Archivio del Tag ‘dogma’
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De Benoist: guarire il mondo, oltre destra e sinistra
Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».Per Preve, ricorda Zarelli su “La Voce del Ribelle” (post ripreso da “Come Don Chisciotte) la società contemporanea è dominata da un’ideologia che intreccia due formule dogmatizzate, destra e sinistra intese come «categorie generiche, non più identificate con concrete forze sociali». Di destra è il cosiddetto “pensiero unico”, ovvero l’idea che la società di mercato e il capitalismo internazionale – con tutti i suoi corollari, compresa la guerra intesa come operazione di “polizia internazionale” – costituiscano l’unico orizzonte possibile e auspicabile; di sinistra invece è lo stile “politically correct”, imperniato sull’esaltazione dei diritti dell’individuo, sul moralismo e sull’esigenza di politeness della politica, che viene ridotta a mero dibattito o pura chiacchiera. «Pressoché tutte le agenzie operanti all’interno dell’industria culturale, così come il sapere accademico, si muovono all’interno di questo codice dominante, la cui funzione è quella di legittimare il sistema vigente, raccogliendone i benefici in termini di visibilità mediatica e di carriere “intellettuali”».Idee di destra, valori di sinistra? De Benoist non è allineato con questa combinazione, dato che il suo pensiero politico potrebbe essere rappresentato con una formula esattamente contraria: valori di destra, idee di sinistra. Oggi, scrive Zarelli, destra e sinistra sono state entrambe «soppiantate dall’adozione di un trasversale criterio di governance, che evita accuratamente di mettere in discussione il quadro generale di riferimento di una società di mercato – ovvero di una società che è diventata mercato – sulla quale ormai quasi tutti concordano». Alain de Benoist invece «esprime una posizione che è esattamente l’opposto rispetto a quella dominante, la quale sostiene l’uguaglianza di principio tra gli uomini e al contempo cristallizza però le differenze sociali e le conseguenti ingiustizie». Il che, come sostenne già nel 1995 a Perugia, «non significa dunque che non esisterà più una destra o una sinistra», ma «le linee di frattura sono ormai trasversali: passano all’interno della destra come all’interno della sinistra». Le due categorie sono destinate a diventare complementari, «assumendo ciò che di meglio e di più vero esse possono avere».La ricerca meta-politica di de Benoist è orientata verso un ambito «in cui collocare la sua prospettiva di valore», che però «non coincide più con l’appartenenza a un’identità politica data». Per questo, lanciando la rivista “Krisis” alla fine degli anni ‘80, la definì «di sinistra, di destra, del fondo delle cose e del mezzo del mondo». Intellettuale “non catalogabile”, de Benoist considera post-moderno il suo pensiero, che critica la modernità. Dal suo avamposto isolato, riflette: la dicotomia destra-sinistra è un’invenzione «recente e localizzata», cioè «legata all’avvento delle democrazie di tipo parlamentare». Infatti, «non appena ci si allontana dall’Occidente per andare verso il terzo mondo, i concetti di destra e sinistra appaiono sempre meno pertinenti». E visto che quei concetti sorgono in Europa solo con la Rivoluzione Francese, bisogna ammettere che ciò che designano «non esisteva prima», e quindi non contengono «niente di immutabile». Dato che si tratta di categorie moderne, andrebbero riscritte in modo diacronico: la modernità (individual-universalista) sarebbe “di sinistra” e le società dell’Ancien Régime “di destra”. Ma questo è vero solo per noi occidentali: «Che cosa dire, allora, delle società tradizionali? E di quale utilità per l’analisi può essere una “destra” che finirebbe con l’inglobare i nove decimi della storia dell’umanità?».Il dogma fondamentale della civilizzazione moderna, scrive Zarelli, è lo sviluppo economico, o “progresso”, che consiste «nella sistematica sostituzione dell’ecosfera o mondo reale (la fonte dei benefici naturali) con la tecnosfera o mondo surrogato (la fonte dei benefici artificiali)». Problema: «Nessun “credente” accetta l’idea che sia proprio questo “sacro” processo la causa della sistematica distruzione sociale e ambientale cui stiamo assistendo, che egli imputa invece a deficienze o difficoltà nella sua realizzazione; di conseguenza, la visione del mondo del “modernismo” gli impedisce di comprendere il rapporto con il mondo reale, quello in cui vive, e di adattarsi a esso in modo da massimizzare il proprio benessere e la propria reale ricchezza». La visione del mondo del modernismo, e in particolare i paradigmi della scienza e dell’economia, «servono invece a razionalizzare lo sviluppo economico, o “progresso”, che sta portando l’uomo alla distruzione del mondo naturale». Com’è possibile che l’obiettività scientifica si comporti in modo tanto poco oggettivo? Semplice: «La scienza non è oggettiva, e questo è stato ben argomentato da alcuni dei maggiori filosofi della scienza contemporanea, come Thomas Khun, Imre Lakatos o Paul Feyerabend».Gli scienziati, continua Zarelli, accettano il paradigma della scienza – e quindi la concezione del modernismo – perché «razionalizza le politiche che hanno fatto nascere il mondo moderno in cui essi credono». Del resto, «è molto difficile, per una persona, evitare di considerare il mondo in cui vive – l’unico che ha mai conosciuto – come la condizione normale della vita umana su questo pianeta». Sicché, «è improrogabile l’affermazione di una “visione del mondo” ecologica, alla luce della quale sia possibile invertire la tendenza e ricomporre la frattura tra natura e cultura, aprendosi a una interpretazione sacrale del vivente che reincanti la realtà». Per Edward Goldsmith, l’obiettivo primario di una “società ecologica” deve essere un modello di comportamento teso a preservare l’ordine fondamentale del mondo naturale e del cosmo.In molte culture tradizionali esiste una parola per definire quel modello di comportamento: gli indiani dell’epoca vedica lo chiamavano “rta”, nell’Avesta il termine è “a_a”, gli antichi egizi lo chiamavano “maat”, gli indù e i buddisti “dharma”, i cinesi “Tao”. «Il Tao come “principio primo”, onnicomprensivo. Gli esseri umani, seguendo il Tao, o la Via, si comportano naturalmente». In termini spirituali, questo significa attenersi al principio del “Wu wei” (agire senza agire) di Lao-Tzu, perché «le cose, quando obbediscono alle leggi del Tao, formano un tutto armonioso e l’universo diventa un tutto integrato». In altre parole, quello che comunemente viene definito come “progresso” è la negazione stessa della “evoluzione” all’interno del processo naturale, sostiene Zarelli. «Poiché l’evoluzione deve essere identificata con la Via, che mantiene l’ordine naturale e quindi la stabilità dell’ecosfera», il progresso (o anti-evoluzione) «sconvolge l’ordine naturale pregiudicandone la stabilità».La “rivoluzione conservatrice”, controversa tendenza culturale affermatasi tra le due guerre mondiali, tentò di conciliare mito e scienza. Una vocazione che ricorda la l’impegno culturale di «rifondazione dei riferimenti filosofico-politici» sviluppato da Alain de Benoist «in una prospettiva comunitaria e pluralista». Impegno riassumibile in due punti: la fine della dicotomia destra-sinistra (in favore dell’elaborazione di una nuova cultura) e l’intuizione secondo cui «la trasversalità tra destra e sinistra deve essere raggiunta attraverso nuove sintesi», come «positiva contraddizione» e non «mera reciproca negazione». Da qui la ricerca di «nuovi, ulteriori e proficui paradigmi» per interpretare e cogliere le contraddizioni della civilizzazione occidentale. Riuscirà De Benoist a rinnovare lessico, modalità ideative e contenuti del dibattito politico-culturale contemporaneo? Siamo certi, conclude Zarelli, che l’impegno «è all’altezza della sua intelligenza», confortata dall’onestà intellettuale di questo «pensatore “epocale”, oltre il moderno».Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».
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Chomsky: padroni dell’umanità, hanno ucciso l’Europa
Si credono i padroni dell’umanità, e purtroppo lo stanno diventando: la politica democratica ha cessato di resistere loro, spianando la strada alla dittatura incondizionata dei poteri forti, economici e finanziari, che ormai dettano le condizioni della nostra vita pubblica. Parola di Noam Chomsky, considerato il maggior linguista vivente, autore del capolavoro “Il linguaggio e la mente”. A 86 anni, il professore statunitense dimostra una lucidità di pensiero e di visione che non lascia spazio a dubbi. Nessuna illusione: «Le nostre società stanno andando verso la plutocrazia. Questo è il neoliberismo», dice Chomsky, in Italia per il Festival delle Scienze di Roma, gennaio 2014. Il titolo dell’ultima raccolta di testi inediti tradotti in italiano è estremamente esplicito: loro, gli oligarchi globali, signori delle multinazionali e grandi banche d’affari, sono “I padroni dell’umanità”.«La democrazia in Italia è scomparsa quando è andato al governo Mario Monti, designato dai burocrati seduti a Bruxelles, non dagli elettori», afferma Chomsky. In generale, come risporta il newsmagazine “Contropiano”, per Chomsky «le democrazie europee sono al collasso totale, indipendentemente dal colore politico dei governi che si succedono al potere». Sono “finite”, le democrazie del vecchio continente – Italia, Francia, Germania, Spagna – perché le loro sorti «sono decise da burocrati e dirigenti non eletti, che stanno seduti a Bruxelles». Decide tutto la Commissione Europea, che non è tenuta a rispondere al Parlamento Europeo regolarmente eletto. Puro autoritarismo neo-feudale: «Questa rotta è la distruzione delle democrazie in Europa e le conseguenze sono dittature».Per Chomsky, il neoliberismo che domina la dottrina tecnocratica di Bruxelles è ormai un pericolo planetario. Il fanatismo del “libero mercato” come via naturale per un’economia sana poggia su dogma bugiardo e clamorosamente smentito: senza il supporto pubblico (in termini di welfare e di emissione monetaria) nessuna economia privata può davvero svilupparsi. Oggi il neoliberismo si configura come «un grande attacco alle popolazioni mondiali», addirittura «il più grande attacco mai avvenuto da quarant’anni a questa parte». Desolante il silenzio dell’informazione, che coinvolge gli stessi “new media”: la loro tendenza è quella di «sospingere gli utenti verso una visione del mondo più ristretta». In modo sempre più automatico, «le persone sono attratte verso quei nuovi media che fanno eco alle loro stesse vedute», quelle cioè dei “padroni dell’umanità”.Si credono i padroni dell’umanità, e purtroppo lo stanno diventando: la politica democratica ha cessato di resistere loro, spianando la strada alla dittatura incondizionata dei poteri forti, economici e finanziari, che ormai dettano le condizioni della nostra vita pubblica. Parola di Noam Chomsky, considerato il maggior linguista vivente, autore del capolavoro “Il linguaggio e la mente”. A 86 anni, il professore statunitense dimostra una lucidità di pensiero e di visione che non lascia spazio a dubbi. Nessuna illusione: «Le nostre società stanno andando verso la plutocrazia. Questo è il neoliberismo», dice Chomsky, in Italia per il Festival delle Scienze di Roma, gennaio 2014. Il titolo dell’ultima raccolta di testi inediti tradotti in italiano è estremamente esplicito: loro, gli oligarchi globali, signori delle multinazionali e grandi banche d’affari, sono “I padroni dell’umanità”.
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Bankitalia? Ci vendono alla Germania, e la Cgil zitta
Tutti ricordiamo il tormentone Imu sì-Imu no, una bolla mediatica che ha accompagnato la vita politica istituzionale per metà 2013. È stato sostituto, sempre con Silvio protagonista (complimenti, anche vicino al sarcofago riesce a condizionare i nanerottoli politici di via del Nazareno) dall’altra bolla mediatica, quella della legge elettorale. Bene, immaginate che casino succederebbe se qualcuno grosso, qualcuno di importante, volesse imporre una bella patrimoniale, di quelle toste. Già, immaginate il coro dei Roberto Speranza, uno che la parte l’ha imparata presto (“irresponsabile”, “populista” etc), e i sottili distinguo dei sindacalisti gialli Camusso e Landini sulla patrimoniale. Il problema, non proprio leggerino, è che la proposta di una forte patrimoniale per l’Italia, sempre per il rigore dei conti pubblici, non l’ha avanzata qualche populista ma la Bundesbank. Eh sì. Era in prima pagina due giorni fa sulla “Handelsblatt” e su “Die Welt”, edizione online di entrambe le testate.Così, mentre le prime pagine dei giornali italiani sono rigonfie di cose inutili, la banca centrale del principale paese dell’Eurozona ha chiesto per noi una bella stangata (non esiste legge elettorale che risolva il problema della rappresentanza e dei processi decisionali. Ma da prima dello scioglimento del Pci i “riformisti” hanno provato questa droga del politico detta “legge elettorale”, e non hanno più smesso…). D’altronde, con un’economia paralizzata cosa credete che voglia il grande fondo estero, come garanzia, per comprare i nostri titoli? Ma i nostri patrimoni! Grandi e piccoli che siano, basta non averli alle Cayman (come lo sponsor di Renzi). Così vuole la Bundesbank. E che rapporto c’è tra queste necessità della Bundesbank e il decreto Imu-Bankitalia presentato furbescamente alla televisione e alle Camere?Se qualcuno crede che le comparsate della Boldrini servano per garantire il rispetto alle istituzioni, viva il suo Nirvana e non proceda oltre nella lettura. Sennò ascolti un dettaglio. Prima di tutto mettere l’Imu nel decreto è costruire un cavallo di Troia (absit injuria verbis) per far passare tre perle: 1) L’aumento dell’acconto Ires; 2) La “sanatoria” sul gioco d’azzardo, che è un regalone a tutte le agenzie che dovevano somme astronomiche allo Stato; 3) La sterilizzazione del potere di veto del ministero dei beni culturali e (sic) del ministero dell’ambiente sulle dismissioni (e vai con nuovi ecomostri). E qui arriva la perlona contenuta nel decreto Imu che prende anche il nome del gioiello, diventando decreto Imu-Bankitalia. Cosa prevede il gioiello?1) La legittimazione della proprietà privata dell’ente che solo nominalmente resterà pubblico (nomina del governatore, vero Re Pipino della situazione); 2) L’impossibilità del potere pubblico di poter dire alcunché sulla compravendita delle quote di Bankitalia (quindi se qualcuno o qualcosa che ha interessi che non coincidono con quello nazionale prende piede in Bankitalia, il pubblico non può porre veti. Solo per questo Napolitano meriterebbe l’impeachment, altro che…); 3) Si apre legalmente la strada ad un patto di sindacato, esplicito o occulto, dove una serie di soggetti finanziari che entrano nelle banche italiane fanno cosa gli pare di Bankitalia (guarda caso tre giorni fa qualcuno ha fatto la spesa con i titoli bancari italiani che sono andati anche a -16 in una seduta).4) Le privatizzazioni possono essere pilotate da questo patto di sindacato ormai legittimabile da questo decreto (vedi vicenda Cassa depositi e prestiti); 5) Il patto di sindacato (cioè l’insieme delle regole volte a determinare l’assetto della proprietà di una società), possibile e sostenibile da hedge fund che hanno un portafogli largo quanto il nostro Pil, può a questo punto controllare l’oro di Bankitalia a sostegno dell’euro. Proprio come desidera la Bundesbank. E ce la vedete questa nuova Bankitalia, in mano a tutti fuorché all’Italia, opporsi nel caso alla patrimoniale come desiderata dalla Bundesbank? «Ragàssi» – avrebbe detto il povero Bersani – «Sciamo in Europa…».A questo punto anche un elettore di centrosinistra, cioè uno che in politica fa uso di droghe nemmeno tanto leggere, capisce la verità. Che la “crescita” non esiste, non ci sarà. Ma solo un periodo di estrazione di risorse da questo paese. Fino a quando non ci sarà nulla da estrarre e i nostri giovani accetteranno salari da 250 euro il mese, competitivi con l’Ucraina che spinge per entrare in Europa a costo della guerra civile, facendosi prendere per fame. In un paese dai prezzi tedeschi causa tasse e balzelli. Tutto questo ha un nome nei manuali di concorrenza economica. Si chiama strategia del “Beggar thy neighbour”. Ovvero: porta il tuo vicino a mendicare. Ci guadagnerai un sacco. Specie se nel paese del tuo vicino ci sarà qualche servo che dà del populista e dell’irresponsabile a chi si opppone al saccheggio (link: “Bankitalia, una privatizzazione che incatena l’Italia all’euro”). La proposta della patrimoniale della Bundesbank è all’opposto della patrimoniale “de sinistra”. Si tratta semplicemente di tassare e spedire in Germania. “Prima” deportavano uomini e ricchezze e mettevano tutto nei vagoni piombati. Ora sono solo interessati alle ricchezze, ma senza disturbare il traffico ferroviario.(“La gravissima vicenda della privatizzazione di Bankitalia”, da “Senza Soste” del 30 gennaio 2014).Tutti ricordiamo il tormentone Imu sì-Imu no, una bolla mediatica che ha accompagnato la vita politica istituzionale per metà 2013. È stato sostituto, sempre con Silvio protagonista (complimenti, anche vicino al sarcofago riesce a condizionare i nanerottoli politici di via del Nazareno) dall’altra bolla mediatica, quella della legge elettorale. Bene, immaginate che casino succederebbe se qualcuno grosso, qualcuno di importante, volesse imporre una bella patrimoniale, di quelle toste. Già, immaginate il coro dei Roberto Speranza, uno che la parte l’ha imparata presto (“irresponsabile”, “populista” etc), e i sottili distinguo dei sindacalisti gialli Camusso e Landini sulla patrimoniale. Il problema, non proprio leggerino, è che la proposta di una forte patrimoniale per l’Italia, sempre per il rigore dei conti pubblici, non l’ha avanzata qualche populista ma la Bundesbank. Eh sì. Era in prima pagina due giorni fa sulla “Handelsblatt” e su “Die Welt”, edizione online di entrambe le testate.
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Brancaccio: disastro, la sinistra non osa uscire dall’euro
Uscire dall’euro: sì, ma “da sinistra”. Ipotesi probabilmente richiamata dallo stesso ex viceministro dell’economia, Stefano Fassina, quando ha parlato di un “Piano B” in caso di fallimento del semestre europeo a guida italiana. Minacciare di mollare la moneta della Bce se non si allenta la morsa del rigore? Se il Pd di Renzi non si esprime, il centrodestra si è ormai convertito all’euroscetticismo. Si dice che Berlusconi volesse uscire dall’euro già nel 2011, mentre la Lega sostiene l’abbandono della moneta unica in modo ancora più esplicito. Anche il M5S accarezza questi temi. Attenzione: «Se sommiamo i consensi al centrodestra e quelli al M5S scopriamo che in Italia esiste già una potenziale maggioranza anti-euro», avverte l’economista Emiliano Brancaccio. Secondo il quale l’addio all’Eurozona è ormai inevitabile, ma a precise condizioni: intervento pubblico sulle banche, tutela dei salari e limiti alla circolazione dei capitali per proteggere le aziende (che si svaluterebbero di colpo) dal rischio di essere comprate per quattro soldi.Il professor Brancaccio, docente all’università del Sannio (Benevento), ne riparla con Alessandro D’Amato su “Giornalettismo”, a sette anni di distanza dal primo profetico allarme lanciato nel 2007 sulla rivista “Studi economici”, prefigurando la spirale di crisi provocata dalla deflazione indotta dall’euro: l’esplosione dello spread e l’avvento della spending review di Mario Monti. La situazione, da allora, non ha fatto che peggiorare: «La Bce si dichiara disposta a difendere i paesi in difficoltà solo se in cambio questi proseguiranno con le politiche di austerity: l’idea è che tali politiche dovrebbero risanare i conti pubblici e ripristinare la fiducia dei mercati, fino a rendere superflua la stessa protezione della Bce. Il problema, ormai largamente riconosciuto, è che l’austerity non risana i conti. Anzi, può deprimere i redditi a tal punto da rendere più difficili i rimborsi dei debiti: un circolo vizioso che in prospettiva non riduce ma accresce l’instabilità dell’Eurozona». L’unica ricetta invocata è quella delle “riforme strutturali” del mercato del lavoro: la flessibilità è una costante dell’ultimo ventennio. Tesi smentita dallo stesso Olivier Blanchard, capo economista del Fmi: i paesi che non hanno precarizzato il lavoro se la stanno cavando meglio, perché i lavoratori occupati sostengono i consumi e pagano le tasse.Secondo la Bce, invece, tagliare i salari consente ai paesi periferici dell’Unione di ridurre il divario di competitività con la Germania senza ricorrere all’uscita dall’euro e alla svalutazione. «Il problema – obietta Brancaccio – è che per ridurre in modo consistente quel divario ci vorrebbe una caduta dei salari e dei prezzi di tale portata da provocare un crollo dei redditi rispetto ai debiti, con effetti negativi sulla solvibilità. Ancora una volta un circolo vizioso». Draghi? Ha solo «messo in “coma farmacologico” l’Eurozona malata», e ora sta «suggerendo cure che a lungo andare finiranno per ammazzarla». Le conseguenze sono già sotto i nostri occhi: dal 2008 l’Italia ha perso un milione di posti di lavoro. Spagna, Irlanda, Grecia e Portogallo ne hanno persi altri 5 milioni. In Italia le insolvenze delle imprese sono aumentate del 90%, in Spagna addirittura del 200%. Al contrario, la Germania ha visto aumentare l’occupazione e diminuire i fallimenti.«Queste divergenze sono il sintomo di una “mezzogiornificazione” in atto, cioè di una tendenza alla desertificazione produttiva di vaste aree periferiche dell’Eurozona, a vantaggio del paese più forte». A chi sostiene che un’uscita dall’euro riaprirebbe il vaso di Pandora dei conflitti europei, portando addirittura a nuove guerre, Brancaccio risponde che – al contrario – è proprio l’euro la causa della crisi. L’Eurozona, di fatto, è un particolare regime di cambio fisso: come il gold standard, che fece precipitare l’economia europea fino all’esplosione della Prima Guerra Mondiale. Un altro economista, Barry Eichengreen, ritiene che i tentativi di ripristare il gold standard (valore monetario vincolato a quello dell’oro) favorirono la Grande Depressione, che creò i presupposti per la Seconda Guerra Mondiale. «Sono dunque i pasdaran dell’euro a tutti i costi che dovrebbero fare più attenzione alle conflittualità che stanno alimentando in seno all’Europa».In Italia le posizioni pro-euro a oltranza sembrano già numericamente minoritarie, nonostante una preponderante campagna mediatica a loro favore. «Evidentemente la vuota retorica europeista non basta per governare la crisi», sottolinea Brancaccio. E se un’uscita dall’euro solleva innanzitutto un problema salariale, è importante «ripristinare alcuni meccanismi di tutela dei lavoratori e delle loro retribuzioni, a partire da una nuova scala mobile». Altro rischio: le svendite all’estero delle aziende italiane dopo una eventuale uscita dall’euro, che le svaluterebbe di colpo rendendole appetibili. Ma attenzione: sta già accadendo, con l’euro. «In Italia, negli ultimi cinque anni, i prezzi dei beni capitali e degli immobili sono diminuiti in media del 10%. Alcuni soggetti esteri hanno colto l’opportunità e hanno già iniziato a comprare capitali nazionali». Senza più l’euro, la svalutazione sarebbe ancora più forte e improvvisa: «E’ evidente che molti operatori stranieri aspetteranno proprio quel momento per iniziare lo shopping a buon mercato». Che fare? Proteggere l’economia italiana con moneta sovrana, e con «vincoli alle acquisizioni estere di capitali nazionali, in primo luogo in ambito bancario».Un’uscita disordinata dall’euro – cioè senza protezioni statali – sarebbe «in perfetta continuità con l’ideologia liberista e liberoscambista che ha dominato in questi anni, e che ci ha condotti al disastro». Sarebbe un’uscita “gattopardesca”, «affidata ancora una volta al libero gioco delle forze del mercato». Ovvero: «I salari non verrebbero protetti, le acquisizioni estere non sarebbero limitate, i tassi di cambio sarebbero lasciati alla libera fluttuazione sui mercati dei cambi e sarebbe mantenuta a tutti i costi la libera circolazione dei capitali e delle merci. Inoltre, si continuerebbe a sfruttare i sentimenti anti-politici della popolazione per svuotare lo Stato delle sue funzioni». Per Brancaccio, questa soluzione è tuttora probabile: «Perché il liberismo e il liberoscambismo sono ancora ideologicamente pervasivi, e perché in fondo è quella che tende a salvaguardare gli interessi dei più forti». Per esempio quelli degli speculatori, «che trarrebbero grande vantaggio dal ritorno a un libero mercato europeo delle valute». E poi la Germania. L’associazione degli esportatori tedeschi l’ha detto, più volte: «Noi possiamo fare tranquillamente a meno della moneta unica, ma non possiamo fare a meno della libertà degli scambi sancita dal mercato unico europeo».La seconda possibilità, quella su cui punta Brancaccio, consiste nella messa in discussione dei vecchi dogmi liberisti e liberoscambisti: «Progredire, superare la crisi, significa per esempio riaffermare che gli interessi del lavoro incarnano l’interesse generale. Significa attribuire nuova centralità all’intervento pubblico nell’economia, a partire dal settore bancario. E significa chiarire che se salta la moneta unica bisognerà mettere in discussione, almeno in parte, anche il mercato unico europeo, in primo luogo stabilendo limiti alle acquisizioni estere e alla indiscriminata circolazione dei capitali». La sinistra non ha mai preso in considerazione proposte come lo “standard retributivo europeo”, «rimaste lettera morta a causa dell’irriducibile ostilità tedesca: non solo dei cristiano-democratici, anche dei socialdemocratici». Risultato: «Oggi l’Eurozona è dominata da divergenze che a lungo andare la faranno implodere», grazie all’offensiva delle «nuove destre nazionaliste», che provocherebbe «un arretramento sul terreno dei diritti e delle libertà civili». La sinistra? Non pervenuta. Non ha ancora saputo cogliere «l’estrema gravità della situazione».Uscire dall’euro: sì, ma “da sinistra”. Ipotesi probabilmente evocata dallo stesso ex viceministro dell’economia, Stefano Fassina, quando ha parlato di un “Piano B” in caso di fallimento del semestre europeo a guida italiana. Minacciare di mollare la moneta della Bce se non si allenta la morsa del rigore? Se il Pd di Renzi non si esprime, il centrodestra si è ormai convertito all’euroscetticismo. Si dice che Berlusconi volesse uscire dall’euro già nel 2011, mentre la Lega sostiene l’abbandono della moneta unica in modo ancora più esplicito. Anche il M5S accarezza questi temi. Attenzione: «Se sommiamo i consensi al centrodestra e quelli al M5S scopriamo che in Italia esiste già una potenziale maggioranza anti-euro», avverte l’economista Emiliano Brancaccio. Secondo il quale l’addio all’Eurozona è ormai inevitabile, ma a precise condizioni: intervento pubblico sulle banche, tutela dei salari e limiti alla circolazione dei capitali per proteggere le aziende (che si svaluterebbero di colpo) dal rischio di essere comprate per quattro soldi.
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Hollande, un vero scandalo (ma le donne non c’entrano)
Non ho seguito più di tanto François Hollande, il presidente francese, da quando si è capito chiaramente che non avrebbe rotto con l’ortodossia della politica economica europea, una politica distruttiva e ancorata all’idea dell’ “austerità”. Ma adesso ha fatto una cosa veramente scandalosa. Non sto parlando, ovviamente, della sua presunta relazione con un’attrice, che, anche se fosse appurata, non è né sorprendente (dopotutto siamo in Francia) né preoccupante. No, ciò che è sconvolgente è la sua adesione alle più screditate dottrine economiche della destra. Si può convenire sul fatto che gli attuali problemi economici dell’Europa non siano dovuti solo alle cattive idee della destra. È vero che sono stati conservatori sordi e ostinati a indirizzare le politiche economiche, ma ciò è avvenuto con l’avallo e il consenso degli smidollati ed inetti politici della sinistra moderata.L’Europa sembra appena emergere da una recessione con ricaduta (double-dip recession) e comincia a crescere un po’. Ma questo timido accenno di ripresa fa seguito ad anni di risultati disastrosi. Quanto disastrosi? Prendiamo un esempio: nel 1936, sette anni dopo la grande depressione, la maggior parte dell’Europa cresceva rapidamente, con il Pil procapite stabilmente assestato su alti valori. In confronto, il Pil procapite reale di oggi è ancora largamente al di sotto del picco del 2007, e tutt’al più risale lentamente. Per fare peggio di quanto è avvenuto nella grande depressione, si potrebbe dire, ce n’è voluto. Come ne uscirono all’epoca gli europei? Semplice: negli anni ’30 la maggior parte dei paesi europei finirono per abbandonare, chi prima, chi poi, l’ortodossia economica. Abbandonarono la parità aurea; desistettero dal pareggio di bilancio; ed alcuni di essi lanciarono vasti programmi di spese militari, che ebbero come effetto collaterale una potente azione di stimolo all’economia. Il risultato fu una forte ripresa dal 1933 in poi.L’Europa contemporanea è molto migliore di allora: da un punto di vista morale, politico e anche umano. Un impegno condiviso in nome della democrazia ha portato pace per molti anni; le reti di protezione sociale hanno limitato i danni di una disoccupazione troppo elevata; un’azione coordinata ha contenuto il rischio di un tracollo finanziario. Purtroppo, se il continente è riuscito a evitare il disastro, ciò ha avuto come effetto collaterale lo schiacciamento dei governi su politiche economiche ortodosse. Nessuno è uscito dall’euro, anche se è una camicia di forza monetaria. Senza la spinta delle spese militari, nessuno ha allentato l’austerità fiscale. Tutti stanno facendo le scelte ritenute sicure e responsabili. E la crisi persiste. In questo paesaggio depresso e deprimente, la Francia non si comporta peggio di altri. Certo è rimasta indietro rispetto alla Germania, sostenuta dalle suo eccellente export. Ma i risultati della Francia sono stati molto migliori di quelli di tanti altri paesi europei. E non parlo solo dei paesi colpiti dalla crisi da debito. La crescita della Francia ha superato quella di due pilastri dell’ortodossia, come la Finlandia e l’Olanda.È vero che i dati più recenti indicano una Francia che male si allinea all’accenno di ripresa europeo. Molti osservatori, compreso il Fondo Monetario Internazionale, indicano proprio nelle politiche d’austerità la causa principale di questa debolezza recente. Ma adesso che Hollande ha illustrato i suoi piani per invertire la rotta… è difficile non farsi prendere dallo sconforto. Perché Hollande ha annunciato l’intenzione di ridurre il carico fiscale sulle imprese tagliando – per compensarne i costi – la spesa pubblica (senza dire quale), ed ha dichiarato: «È sull’offerta che dobbiamo agire», e ha poi aggiunto: «E’ l’offerta che crea la domanda». Benedetto ragazzo! Questa dichiarazione richiama quasi letteralmente la fandonia, più volte smascherata, nota come “legge di Say”, che pretende che cadute generali della domanda non possono verificarsi, perché chi guadagna deve comunque in qualche modo spendere. Quest’idea è semplicemente sbagliata; ancora più sbagliata alla luce dei fatti di questo inizio 2014.Tutti gli indicatori mostrano che la Francia è inondata di risorse produttive, sia il lavoro che il capitale, che restano sottoutilizzate perché la domanda è insufficiente. Per rendersene conto basta considerare l’inflazione, che diminuisce sempre più. In effetti la Francia e l’Europa si stanno pericolosamente avvicinando ad una deflazione in stile giapponese. Come spiegarsi allora che, proprio in questo momento, Hollande abbia adottato una dottrina economica così screditata? Come ho già detto, questo è un segno delle tristi sorti del centrosinistra europeo. Per quattro anni, l’Europa è stata preda della febbre da austerità, con risultati prevalentemente disastrosi; si cerca ora di presentare l’attuale debole ripresa come un trionfo di quelle politiche.Alla luce dei danni generati da quelle scelte, ci si sarebbe potuto aspettare che i politici della ‘sinistra del centro’ si battessero strenuamente per un cambio di passo. Eppure, ovunque in Europa, il centro-sinistra ha, nella migliore delle ipotesi (per esempio, in Gran Bretagna) esposto critiche deboli e svogliate; spesso ha semplicemente arretrato in totale sottomissione. Quando Hollande è diventato il leader della seconda economia europea, alcuni di noi avevano sperato che riuscisse a esprimere una posizione critica. Invece ha cominciato, come al solito, ad arretrare. Un arretramento che diventa oggi un vero e proprio crollo intellettuale. Mentre la seconda depressione europea continua.(Paul Krugman, “Scandalo in Francia”, intervento apparso sul “New York Times” il 23 gennaio 2014 e ripreso da “Micromega”).Non ho seguito più di tanto François Hollande, il presidente francese, da quando si è capito chiaramente che non avrebbe rotto con l’ortodossia della politica economica europea, una politica distruttiva e ancorata all’idea dell’ “austerità”. Ma adesso ha fatto una cosa veramente scandalosa. Non sto parlando, ovviamente, della sua presunta relazione con un’attrice, che, anche se fosse appurata, non è né sorprendente (dopotutto siamo in Francia) né preoccupante. No, ciò che è sconvolgente è la sua adesione alle più screditate dottrine economiche della destra. Si può convenire sul fatto che gli attuali problemi economici dell’Europa non siano dovuti solo alle cattive idee della destra. È vero che sono stati conservatori sordi e ostinati a indirizzare le politiche economiche, ma ciò è avvenuto con l’avallo e il consenso degli smidollati ed inetti politici della sinistra moderata.
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Via i parassiti della finanza, e avremo ancora un futuro
Il principale processo storico che sta segnando il nuovo secolo, cioè lo spostamento del baricentro geopolitico dall’Atlantico al Pacifico, condanna l’Europa a diventare sempre più periferica. La crescente proiezione internazionale di una Cina punta chiaramente a diventare potenza navale oltreché commerciale, in Estremo Oriente ma anche in direzione dell’Africa e del Medio Oriente. Questo impegnerà direttamente gli Usa e li obbligherà ad una scelta fondamentale: Cina o ancora Giappone, come alleati strategici? Certo, Russia e India non staranno a guardare. E’ questo lo scenario nel quale Gaetano Colonna invita ad analizzare la grande crisi che sta travolgendo l’Eurozona. Se il vecchio continente perde terreno nel forziere petrolifero mediorientale, l’influenza cinese continua a crescere in teatri strategici per gli Stati Uniti, dall’Iran al Pakistan fino al continente nero, che rappresenta un’enorme riserva di materie prime e terre coltivabili.Di conseguenza, osserva Colonna su “Clarissa”, torna alla ribalta il ruolo del Mediterraneo: decisivo snodo geografico e culturale tra Africa, Vicino Oriente ed Europa, il “mare nostrum” «diverrà, se possibile, ancora più rilevante di quanto non lo sia già stato dalla fine del XIX secolo, quale linea di comunicazione vitale per gli imperi anglosassoni, oltreché frontiera fra il Nord ed il Sud del mondo». Di recente, il protagonismo neo-coloniale della Francia (appoggiato da Usa e Israele) ha relegato l’Italia a «alla semplice condizione di piattaforma logistica dei grandi alleati occidentali». Ma se l’Occidente deve comunque fare il conti con la Cina, questo influisce anche sul nuovo ruolo della Russia di Putin, la cui condizione ricorda quella dell’impero zarista di cent’anni fa, schiacciato a oriente dalla potenza giapponese e ad occidente dall’impero germanico.Oggi, riconosce Colonna, la politica estera russa ha costruito un asse preferenziale con la Cina, dato che in Occidente la pressione della Nato e degli Usa non si è minimamente allentata, né l’Unione Europea ha saputo smarcarsi dalla vecchia politica atlantica ereditata dalla guerra fredda. Smaltita la «passeggera ubriacatura filo-occidentale» del disastroso governatorato di Eltsin, «pur non perseguendo più una politica da superpotenza» la Russia post-sovietica «non rinuncia al suo ruolo di grande potenza sullo scenario mondiale», e per questo non rinuncia «ad una propria forte capacità militare, in grado di tutelare i propri fondamentali interessi strategici». Ora, alla luce della nuova gravitazione del mondo sull’Oceano Pacifico, si tratta di vedere se la Russia di Putin «seguirà la propria vocazione asiatica oppure quella europea».E’ davvero singolare, osserva Colonna, che l’Europa «continui a seguire pedissequamente i desiderata americani, rivolti ad isolare la Russia sul piano internazionale, invece di perseguire una propria assai più realistica politica di avvicinamento ed integrazione con il grande paese che costituisce la sola efficace copertura del nostro continente rispetto a qualsiasi ambizione cinese». Ma il peggio è in assoluto l’Italia: ancora una volta, il nostro paese si “scopre” collocato – dalla geografia e dalla storia – al crocevia delle forze da cui dipende il futuro del pianeta, ma le classi dirigenti italiane non se ne sono accorte. In loro c’è una «evidente mancanza di coscienza» dell’importanza geopolitica dello Stivale. E questo è «uno dei fattori più gravi e preoccupanti della nostra attuale condizione storica». Colonna la definisce «devastante pochezza» di uomini «privi di un sentire vivamente operante e non retorico per la patria». Mezzi uomini, «colpevolmente ignari delle prove che anche l’Italia si troverà presto a dover affrontare».Là fuori, infatti, impazza la grande crisi: ci si muove tra macerie economiche, provocate dall’oligarchia finanziaria che ha devastato la “democrazia del lavoro”. «La lezione del 2007-2008 non è stata compresa: basterebbe questa affermazione per definire lo scenario dell’economia mondiale dei prossimi mesi e anni», sostiene Colonna. «I grandi centri finanziari mondiali, che elaborano le strategie sistemiche dell’economia mondiale, dimostrano di non volere e di non potere rinunciare all’orientamento speculativo che è insieme all’origine della crisi che ha investito il sistema-mondo nell’ultimo quinquennio». Questa avidità cieca è anche «il fondamento stesso del potere dei “padroni dell’universo”, come questi oligarchi amano definirsi». Lo dimostra il fatto che «nessuna delle regolamentazioni statunitensi o europee ha affrontato le tre questioni che avrebbero dovuto essere preliminari all’adozione di qualsiasi modalità di risoluzione della crisi». Ovvero: paradisi fiscali, finanza speculativa fuori controllo e agenzie di rating che si fingono soggetti terzi, ma sono in realtà pilotati e pienamente complici dei grandi speculatori.L’Occidente ha risposto in un solo modo, cioè tutelando i monopolisti del crimine finanziario: negli Usa coi salvataggi delle banche “troppo grandi per fallire”, tenute in piedi coi dollari della Fed, e in Europa spremendo senza pietà paesi interi, con super-tasse e tagli selvaggi alla spesa vitale, cioè “fiscalizzando” le rovinose perdite del sistema finanziario internazionale, il cui conto viene fatto pagare ai lavoratori. Nessuna alternativa in campo, finora, «per il semplice fatto che, da oltre mezzo secolo, sono i centri finanziari mondiali a condizionare gli Stati-nazione dell’Occidente, grazie alla formazione di una vera e propria classe dirigente internazionale che occupa con continuità le posizioni chiave, indipendentemente dalle alternanze di governo e dalle competizioni elettorali». Classe dirigente «cui viene affidata la puntuale esecuzione di strategie economiche, monetarie e legislative costruite a livello globale». Si tratta di «una vera e propria oligarchia economico-politica internazionale, che ha progressivamente svuotato di significato la democrazia parlamentare occidentale», visto che il popolo è stato privato della sua prerogativa essenziale (la sovranità) e anche della sua principale forza politica (il lavoro).La finanziarizzazione dell’economia ha infatti trasformato i sistemi industriali, togliendo al lavoro ogni potere contrattuale: dagli anni ’80 la finanza controlla le aziende, i cui pacchetti azionari sono diventati “merce” sui mercati finanziari mondiali, distogliendo il management dall’economia reale, cioè strategie produttive e commerciali. Conseguenza: progetti dalla vita sempre più breve, anziché investimenti, ricerca e sviluppo. Da parte della proprietà industriale, si è così «accentuata la tendenza a servirsi degli utili per entrare nel grande gioco finanziario, piuttosto che reinvestire nel futuro delle imprese». Per questo, oggi, i grandi gruppi bancari «preferiscono investire i generosi aiuti ottenuti a spese della collettività nell’acquisto di titoli di Stato piuttosto che nel credito alle Pmi». E il peggio è che tutto questo è avvenuto nel silenzio generale della politica, incapace di elaborare un’alternativa «ai dogmi dell’economia speculativa».Risultato: «Si è persa l’occasione per prendere coraggiosamente atto della crisi come di un evento globale e non contingente, esigendo quindi, da parte delle classi dirigenti, un radicale mutamento di rotta». Pre-condizione: l’emancipazione dell’economia reale. «Imprenditori, lavoratori e consumatori» dovrebbero cioè liberarsi «dal controllo dell’oligarchia finanziaria e dalla strumentalizzazione politica dei partiti», prendendo il mano «istituzioni autonome dell’economia reale», in grado di «esigere il controllo, per esempio, della moneta e del credito». Inoltre, la crescente consapevolezza dei “limiti allo sviluppo” «impone anch’essa che le forze dell’economia reale, piuttosto che rincorrere le asticelle statistiche della “ripresa”, si impegnino a riorganizzare la produzione», in tutti i campi: energia, tecnologia, servizi, beni di largo consumo. Servono «prodotti a basso impatto, recuperabili, di elevata qualità e durata». In sostanza, per Colonna, serve una nuova alleanza strategica: imprenditori, lavoratori e consumatori devono accordarsi per sconfiggere la finanza parassitaria, e quindi «liberare l’economia dal peso congiunto del debito e della speculazione, realizzando quella democrazia del lavoro senza la quale la democrazia politica è ormai divenuta un guscio vuoto».Il principale processo storico che sta segnando il nuovo secolo, cioè lo spostamento del baricentro geopolitico dall’Atlantico al Pacifico, condanna l’Europa a diventare sempre più periferica. La crescente proiezione internazionale di una Cina punta chiaramente a diventare potenza navale oltreché commerciale, in Estremo Oriente ma anche in direzione dell’Africa e del Medio Oriente. Questo impegnerà direttamente gli Usa e li obbligherà ad una scelta fondamentale: Cina o ancora Giappone, come alleati strategici? Certo, Russia e India non staranno a guardare. E’ questo lo scenario nel quale Gaetano Colonna invita ad analizzare la grande crisi che sta travolgendo l’Eurozona. Se il vecchio continente perde terreno nel forziere petrolifero mediorientale, l’influenza cinese continua a crescere in teatri strategici per gli Stati Uniti, dall’Iran al Pakistan fino al continente nero, che rappresenta un’enorme riserva di materie prime e terre coltivabili.
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Bergoglio: no al liberismo, la tirannia che svuota lo Stato
«Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in Borsa». I media italiani ne hanno parlato poco, ma la nuova “esortazione apostolica” di Papa Francesco, “Evangelii Gaudium” (la gioia del vangelo) contiene una potente critica al capitalismo finanziario. «Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”», scrive Bergoglio. «Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole». Conseguenza: «Grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita». Aggiunge il pontefice: «Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive».
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Amoroso: via l’euro, se vogliamo democrazia in Europa
Monete sovrane svalutabili, o sarà la fine: dobbiamo uscire immediatamente dall’euro, per salvare la nostra economia e ripristinare la democrazia in Europa. Lo sostiene l’economista italo-danese Bruno Amoroso: l’euro non è che un dogma smentito dai fatti, mentre in realtà rappresenta un fattore devastante di disgregazione. Prima ha spaccato l’Europa in due, opponendo i 17 paesi dell’Eurozona ai 10 rimasti fuori, e ora ha diviso la stessa Eurozona, scavando un solco incolmabile tra nord e sud. La disastrosa moneta della Bce? Con la sua rigidità «è la causa prima dell’attuale situazione di crisi del progetto europeo». Un piano oligarchico, i cui gestori oggi hanno “gettato la maschera”: il rigore promosso dalla Troika formata da Bce, Fmi e Ue non è altro che l’esecuzione, in Europa, dell’ideologia neoliberista imposta dalla globalizzazione, che comprime i diritti del lavoro e mortifica lo Stato sovrano, disabilitandolo come garante dei cittadini. Fiscal Compact, Patto di Stabilità: sono gli strumenti con cui l’oligarchia finanziaria ha deciso di metterci in crisi.
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Truce Germania smemorata: noi le condonammo i debiti
Strana, pericolosa Germania: è risorta dalla vergogna mondiale del nazismo ricorrendo alla “politica della memoria” che l’ha riabilitata, beneficiando di un colossale taglio del debito accordatole nel ’53 (per motivi geopolitici, certo) da ben 65 paesi, tra cui l’Italia. Ma ora pare vittima di un’amnesia capitale, pretendendo che il debito altrui venga saldato, costi quel che costi, foss’anche la morte per fame dei poveri greci o la devastazione economica di un grande paese come il nostro. Per Barbara Spinelli, rischia di tornare in scena il peggio della storia europea: proprio i tedeschi stanno infliggendo al resto d’Europa la stessa “punizione” che furono i primi a subire, per mano della Francia, che dopo la Prima Guerra Mondiale demolì la Repubblica di Weimar spianando la strada alle camicie brune. Stessa ricetta degli “austeritari” di allora: deflazione spietata, super-export, crollo dei consumi interni, crescente irresponsabilità bellicosa verso i vicini.
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Pallante: monasteri del terzo millennio, così ci salveremo
Ora che tutto sta crollando, meglio si intende la strana lingua degli eretici. Lo spettacolo aiuta a comprendere: l’economia in recessione, la frana del Pil, l’assurdità lunare delle “grandi opere inutili” e la catastrofica impresentabilità di una politica ridotta a balbettare rottami di dogmi. Sono solo appunti sotto dettatura, sillabati da un mainstream autistico e pilotato dalle grandi lobby coi loro economisti di complemento, i profeti disonesti del rigore altrui. Di fronte al crollo storico del mito progressivo dello sviluppo – “comunque vada, il futuro sarà migliore” – la scena critica è dominata da due approcci paralleli e complementari: il primo è quello di chi sostiene la necessità di dare innanzitutto battaglia, per impedire a una minoranza “golpista” di rovinare milioni di cittadini. Il secondo schieramento, nel quale milita da decenni un intellettuale come Maurizio Pallante, all’analisi dei rapporti di forza (lo scontro sociale) preferisce lo sguardo lungo, la prospettiva culturale, il mondo che verrà.Se il regime di Wall Street e Bruxelles impone un nuovo feudalesimo senza più diritti, proprio dal cuore del medioevo Pallante ripesca una lezione dimenticata e attualissima: quella del sistema socio-economico cooperativo. “Monasteri del terzo millennio”, mini-saggio comparso per la prima volta diversi anni fa grazie al “Manifesto”, si ripresenta oggi per i tipi di Lindau in una versione aggiornata, e arricchita di nuovi contributi. Quei “monasteri” non invecchiano, tutt’altro: orto, comunità e fede restano le tre parole-chiave per tornare a respirare, verso un futuro credibile. Sovranità alimentare e cibo per tutti, relazioni sociali collaborative e liberate dalla mercificazione industriale. La “fede” di ieri si traduce oggi in un impianto ideologico che diventa una “contro-narrazione del mondo”. Televisione e pubblicità hanno desertificato il nostro immaginario di neo-schiavi compulsivi, ora frustrati anche dal ritrovarci in bolletta? La lezione dei monaci è chiara: contemplare la bellezza (letteralmente: racchiuderla in un tempio) è un “motore” potente, per animare un’umanità responsabile e vitale, non ostile, capace di produrre economia sana grazie al sistema della mutualità.A un quarto di secolo dal visionario “Comitato per l’uso razionale dell’energia”, fondato insieme a scienziati come Tullio Regge, il fondatore del Movimento per la Decrescita Felice torna a scommettere sui “suoi” monasteri, oggi reincarnati in casali di collina, borgate di montagna, quartieri “solidali”, orti urbani, co-housing, gruppi di acquisto solidale, finanza etica. «La potenza raggiunta dalla megamacchina industriale sta esaurendo gli stock di risorse non rinnovabili ed emette quantità crescenti di scarti», cioè residui liquidi, solidi e gassosi «non metabolizzabili dalla biosfera». Per questo, occorre cominciare a pensare a un “nuovo rinascimento” fondato su modelli economici praticabili e concreti, alternativi e funzionali. Solo «relazioni umane fondate sulla collaborazione e la solidarietà» hanno il potere di «promuovere l’autosufficienza, soprattutto alimentare ed energetica, delle comunità locali». Si comincia dal posto in cui si vive, ma l’obiettivo è il mondo: si tratta di «realizzare forme più eque di redistribuzione delle risorse tra i popoli», in modo da «garantire il futuro delle generazioni a venire», respingendo definitivamente il totem bugiardo della crescita indiscriminata di un valore-spazzatura come il Pil.Rivoluzione dolce, la chiama Pallante, citando Gandhi: «Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo». La crescita incessante della produzione di merci, aumentata in modo esponenziale dalle innovazioni tecnologiche, «ha indotto a confondere il ben-essere col tanto-avere», e a utilizzare come unico indicatore il prodotto interno lordo, «ovvero il valore monetario degli oggetti e dei servizi scambiati con denaro». Così, i beni (quelli veri) sono finiti nel magma su cui galleggiano le merci (comprese quelle usa e getta, senza valore) e «le cose sono diventate più importanti delle relazioni». Scenari più che allarmanti: entro il 2050, il 75% dell’umanità si ammasserà nelle aree urbane, 27 delle quali supereranno i venti milioni di abitanti, e qualcuna i trenta. Risultato: dipendenza totale dai servizi, nessuna capacità di procurarsi cibo. Mai l’umanità è stata così vulnerabile. Milioni di persone (miliardi) lavorano in modo cieco, per servizi alienanti e prodotti di dubbia utilità, che non controlleranno mai. Pallante richiama l’attenzione sui monasteri medievali, vere e proprie “aziende” per comunità autosufficienti, a chilometri zero. «Se il lavoro che svolgi risponde davvero a un bisogno umano, questo attenua il disagio, riduce la fatica e migliora il rendimento, la comunicazione, la qualità della vita».Coi politici, è un dialogo tra sordi: non uno di loro rinuncia a parlare, ancora, di “crescita”. E’ un tragico equivoco: l’impennarsi del Pil è fatto anche di rifiuti, gas di scarico, auto in coda, case-colabrodo non protette dal freddo. Oggi, “crescita” è esattamente l’opposto di “progresso”. In più, ormai anche il mitico Pil sta franando. «Se la causa della crisi è la crescita, tutti i tentativi di superare la crisi rimettendo in moto la crescita sono destinati a fallire: non si può risolvere un problema aggravando le cause che l’hanno generato». La grande eresia della decrescita – ridurre gli sprechi velenosi, per pesare meno sulla Terra e vivere meglio, impedendo alla grande crisi di travolgerci – si sta facendo faticosamente strada, “aiutata” dal disastro che avanza: collasso energetico, climatico, economico-finanziario. Spesso, chi invoca una svolta sovranista e democratica per opporsi all’oligarchia del super-potere trascura il quadro mondiale, vicino all’implosione per raggiunti limiti di espansione e saturazione delle capacità di consumo. Intanto, cresce una foresta silenziosa di individui e gruppi, decisi a resistere ma non ancora rappresentati. Se il “monastero” potesse anche votare, e dotarsi di propri portavoce, probabilmente la “rivoluzione dolce” potrebbe davvero cominciare, col necessario sostegno di politiche strategiche, capaci di rilanciare l’occupazione “utile”: l’unica possibile, quella del futuro.(Il libro: Maurizio Pallante, “Monasteri del terzo millennio”, Lindau, 176 pagine, 13 euro).Ora che tutto sta crollando, meglio si intende la strana lingua degli eretici. Lo spettacolo aiuta a comprendere: l’economia in recessione, la frana del Pil, l’assurdità lunare delle “grandi opere inutili” e la catastrofica impresentabilità di una politica ridotta a balbettare rottami di dogmi. Sono solo appunti sotto dettatura, sillabati da un mainstream autistico e pilotato dalle grandi lobby coi loro economisti di complemento, i profeti disonesti del rigore altrui. Di fronte al crollo storico del mito progressivo dello sviluppo – “comunque vada, il futuro sarà migliore” – la scena critica è dominata da due approcci paralleli e complementari: il primo è quello di chi sostiene la necessità di dare innanzitutto battaglia, per impedire a una minoranza “golpista” di rovinare milioni di cittadini. Il secondo schieramento, nel quale milita da decenni un intellettuale come Maurizio Pallante, all’analisi dei rapporti di forza (lo scontro sociale) preferisce lo sguardo lungo, la prospettiva culturale, il mondo che verrà.
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Destinazione Italia, grande svendita del nostro paese
“Aprire l’Italia ai capitali e ai talenti del mondo”, così si apre la pagina destinazioneitalia.gov.it dedicata alla “consultazione popolare” che chiede ai cittadini di integrare le 50 misure del Piano Destinazione Italia, approvato dal governo Letta il 13 settembre scorso e presentato, ancor prima che al Parlamento e alle parti sociali, al gotha finanziario di Wall Street. Se non fosse che le misure indicate nel piano comporteranno nuove pesanti ricadute sociali per la popolazione italiana, il documento potrebbe essere definito esilarante. Come quando (misura 49) si dice: «Gli italiani che lavorano, insegnano e studiano all’estero sono i primi ‘Ambasciatori dell’Italia nel mondo’ e possono contribuire a raccontare l’Italia in modo nuovo». Mentre rimaniamo in spasmodica attesa di questi straordinari racconti, accontentiamoci per ora di sapere che, per gli studenti e i ricercatori italiani all’estero (cervelli in fuga da un paese impossibile), verrà attivato il programma di sensibilizzazione “V.I.P – Volunteer for Italy’s Promotion” per propagandare oltre frontiera il brand Italia.Ma aldilà dell’umorismo, il Piano Destinazione Italia è un documento “strategico” con l’obiettivo, attraverso una serie di riforme, di rendere il paese un luogo attraente per i grandi investimenti finanziari dall’estero. Attraverso quali misure? Il Piano Destinazione Italia prevede alcuni provvedimenti “quadro”, dai quali si comprende subito dove si voglia andare a parare: la svendita dei diritti e dei beni comuni. Infatti, si prevedono, per investimenti oltre una certa soglia, accordi fiscali particolari (misura 1), la radicale modifica della conferenza dei servizi sulle grandi opere (misura 2), accordi specifici in materia di condizioni di lavoro, come quello già approvato per Expo 2015 (misura 4), completa liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica e del gas (misura 12). Conseguentemente a questi passaggi, l’Italia, a quel punto irresistibilmente sexy, può mettere in vendita le sue grazie.La seconda parte del piano si intitola infatti “Un Paese che valorizza i propri asset” e prevede: un piano di privatizzazioni di società direttamente o indirettamente controllate dallo Stato e un piano di privatizzazione e accorpamento in grandi mutiutility dei servizi pubblici locali (misura 17); un piano di rivitalizzazione del mercato borsistico attraverso il collocamento delle piccole e medie imprese (misura 19); l’affidamento a privati della gestione dei beni culturali (misura 23); la dismissione dei beni demaniali (misura 24); la totale liberalizzazione del mercato immobiliare (misure 25-29); la consegna della formazione e della ricerca universitaria agli investimenti delle imprese (misure 30-32); il rilancio delle grandi opere infrastrutturali, i cui relativi investimenti verranno esclusi dai vincoli del Patto di Stabilità (misura 36); l’abrogazione (misura 40) dei procedimenti di Via (Valutazione di Impatto Ambientale), Vas (Valutazione Ambientale Strategica) e Aia (Autorizzazione Integrata Ambientale); la valorizzazione della green economy, attraverso lo sviluppo dei biocarburanti e della chimica verde, la termovalorizzazione dei rifiuti e la modernizzazione (leggi privatizzazione) del servizio idrico (misura 43).Siamo di fronte ad un vero e proprio piano di svendita del paese, attraverso la drastica riduzione dei diritti sociali e del lavoro, la consegna dei beni comuni ai mercati finanziari, la privatizzazione di ogni funzione pubblica e la prostituzione dell’intelligenza collettiva. Il tutto per rispondere ai diktat monetaristi di un’Europa in mano ai grandi interessi finanziari, che, attraverso le catene imposte col Trattato di Maastricht e con lo shock, creato ad arte, del debito pubblico, ha deciso, tra i profitti in Borsa delle grandi multinazionali e la vita delle persone, di scegliere senza ombra di dubbio, i primi. In pratica, e all’unico scopo di perpetuare il capitalismo finanziarizzato, si è deciso di dichiarare una vera e propria guerra alla società, basata sulla trappola del debito pubblico e sul mantra “i soldi non ci sono”, da contrapporre ad ogni rivendicazione sociale. Tanto più contro un paese che, solo due anni fa, ha osato, con la straordinaria vittoria referendaria sull’acqua, mettere in discussione il pensiero unico del mercato e l’ideologia del “privato è bello”, affermando a maggioranza assoluta la volontà di riappropriazione sociale dell’acqua, dei beni comuni e della democrazia.A quel paese va detto ora e a chiare lettere che, se anche fosse vero che “privato” non è bello, privato è in ogni caso obbligatorio e ineluttabile. È in questo quadro che avanza a livello istituzionale il tentativo di mettere mano alla Costituzione, permettendone, come recentemente affermato dalla banca d’affari Jp Morgan, la sua “modernizzazione”, attraverso la progressiva espunzione di tutti i richiami alla cultura antifascista, socialista ed egualitaria, di cui sarebbe ancora intrisa. D’altronde, come conciliare le politiche di feroce austerità, di spoliazione dei diritti, di privatizzazione dei beni comuni con il mantenimento di una Costituzione che quei diritti afferma, per quanto nel tempo ripetutamente violati? Serve una democrazia “austeritaria”, ovvero che usi l’autoritarismo per imporre le politiche di austerità e che risponda all’autolegittimazione del potere, quando quest’ultimo non possa più basarsi sul consenso.Oltre venti anni fa, il 2 giugno 1992, festa della Repubblica, lo yacht reale Britannia incrociava al largo dell’Argentario, con a bordo non principi e regine, né valletti o dame di compagnia, ma banchieri d’affari inglesi, banchieri italiani, boiardi e grand commis di Stato. L’evento venne organizzato da una società allora chiamata “British Invisibles”, una sorta di Confindustria delle imprese finanziarie che oggi raggruppa 150 aziende del settore sotto il nome di International Financial Services. Fra gli italiani che salirono a bordo del panfilo vi furono Beniamino Andreatta, dirigente dell’Eni e futuro ministro, Riccardo Galli, dirigente dell’Iri, Giulio Tremonti, allora ancora in veste di avvocato fiscalista, e soprattutto Mario Draghi, chiamato da Guido Carli alla Direzione Generale del Tesoro all’inizio del 1991, che si presentò come punto di riferimento italiano per la finanza internazionale. E così, tra un’orchestrina della Royal Navy e un lancio di paracadutisti, che scesero come stelle filanti intorno al panfilo di Sua Maestà, prese il via la stagione delle privatizzazioni italiane. Oggi, senza bisogno di salire a bordo di un fastoso quanto pittoresco panfilo reale, bensì occupando le grigie stanze di un governo di “larghe intese e zero consenso”, il premier Enrico Letta ci ripropone lo stesso scenario e un nuovo mastodontico processo di dismissione del paese. Dobbiamo impedirlo.(Marco Bersani, “Destinazione Italia: povertà”, intervento pubblicato dal sito di “Attac” e ripreso da “Megachip” il 25 novembre 2013).“Aprire l’Italia ai capitali e ai talenti del mondo”, così si apre la pagina destinazioneitalia.gov.it dedicata alla “consultazione popolare” che chiede ai cittadini di integrare le 50 misure del Piano Destinazione Italia, approvato dal governo Letta il 13 settembre scorso e presentato, ancor prima che al Parlamento e alle parti sociali, al gotha finanziario di Wall Street. Se non fosse che le misure indicate nel piano comporteranno nuove pesanti ricadute sociali per la popolazione italiana, il documento potrebbe essere definito esilarante. Come quando (misura 49) si dice: «Gli italiani che lavorano, insegnano e studiano all’estero sono i primi ‘Ambasciatori dell’Italia nel mondo’ e possono contribuire a raccontare l’Italia in modo nuovo». Mentre rimaniamo in spasmodica attesa di questi straordinari racconti, accontentiamoci per ora di sapere che, per gli studenti e i ricercatori italiani all’estero (cervelli in fuga da un paese impossibile), verrà attivato il programma di sensibilizzazione “V.I.P – Volunteer for Italy’s Promotion” per propagandare oltre frontiera il brand Italia.
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Liberarsi dall’euro, non-moneta fraudolenta e totalitaria
La nostra maledizione? Si chiama euro. «Più che una moneta, è un metodo di governo occulto, elitario, illegittimo, autoritario e antidemocratico». Una minaccia «che divide, anziché unire i popoli europei, col terrorismo della miseria (fuori dall’euro) e la promessa della prosperità (dentro l’euro)». Un mito, «falsificato in diverse varianti, a seconda della realtà socio-economica interna di ciascun paese». L’inizio della fine? Lo storico divorzio tra governi e banche centrali, dove queste ultime hanno cessato di fungere da “bancomat” degli Stati per sostenere la spesa pubblica. Di qui le “riforme strutturali” che prevedono stangate fiscali e misure recessive, privatizzazioni dei servizi, devastazione del lavoro con flessibilità, precarizzazione e licenziamenti facili. Era un piano preciso: togliere ossigeno agli Stati, azzoppando le economie democratiche a vantaggio delle élite. Lo spread? «Chiaramente pilotato dalla Bce, come “clava di ultima istanza” per costringere i governi periferici a imporre l’amara medicina».Obiettivo: smantellare lo Stato democratico – garante dei cittadini – per privatizzare tutto, a beneficio di pochi ricchissimi. E tutto questo, osserva Alberto Conti su “Megachip”, grazie a un alibi come il «falso dogma dell’indipendenza della politica monetaria ai fini della stabilità». Così, si è formata l’euro-burocrazia al servizio delle lobby economico-finanziarie, che di fatto si arrogano il diritto d’interpretare il processo di unificazione europea, «falsamente presentato con la persuasiva immagine progressista dei padri fondatori di un sogno, che in realtà si è trasformato in un incubo», soprattutto per paesi come l’Italia. Col maturare della crisi, «l’euro mostra sempre più la sua vera natura di moneta fraudolenta, con la funzione di idrovora della ricchezza pompata dal basso verso l’alto». Ma la cosa peggiore è che questi falsi ideologici «alimentano odio e false contrapposizioni d’interesse tra i popoli, in nome della “competitività nei liberi mercati”, senza mai specificare se fisici o finanziari, in una logica di commistione diabolica dove per salvare gli uni occorre distruggere gli altri».Che l’euro sia una non-moneta, continua Conti, lo testimonia il suo disegno strutturale fin dalla nascita (Maastricht, Bundesbank, Deutsche Bank), i cui esiti nefasti si stanno manifestando dopo poco più di un decennio dalla sua entrata in vigore, precipitati e aggravati dalla crisi finanziaria globale che ha il suo epicentro a Wall Street. Basta un raffronto dell’euro col dollaro – i debiti sovrani europei e quello federale Usa – per capire le analogie e le differenze della “nostra” (si fa per dire) moneta con quella di riferimento globale, cioè il dollaro di Bretton Woods, dal 1971 divenuto «la principale arma di contrapposizione ostile e violenta dell’impero col resto del mondo». Quanto all’euro, «da promessa di simbolo e motore economico dell’Unione Europea», si è presto rivelato essere il suo esatto opposto, cioè «strumento di prevaricazione di pochi sempre più ricchi sulle masse impoverite». Una vera «forza disgregatrice dell’Unione Europea, dopo i primi illusori anni». La catastrofe della periferia, però, è di tali proporzioni da travolgere di seguito anche il centro, che però un risultato lo ha comunque ottenuto: consolidare l’economia della Germania riunificata, “stabilizzando” un alleato strategico degli Usa.«Si pronuncia euro, copyright della Bce, ma si legge “potere della finanza globale neoliberista”», realizzato «attraverso la longa manus di un sistema bancario privatizzato e asservito agli interessi dell’élite, come già le corporation che monopolizzano i mercati fisici e il sistema mediatico che disinforma e addormenta le masse». Dunque, che fare? Abbattere questo “mostro” o riformarlo, mettendolo al servizio dei popoli? Per Conti, «la natura non riformabile di questa sovrastruttura tecno-politica può pur sempre trasfigurare in positivo semplicemente abrogandone la sua caratteristica principale, il totalitarismo progressivamente istituzionalizzato, cioè il fatto di essere una “moneta unica” non nel senso che è comune (10 paesi dell’Ue non l’hanno mai adottata), ma nel senso che non ammette altre valute là dove invece è stata introdotta nel 2000». Tecnicamente basterebbe aggiungere in ogni paese dell’Eurozona una nuova moneta nazionale (Euro-lira, Euro-marco, Euro-pesetas), inizialmente nel rapporto 1:1 con l’euro; la nuova moneta sostituirebbe quella della Bce per la fiscalità e i pagamenti interni al paese, lasciando all’euro la funzione di pagamento nelle transazioni tra paesi diversi. Decisivo il rapporto dei cambi: andrebbe aggiornato periodicamente «sotto il controllo di un nuovo Parlamento Europeo, finalmente dotato della dignità di un vero governo di competenza strettamente confederale, che governa la Bce collegialmente».Questa misura, per avere il successo sperato e traghettare l’Europa fuori dalla crisi, dovrebbe essere accompagnata da un decalogo di cambiamento radicale. Mai più cessioni improprie di sovranità nazionale, a cominciare da quella monetaria interna. Mai più obbedienza cieca, sotto ricatto, ai diktat del circo della finanza globalizzata. Mai più salvataggi pubblici dei crack degli speculatori privati, grandi o piccoli. Mai più la primazia del profitto privato sulla difesa del lavoro. Mai più il contrasto alla recessione con misure recessive. E mai più libera circolazione di merci e capitali contro gli equilibri e gli interessi leciti dell’economia locale. Inoltre, aggiunge Conti, bisognerebbe bloccare gli attacchi speculativi eterodiretti alla valuta nazionale, impedire che i “debiti sovrani” finiscano fuori controllo. Mai più interferenze delle lobby, le grandi mafie che oggi dettano ai governi le misure da infliggere ai cittadini. Obiettivo possibile, a patto che risorga lo Stato democratico come “attore dell’economia”, con «funzioni di stimolo e di controllo sistemico». Dalla dignità dello Stato dipende quella dei cittadini, quindi la democrazia: serve «una forte volontà politica» per globalizzare i diritti, verso un futuro di pace che ci liberi dall’incubo.La nostra maledizione? Si chiama euro. «Più che una moneta, è un metodo di governo occulto, elitario, illegittimo, autoritario e antidemocratico». Una minaccia «che divide, anziché unire i popoli europei, col terrorismo della miseria (fuori dall’euro) e la promessa della prosperità (dentro l’euro)». Un mito, «falsificato in diverse varianti, a seconda della realtà socio-economica interna di ciascun paese». L’inizio della fine? Lo storico divorzio tra governi e banche centrali, dove queste ultime hanno cessato di fungere da “bancomat” degli Stati per sostenere la spesa pubblica. Di qui le “riforme strutturali” che prevedono stangate fiscali e misure recessive, privatizzazioni dei servizi, devastazione del lavoro con flessibilità, precarizzazione e licenziamenti facili. Era un piano preciso: togliere ossigeno agli Stati, azzoppando le economie democratiche a vantaggio delle élite. Lo spread? «Chiaramente pilotato dalla Bce, come “clava di ultima istanza” per costringere i governi periferici a imporre l’amara medicina».