimini come quelli segnalati sopra, per miriadi di ragioni». E’ in corso, spiega, una «guerra globale (e anti-convenzionale) infra-massonica». Una lotta che si annuncia «dura e titanica», ma in cui «tutti saranno costretti a “giocare” in modo relativamente “pulito” e con il giusto fair-play». Soprattutto, conclude Magaldi, «questa guerra contro l’incubo neoaristocratico e neoliberista la vincerà l’alleanza tra massoni progressisti e popolo», ovvero «cittadini comuni consapevoli, oltre che fieri, del proprio diritto-dovere alla sovranità». In altre parole: il tempo del ritorno della democrazia sostanziale è giunto, assicura Magaldi, impegnato – a partire dall’Italia – a contrastare la “teologia” neoliberista che ha impoverito i popoli, svuotando gradualmente la democrazia.«Oggi non è più possibile assassinare massoni progressisti di peso o loro “protetti” senza innescare una spirale micidiale di boomerang e contrappasso distruttivo e devastante per quei massoni controiniziati, reazionari e neoaristocratici che, un tempo, hanno utilizzato l’omicidio politico-massonico come chiave di volta della loro lotta per il potere». Lo afferma Gioele Magaldi, che nel besteller “Massoni”, edito da Chiarelettere con prefazione di Laura Maragnani, ha puntato l’indice contro le oscure trame del massimo potere, il cui back-office è dominato da 36 Ur-Lodges, superlogge sovranazionali in cui, negli ultimi decenni, hanno preso il sopravvento le correnti reazionarie che hanno forgiato la globalizzazione neoliberista basata sulla privatizzazione universale. Ma il vento è cambiato, avverte Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt ed esponente del circuito massonico progressista: «Oggi, in molti casi, i massoni neoaristocratici controiniziati neanche riescono ad avvicinarsi alle loro potenziali “vittime” o a concepirne l’eliminazione, senza essere prima dissuasi dalla pericolosità estrema della faccenda e dal suo carattere “anti-economico” e controproducente». Aggiunge Magaldi: «Oggi, “angeli e demoni” formidabili vegliano sulla sicurezza e l’incolumità dei più ragguardevoli liberi muratori impegnati nella ricostruzione/rigenerazione delle reti sovranazionali progressiste».
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La Terra ora ci presenta il conto di un mondo senza giustizia
Guardate che non basta, raddrizzare uno sviluppo – finora ingiusto – sostituendolo con il miraggio di una crescita economica globale finalmente equa. La voce “decrescita” (del Pil) risulta sempre sgradevole, dissonante, preoccupante: ma è purtroppo coerente con tutte le previsioni sistemiche dei climatologi, che danno alla Terra altri vent’anni, al massimo, prima del collasso ecologico che già sta avanzando in modo inquietante, con le temperature balneari registrare alle Svalbard e lo scioglimento inesorabile della calotta artica. Nel lontanissimo ‘700, il padre della fisica Isaac Newton predisse – in base a complessi calcoli – che le risorse terrestri si sarebbero esaurite entro il 2060: un pronostico, sottolinea il saggista Gianfranco Carpeoro – sinistramente coincidente con quello del governo Usa, secondo cui fra quarant’anni, di questo passo, arriveremo alla morte biologica degli oceani. Ragionamenti che possono apparire letterari e strampalati, semplici suggestioni millenaristiche calate in un mondo distratto dai mondiali di calcio o appassionato al derby Italia-Francia su Salvini, gli sbarchi selvaggi e l’opaco traffico malavitoso gestito dalle Ong. Vero, l’Europa ladrona nega all’Italia un’espansione vitale del deficit, mentre c’è chi muore in mare per un tozzo di pane. E se si tracolla tutti, sotto la furia di un pianeta stremato dai nostri abusi suicidi?
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Massoni al governo e corruzione a Roma, Di Maio dov’era?
Giù la maschera, caro Di Maio: quello presieduto da Giuseppe Conte è «un governo ad alta densità massonica», sia pure «di segno progressista». Ma il “contratto” di governo non si impegnava a tener fuori i “grembiulini” dai ministeri? «Se non si sbrigano a rimuovere quella norma ipocrita e incostituzionale – avverte Gioele Magaldi, gran maestro del Grande Oriente Democratico – perderemo la pazienza e saremo noi a fare i nomi dei tanti “fratelli” presenti nel governo Conte, peraltro davvero eccellente nella qualità delle competenze che esprime, ad ogni livello: altro che populismo e dilettantismo, questo è decisamente il miglior esecutivo a disposizione del paese, da tanti anni a questa parte». E’ un fiume in piena, Magaldi, nella diretta radiofonica “Massoneria On Air” del 18 giugno su “Colors Radio”. Nel mirino, «la grande ipocrisia dei 5 Stelle», reticenti sui massoni e in evidente imbarazzo sul caso giudiziario dello stadio romano di Tor di Valle, con l’arresto del costruttore Luca Parnasi e la bufera che colpisce anche Luca Lanzalone, super-consulente piazzato proprio da Di Maio alla corte di Virginia Raggi. L’ipotesi di accusa parla di un sistema tangentizio esteso e ramificato, che coinvolgerebbe tutti i partiti. «Sembra una pena del contrappasso – dice Magaldi – per chi si è rimpito la bocca per anni con slogan come “onestà”, arrivando a impedire la candidatura di persone nemmeno condannate, ma semplicemente indiziate».Nel bestseller “Massoni”, il presidente del Movimento Roosevelt ha rivelato l’identità supermassonica del vero potere, nell’Europa di oggi dominata da figure oligarchiche. Di fede liberalsocialista, Magaldi non rinnega il suo giudizio favorevole sui 5 Stelle: pur acerbi, hanno avuto il merito di rompere la recita italiana della finta alternanza tra centrodestra e centrosinistra, coalizioni di fatto sottomesse (entrambe) ai diktat dell’élite finanziaria neoliberista. Nettamente lusinghiere anche le parole che Magaldi spende per il governo Conte: è alle prese con una missione epocale, “cambiare verso” all’Europa partendo dalla cruciale trincea italiana. Ma ad una condizione: che i pentastellati la facciano finita, una volta per tutte, con la loro narrativa – inutilmente retorica – che scambia “l’onestà” per la buona politica. Salvo, appunto, inciampare nel caso imbarazzante di Lanzalone, finito nell’inchiesta sul nuovo stadio: «Non possiamo far finta di non vedere che quel signore, che oggi tutti individuano come un capro espiatorio, è stato catalpultato dall’Acea al Comune di Roma proprio da quel Di Maio che oggi propone di riformarla, l’autorità nazionale anti-corruzione». Catapultato, fra l’altro, negli uffici dell’innocente Raggi, «innocente nel senso antico con cui si parlava dei bambini: sembra infatti una bambina che gestisce una cosa più grande di lei, a cui i “grandi” del Movimento spediscono questo e quello».Attenzione: «E’ stata legittima la vittoria di Raggi, dopo il cattivo governo di centrodestra e centrosinistra, così come è giusto oggi dare una chance alla possibilità epocale di governare il paese, da parte della Lega e dei 5 Stelle». E il super-consulente grillino? «Uno risponde politicamente, non giuridicamente (e forse nemmeno moralmente) delle proprie scelte sbagliate. E la capacità di un politico – dice Magaldi, pensando a Di Maio – è anche nello scegliere persone giuste. Ma le persone scelte per Roma sono tra le più sbagliate». Magaldi vorrebbe un dibattito serio, tra i pentastellati alla guida della capitale: hanno bocciato le Olimpiadi perché sarebbero state “sentina di corruzione”, poi hanno voluto ridimensionare lo stadio della Roma perché bisognava stare attenti alle tangenti. «Poi invece si scopre che il più pulito ha la rogna, nell’amministrazione Raggi». Un consiglio? «Di Maio si liberi delle sue ipocrisie, perché rischiano di compromettere le belle possibilità di rendere un servizio a questo paese e alle amministrazioni locali governate dai 5 Stelle». Basta, davvero, con la retorica demagogica: «La corruzione e l’onestà sono categorie che appartengono al dominio giuridico della magistratura». Fanno anche parte di un ethos privato, «mentre in politica non basta essere onesti e gridare “onestà” per saper amministrare e saper scegliere i collaboratori».Il guaio del caso Roma? L’immobilismo, per la paura di finire in mezzo a una Tangentopoli. «Non si può mettere al primo posto la falsa preservazione dalla corruzione – insiste Magaldi – perché la corruzione si introduce comunque, nelle piccole come nelle grandi cose. Forse, se avessimo fatto le Olimpiadi a Roma – aggiunge – la corruzione sarebbe stata tale e quale, ma almeno avremmo avuto un’occasione di rigenerare tante strutture sportive obsolete». Niente sconti, al Campidoglio: «A me pare che tra buche, radici che spuntano ovunque e strutture fatiscenti, Roma stia morendo, nonostante le retoriche pentastellate. E’ una città tra le più belle al mondo, e avrebbe bisogno di un altro spirito, solare e gioviale». Di Maio? «Faccia un mea culpa, anche solo davanti a uno specchio, dicendo: forse la devo smettere di fare l’ipocrita sulla massoneria, di fare l’ipocrita sul tema della corruzione, e di scaricare sugli altri responsabilità che sono anche mie. E lo invito a lavorare sempre meglio, come ministro dello sviluppo economico, dicastero dove peraltro – aggiunge Magaldi – sono arrivati sottosegretari di tutto rispetto». Per esempio Michele Geraci, che ha insegnato economia in Cina: era uno dei famosi “cervelli in fuga”, ma è tornato. «Sa meglio di altri come sviluppare rapporti con quel mondo complesso che è la Cina. E ha senpre sostenuto la piena compatibilità tra reddito di cittadinanza e Flat Tax, quasi precostituendo l’incontro politico tra Lega e 5 Stelle».Geraci, ma non solo: «Qui si prendono sottosegretari come Armando Siri, come Luciano Barra Caracciolo. Si prenderanno fior di tecnici nei gabinetti e nelle direzioni generali ministeriali, tecnici anche di area “rooseveltiana”: checché ne dica la pletora degli sconfitti (dalla storia e dal popolo italiano) il governo Conte è dotato di ottime competenze». E attenzione: molti dei suoi esponenti sono massoni progressisti, o comunque «dialogano proficuamente con i circuiti massonici progressisti». E’ un fatto, assicura Magaldi: «Questo è un governo ad alta densità massonica progressista». Di più: se c’è un esecutivo vicino alla massoneria democratica, è proprio questo. «Guardando agli ultimi governi italiani, forse nessuno ha avuto una così alta densità massonica», insiste Magaldi: «Ed è un governo di prim’ordine, che ha delle competenze straordinarie. Quindi, Di Maio e gli altri ne siano all’altezza, mettendo da parte ipocrisie e superficialità nello scegliere i collaboratori, magari in base all’appartenenza alla “famiglia” politica intesa come clan». E’ chirurgico, Magaldi, nella critica ai 5 Stelle: «Temo molto questa ipocrisia, e spero che la loro maturazione politica elimini proprio questo aspetto, che forse è il più insidioso e anche il più autodistruttivo. E’ bene che il Movimento 5 Stelle impari a essere laico. C’è la magistratura, ci sono degli indagati – e non è detto che, se uno viene arrestato, sia colpevole».Il costruttore Parnasi, accostato a Salvini? «Non ho nessuna simpatia per lui», premette Magaldi: «Ho notizia di gente che ha dovuto citarlo a giudizio perché non ha pagato professionisti che avevano lavorato per lui. Rincorso in tribunale, ha dovuto poi contrattare risarcimenti». Ma, di nuovo, è meglio evitare di essere ipocriti: «Tutti qui paiono cadere dalla Luna, ma chiunque conosca la realtà romana sa che Parnasi non se la passava benissimo», dice Magaldi. «E’ un signore che ha fatto cose dubbie, perché non pagare i collaboratori è sgradevole. Però è anche vero che questo “poveraccio”, come tanti altri imprenditori, si trova di fronte a una macchina burocratica elefantiaca». Succede spesso, in Italia: «Magari ti impegni in un progetto per anni, e prima di essere pagato dal committente pubblico devi anticipare denari, ottenere fidi, passare per le forche caudine della burocrazia – e questo è valso anche per Parnasi». Bisognerà vedere, alla fine, se quella che magari è definita corruzione poi non sia «il tentativo di ottenere, in modo privilegiato, quello che un imprenditore dovrebbe ottenere più facilmente per via ordinaria».E comunque, laicamente, Magaldi preferisce sempre attendere che qualcuno venga giudicato «non in primo, ma in terzo grado». Queste, continua Magaldi, sono vere e proprie lezioni: per i 5 Stelle, con il loro mito della “purezza”, ma anche per la Lega, «che con Salvini è cambiata, d’accordo», ma nel suo Dna e nella sua storia conserva pur sempre «il famoso cappio, agitato in Parlamento», eloquente simbolo di «atteggiamenti forcaioli tuttora presenti in alcuni segmenti della base». Lo Stato di diritto tutela tutti: «Parnasi è innocente fino a prova contraria, al di là degli arresti: spesso la gente in Italia è stata arrestata indebitamente, e nessuno l’ha risarcita in modo adeguato». Parnasi e Lanzalone, dunque, «meritano il beneficio del dubbio, come i loro stessi referenti politici». Prudenza: «Bisogna attendere, perché spesso la macchina della giustizia si muove con una sincronia strana, e il fango che si getta addosso a delle persone per presunti reati e crimini poi si scopre essere inconsistente sul piano giuridico». Magaldi confida nell’esperienza di Conte, come giurista, per arrivare a una robusta sburocratizzazione complessiva del sistema-Italia: «Abbiamo bisogno che gli imprenditori non siano mai indotti a corrompere per poter fare normalmente il proprio lavoro».Al tempo stesso – aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, rivolto ai 5 Stelle – abbiamo bisogno che i funzionari pubblici siano pagati adeguatamente: «Se cadessero nella rete della corruzione, a quel punto, sarebbero ancora più spregevoli. Ma è impossibile approvare il pauperismo al ribasso promosso dai pentastellati, in base al quale si vorrebbero abbassare gli emolumenti: perché mai costringere a uno stipendio da fame una persona onesta che affronti gli incerti della politica, magari dopo aver abbandonato la sua professione?». Meglio osservare con realismo la situazione italiana: «Proprio per la remunerazione irrisoria delle cariche, molte persone capaci non vanno a fare l’amministratore pubblico, con tutti i rischi che questo comporta, rispetto alle immense responsabilità dell’ufficio». Ne prenda atto un grillino come Alessandro Di Battista, oggi più moderato nei toni, dopo esser stato per anni tra i più accaniti sostenitori della moralità pubblica esibita come bandiera. Tagli degli stipendi e abolizione dei vitalizi? Errore ottico, dice Magaldi: chi ha tagliato lo Stato, mortificando la politica, l’ha fatto per costruire l’attuale sistema basato sulla privatizzazione universale.«La visione neoliberista, di cui noi tutti siamo vittime in questi decenni – spiega Magaldi – vuole che i dirigenti pubblici abbiano dei tetti sempre più al ribasso, nella remunerazione, anche se hanno responsabilità pesantissime e il rischio di essere indagati per un nonnulla, vista anche la complessità elefantiaca delle burocrazie e degli atti giuridici che devono compiere». Tutti addosso al politico che sbaglia, fingendo di non vedere cosa accade nel cosiddetto “mercato”, dove non ci sono più regole che tengano. «Ormai il settore privato è il regno della giungla», sottolinea Magadi: «Si è divaricata la forbice tra il salario dell’operaio o lo stipendio dell’impiegato e la paga del grande manager, che magari fa parte di una cricca di briganti che si spartiscono le poltrone delle grandi società transnazionali, come nel famigerato caso dei manager che hanno spolpato Telecom». L’antidoto? Evitare di cadere nella trappola retorica sapientemente costruita dalla manipolazione del massimo potere. Meglio dunque ribaltare «la teologia dogmatica neoliberista, in base alla quale nel privato tutto è possibile, mentre il pubblico dev’essere controllato, vessato, aggredito e delegittimato».Giù la maschera, caro Di Maio: quello presieduto da Giuseppe Conte è «un governo ad alta densità massonica», sia pure «di segno progressista». Ma il “contratto” di governo non si impegnava a tener fuori i “grembiulini” dai ministeri? «Se non si sbrigano a rimuovere quella norma ipocrita e incostituzionale – avverte Gioele Magaldi, gran maestro del Grande Oriente Democratico – perderemo la pazienza e saremo noi a fare i nomi dei tanti “fratelli” presenti nel governo Conte, peraltro davvero eccellente nella qualità delle competenze che esprime, ad ogni livello: altro che populismo e dilettantismo, questo è decisamente il miglior esecutivo a disposizione del paese, da tanti anni a questa parte». E’ un fiume in piena, Magaldi, nella diretta radiofonica “Massoneria On Air” del 18 giugno su “Colors Radio”. Nel mirino, «la grande ipocrisia dei 5 Stelle», reticenti sui massoni e in evidente imbarazzo sul caso giudiziario dello stadio romano di Tor di Valle, con l’arresto del costruttore Luca Parnasi e la bufera che colpisce anche Luca Lanzalone, super-consulente piazzato proprio da Di Maio alla corte di Virginia Raggi. L’ipotesi di accusa parla di un sistema tangentizio esteso e ramificato, che coinvolgerebbe tutti i partiti. «Sembra una pena del contrappasso – dice Magaldi – per chi si è riempito la bocca per anni con slogan come “onestà”, arrivando a impedire la candidatura di persone nemmeno condannate, ma semplicemente indiziate».
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Carpeoro: ma il “no” agli sbarchi è come gli 80 euro di Renzi
Portare a casa un risultato subito, quale che sia: che differenza c’è tra il blocco delle navi delle Ong imposto da Salvini e la mancia degli 80 euro concessi da Renzi? Se lo domanda Gianfranco Carpeoro, convinto che alla fermezza di Salvini – pur legittima, e contestata in modo strumentale dal mainstream – non corrisponda una visione strategica, un impegno almeno decennale: «Succede sempre, quando sparisce l’ideologia: se togli la parte progettuale, la politica si riduce a pura gestione elettoralistica, preoccupata solo dell’oggi». E’ una conseguenza sistemica, dice Carpeoro, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”: da mezzo utile e neutro, il denaro è diventato un fine. «Dal liberalismo (massonico e anche progressista) siamo passati al neoliberismo più reazionario, e i risultati sono questi»: la gente si aspetta “tutto e subito”, e la politica la accontenta con misure-spot destinate a non cambiare niente, dagli 80 euro al divieto per gli sbarchi. «So benissimo che l’immigrazione mediterranea è pilotata, ma so anche che il blocco delle navi non risolve il problema, che va affrontato alla partenza», sostiene Carpeoro, che – insieme a Paolo Mosca, altro esponente del Movimento Roosevelt – propone la creazione di un’agenzia europea per filtrare i migranti in modo intelligente sulla sponda sud del Mediterraneo.Carpeoro ricorda che fu Bettino Craxi, nel lontano 1990, a fotografare col necessario tempismo un problema che, nei decenni seguenti, sarebbe diventato assillante. In sede Onu, il leader del Psi fece una proposta forte e chiara: cancellare il debito dei paesi poveri e promuovere ingenti investimenti europei per creare lavoro direttamente nel Terzo Mondo, attraverso una cooperazione progettata per produrre sviluppo e benessere diffuso. Un discorso che oggi apparirebbe lunare: Craxi propose all’Occidente di investire qualcosa come il 10% del suo Pil, con l’obiettivo strategico di annullare l’abnorme diseguaglianza tra nord e sud del mondo entro il 2020. Oggi in Europa ci si azzanna per decimali di Pil, e un paese come la Francia – che più di altri ha “rapinato” l’Africa, scatenando il grande esodo cui stiamo assistendo – prova a contrastare l’Italia fingendo di apprezzare la moderazione del premier Giuseppe Conte solo per tentare di dividere il governo gialloverde, allontanando il 5 Stelle dalla Lega di Salvini, vero protagonista dell’esordio del nuovo esecutivo “populista”. Facile profeta, Carpeoro? Con largo anticipo, ha formulato un doppio pronostico preoccupante: il rischio che il governo cada, e il pericolo di attentati terroristici in Italia, paese finora risparmiato dalla “sovragestione” e protetto da servizi segreti particolarmente efficienti.Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Revoluzione, 2016), Carpeoro svela l’identità atlantica del terrorismo in apparenza islamico, targato Isis, che ha martoriato l’Europa. Già a capo della più antica comunione massonica italiana di rito scozzese – da lui stesso poi disciolta, in polemica con il degrado della massoneria italiana – Carpeoro punta il dito contro una sorta di strategia della tensione a livello internazionale, orchestrata da un’élite supermassonica neo-conservatrice, in grado di pilotare (in modo criminale) interi settori dell’intelligence, fino a rendere sistematico lo stragismo. Allarme rosso in Italia, se il nuovo governo vorrà “smontare” gli attuali vertici della struttura deputata alla sicurezza, a maggior ragione dopo l’inquietante insulto (“vomitevole”) riservato alla politica italiana dal partito di Macron, uomo Rothschild, vicinissimo alla pericolosa oligarchia “nera” che, per imporre il rigore finanziario contestato dal “populismo”, non ha esistato a imboccare la strada dell’auto-terrorismo, che in Francia ha portato a leggi speciali, dopo l’insabbiamento dell’inchiesta sulla mattanza di Chalie Hebdo, “seppellita” dal segreto di Stato per oscurare imbarazzanti collegamenti tra i servizi segreti e il commando terrorista.L’Italia è in pericolo perché è politicamente fragile, insiste Carpeoro: è vero, Salvini ha costretto l’Ue ad ammettere che il nostro paese è solo, di fronte alla marea africana. Ma il “nemico” è potente, e la politica di Salvini non basta: le navi delle Ong continueranno a imbarcare profughi smistati dalla mafia dei negrieri, se un’altra Europa – certo non questa – non comincerà a investire, davvero, sul futuro di masse a cui l’élite industriale e finanziaria ha portato via tutto, in nome del neoliberismo più cieco che oggi ci condanna all’inferno alla crisi. E’ l’autolesionismo del gangster: anziché creare condizioni accettabili per tutti, le aziende hanno rincorso il lavoro schiavistico a costo zero, da noi tagliando i salari e nel Terzo Mondo provocando un esodo che non ha eguali nella storia. Non se ne esce bloccando qualche nave, finanziata da Soros e protetta dall’ipocrisia assistenziale di un sistema marcio, che si rifiuta di denunciare le cause del dramma e impone alla sola Italia di sostenere i costi dell’accoglienza marittima, negando al nostro paese la necessaria flessibilità nei conti pubblici. E’ l’ennesimo capolavoro di quest’Europa-fantasma, dominata dalle stesse élite neo-feudali che hanno esiliato un politico come Craxi, dopo aver assassinato in Svezia il leader socialista Olof Palme e in Burkina Faso il presidente Thomas Sankara, leader del riscatto sovranista dell’Africa. Nomi che a pochissimi, oggi, dicono qualcosa.Portare a casa un risultato subito, quale che sia: che differenza c’è tra il blocco delle navi delle Ong imposto da Salvini e la mancia degli 80 euro concessi da Renzi? Se lo domanda Gianfranco Carpeoro, convinto che alla fermezza di Salvini – pur legittima, e contestata in modo strumentale dal mainstream – non corrisponda una visione strategica, un impegno almeno decennale: «Succede sempre, quando sparisce l’ideologia: se togli la parte progettuale, la politica si riduce a pura gestione elettoralistica, preoccupata solo dell’oggi». E’ una conseguenza sistemica, dice Carpeoro, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”: da mezzo utile e neutro, il denaro è diventato un fine. «Dal liberalismo (massonico e anche progressista) siamo passati al neoliberismo più reazionario, e i risultati sono questi»: la gente si aspetta “tutto e subito”, e la politica la accontenta con misure-spot destinate a non cambiare niente, dagli 80 euro al divieto per gli sbarchi. «So benissimo che l’immigrazione mediterranea è pilotata, ma so anche che il blocco delle navi non risolve il problema, che va affrontato alla partenza», sostiene Carpeoro, che – insieme a Paolo Mosca, altro esponente del Movimento Roosevelt – propone la creazione di un’agenzia europea per filtrare i migranti in modo intelligente sulla sponda sud del Mediterraneo.
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Arrangiatevi: così la scuola neoliberista tradisce i ragazzi
Come trasformare un bambino in un “asset”: un individuo solo al mondo, in lotta contro tutti. E’ l’orrore del neoliberismo, sintetizzato da Margaret Thatcher nel 1980: «L’economia è il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima». Si comincia presto, dai banchi di scuola: e il risultato è ormai sotto i nostri occhi, avverte Patrizia Scanu, dirigente del Movimento Roosevelt ed esperta del mondo scolastico. Nata in circoli accademici ristretti, «lautamente foraggiati per contrastare il mainstream economico keynesiano», la teoria economica neoliberista finisce con il diventare in pochi anni, fra gli anni ‘70 e ‘80, la visione dominante dell’economia, grazie agli economisti della Scuola di Chicago come Milton Friedman e Friederich von Heyek. Applicazioni immediate: il Cile di Augusto Pinochet, la Gran Bretagna della “Strega del Nord”, gli Usa di Reagan. Il neoliberismo? «Fondato su una visione assiomatica (ovvero indimostrabile) del mondo». Un mondo economico “ideale”, come «una realtà perfettamente ordinata e regolata da leggi “naturali”, al di fuori di ogni intervento regolatore dello Stato». Homo homini lupus: estremizzando la teoria della “mano invisibile” di Adam Smith, il neoliberismo «postula la spontanea diffusione della ricchezza e del benessere come conseguenza “naturale” dell’assenza di ogni vincolo economico, giuridico, ambientale, politico e sociale all’egoistico perseguimento del profitto».Si tratta di un dogma che non ammette smentite, scrive Patrizia Scanu sul blog del Movimento Roosevelt: l’idea della capacità dei mercati di autoregolarsi viene assunta come principale e indiscutibile legge dell’economia. Pura teologia: «Qualunque fatto che la contraddica – la disoccupazione, l’aumento dell’inflazione, l’arresto della crescita – viene attribuito esclusivamente all’insufficiente libertà del mercato». Per autoconvalida, quindi, «la ricetta è sempre “meno Stato, più mercato” (salvo quando, in modo contraddittorio, si chiede che lo Stato intervenga ad attuare politiche pro-cicliche di austerity o a proteggere il mercato interno dalla concorrenza estera, per esempio)». In questo senso, la teoria accademica – una volta nelle mani dei politici e dei potentati economici internazionali – diventa una ideologia totale, cioè «una produzione intellettuale sostanzialmente falsa e inautentica». Mira a dare ordine alla società e ad orientarne l’evoluzione storica, «che è incorreggibile e pretende di essere universale e globale». In altre parole, il neoliberismo vorrebbe «dire tutto l’essenziale sull’uomo, sotto qualunque cielo e in qualunque circostanza».In economia, continua Patrizia Scanu, le ricette neoliberiste sono principalmente tre: deregulation (ovvero assenza di regole che limitino l’acquisizione di profitti e la circolazione dei capitali), privatizzazioni (sulla base dell’assioma che il privato è più efficiente del pubblico) e riduzione della spesa sociale, per evitare “l’inquinamento” dello Stato nel mondo “perfetto” dei mercati. Una visione «discutibile e astratta dell’economia, strumentale allo spostamento di ricchezza dai poveri ai ricchi». Una concezione che è anche «responsabile dell’aggravarsi della diseguaglianza, della miseria e della disperazione, laddove essa è stata applicata in modo inflessibile (come spiega molto bene il premio Nobel Joseph Stiglitz nel saggio “La globalizzazione e i suoi oppositori”)». Nella realtà storica del processo di globalizzazione, a questa deformazione si accompagna anche e soprattutto «una visione distorta dell’uomo e della vita». Si tratta di «una vera e propria perversione antropologica, che si insinua nelle coscienze, nelle famiglie, nelle comunità e che distrugge in profondità la spontanea propensione umana alla cooperazione, all’altruismo e all’empatia». Infatti, «in questa visione esiste solo il singolo, che persegue avidamente e in modo aggressivo il suo utile egoistico; la vita è una lotta per la sopravvivenza nella quale emerge chi vince nell’incessante competizione per l’accaparramento di beni finiti».L’altro essere umano non è che «una minaccia costante al proprio benessere». Conseguenza: «Il valore di ogni relazione ed esperienza umana si misura con il denaro ed è quantificabile in termini economici». Peggio: «Non esistono limiti etici al diritto di trarre profitto dalle proprie attività, visto che per sgocciolamento (“trickle down”) la ricchezza accumulata dai vincenti porterà comunque benessere a tutti». Lo Stato che spende per i servizi sociali? «E’ vizioso, e il debito pubblico è una sorta di peccato originale che richiede un’espiazione collettiva». I mercati? «Sono l’unico Dio a cui essere sottomessi, senza remissione». Una degradazione infernale della dimensione umana: «La propria felicità si persegue a danno della felicità altrui: mors tua, vita mea, in un eterno gioco a somma zero, in cui la miseria e la sofferenza prodotte sono un male necessario per consentire la crescita indefinita, unico fine dell’attività economica». Una deriva ideologica, ben riassunta dalla famigerata Thatcher: «Non esiste una cosa chiamata società, ci sono solo individui e famiglie». Tradotto: le idee di vita associata, di solidarietà sociale e di beni comuni e inalienabili sono estranee a questa visione del mondo. «Tutto è quantificabile, alienabile e privatizzabile; tutto è subordinato al perseguimento dell’interesse privato e lo Stato non ha alcun ruolo nel mediare fra interessi contrapposti, anche quando i costi umani sono altissimi».Più che nella sommaria tecnicalità economistica, il neoliberismo si esprime – in termini di devastazione sociale – attraverso il modello umano che sottende, e che guida l’azione politica. «Stiamo parlando cioè di un fenomeno di egemonia culturale, nel senso descritto da Antonio Gramsci, ovvero di un pensiero che diventa dominante in un momento storico e consente ai gruppi al potere di esercitare una forma di controllo sulle persone, grazie al fatto che esso viene assunto nelle pratiche sociali, diffuso costantemente e interiorizzato». Questo pensiero egemonico, aggiunge Patrizia Scanu, di fatto «sostituisce una visione del mondo ad un’altra e colonizza le menti, rendendo difficile uscire dal “frame”, dallo schema interpretativo imposto». Per averne un saggio, basti leggere una riflessione di Gary Becker, l’allievo di Friedman che coniò l’espressione “capitale umano”. Testualmente: «Per la maggior parte dei genitori, i figli sono una fonte di reddito psicologico, o di soddisfazione. Pertanto, nella terminologia economica, essi si possono considerare un bene di consumo», scrive Becker. «I figli possono anche fornire reddito, ed in qualche caso sono anche un bene produttivo». Ancora: «Questa caratteristica fa dei figli un bene durevole, sia produttivo che di consumo».«Può sembrare eccessivo, artificiale, forse anche immorale classificare i figli alla stregua di automobili, case o macchinari», ammette Becker, ma aggiunge: le soddisfazioni garantite dai figli sono paragonabili a quelle di altri “beni durevoli”. I figli visti come beni di consumo o, peggio ancora, come bene produttivo? «Rappresentano adeguatamente il livello di stravolgimento assiologico di questo discorso», sottolinea Patrizia Scanu: «Invece di essere funzionale alla vita, l’economia la fagocita e ne inscatola con cinica indifferenza l’infinita ricchezza in una serie di anonimi contenitori tutti uguali e misurabili, che si chiamano “beni di consumo” o “beni produttivi”». Attenzione: «In questo delirio di onnipotenza, i legami familiari, i sentimenti, le aspirazioni, i destini di individui e popoli diventano la variabile dipendente delle leggi “naturali” del mercato, concepite come fisse e immodificabili, come un Fato di fronte al quale si può solo chinare la testa, con pia rassegnazione». E il guaio è che «non ci rendiamo sempre conto di quanto abbiamo finito per considerare normale questa maligna distorsione della realtà “sub specie oeconomica”, che rende pensabile l’impensabile, attraverso l’apparente neutralità del linguaggio scientifico».E’ vero: «Finiamo con l’abituarci al fatto che in molte aree del mondo esistano bambini-schiavi, bambini-soldato, bambini-oggetto sessuale (che sono senz’altro “beni produttivi”) o al fatto che le famiglie possano essere disgregate senza riserve, perché prima vengono le esigenze produttive, quando i genitori devono accettare un posto di lavoro sempre più precario in luoghi diversi e lontani fra loro, quando devono lavorare oltre l’orario per non perdere il posto, quando l’azienda delocalizza l’attività». Oppure, ci diventa familiare «il fatto che i bambini, sempre più soli, vengano tenuti buoni lasciandoli incollati molte ore al giorno ai loro costosi schermi digitali, che li rendono dipendenti e rubano loro esperienze ben più vitali». O ancora, «riusciamo a trovare accettabili le ricette neoliberiste per la scuola, espresse in una “neolingua” economica dalla quale vengono espulsi la vita, la bellezza, la conoscenza, la relazione profonda e la crescita umana». E’ diventato tragicamente normale parlare di “dirigenti” scolastici (come in azienda) anziché di presidi, di “debiti e crediti” formativi, di “offerta” formativa, di “successo” formativo, di “piani e pianificazione”, di “innovazione e imprenditorialità”, di “competenze” intese non nel senso etimologico di un sapere a cui si aspira condividendo esperienza, ma come strumenti per competere alla pari sul mercato, da “certificare” (altra parola della “neolingua”) e da misurare con “test” oggettivi e standardizzati.Patrizia Scanu ricorda il “Portfolio delle competenze” della ministra Moratti, «fulgido esempio di lessico aziendalista». La Buona Scuola di Renzi? «E’ un concentrato di ideologia neoliberista, in cui tutto è finalizzato a trasformare la scuola in un’azienda, i docenti in passivi impiegati privi di autonomia professionale e costantemente sotto ricatto economico e psicologico, gli studenti in docili schiavi da addestrare per le esigenze del mondo del lavoro, ma privi di creatività e di senso critico». E’ una dimensione in cui il tempo-scuola – sempre più ridotto dal 2008 in poi, fino alla trovata dei licei quadriennali – è un tempo «infarcito di attività accattivanti, ma prive di sostanza culturale, come il Clil (ovvero l’insegnamento di una materia in lingua straniera con didattica smart) o la didattica multimediale». Ormai il mondo del lavoro «entra di prepotenza nella didattica, diventandone lo scopo». E arriva, con il nuovo esame di Stato, «a valutare l’alunno, al posto del docente, per una parte cospicua del voto finale». E gli enti certificatori esterni, come l’Invalsi (che entrerà anch’esso nella valutazione finale dello studente) sottraggono una bella fetta di autonomia didattica al docente, «costringendolo all’aberrazione del “teaching to test”, cioè a sacrificare ulteriormente la filosofia, la matematica, la storia o la letteratura alla preparazione al test standardizzato».La verità, sintetizza Patrizia Scanu, è che «nell’orizzonte ideologico neoliberista non esistono né l’uomo né il cittadino, ma solo il lavoratore e il consumatore». E la standardizzazione «livella ogni differenza di personalità e di profili attitudinali individuali». Da quest’anno, poi, nella valutazione finale in uscita dalla scuola primaria (a 10 anni!) entra una qualità comportamentale che si chiama “Spirito di iniziativa ed imprenditorialità”, «tanto per chiarire subito qual è il fine». Obiettivamente, un bambino che cresce “intossicato” da questa visione del mondo «è pronto ad accettare qualunque lesione ai propri diritti, a considerare normale l’egoismo e naturale competere con gli altri, a dare per scontata la “durezza del vivere” che è il prezzo della crescita». Ed è pronto a considerare il lavoro una specie di condanna, «anziché la propria emancipazione personale e civile come scopo dello studio». Il bambino si abitua a non fare mai domande, «poiché tutto è già pianificato, predisposto e certificato: ogni conoscenza è misurabile e quantificabile, e ciò che esula dalla misura standardizzata (il pensiero critico, il gusto estetico, la creatività) non ha più posto nella sua formazione e nel suo portfolio delle competenze».In questo modello di scuola, aggiunge Patrizia Scanu, scompare anche l’autonomia didattica del docente, «compressa dalla pressione ministeriale a conformarsi ai metodi via via imposti dall’alto come innovativi», fino all’alternanza scuola-lavoro (che sottrae tempo alla didattica) e all’influenza dei datori di lavoro che valutano gli studenti. Ci sono i vincoli dell’Invalsi, la valutazione meritocratica (economicistica), i risultati quantificabili con il “successo formativo” degli allievi. E ancora: l’ingerenza dei privati nel finanziamento e nella gestione degli istituti. Secondo il piano renziano, «le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a colmare le esigenze di investimenti nella nostra scuola». Per questo intervengono le risorse private, che «possono contribuire a trasformare la scuola in un vero investimento collettivo». La scuola è una frontiera mobile, si legge nel documento: «Se pensiamo alle sfide della competizione globale, al dinamismo di una società sempre più multiculturale, alla rapidità del cambiamento tecnologico, capiamo subito le esigenze di una continua sperimentazione educativa. Vale per la scuola quanto è ormai ovvio per moltissimi altri ambiti, a partire dalla ricerca: sommare risorse pubbliche a interventi dei privati è l’unico modo per tornare a competere».Via libera ai fondi privati, visto che lo Stato chiude i rubinetti: ben vengano fondazioni e altri enti per la gestione di risorse provenienti dall’esterno, privi di “appesantimenti burocratici”. Tanto per essere chiari, osserva Patrizia Scanu: la scuola deve attrezzarsi alla competizione globale «data come indiscutibile», dev’essere in continua sperimentazione «come se fosse sempre in funzione di esigenze esterne a sé e priva di riferimenti culturali», deve accogliere senza controllo finanziamenti privati «con le relative pressioni esterne», e deve diventare “un investimento collettivo”, trasformandosi in una fondazione. «Ma i soggetti di questo “noi” non sono precisati e sono facilmente individuabili nei capitali privati. Eccolo lì, il punto-chiave, quello su cui pochissimo si è detto ai cittadini: la scuola-fondazione non è la scuola pubblica della Costituzione: non forma uomini e cittadini, ma lavoratori già pronti a entrare velocemente e senza diritti nel mondo del lavoro». Quella scuola, scrive Patrizia Scanu, «non colma le disuguaglianze sociali, ma le accentua, rendendole territoriali». Peggio: «Non rilascia titoli con valore legale, ma certificazioni di competenze, abbandonando i singoli alla leggi spietate del mercato. E non educa, ma si limita ad istruire secondo la volontà di chi la finanzia».Siamo all’applicazione scolastica dell’ingegneria sociale promossa dagli “stregoni” della Scuola di Chicago: «Ritroviamo qui per intero il Verbo neoliberista: deregolamentare, privatizzare e tagliare servizi pubblici con la scusa del debito pubblico e della carenza di fondi, unica realtà immodificabile». La stessa autonomia scolastica, nata per superare il centralismo burocratico della scuola statale, attraverso questa pericolosa “mutazione genetica” diventa «la solitudine darwiniana della scuola, che deve mantenersi a galla nella lotta per la sopravvivenza escogitando sempre nuovi modi per attrarre finanziamenti, perdendo ogni reale autonomia e diventando, nella sostanza, privata». Questo, conclude Patrizia Scanu, è un crimine politico: «E’ un tradimento del compito educativo della scuola ed è un violento assalto ai valori sui quali si fonda la scuola della Costituzione». Una deriva in apparenza inarrestabile, alla quale – oggi più che mai – è necessario opporre contromisure strategiche.Come trasformare un bambino in un “asset”: un individuo solo al mondo, in lotta contro tutti. E’ l’orrore del neoliberismo, sintetizzato da Margaret Thatcher nel 1980: «L’economia è il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima». Si comincia presto, dai banchi di scuola: e il risultato è ormai sotto i nostri occhi, avverte Patrizia Scanu, dirigente del Movimento Roosevelt ed esperta del mondo scolastico. Nata in circoli accademici ristretti, «lautamente foraggiati per contrastare il mainstream economico keynesiano», la teoria economica neoliberista finisce con il diventare in pochi anni, fra gli anni ‘70 e ‘80, la visione dominante dell’economia, grazie agli economisti della Scuola di Chicago come Milton Friedman e Friederich von Heyek. Applicazioni immediate: il Cile di Augusto Pinochet, la Gran Bretagna della “Strega del Nord”, gli Usa di Reagan. Il neoliberismo? «Fondato su una visione assiomatica (ovvero indimostrabile) del mondo». Un mondo economico “ideale”, come «una realtà perfettamente ordinata e regolata da leggi “naturali”, al di fuori di ogni intervento regolatore dello Stato». Homo homini lupus: estremizzando la teoria della “mano invisibile” di Adam Smith, il neoliberismo «postula la spontanea diffusione della ricchezza e del benessere come conseguenza “naturale” dell’assenza di ogni vincolo economico, giuridico, ambientale, politico e sociale all’egoistico perseguimento del profitto».
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Macché migranti: via l’Italia dalla Libia, il vero piano Macron
Altro che migranti. Dietro lo scontro Francia-Italia c’è il piano di Macron per mettere l’Italia fuori dalla Libia, a partire dal summit di Vienna di fine giugno. Lo sostiene un analista geopolitico come Giulio Sapelli, sul “Sussidiario”, all’indomani dello scontro fra Roma e Parigi sulla nave Aquarius carica di migranti, da cui l’aggettivo “vomitevole” utilizzato sal partito di Macron per definire la nuova politica italiana incarnata da Matteo Salvini. «La politica estera è un gioco di specchi», premette Sapelli: è fatta di miraggi, «dove ciò che appare non è ciò che è», tanto più «laddove lo spazio di potenza è stretto, ossia non si svolge tra cieli e terre immense, l’uno dall’altra lontano». Questo, sostiene Sapelli, «spiega la differenza tra la politica estera e la relazione di potenza tra gli Usa e la Russia, o tra gli Usa e la Cina: si solcano oceani, si parla attraverso cavi sottomarini e satelliti, senza vedersi l’un l’altro se non con le tecnologie». Tutto è diverso, invece, quando lo spazio della politica di potenza è stretto, ossia tra nazioni confinanti, tra mari condivisi, dove ci si può vedere e parlare a viva voce, o con un viaggio che dura una manciata di ore. Faccia a faccia, come sono Italia e Francia, «tutti i fondamenti della potenza si presentano insieme: dal potere politico al potere economico, in un intreccio fortissimo ma che spesso non appare così evidente».
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Sapelli: l’Italia al G7 con gli Usa, Conte sfogli il manuale Dc
Il G7 è un evento fondamentale che dà risalto a quella che è l’essenza della relazione diplomatica: l’incontro tra le élite politico-statuali delle potenze in campo nel dominio del mondo. Solo da queste relazioni, scrive l’economista geopolitico Giulio Sapelli, può emergere un sistema internazionale in grado di resistere alle guerre e alle crisi sempre possibili. «Il ruolo delle élite che non circolano, ma che salgono invece i gradini delle burocrazie in campo internazionale, è esattamente questo: accompagnare e sorreggere con le competenze la circolazione delle élite politiche anche nelle relazioni internazionali». Secondo Sapelli, a questo riguardo, la storia d’Italia è un laboratorio straordinario: «Nel cuore del Mediterraneo e in un fianco sud della Nato in pericolo per lo sfarinarsi possibile della Turchia nel suo rapporto con l’Occidente, tracimando il suo neo-autoritarismo in un dominio neo-ottomano, l’Italia può protendersi sull’Africa del Nord e sulla Mesopotamia solo se è in grado di rafforzare la sua alleanza con gli Usa». In caso contrario «si troverebbe compressa, ridotta in uno stato ancor più forte di dipendenza rispetto a quella attuale nei confronti di Francia e Germania».Secondo il trattato franco-tedesco del 1963, scrive Sapelli sul “Sussidiario”, alla Germania spetta la dominazione dei Balcani e alla Francia l’egemonia sul Mediterraneo. Il Regno Unito? S’è sfilato dall’area mediterranea «emasculando la sua presenza a Cipro in una sorta di museo dei ricordi di un dominio africano e mediorientale che ha rappresentato il punto più alto, e ormai perduto, della civilizzazione europea nei deserti dei nomadi, nelle giungle dell’Africa Nera sino alle civiltà millenarie dell’Egitto e degli Stati dell’Eufrate». Oggi, osserva Sapelli, «il Mediterraneo è divenuto un lago atlantico contendibile con lo stabilirsi dei russi in quel della Siria e nei rapporti sempre più intesi della Russia con il rinnovato dominio in pectore ottomano». Il ruolo dell’Italia? «Non può non essere che quello che magistralmente hanno impersonato i fondatori della nostra patriottica politica estera del secondo dopoguerra: i leader democristiani che si sono avvicendati in quella responsabilità per decenni senza poterla poi rinnovare, se non per i brevi sprazzi di un’anticipazione innovatrice rispetto al Medio Oriente nella circolazione delle élite socialiste in tempo craxiano».Essere “democristiani” sempre, in politica estera: questo il lascito che, secondo Sapelli, bisogna rinnovare. Tradotto: «Fare ciò che agli Usa non è possibile fare, come facemmo durante la guerra del Vietnam e nei tempi duri del confronto con uno stalinismo prevaricatore e rinnegatore anche del Trattato di Yalta». L’Italia, continua Sapelli, rappresentava «gli interessi di lungo periodo degli Usa», senza però essere irrigidita «dagli obblighi che hanno le grandi potenze, che usano sapientemente le potenze medie, regionali, per anticipare grandi svolte o compiere mediazioni che a coloro che occupano i posti di prima fila sono impossibili». Oggi il governo Conte ha nelle sue fila un ministro degli esteri come Enzo Moavero Milanesi, già presente nel governo Monti e poi in quello di Enrico Letta, mentre all’economia e nelle relazioni europee annovera «esponenti di un establishment che intende le relazioni tra Stati continentali in senso anticipatore e in grado di interpretare i rischi che nell’ordoliberismo sono racchiusi anche per le relazioni internazionali».Per Sapelli, già da questo primo G7, il governo Conte «deve continuare la tradizione italiana in politica estera e rafforzare i legami diplomatici con le potenze europee, a partire da quelle che rendono il nostro ruolo difficile». Francia e Germania? «Sono indiscutibilmente i nostri partner nella vita stessa delle relazioni internazionali». L’Italia, osserva Sapelli, è da sempre «dipendente dall’esterno», essendo una potenza economica «di piccola potenza militare, a congenita cultura pacifista». Per questo, «non può che scegliere l’alleato che con più sagacia deve difendere la rilevanza del suo ruolo nella politica di potenza mondiale». Lo scenario d’elezione per l’Italia? Ovvio: il Mediteranno e l’Africa. Ecco perché «gli Stati Uniti sono ancora e sempre il nostro alleato naturale». Gli Usa sono «una potenza extraeuropea che insieme alla sicurezza sposta anche una bilancia dei poteri nel Vecchio continente». Ruolo un tempo svolto dalla Gran Bretagna, che però «rivolge ormai il suo sguardo al mondo extraeuropeo e alla Cina». Da Sapelli, un consiglio ai governanti: la discrezione è essenziale, e non solo nelle relazioni internazionali. «Il silenzio operoso e non il fragore: guai a perdere di vista questa stella polare».Il G7 è un evento fondamentale che dà risalto a quella che è l’essenza della relazione diplomatica: l’incontro tra le élite politico-statuali delle potenze in campo nel dominio del mondo. Solo da queste relazioni, scrive l’economista geopolitico Giulio Sapelli, può emergere un sistema internazionale in grado di resistere alle guerre e alle crisi sempre possibili. «Il ruolo delle élite che non circolano, ma che salgono invece i gradini delle burocrazie in campo internazionale, è esattamente questo: accompagnare e sorreggere con le competenze la circolazione delle élite politiche anche nelle relazioni internazionali». Secondo Sapelli, a questo riguardo, la storia d’Italia è un laboratorio straordinario: «Nel cuore del Mediterraneo e in un fianco sud della Nato in pericolo per lo sfarinarsi possibile della Turchia nel suo rapporto con l’Occidente, tracimando il suo neo-autoritarismo in un dominio neo-ottomano, l’Italia può protendersi sull’Africa del Nord e sulla Mesopotamia solo se è in grado di rafforzare la sua alleanza con gli Usa». In caso contrario «si troverebbe compressa, ridotta in uno stato ancor più forte di dipendenza rispetto a quella attuale nei confronti di Francia e Germania».