Archivio del Tag ‘disoccupazione’
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Renzi? Bugiardo e pericoloso: ha troppi padroni potenti
«Matteo Renzi è un mentitore pericoloso», taglia corto Pino Cabras su “Megachip”. «Ha illuso milioni di elettori con la narrazione del Rottamatore, ma ha rottamato solo chi gli si opponeva, imbarcando ogni genere di boss e sotto-boss nella sua scalata». Una lunga sequenza di menzogne: aveva «dichiarato solennemente di non voler andare a Palazzo Chigi senza legittimazione popolare», mentre ora – abbattendo Letta – disegna il nuovo scenario «con un Parlamento eletto con una legge incostituzionale», peraltro peggiorata con l’aiuto del Cavaliere, «con il quale – altra bugia per prendere i voti – diceva che non si potevano mai fare accordi». Il nuovo capo del Pd tradisce sistematicamente chi gli ha dato fiducia? «Certo, Renzi ha un disegno. Ma questo disegno non è nelle mani di alcuno che gli abbia dato fiducia dal basso. È nelle mani dei veri potenti che detengono le cambiali politiche che Renzi ha firmato durante la fase ascendente della sua parabola». E gli “azionisti” di Renzi non sono soltanto italianiQuando negli anni ‘80 Michael Ledeen varcava l’ingresso del dipartimento di Stato, ricorda Franco Fracassi su “Popoff”, chiunque avesse dimestichezza con il potere di Washington sapeva che si trattava di una finta: quello, per lo storico di Los Angeles, rappresentava solo un impiego di facciata, per nascondere il suo reale lavoro. E cioè: consulente strategico per la Cia e per la Casa Bianca. «Ledeen è stato la mente della strategia aggressiva nella Guerra Fredda di Ronald Reagan, è stato la mente degli squadroni della morte in Nicaragua, è stato consulente del Sismi negli anni della Strategia della tensione, è stato una delle menti della guerra al terrore promossa dall’amministrazione Bush, oltre che teorico della guerra all’Iraq e della potenziale guerra all’Iran, è stato uno dei consulenti del ministero degli Esteri israeliano. Oggi – aggiunge Fracassi – Michael Ledeen è una delle menti della politica estera del segretario del Partito democratico Matteo Renzi».Forse è stato anche per garantirsi la futura collaborazione di Ledeen che l’allora presidente della Provincia di Firenze si recò nel 2007 al dipartimento di Stato Usa «per un inspiegabile tour». Non è un caso, continua Fracassi, che il segretario di Stato Usa John Kerry abbia più volte espresso giudizi favorevoli nei confronti di Renzi. Ma sono principalmente i neocon ad appoggiare Renzi dagli Stati Uniti. Secondo il “New York Post”, ammiratori del sindaco di Firenze sarebbero gli ambienti della destra repubblicana, legati alle lobby che lavorano per Israele e per l’Arabia Saudita. «In questa direzione vanno anche il guru economico di Renzi, Yoram Gutgeld, e il suo principale consulente politico, Marco Carrai, entrambi molti vicini a Israele». Carrai, scrive Fracassi, ha addirittura propri interessi in Israele, dove si occupa di venture capital e nuove tecnologie. «Infine, anche il suppoter renziano Marco Bernabè ha forti legami con Tel Aviv, attraverso il fondo speculativo Wadi Ventures». Suo padre, Franco Bernabè, fino a pochi anni fa è stato «arcigno custode delle dorsali telefoniche mediterranee che collegano l’Italia a Israele».Forse aveva ragione l’ultimo cassiere dei Ds, Ugo Sposetti, quando disse: «Dietro i finanziamenti milionari a Renzi c’è Israele e la destra americana». O perfino Massimo D’Alema, che definì Renzi il terminale di «quei poteri forti che vogliono liquidare la sinistra». Dietro Renzi, continua Fracassi, ci sono anche i poteri forti economici, a partire dalla Morgan Stanley, una delle banche d’affari responsabile della crisi mondiale. «Davide Serra entrò in Morgan Stanley nel 2001, e fece subito carriera, scalando posizioni su posizioni, in un quinquennio che lo condusse a diventare direttore generale e capo degli analisti bancari». Una carriera, quella del giovane broker italiano, punteggiata di premi e riconoscimenti per le sue abilità di valutazione dei mercati. «In quegli anni trascorsi dentro il gruppo statunitense, Serra iniziò a frequentare anche i grandi nomi del mondo bancario italiano, da Matteo Arpe (che ancora era in Capitalia) ad Alessandro Profumo (Unicredit), passando per l’allora gran capo di Intesa-San Paolo Corrado Passera».Nel 2006 Serra decise tuttavia che era il momento di spiccare il volo. E con il francese Eric Halet lanciò Algebris Investments. Già nel primo anno Algebris passò da circa 700 milioni a quasi due miliardi di dollari gestiti. L’anno successivo Serra, con il suo hedge fund, lanciò l’attacco al colosso bancario olandese Abn Amro, compiendo la più importante scalata bancaria d’ogni tempo. Poi fu il turno del banchiere francese Antoine Bernheim a essere fatto fuori da Serra dalla presidenza di Generali, permettendo al rampante finanziere di mettere un piede in Mediobanca. Definito dall’ex segretario Pd Pier Luigi Bersani «il bandito delle Cayman», Serra oggi ha quarantatré anni, vive nel più lussuoso quartiere di Londra (Mayfair), fa miliardi a palate scommettendo sui ribassi in Borsa (ovvero sulla crisi) ed è «il principale consulente finanziario di Renzi, nonché suo grande raccoglietore di denaro, attraverso cene organizzate da Algebris e dalla sua fondazione Metropolis».E così, nell’ultimo anno il gotha dell’industria e della finanza italiane si è schierato dalla parte di Renzi. A cominciare da Fedele Confalonieri che, riferendosi al sindaco di Firenze, disse: «Non saranno i Fini, i Casini e gli altri leader già presenti sulla scena politica a succedere a Berlusconi, sarà un giovane». Poi venne Carlo De Benedetti, con il suo potentissimo gruppo editoriale Espresso-Repubblica («I partiti hanno perduto il contatto con la gente, lui invece quel contatto ce l’ha»). E ancora, Diego Della Valle, il numero uno di Vodafone Vittorio Colao, il fondatore di Luxottica Leonardo Del Vecchio e l’amministratore delegato Andrea Guerra, il presidente di Pirelli Marco Tronchetti Provera con la moglie Afef, l’ex direttore di Canale 5 Giorgio Gori, il patron di Eataly Oscar Farinetti, Francesco Gaetano Caltagirone, Cesare Romiti, Martina Mondadori, Barbara Berlusconi, il banchiere Claudio Costamagna, il numero uno di Assolombarda Gianfelice Rocca, il patron di Lega Coop Giuliano Poletti, Patrizio Bertelli di Prada e Fabrizio Palenzona di Unicredit.Fracassi cita anche il Monte dei Paschi di Siena, collegato al leader del Pd attraverso il controllo della Fondazione Montepaschi gestita dal renziano sindaco di Siena Bruno Valentini. Con Renzi anche l’amministratore delegato di Mediobanca, Albert Nagel, erede di Cuccia nell’istituto di credito. «Proprio sul giornale controllato da Mediobanca, il “Corriere della Sera”, da sempre schierato dalla parte dei poteri forti, è arrivato lo scoop su Monti e Napolitano, sui governi tecnici. Il “Corriere” ha ripreso alcuni passaggi dell’ultimo libro di Alan Friedman, altro uomo Rcs. Lo scoop ha colpito a fondo il governo Letta e aperto la strada di Palazzo Chigi a Renzi». Fracassi conclude citando il defunto segretario del Psi, Bettino Craxi, che diceva: «Guarda come si muove il “Corriere” e capirai dove si va a parare nella politica».Gad Lerner, recentemente, ha detto: «Non troverete alla Leopolda i portavoce del movimento degli sfrattati, né le mille voci del Quinto Stato dei precari all’italiana. Lui (Renzi) vuole impersonare una storia di successo. Gli sfigati non fanno audience». Ormai è tardi per tutto: il Pd – già in coma, da anni – si è completamente arreso all’ex Rottamatore. «Dove mai andrà il “voto utile” in mano a Renzi? In quale manovra di palazzo, in quale strategia dell’alta finanza verrebbe bruciato? In quale menzogna da Piano di rinascita democratica?», si domanda Pino Cabras. «Ogni complicità con il nuovo Sovversore dall’alto diventa intollerabile ogni minuto di più». Fine della cosiddetta sinistra italiana. Fuori tempo massimo, ora, «in tanti saranno costretti ad aprire gli occhi, e a comprendere la differenza fra militanti e militonti. Ma hanno riflessi troppo lenti. La riscossa – a trent’anni dalla morte di Enrico Berlinguer – passerà da altre parti».«Matteo Renzi è un mentitore pericoloso», taglia corto Pino Cabras su “Megachip”. «Ha illuso milioni di elettori con la narrazione del Rottamatore, ma ha rottamato solo chi gli si opponeva, imbarcando ogni genere di boss e sotto-boss nella sua scalata». Una lunga sequenza di menzogne: aveva «dichiarato solennemente di non voler andare a Palazzo Chigi senza legittimazione popolare», mentre ora – abbattendo Letta – disegna il nuovo scenario «con un Parlamento eletto con una legge incostituzionale», peraltro peggiorata con l’aiuto del Cavaliere, «con il quale – altra bugia per prendere i voti – diceva che non si potevano mai fare accordi». Il nuovo capo del Pd tradisce sistematicamente chi gli ha dato fiducia? «Certo, Renzi ha un disegno. Ma questo disegno non è nelle mani di alcuno che gli abbia dato fiducia dal basso. È nelle mani dei veri potenti che detengono le cambiali politiche che Renzi ha firmato durante la fase ascendente della sua parabola». E gli “azionisti” di Renzi non sono soltanto italiani.
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Democrazia superflua, nel regime dei signori del Ttip
Un trattato-capestro, da imporre a un’Europa disperata perché devastata dalla crisi. E’ questa la premessa su cui sia gli Usa che l’Unione Europea sperano di concludere entro due anni i negoziati segreti per il Trattato Transatlantico. Obiettivo: assoggettare i governi, per legge, ai diktat delle multinazionali, con un liberismo ancora più sfrenato di quello del Wto. Vantaggi smisurati, però, solo per le grandi multinazionali: i rari studi dedicati alle conseguenze del Ttip non dicono nulla sulle sue reali ricadute sociali ed economiche. Si narra che il trattato darà alla popolazione del mercato transatlantico un aumento di ricchezza di 3 centesimi pro-capite al giorno «a partire dal 2029», mentre si valuta di appena lo 0,06% l’aumento del Pil in Europa e negli Usa con l’entrata in vigore del Ttip. Un risultato ridicolo, per chi ripete il libero scambio «dinamizza» la crescita economica. Teoria regolarmente confutata dai fatti: la quinta versione dell’iPhone di Apple ha generato negli Stati Uniti una crescita del Pil otto volte più importante.Il boccone grosso del Trattato, infatti, è un altro: costringere gli Stati a farsi da parte, lasciando che a dettar legge – ufficialmente – siano i colossi dell’economia mondiale, a cominciare da quelli della finanza. Appena cinque anni dopo l’esplosione della crisi dei subprime, americani ed europei sono d’accordo sul fatto che le velleità di regolamentazione dell’industria finanziaria hanno fatto il loro tempo: il quadro che vogliono delineare, attraverso il nuovo Trattato Transatlantico, il devastante dispositivo legale destinato a sconvolgere lo scenario europeo e la residua libertà dei nostri Stati, prevede di eliminare tutti gli ostacoli in materia di investimenti a rischio. Vogliono impedire ai governi di controllare il volume, la natura e l’origine dei prodotti finanziari messi sul mercato, cancellando ogni tipo di regolamentazione. Secondo Lori Wallach, che dirige il Public Citizen’s Global Trade Watch di Washington, questo «stravagante ritorno alle vecchie idee thatcheriane» risponde ai desideri dell’associazione delle banche tedesche, inquieta per la timida riforma di Wall Street adottata dopo il 2008.La Deutsche Bank ora vuole «farla finita con la regolamentazione Volcker», chiave di volta della riforma di Wall street, che a suo avviso sovraccarica un «peso troppo grave sulle banche non statunitensi». Quello della Deutsche Bank, scrive Lori Wallach su “Le Monde Diplomatique”, è il volto feroce della finanza europea, quella dell’euro-regime, pienamente allinenata con quella statunitense. Fa eco Insurance Europe, punta di lancia delle società assicurative europee: la compagnia auspica che il Ttip, il Trattato Transatlantico che si sta chiudendo lontano dai riflettori, «sopprima» le garanzie collaterali che dissuadono il settore dall’avventurarsi negli investimenti ad alto rischio. Quanto al Forum dei Servizi Europei, l’organizzazione padronale di cui fa parte la Deutsche Bank, si agita dietro le quinte affinché le autorità di controllo statunitensi cessino di ficcare il naso negli affari delle grandi banche straniere operanti sul loro territorio.«Da parte degli Usa – aggiunge la Wallach – si spera soprattutto che il Ttip affossi davvero il progetto europeo di tassare le transazioni finanziarie». La Commissione Europea, ovviamente, darà il via libera: infatti si è già affrettata a giudicare «non conforme alle regole del Wto» la tassa sulle rendite finanziarie. E dato che lo stesso Fmi si oppone a qualunque forma di controllo sui movimenti di capitali, ormai negli Stati Uniti la debole “Tobin tax” non preoccupa più nessuno. Ma le sirene della deregolamentazione non si fanno ascoltare solo nell’industria finanziaria. Il Ttip intende aprire alla concorrenza tutti i settori «invisibili» e di interesse generale. Gli Stati firmatari si vedranno costretti non soltanto a sottomettere i loro servizi pubblici alla logica del mercato, ma anche a rinunciare a qualunque intervento sui fornitori stranieri di servizi che ambiscono ai loro mercati. I margini politici di manovra in materia di sanità, energia, educazione, acqua e trasporti si ridurrebbero progressivamente. La febbre commerciale non risparmia nemmeno l’immigrazione, poiché gli istigatori del Ttip si arrogano il potere di stabilire una politica comune alle frontiere – senza dubbio per facilitare l’ingresso di un bene o un servizio da vendere, a svantaggio degli altri.A Washington, si crede che i dirigenti europei siano «pronti a qualunque cosa, pur di ravvivare una crescita economica moribonda, anche a costo di rinnegare il loro patto sociale». L’argomento dei promotori del Ttip, secondo cui il libero scambio deregolamentato faciliterebbe i commerci e sarebbe dunque creatore di impieghi, apparentemente ha maggior peso del timore di uno scisma sociale. Le barriere doganali che sussistono ancora tra l’Europa e gli Stati Uniti sono tuttavia già «abbastanza basse», come riconosce il rappresentante statunitense al commercio. I fautori del Ttip ammettono che il loro principale obiettivo non è quello di alleggerire i vincoli doganali, comunque insignificanti, ma di imporre «l’eliminazione, la riduzione e la prevenzione di politiche nazionali superflue», dal momento che viene considerato “superfluo” «tutto ciò che rallenta la circolazione delle merci, come la regolazione della finanza, la lotta contro il riscaldamento climatico o l’esercizio della democrazia».Pressoché tutti gli studi sul Ttip sono stati finanziati da istituzioni favorevoli al libero scambio o da organizzazioni imprenditoriali: per questo, osserva ancora Lori Wallach, «i costi sociali del trattato non appaiono mai, così come le sue vittime dirette, che potrebbero tuttavia ammontare a centinaia di milioni». Ma i giochi non sono ancora conclusi. E, come hanno mostrato le disavventure di analoghi trattati e alcuni cicli negoziali del Wto, «l’utilizzo del “commercio” come cavallo di Troia per smantellare le protezioni sociali e instaurare una giunta di incaricati d’affari, in passato ha fallito a più riprese». Nulla ci dice che non possa succedere anche stavolta, a patto però che – a partire dalle elezioni europee del prossimo maggio – la politica si svegli. Nel frattempo, anche in Italia, nessun leader di partito, in nessun telegiornale o talkshow, ha mai menzionato neppure per sbaglio il problema, cioè il nodo strategico su cui si gioca il nostro futuro.Un trattato-capestro, da imporre a un’Europa disperata perché devastata dalla crisi. E’ questa la premessa su cui sia gli Usa che l’Unione Europea sperano di concludere entro due anni i negoziati segreti per il Trattato Transatlantico. Obiettivo: assoggettare i governi, per legge, ai diktat delle multinazionali, con un liberismo ancora più sfrenato di quello del Wto. Vantaggi smisurati, però, solo per le grandi multinazionali: i rari studi dedicati alle conseguenze del Ttip non dicono nulla sulle sue reali ricadute sociali ed economiche. Si narra che il trattato darà alla popolazione del mercato transatlantico un aumento di ricchezza di 3 centesimi pro-capite al giorno «a partire dal 2029», mentre si valuta di appena lo 0,06% l’aumento del Pil in Europa e negli Usa con l’entrata in vigore del Ttip. Un risultato ridicolo, per chi ripete il libero scambio «dinamizza» la crescita economica. Teoria regolarmente confutata dai fatti: la quinta versione dell’iPhone di Apple ha generato negli Stati Uniti una crescita del Pil otto volte più importante.
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Polveriera Europa, replay: la Grande Guerra del 2014
I giornalisti internazionali hanno predetto un’archetipica “situazione Sarajevo” per quest’anno. Una scintilla che potrebbe causare una detonazione come quella che circa un secolo fa vedeva protagonista l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Difficilmente accadrà anche quest’anno che un nazionalista radicale spari al successore al trono dell’impero; nonostante ciò, esistono oggi una serie di sconvolgimenti potenziali in Europa e altrove. Esaminiamo la situazione. La Germania, “fortezza economica” dell’Europa, sembra essere entrata in un periodo di incertezze, proprio come prima dello scoppio della “grande guerra”. All’inizio del nuovo anno, la caduta improvvisa della cancelliera tedesca (forse un presagio della rottura dell’Eurozona?) è stato un evento infausto. La signora Merkel, che appariva come una figura politica indebolita (anche a causa delle stampelle), è riuscita ad assemblare una “grande coalizione”, la cui durata è incerta.La diseguaglianza sociale ed economica nel paese è peggiorata, con la Merkel. Ma anche prima del piccolo incidente sportivo, la cancelliera non sembrava disposta a fare grandi passi (come spesso accade nella miglior tradizione autoritaria ereditata da Guglielmo di Prussia e Germania) e aveva già indicato un “erede al trono”, per assicurare stabilità e continuità anche nel periodo post-Merkel. In altre parole, le politiche economiche neoliberali probabilmente continueranno ad essere applicate in Germania e in Europa per ancora un po’ di tempo. Il 2014 ripropone la situazione del 1914: una possibile Germania imperialista del XXI secolo; il declino della monarchia spagnola e una repubblica italiana fatiscente. Con la sua “volontà d’acciaio”, nel suo terzo mandato la cancelliera sembra determinata a proseguire le politiche draconiane di austerity (distruggendo ulteriormente la crescita economica e favorendo la disoccupazione). Questa scelta implica più fatica e meno guadagni per i milioni di persone che riceveranno questo trattamento, come ad esempio gli spagnoli.A differenza di Berlino e della sua calma apparente, la capitale spagnola si trova ad assistere a continue proteste. Nel frattempo, un vecchio re (a sua volta zoppo per una brutta caduta e costretto ad usare le stampelle per camminare) sta affrontando una “crisi della fiducia in se stesso”. Il re di Spagna Juan Carlos, la cui popolarità un tempo era il simbolo del ritorno alla democrazia dopo il regime franchista, sta assistendo ad una crescente ondata di proteste popolari. Il crescente dissenso della popolazione è fomentato da interminabili scandali dovuti ad episodi di corruzione. La figlia è attualmente coinvolta in uno scandalo per truffa e riciclaggio di denaro. Nel calderone, anche una costante crisi economica. La Spagna riuscì a rimanere neutrale allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.Nel 2014, il paese è ancora in prima linea nella lotta contro l’austerity in Europa. Il futuro della monarchia resta incerto. In tutto il Mediterraneo, il 2013 si è concluso con le strade invase da proteste, come ad esempio in Italia (una repubblica decrepita, se mai è stata una repubblica) con la “protesta dei forconi”. Come la Spagna, l’Italia è contaminata da una profonda corruzione, instabilità sociale, sistematica instabilità istituzionale (a causa delle associazioni criminali), che ostacolano il processo democratico. Ne consegue una diffusione di movimenti demagogici o clownesco-populistici e la crescente xenofobia. Il movimento anti-politico, da quelle parti, sta sfruttando l’ondata di rabbia contro Roma e Bruxelles (il quartier generale dell’Unione Europea).I Balcani, storica polveriera d’Europa, sono nuovamente pronti ad esplodere. Non ci saranno omicidi in programma forse per il prossimo anno nei Balcani, ma sicuramente troverete sul menù un radicale cambiamento politico. Gli scioperi di massa e i movimenti di protesta che sono scoppiati in Grecia nel 2008 si sono estesi agli stati del Sud dei Balcani. Le proteste di massa contro l’aumento del costo della vita, che ha raggiunto livelli usurari (sull’onda della privatizzazione di massa), e contro il costo dell’energia imposto ai consumatori locali, stavano per rovesciare il governo in Bulgaria. Nella vicina Romania, la corruzione dilagante e la lotta epica tra il movimento civile sociale e un’azienda mineraria canadese, sono quasi riusciti a scuotere le fondamenta del governo rumeno. Nonostante quest’elenco di situazioni esplosive, Bruxelles rifiuta ostinatamente di allentare le restrizioni connesse alla libertà di movimento imposta ai cittadini di questi due stati. Il loro ingresso nella “zona Schengen” è stato nuovamente rimandato a data da definirsi. Sicuramente una politica di contenimento di questo tipo sarà pericolosa nel 2014.Oltre ai confini meridionali d’Europa, troviamo ancora forti instabilità nel 2014, che ricordano misteriosamente le tensioni del 1914, quando stava per iniziare la guerra. La promessa di una benigna “primavera araba” si è trasformata in un incubo terribile. In Egitto, Tunisia, Libia, Yemen e, più recentemente, in Libano, si stanno sviluppando conflitti somiglianti a guerre civili. Nel caso della Siria, non è una somiglianza ma una tragica realtà. Questa instabilità regionale rischia di contagiare la Turchia (gli Stati Uniti chiudono le alleanze nella regione). A quei tempi la Turchia era senza dubbio il fulcro dell’Impero Ottomano che governava sulla maggior parte del Medio Oriente. Circa un secolo fa entrò sfortunatamente, già distrutta, nella “grande guerra”. Questo accelerò la sua rovina e condusse al genocidio armeno del 1915. Per quanto tempo ancora Ankara potrà stare a guardare, prima di essere risucchiata nel più ampio conflitto dei suoi vicini? Il 2014 probabilmente sarà determinante.Internamente la Turchia è afflitta da forti dissensi e scossa da continue proteste dal giugno scorso. Il dissenso popolare nei confronti dell’autoritarismo del primo ministro Ergodan non si è placato. La continua lotta tra il movimento laico (kemalista) e quello neo-islamico (e all’interno del partito Akp stesso, “Adalet ve Kalkinma Partisi”, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) rischia di distruggere lo stato turco nel 2014, con le modalità già sperimentate un secolo fa dall’Impero Ottomano. Il potere del governo ha inoltre subito un ulteriore indebolimento negli ultimi tempi a causa degli scandali per corruzione che hanno interessato i suoi vertici. La conseguente epurazione dei corpi di polizia e di pubblica sicurezza ha inasprito la situazione. La tregua con i ribelli curdi nelle zone orientali del paese rimane instabile. In ultimo, il tentativo della Turchia, ormai vecchio di decenni, di diventare un membro dell’Unione Europea, è essenzialmente congelato a causa della repressione contro attivisti e giornalisti locali. Quindi, come nel 2014, il paese è un calderone che galleggia nel mare di instabilità che caratterizza la regione.Passando all’Asia, troviamo crescenti movimenti di protesta in Thailandia, Cambogia e Bangladesh, o rivolte in corso contro le trincerate e corrotte oligarchie locali. Fino ad ora questi sollevamenti sono stati brutalmente repressi con l’ausilio delle forze militari. Chissà se gli eventi attuali saranno la scintilla di un’esplosione simile a quella del 1914. Probabilmente no. Tuttavia questi paesi emergenti sembrano essere nel mezzo di quella che io chiamo “situazione pre-rivoluzionaria”. Quello che vedremo accadere da queste parti nel 2014 somiglia moltissimo allo scenario della rivoluzione messicana (1910-1920), un decennio di dure lotte per liberarsi di quel regime corrotto conosciuto come “Porfiriato”. Se aggiungiamo a quanto detto il rischio di uno scontro militare tra i “grandi poteri” locali, siano essi in crescita o in crisi, così come accadeva nel 1914 (lo dimostra l’attuale ostentazione militare sulle contese Diaoyu e Tiaoyutai nel lontano oriente), si ha realmente l’impressione che la storia si ripeta ancora una volta.(Michael Werbowski, “La polveriera storica, il 2014 come il 1914 in Europa e nel mondo?”, da “Global Research” del 10 gennaio 2014, tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte”).I giornalisti internazionali hanno predetto un’archetipica “situazione Sarajevo” per quest’anno. Una scintilla che potrebbe causare una detonazione come quella che circa un secolo fa vedeva protagonista l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Difficilmente accadrà anche quest’anno che un nazionalista radicale spari al successore al trono dell’impero; nonostante ciò, esistono oggi una serie di sconvolgimenti potenziali in Europa e altrove. Esaminiamo la situazione. La Germania, “fortezza economica” dell’Europa, sembra essere entrata in un periodo di incertezze, proprio come prima dello scoppio della “grande guerra”. All’inizio del nuovo anno, la caduta improvvisa della cancelliera tedesca (forse un presagio della rottura dell’Eurozona?) è stato un evento infausto. La signora Merkel, che appariva come una figura politica indebolita (anche a causa delle stampelle), è riuscita ad assemblare una “grande coalizione”, la cui durata è incerta.
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Sole e vento non bastano: le rinnovabili sono un’illusione
Rinnovabili sì, ma anche convenienti? Purtroppo no, risponde Gail Tverberg, citando recenti studi internazionali: sole e vento non potranno mai sostituire petrolio, carbone e gas. E inoltre – altra sorpresa – l’attuale produzione industriale dei nuovi dispositivi energetici, come centrali eoliche e pannelli solari e fotovoltaici, viene sostenuta essenzialmente con l’energia fornita dal carbone, e con procedure altamente inquinanti. In altre parole, non è affatto certo che le “rinnovabili intermittenti” possano davvero ridurre le emissioni di anidride carbonica. Eccessiva, secondo Tverberg, l’aspettativa creata sull’energia verde: «Dopo sviariati anni in cui si è cercato di aumentare l’eolico e il solare fotovoltaico, nel 2012 l’eolico ammonta a poco meno dell’1% della fornitura mondiale di energia. Il solare a meno dello 0,2% dell’energia globale. Sarebbero necessari sforzi enormi per raggiungere il 5%». Grande problema: «L’eolico e il solare fotovoltaico tendono a essere più cari rispetto ad altri modi di generazione dell’elettricità».Se si incrementano le rinnovabili, scrive Tverberg su “Our Finite World” in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, le emissioni di CO2 aumentano. «Una delle ragioni è che questo fa incrementare l’economia cinese, grazie alle nuove attività necessarie per la produzione di turbine eoliche e pannelli solari, e per l’estrazione delle terre rare utilizzate in questi impianti. I benefici che la Cina ha dalle vendite relative alle rinnovabili sono tanti, e così potrà costruire nuove case, strade, scuole, e imprese per servire le nuove produzioni». Ma in Cina «la stragrande maggioranza della produzione viene fatta col carbone». La Cina è al centro della produzione mondiale delle rinnovabili, proprio per il fatto che usa il carbone, tuttora molto economico (e molto inquinante) come fonte energetica principale. «Le celle solari al silicone necessitano della cottura della roccia silicea in forni che superano i 3000 gradi, un qualcosa che può essere fatto a basso costo, col carbone».Rilevante il problema dell’inquinamento: «Se dovessimo incrementare l’eolico e il fotovoltaico di un fattore 10 (così da poter alimentare il 12% della fornitura mondiale, invece dell’1,2%) avremmo bisogno di una quantità gigantesca di terre rare e di altri minerali inquinanti, tra cui l’arsenide di gallio, il diselenide del rame, dell’indio e del gallio, e il telluride di cadmio, utilizzati nelle sottili pellicole fotovoltaiche». Sia le turbine eoliche che il solare fotovoltaico utilizzano, per la loro produzione, questi metalli speciali che vengono soprattutto dalla Cina. Le attività minerarie e la lavorazione di queste “terre rare” generano un’enorme quantità di “sottoprodotti radioattivi e pericolosi”. Nelle zone della Cina in cui vengono estratti questi minerali rari, la terra e le acque sono sature di sostanze tossiche, e ciò rende impossibile la coltivazione. E non possiamo aspettarci che la Cina si tenga per sé tutto questo inquinamento, osserva Tverberg: anche il resto del mondo avrà bisogno di produrre questi materiali tossici.«È probabile che molti paesi introdurranno rigidi controlli ambientali per avviare queste estrazioni. Questi controlli richiederanno un uso ancor maggiore di energia derivante dalle fonti fossili. Se anche i problemi ambientali verranno tenuti a freno, il maggiore utilizzo di fonti fossili farebbe probabilmente alzare le emissioni di CO2, oltre ai prezzi dell’eolico e del solare fotovoltaico». Sempre secondo Tverberg, viene fatta molta confusione sul fatto che l’eolico e il solare fotovoltaico possano davvero essere dei sostituti. «Possono sostituire l’elettricità, o sostituiscono il petrolio che produce elettricità? I costi del petrolio sono di solito solo una piccola parte dei costi della fornitura elettrica, e per questo è difficile che le rinnovabili possano raggiungere la parità di costo se dovessero solo sostituire i costi petroliferi». Ad esempio, «l’elettricità non può alimentare le auto di oggi, e non alimenterà trattori, o macchinari per l’edilizia, o velivoli. E anche se avessimo più elettricità, ciò non risolverebbe il nostro problema col petrolio».Un guaio innanzitutto economico: «I consumatori non possono permettersi elettricità ad alti costi, senza che il proprio livello di vita precipiti», dal momento che «gli stipendi non aumentano quando l’energia sale di prezzo, e quindi il reddito disponibile viene colpito duramente su tutti e due i fronti», sia per le famiglie che per lo Stato, sotto forma di tasse. Gli alti costi delle fonti alternative – sole e vento – fanno anche sì che «le merci destinate all’esportazione siano meno competitive sul mercato globale», indebolendo l’economia dei paesi ecologicamente “virtuosi”. Inoltre, se il vento in sé è assolutamente “rinnovabile”, non necessariamente hanno vita lunga gli impianti che lo sfruttano: una torre eolica funziona per 20-25 anni (contro i 40 delle centrali a carbone, a gas o nucleari) ma le turbine “lavorano” senza problemi solo alcuni anni, poi necessitano di costosa manutenzione, che nelle centrali off-shore richiede l’impiego di elicotteri.L’alto costo delle rinnovabili contraddice la storia dello sviluppo degli ultimi secoli, basato sulla disponibilità di energia a basso costo (carbone, petrolio e gas). «Cercare di sostituire un’energia economica con una costosa è come cercare di far andare l’acqua in salita: incrementare le rinnovabili potrebbe far avvicinare il collasso per i paesi che si stanno sempre più affidando a queste fonti energetiche». Per contro, sappiamo bene che il modello della “crescita” illimitata sta rendendo drammatica la crisi ecologica e climatica del pianeta. Che fare? Primo, non aspettarsi miracoli dalle fonti rinnovabili: «Anche se molte persone ci hanno fatto credere che l’eolico e il solare fotovoltaico risolveranno tutti i nostri problemi, tanto più si osserva da vicino la questione, tanto più diventa chiaro che l’eolico e il solare fotovoltaico, se aggiunti alla rete elettrica, sono parte del problema e non una soluzione». Secondo Tverberg, l’unica vera alternativa è l’abbandono dell’attuale modello di sviluppo, non importa con quale fonte energetica sia sostenuto. E quindi: «andare in direnzione di un’agricoltura locale, con i semi più adatti zona per zona», tagliando i trasporti. Riconvertire l’economia, impiegando disoccupati in agricoltura. E finanziare la ricerca, per rendere la terra più produttiva nel lungo termine. In altre parole: fare decrescita: cioè produrre meno, tagliando sprechi e inquinamento.Rinnovabili sì, ma anche convenienti? Purtroppo no, risponde la scienziata Gail Tverberg, citando recenti studi internazionali: sole e vento non potranno mai sostituire petrolio, carbone e gas. E inoltre – altra sorpresa – l’attuale produzione industriale dei nuovi dispositivi energetici, come centrali eoliche e pannelli solari e fotovoltaici, viene sostenuta essenzialmente con l’energia fornita dal carbone, e con procedure altamente inquinanti. In altre parole, non è affatto certo che le “rinnovabili intermittenti” possano davvero ridurre le emissioni di anidride carbonica. Eccessiva, secondo Tverberg, l’aspettativa creata sull’energia verde: «Dopo sviariati anni in cui si è cercato di aumentare l’eolico e il solare fotovoltaico, nel 2012 l’eolico ammonta a poco meno dell’1% della fornitura mondiale di energia. Il solare a meno dello 0,2% dell’energia globale. Sarebbero necessari sforzi enormi per raggiungere il 5%». Grande problema: «L’eolico e il solare fotovoltaico tendono a essere più cari rispetto ad altri modi di generazione dell’elettricità».
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Schiavi o disoccupati: è l’unica scelta che ci concedono
Schiavitù o disoccupazione, prendere o lasciare. Nel passaggio da “Fabbrica Italia” al “modello Electrolux”, accusa Eugenio Orso, si compie «la privatizzazione della disperazione sociale – fra le masse immemori dell’antica ed estinta lotta di classe – con il supporto decisivo dei media, di economisti e intellettuali, della politica collaborazionista nel semi-Stato italiano e dalle centrali sindacali al servizio del neocapitalismo». E si compie il passaggio dal lavoro ancora umano, oggetto di tutele e rapportato alla persona, al mero fattore-lavoro neocapitalistico, che non può avere alcun diritto «perché concepito come un qualsiasi bene e servizio nel circuito produttivo». Un bene «disgiunto dal suo prestatore», perché «i lavoratori, in quanto tali, diventano delle non-persone. Non-persone come lo furono gli schiavi del mondo antico». “Oggetti animati” di cui è possibile liberarsi «chiudendo interi stabilimenti produttivi, se non si accettano inaccettabili (in altre epoche) riduzioni di paga».Qual è la ragione più profonda della passività sociale che caratterizza le masse pauperizzate italiane, paese in cui una famiglia su tre è ormai da considerarsi povera? E’ una passività che continua – o addirittura aumenta – mentre procedono spediti deindustrializzazione, taglio delle paghe e dei redditi, disoccupazione indotta. «La direzione di marcia così scontata che gli allarmi non suscitano ormai alcuna sorpresa, né possono provocare alcuna reazione di massa, dentro o fuori gli schemi politici e sindacali», scrive Orso in un intervento su “Pauperclass” ripreso da “Come Don Chisciotte”. Il ferale gennaio 2014 illumina una realtà deprimente con due eventi decisivi: la fine della vecchia Fiat e il brutale ricatto alla Electrolux, che in Veneto e Friuli vorrebbe operai “polacchi”, da pagare pochissimo. In entrambi i casi, la lezione è la medesima: il grande capitale impone i suoi diktat senza più argini, e gli italiani assistono rassegnati.La “snazionalizzazione” della Fiat si coniuga infatti con il super-ricatto svedese nei confronti degli operai della Electrolux: si va verso la “cinesizzazione” del fattore-lavoro in Italia e in Europa, «comprimendone i costi senza troppe cerimonie». Costi che d’ora in poi «potranno essere compressi all’estremo, fino alla soglia minima di sopravvivenza o anche al di sotto». Ormai è «anacronistico» parlare di “lavoratori”, «guardando alle persone e ai loro diritti». Aggiunge Orso: «Sorriderà compiaciuto, nella tomba, l’agente di cambio anglo-olandese David Ricardo – padre del liberismo economico e “bestia nera” di Marx, nonché classico dell’economia – la cui legge dei salari altro non prevedeva, per i lavoratori, che il minimo per la sopravvivenza di sé e del proprio nucleo familiare (il cosiddetto salario di sussistenza)». Il modello Electrolux, se applicato diffusamente in grandi numeri, «supererà le sue attese, perché in futuro, nei semi-Stati neocapitalistici come l’Italia, si potrà andare liberamente molto al di sotto del minimo».Dopo il modello “Fabbrica Italia” «adottato da una Fiat infedele al paese (quella “finanziaria e globale” del manager canadese Marchionne e degli eredi Agnelli, gli ebrei Elkann)», ecco spuntare il “modello Electrolux”, non limitato al settore degli elettrodomestici. «Un modello fondato su un ricatto brutale, da realizzare per le vie brevi: o il taglio delle paghe senza alcuna vera contrattazione, oppure la delocalizzazione delle produzioni altrove (nella fattispecie in Polonia) e la chiusura degli stabilimenti italiani». Oggi il sistema dell’economia mondiale lo permette, anzi lo incoraggia. «Si avanza così di un passo, oltre Marchionne e la Fiat “internazionalizzata” oggi fusa con Chrysler in Fca, verso il pieno dominio del mercato globale e la totale libertà di scelta del capitale finanziario». Si passa dall’attacco portato con successo alla contrattazione nazionale collettiva da una Fiat ancora formalmente italiana (con sede nella penisola ma già fuori da Confindustria) a un attacco più diretto per colpire al cuore le deboli resistenze residue al progetto neocapitalistico.Un progetto, continua Orso, che prevede la compressione estrema del fattore-lavoro e la totale libertà nella scelta delle aree d’investimento, non più ostacolata da alcuna barriera. Infatti, «dello Stato sovrano non c’è più alcuna traccia, in Italia». E, dal direttorio Monti-Napolitano in poi, «si è definitivamente affermato un semi-Stato europoide e neocapitalistico». Ovvero «un semi-Stato “da operetta”, estraneo agli interessi della popolazione italiana e tenuto formalmente in vita dai veri decisori, come supporto locale ai processi di globalizzazione economico-finanziaria in atto». In questo contesto generale, il “sub-mercato” europoide che imprigiona l’Italia si muove nella stessa direzione dei grandi mercati asiatici e del Pacifico. La rotta, per tutti, è stabilita dagli agenti strategici neocapitalistici, che attraverso le “istituzioni” sovranazionali controllano in modo ferreo «la penisola, le sue risorse (popolazione compresa) e il suo patetico semi-Stato».«Dopo aver abilmente disgiunto la persona dal fattore-lavoro, negando l’unità dell’esperienza esistenziale umana», secondo Orso oggi «si privatizza anche la conseguente disperazione sociale di massa, rendendola un mero dramma individuale e individualizzato, privo di rappresentanza politica nel semi-Stato e orfano delle vecchie tutele sindacali». Non è più possibile resistere: «Non esistono più rappresentanze effettive per i futuri schiavi, o i futuri espulsi dal ciclo produttivo». E il dramma è vissuto esclusivamente nel privato, in solitudine. «Ecco cosa impongono l’“apertura al mercato” e la cosiddetta competitività in uno scenario globale, per agganciare una chimerica ripresa produttiva e occupazionale nel semi-Stato. Che la riduzione di paga richiesta per mantenere la produzione in Italia sia di poco più del 10%, come millanta la proprietà, o addirittura del 50%, oppure, più probabilmente, vicina a una percentuale intermedia fra le due, poco importa. Comunque finisca la vicenda degli stabilimenti italiani di Electrolux, il dado è tratto, il ricatto è servito ed è il capitale finanziario a dettare imperiosamente la sua legge».Schiavitù o disoccupazione, prendere o lasciare. Nel passaggio da “Fabbrica Italia” al “modello Electrolux”, accusa Eugenio Orso, si compie «la privatizzazione della disperazione sociale – fra le masse immemori dell’antica ed estinta lotta di classe – con il supporto decisivo dei media, di economisti e intellettuali, della politica collaborazionista nel semi-Stato italiano e dalle centrali sindacali al servizio del neocapitalismo». E si compie il passaggio dal lavoro ancora umano, oggetto di tutele e rapportato alla persona, al mero fattore-lavoro neocapitalistico, che non può avere alcun diritto «perché concepito come un qualsiasi bene e servizio nel circuito produttivo». Un bene «disgiunto dal suo prestatore», perché «i lavoratori, in quanto tali, diventano delle non-persone. Non-persone come lo furono gli schiavi del mondo antico». “Oggetti animati” di cui è possibile liberarsi «chiudendo interi stabilimenti produttivi, se non si accettano inaccettabili (in altre epoche) riduzioni di paga».
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Electrolux, ricatto asimmetrico: addio operai italiani
Nella «lotta di classe asimmetrica» scatenata dalla multinazionale svedese Electrolux, i lavoratori sono ridotti a variabile marginale. Stoccolma, osserva Gad Lerner, ha il potere di giocarsi gli operai polacchi contro gli operai italiani. E inoltre può mettere ogni stabilimento a rischio chiusura in competizione con l’altro, azionando così una corsa al ribasso no limits del costo della manodopera. Libera concorrenza senza regole e su un orizzonte mondiale. Stesso obiettivo, ovunque: svincolarsi dai contratti localmente stipulati con la parte più debole. E quindi si tagliano gli stipendi, anche «se ciò comporta una vera e propria retrocessione di civiltà». Prendere o lasciare. «Parliamoci chiaro: se il ricatto occupazionale dovesse funzionare all’Electrolux, costringendo i sindacati ad accettare per cause di forza maggiore un taglio generalizzato dei salari, dal giorno dopo le ripercussioni si manifesterebbero su tutto il sistema manifatturiero italiano.Decisiva, scrive Lerner su “Repubblica” in un post ripreso da “Megachip”, è «la nuova centralità finanziaria del rapporto creditore/debitore», centralità che «prosciuga le risorse pubbliche necessarie all’esercizio della mediazione nel più antico conflitto capitale/lavoro». Così, «la lotta di classe diviene asimmetrica». E il lavoro, «reso precario, tende a precipitare sempre più spesso nella povertà». Se la casamadre di Stoccolma l’avrà vinta sugli operai italiani, «migliaia di aziende in difficoltà» seguiranno l’esempio del battistrada svedese, «generando un’imponente decurtazione di reddito a danno di lavoratori che già percepiscono salari al di sotto della media europea». È vero che il costo del lavoro pesa in misura eccessiva sui bilanci delle nostre imprese, «ma la scorciatoia escogitata – tagliare i salari, altrimenti chiudiamo gli stabilimenti – sortirebbe effetti sociali ed economici dirompenti».Nessuna indicazione utile dal Pd di Renzi: in questa drammatica circostanza, continua Lerner, «aiuta poco il Jobs Act che si voleva sfoderare in campagna elettorale, perché nulla dice sul bivio cui siamo giunti: cosa deve rispondere, il governo, a una multinazionale che per restare nel nostro paese pretende la sospensione del contratto nazionale e dei patti integrativi vigenti?». La richiesta brutale dell’Electrolux suscita reazioni opposte se la si guarda benevolmente dalla city di Londra, come il finanziere renziano Davide Serra che definisce «razionale» lo scambio fra decurtazioni salariali e salvaguardia occupazionale; o viceversa se la si guarda dal Friuli condannato a perdere 1.100 posti di lavoro, come tocca all’altrettanto renziana Debora Serracchiani, schierata con i “suoi” operai di Pordenone. Forse, Renzi «non si rende conto che il dilemma degli operai polacchi d’Italia, sbattuto in faccia alla politica, non è di quelli aggirabili con dei ghirigori verbali. Al contrario, è la priorità delle priorità».Le statistiche sulla ricchezza nazionale divulgate dalla Banca d’Italia ci confermano che stiamo vivendo una metamorfosi sociale, con l’acuirsi delle disuguaglianze e la diffusione della povertà. Ma ancora non fotografano a sufficienza il dato nuovo rappresentato dall’estendersi dell’area che i sociologi definiscono “labouring poor”: ovvero i titolari di un posto di lavoro fisso, la cui busta paga però non li sottrae all’indigenza. Condizione che verrebbe generalizzata da eventuali accordi consensuali di taglio dei salari, che finirebbero per «suggellare una gigantesca opera di espropriazione di ricchezza ai danni del lavoro dipendente, già in atto da anni in tutto l’Occidente». Se l’Italia dovesse quindi subire il ricatto della multinazionale svedese, le conseguenze sarebbero gravissime. «La lotta di classe asimmetrica produce solo declassati e secerne rancore», conclude Lerner. «Sottoscrivere oggi un taglio dei salari significa mettere a repentaglio una già fragile democrazia».Nella «lotta di classe asimmetrica» scatenata dalla multinazionale svedese Electrolux, i lavoratori sono ridotti a variabile marginale. Stoccolma, osserva Gad Lerner, ha il potere di giocarsi gli operai polacchi contro gli operai italiani. E inoltre può mettere ogni stabilimento a rischio chiusura in competizione con l’altro, azionando così una corsa al ribasso no limits del costo della manodopera. Libera concorrenza senza regole e su un orizzonte mondiale. Stesso obiettivo, ovunque: svincolarsi dai contratti localmente stipulati con la parte più debole. E quindi si tagliano gli stipendi, anche «se ciò comporta una vera e propria retrocessione di civiltà». Prendere o lasciare. «Parliamoci chiaro: se il ricatto occupazionale dovesse funzionare all’Electrolux, costringendo i sindacati ad accettare per cause di forza maggiore un taglio generalizzato dei salari, dal giorno dopo le ripercussioni si manifesterebbero su tutto il sistema manifatturiero italiano.
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Il grande bluff: Italia a picco, ma Saccomanni sorride
I dati di novembre 2013 sul commercio estero dell’Italia indicano 360 miliardi di euro di esportazioni da inizio anno contro 330 miliardi di importazioni. Il saldo commerciale è di 30 miliardi. Sembra una buona notizia confrontato con i 10 miliardi del 2012. Peccato che sia dovuto al calo delle importazioni per il collasso della domanda interna. Gli italiani stanno stringendo la cinghia. Fino ad ora la crescita delle esportazioni ha limitato il crollo del Pil dovuto al calo dei consumi domestici, ma le cose stanno cambiando. A novembre 2012 le esportazioni sono state in calo del 2% su ottobre. Se le esportazioni diminuiscono ci si avvia a un calo del Pil anche nel quarto trimestre 2013 con buona pace di Saccomanni e del suo tunnel. In questi giorni il quadro economico sta cambiando (in peggio). Dall’Argentina a Turchia, Messico, Russia, le valute extra euro sono sotto pressione per motivi monetari, economici e politici. Questo rafforza l’euro a danno delle nostre esportazioni, tipico di chi ha un’economia debole e una moneta forte.La Banca d’Italia ha rivisto al ribasso la sua stima di Pil per il 2014: a 0,7% contro 1,1% stimato dal governo. Stessa cosa ha fatto il Fmi. Tra pochi mesi ci sarà il segno meno davanti a questi numeri (scommettiamo?) e verrà detto che la ripresa arriverà nel 2015 (si allunga il tunnel). La stessa Banca d’Italia prevede la disoccupazione in aumento fino al 2015. Ci si chiede: quando a Roma si sveglieranno? Ogni politica economica si concede dei margini di fallimento, raggiunti i quali si prende atto che non funziona. Si cambia rotta. Fino a quando si è disposti far salire la disoccupazione per ammettere che l’Eurozona non funziona? Disoccupazione al 30%? La situazione peggiora, come qualunque cittadino vedecon i suoi occhi, ma nessuno fa mea culpa. Hanno creato la “realtà economica alterata”. Dicono, pieni di orgoglio: «Guardate, lo spread sceso sotto i 200 punti». E anche qui mentono sapendo di mentire.Lo spread si è dimezzato in 24 mesi, ma quello che conta è il costo REALE del debito, quindi quanto potere d’acquisto devono cedere i contribuenti al Tesoro attraverso le tasse per finanziare il rimborso delle cedole sui titoli di Stato. Se si guarda allo spread reale nulla è cambiato, perché anche l’inflazione è in crollo verticale. Da fine 2011 l’inflazione è scesa da 3% a 0.7% in Italia, e in Germania da 2,5% a 1,5%. Lo spread reale, dedotta l’inflazione, allora era 2,5% oggi è più o meno quello. Ci finanziavamo allora al 5,5% di interesse sui titoli con l’inflazione al 3%. Oggi ci finanziamo al 3% con l’inflazione a 0,7%. Trucchi da prestidigitatori, ma il portafoglio non ammette trucchi.Lo spettro in arrivo per i mercati si chiama deflazione, in sostanza inflazione negativa. In deflazione ci sono già Grecia (-1,8%) e Cipro (-1,3%), mentre il Portogallo è prossimo con uno 0,2% seguito dalla Spagna a 0,3%. La Francia è a un tasso di inflazione dello 0,8% e la Germania di 1,2%. L’intera Eurozona è scesa a 0,8% a dicembre contro 0.9% a novembre. E l’Italia? Come detto, è crollata dal 3% di due anni fa a 0,7%. Tutti negano uno scenario da decade giapponese di zero crescita e inflazione negativa, ma sta succedendo. Lo stesso Draghi per la prima volta ha citato la parola deflazione come rischio reale. Per l’Italia come per ogni paese ad alto debito la deflazione è un dramma perché, in assenza di crescita, pone il debito/Pil in una traiettoria esponenziale.L’Italia è avviata verso l’insostenibilità del debito/Pil (con il debito che sale mentre il Pil è in diminuzione) eppure i mercati continuano a comprare il nostro debito. Sembra un mistero, ma non lo è. Il motivo è presto detto: con questo governo eterodiretto da Draghi, i mercati si sentono protetti, sanno che ci sono le tasse, i risparmi ed il patrimonio degli italiani a salvaguardia delle ricche cedole che banche e investitori incassano sui nostri titoli, e alla fine pagherà Pantalone. E’ il più grosso trasferimento di ricchezza dalle famiglie alla finanza che il nostro paese abbia mai visto. Con il Grande Bluff l’Italia è avviata verso la miseria.(“Il Grande Bluff”, dal blog di Beppe Grillo del 25 gennaio 2014).I dati di novembre 2013 sul commercio estero dell’Italia indicano 360 miliardi di euro di esportazioni da inizio anno contro 330 miliardi di importazioni. Il saldo commerciale è di 30 miliardi. Sembra una buona notizia confrontato con i 10 miliardi del 2012. Peccato che sia dovuto al calo delle importazioni per il collasso della domanda interna. Gli italiani stanno stringendo la cinghia. Fino ad ora la crescita delle esportazioni ha limitato il crollo del Pil dovuto al calo dei consumi domestici, ma le cose stanno cambiando. A novembre 2012 le esportazioni sono state in calo del 2% su ottobre. Se le esportazioni diminuiscono ci si avvia a un calo del Pil anche nel quarto trimestre 2013 con buona pace di Saccomanni e del suo tunnel. In questi giorni il quadro economico sta cambiando (in peggio). Dall’Argentina a Turchia, Messico, Russia, le valute extra euro sono sotto pressione per motivi monetari, economici e politici. Questo rafforza l’euro a danno delle nostre esportazioni, tipico di chi ha un’economia debole e una moneta forte.
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Vattimo: i grillini han ragione, per questo fanno paura
Lasciatelo dire a me, che non meno di un mese fa, all’annuncio che, in nome del mio comunismo ermeneutico, avrei voluto candidarmi alle elezioni europee con i Cinque Stelle, sono stato oggetto di una durissima campagna telematica da parte di militanti del Movimento che non mi hanno risparmiato nessuna delle ingiurie che ora scandalizzano tanto la stampa di regime. Le ingiurie e gli insulti, sessisti e no (ma non mi hanno nemmeno rinfacciato di essere gay, peraltro), non mi fanno piacere, e credo che in generale siano controproducenti, come insegna il caso Berlusconi, che dalle sue malefatte sessual-politico-barzellettesche ha sempre tratto enormi vantaggi in termini di popolarità anche elettorale.Ma il diluvio di accuse, insulti, deprecazioni, allarmi in difesa della democrazia, che tutti i media dell’arco “costituzionale” rovesciano ogni mattina su Grillo il suo movimento non dovrebbero più lasciare indifferenti i benpensanti. I quali non possono non vedervi la prova che i grillini hanno ragione da vendere, e per questo il mondo dell’informazione mainstream ne ha tanta paura. Come si fa a qualificare a gran voce come “sgangherata” la costituzionalissima richiesta di messa in stato d’accusa del Capo dello Stato, che a partire dalla nomina di Monti a senatore a vita e poi a primo ministro non avrà attentato alla Costituzione, ma l’ha almeno applicata con molta elasticità e arbitrarietà, sempre nello spirito di un atlantismo addirittura servile (pensiamo alla grazia per il colonnello Romano).Fino all’ultimo decreto che, dopo tanti altri, ha lasciato passare senza battere un colpo, alla faccia della manifesta disomogeneità tra l’Imu e il regalo alle banche, non mitigato nemmeno da un richiamo al dovere di sostenere l’economia con una politica creditizia meno rapinatoria. Quanto all’ostruzionismo, che qualche zelante democratico ha addirittura pensato di perseguire penalmente, sarebbe il caso di capire che mentre si chiude sempre più un blocco renziano-berlusconiano teso a perpetuare il regime delle larghe intese che strangolano la nostra economia, è fin troppo poco ciò che si è visto in Parlamento. La legge elettorale che si progetta è l’anticamera del regime, una sorta di legge truffa costituzionalizzata, come il Fiscal Compact che minaccia di ridurci alla miseria e forse alla guerriglia urbana. Salviamoci almeno dall’ipocrisia dei tanti democratici di complemento che si stracciano le vesti in nome della dignità di un Parlamento che sembra sempre più avviato a una indecorosa eutanasia.(Gianni Vattimo, “M5S, i grillini hanno ragione da vendere. Per questo fanno paura”, da “Il Fatto Quotidiano” del 4 febbraio 2014).Lasciatelo dire a me, che non meno di un mese fa, all’annuncio che, in nome del mio comunismo ermeneutico, avrei voluto candidarmi alle elezioni europee con i Cinque Stelle, sono stato oggetto di una durissima campagna telematica da parte di militanti del Movimento che non mi hanno risparmiato nessuna delle ingiurie che ora scandalizzano tanto la stampa di regime. Le ingiurie e gli insulti, sessisti e no (ma non mi hanno nemmeno rinfacciato di essere gay, peraltro), non mi fanno piacere, e credo che in generale siano controproducenti, come insegna il caso Berlusconi, che dalle sue malefatte sessual-politico-barzellettesche ha sempre tratto enormi vantaggi in termini di popolarità anche elettorale.
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Crescita finita per sempre, il denaro non è la soluzione
«Stagnazione secolare», la chiama – di fronte alla platea del Fmi – l’economista americano Larry Summers, già segretario al Tesoro: nessuna speranza che l’economia dell’Occidente possa davvero tornare a crescere. E’ finita – o sta per finire – la “convenienza economica” del capitalismo, basato sul consumo di merci industriali prodotte a basso costo. Secondo Mauro Bonaiuti, autore del saggio “La grande transizione”, «la notizia è ufficiale: l’età della crescita potrebbe essere davvero finita e parlarne non è più eresia». Il declino delle economie occidentali avanzate è ormai in corso, ammette lo stesso Summers, osservando la crisi degli ultimi anni: dato che i flussi finanziari ormai sorreggono il sistema produttivo, il collasso della finanza del 2007 ha comportato una sostanziale paralisi. Ma – questa è la notizia – quando lo choc è stato superato, non c’è stata nessuna vera ripresa.Paul Krugman se lo spiega così: le trasformazioni strutturali del sistema producono stabilmente disoccupazione. Il che significa che, per “convincere” le imprese ad assumere, bisognerà fornirle di denaro a costo zero, senza neppure obbligarle a restituirlo tutto. Secondo Summers e Krugman, ormai le imprese si aspettano che il valore di ciò che producono sia inferiore al costo di produzione: dovrebbero lavorare in perdita, sostenute dalla finanza pubblica? «Potrebbe sembrare un problema innanzitutto delle imprese – obietta Bonaiuti in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – se non fosse che viviamo ormai in una “società di mercato” e dunque i redditi, nelle loro diverse forme, e con essi la nostra vita materiale in quasi ogni sua forma, dipendono ormai interamente dalla possibilità che la macchina economica continui a funzionare».Per Bonaiuti, «qualcosa di potenzialmente molto pericoloso si intravede in questa rappresentazione del prossimo futuro», dal momento che «la possibilità di realizzare investimenti profittevoli è infatti la molla fondamentale dell’attività capitalistica». Per cui, «dire che per convincere gli imprenditori ad investire sarà necessario offrire loro tassi di interesse negativi, sostenendo inoltre che questo non è uno spiacevole e temporaneo inconveniente ma “un inibitore sistemico dell’attività economica”, significa riconoscere implicitamente che il capitalismo è ormai un sistema entrato nel reparto geriatrico e che per mantenerlo attivo è necessario offrirgli dosi di droga finanziaria almeno costanti (ma di fatto crescenti)».Krugman è esplicito: ora sappiamo che l’espansione del 2003-2007 «era sostenuta da una bolla speculativa», e «lo stesso si può dire della crescita della fine degli anni ‘90», legata alla bolla della new-economy. Persino la crescita degli ultimi anni dell’amministrazione Reagan «fu guidata da un’ampia bolla nel mercato immobiliare privato». Conclusione chiara: «Senza speculazione finanziaria non c’è più crescita». E lo stesso Summers avverte che i provvedimenti presi per regolamentare i mercati finanziari potrebbero essere controprocenti, rendendo ancora più alti i costi di finanziamento per le imprese. Uno scenario «estremante serio e foriero di conseguenze», osserva Bonaiuti, secondo cui la tradizionale ricetta keynesiana – sostenere la domanda con maggiore spesa pubblica – potrebbe non funzionare più, se (a monte) il sistema si è davvero inceppato.Per Krugman «si potrebbe ricostruire l’intero sistema monetario, eliminare la carta moneta e pagare tassi di interesse negativi sui depositi». E quindi: esporre i cittadini (costretti a transazioni solo digitali) al rischio del prelievo forzoso sui propri conti correnti. Se queste sono le idee del “liberale” Krugman, «per far fronte all’incapacità ormai cronica del capitalismo di crescere», per Bonaiuti «non è difficile immaginare cosa, a partire dalla stessa lettura della realtà, potrebbe venire in mente a chi, per tradizione, ha sempre auspicato risposte tecnocratiche e autoritarie alle crisi del capitalismo». Una volta imbracciata questa logica, è evidente che «tutto si giustifica», e quindi «anche le normali libertà, come quella di decidere come e dove impiegare i propri risparmi, divengono sacrificabili sull’altare di qualche punto percentuale di Pil». La prospettiva è chiara: «Tutti, volenti o nolenti, credendoci o meno, si dovrà partecipare al nutrimento forzoso – per via finanziaria – della macchina capitalista», nell’epoca dei “rendimenti decrescenti”. «Il tutto è tanto più serio in quanto ci troviamo di fronte non ad una crisi congiunturale, per quanto grave, ma ad un processo di rallentamento strutturale e, sopratutto, progressivo».La spirale, secondo Bonaiuti, è irrimediabile: tornare al passato è ormai semplicemente impossibile. «Per quanto affidato alla finanza, un ritorno della crescita significa nuove risorse naturali da utilizzare, prodotti da vendere per poi gettare rapidamente». E tutto «per tenere in movimento – da una bolla speculativa all’altra – la macchina economica globale». Il rilancio è un miraggio, perché ormai il contesto è completamente mutato rispetto all’età della crescita: «Dove possiamo oggi costruire case o infrastrutture per rilanciare occupazione e consumi? Dove trovare nuove risorse energetiche e materie prime a buon mercato? Come creare nuovi consumatori offrendo loro modelli di vita capaci di trasformare in pochi anni intere società?».Le economie capitalistiche avanzate «sono entrate già da quarant’anni in una fase di rendimenti decrescenti», dice Bonaiuti. E questo «non dipende solo dalla riduzione nella produttività degli investimenti delle multinazionali». Siamo di fronte a un fenomeno di ben più vasta portata: si sta riducendo la produttività dell’energia, dell’estrazione mineraria, dell’innovazione, delle rese agricole, dell’efficienza dell’attività della pubblica amministrazione (sanità, ricerca, istruzione), e si riduce la produttività di un’economia non più industriale ma fondata sui servizi. «Si tratta di un fenomeno evolutivo, e dunque incrementale». I “rendimenti decrescenti”, inoltre, «non comportano solo una riduzione dei rendimenti dell’attività economica», quanto piuttosto «un generale aumento del malessere sociale», e questo «a causa dell’aumento di svariati costi, di natura sociale ed ambientale, legati sopratutto alla crescente complessità della mega-macchina tecno-economica, che ricadono come “esternalità” sulle famiglie e sulle comunità e che non rientrano nel calcolo degli indici economici».Ecco perché «occorrerà dunque ragionare in termini ben più ampi, non solo in termini di Pil, ma della capacità delle politiche di generare benessere e occupazione stabili (e in condizioni di sostenibilità ecologica e non solo economica)». Se i sostenitori dello status quo – sia neoliberisti che keynesiani – ormai ammettono la “fine della crescita”, «non sono disposti a riconoscere che le loro proposte per tenere in vita il sistema sono ormai entrate in rotta di collisione con la libertà democratica (oltre che, da tempo, con la sostenibilità ecologica)». Occupazione, giustizia sociale, tutela dell’ambiente. «Il passaggio non traumatico dalla “grande stagnazione” ad una società sostenibile – conclude Bonaiuti – richiede un ripensamento ben più profondo e radicale dei valori e delle regole di funzionamento della nostra società, una “grande transizione” che si lasci alle spalle questo modello economico e i problemi – sociali, ecologici, economici – creati dall’ineliminabile dipendenza del capitalismo dalla crescita».«Stagnazione secolare», la chiama – di fronte alla platea del Fmi – l’economista americano Larry Summers, già segretario al Tesoro: nessuna speranza che l’economia dell’Occidente possa davvero tornare a crescere. E’ finita – o sta per finire – la “convenienza economica” del capitalismo, basato sul consumo di merci industriali prodotte a basso costo. Secondo Mauro Bonaiuti, autore del saggio “La grande transizione”, «la notizia è ufficiale: l’età della crescita potrebbe essere davvero finita e parlarne non è più eresia». Il declino delle economie occidentali avanzate è ormai in corso, ammette lo stesso Summers, osservando la crisi degli ultimi anni: dato che i flussi finanziari ormai sorreggono il sistema produttivo, il collasso della finanza del 2007 ha comportato una sostanziale paralisi. Ma – questa è la notizia – quando lo choc è stato superato, non c’è stata nessuna vera ripresa.
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Grazzini: la Germania sta per mangiarsi le nostre banche
«Quando, alla fine del 2014, le regole dell’unione bancaria cominceranno ad essere applicate, una banca in grande e seria difficoltà come in Italia Mps incontrerebbe dei problemi ancora maggiori e potrebbe rischiare veramente di chiudere se non fosse nazionalizzata o ceduta all’estero». Lo stesso Draghi avverte: molte banche dovranno chiudere, con le nuove regole decise a dicembre dai governi europei. Con l’unione bancaria in arrivo, secondo Enrico Grazzini la Bce annuncia di fatto «un’altra crisi potenzialmente dirompente dopo quella drammatica dei debiti sovrani». Soluzione che «favorisce l’inasprimento della crisi europea, non risolve la deflazione in corso e indebolisce le banche del sud a favore delle banche dei paesi più ricchi, Germania in testa». Lo riconosce anche Wolfgang Munchau, grande esperto di euro-economia. Che sul “Financial Times” scrive: «Perché i paesi europei si accontentano di stringere questi patti disgustosi? Per usare una metafora: perché i tacchini continuano a votare a favore del Natale?».L’unione bancaria europea, spiega Munchau, «è esattamente quella voluta dal ministro delle finanze Wolfgang Schäuble», il super-falco di Angela Merkel. «I contribuenti tedeschi non pagheranno nulla per la ristrutturazione delle banche estere e nessuna banca tedesca verrà mai chiusa». Sicché, «la Germania ha ottenuto tutto quello che voleva senza concedere nulla», proprio come per il Fiscal Compact: «Ha imposto la disciplina fiscale a tutta l’Europa in cambio di niente». Munchau è sconcertato: tutti i ministri – tra cui ovviamente il nostro Fabrizio Saccomanni – hanno gridato alla “svolta storica” «solo per non perdere la faccia di fronte al loro completo fallimento», perché «nulla di quello che avevano proposto è stato accettato». Volevano un fondo pubblico europeo in grado di provvedere alle ristrutturazioni bancarie in caso di “crisi sistemiche” e di garantire i correntisti? Niente da fare. La verità, dice Munchau, è che non hanno ottenuto nulla «semplicemente perché non sono in grado di coalizzarsi contro i diktat della Germania – la quale non vuole nessun fondo comune che metta a rischio le sue finanze per coprire i problemi altrui».I governi del sud Europa non hanno fiducia l’uno dell’altro, dice Munchau: non vogliono coalizzarsi, e quindi il governo Cdu-Spd riesce facilmente a imporre la sua ferrea volontà. «Il dramma è che non esiste alcuno statista europeo in grado di opporre una cooperazione solidale ed efficace di fronte alla visione unilaterale tedesca». L’unione bancaria «è la dimostrazione di come il governo tedesco delle larghe intese vuole l’Unione Europea: una unione centralizzata, diretta dalle élite finanziarie tedesche, a vantaggio esclusivo della Germania e a svantaggio degli altri paesi deboli e debitori del sud Europa. Una unione foriera di crisi senza fine». Perché il governo italiano dovrebbe rifiutare questa unione bancaria? «Perché non solo non risolve nulla – annota Grazzini su “Micromega” – ma potrebbe avere un micidiale effetto boomerang, ovvero amplificare le difficoltà delle banche». Non a caso, Draghi ha già avvertito che «con l’esame della Bce le banche deboli dovranno chiudere».A monte, la trappola è sempre la stessa e si chiama euro: l’impossibilità di emettere moneta sovrana costringe i governi a ricorrere ai titoli di Stato per finanziare il proprio debito pubblico (il debito funzionale e fisiologico, quello che serve per garantire i servizi e quindi sostenere l’economia vitale), e questo alla lunga – il caso di insolvenza – mette in pericolo le banche che quei titoli pubblici detengono. In teoria, ricorda Grazzini, il progetto di unione bancaria doveva servire a questo: spezzare il legame tra il rischio rappresentato dalle grandi banche sistemiche e quello degli stati dell’Eurozona – ovvero non indebolire le banche del Sud Europa, piene di titoli di Stato dei loro paesi. L’unione, inoltre, sarebbe dovuta servire a proteggere i risparmiatori europei con un fondo comune europeo di garanzia (per evitare la fuga all’estero dei correntisti in caso di una crisi nazionale), garantendo anche l’uniformità delle condizioni del credito: oggi le aziende italiane pagano tassi d’interesse bancari più alti rispetto a quanto pagano le aziende tedesche alle banche del loro paese. Bene, nessuno di questi regionevoli obiettivi sarà raggiunto, sostiene Grazzini: l’unico risultato sarà un ulteriore vantaggio dell’economia tedesca a spese di quella del resto d’Europa.Schäuble ha rifiutato in partenza ogni meccanismo di mutualizzazione con copertura di fondi pubblici, togliendo ossigeno a qualsiasi possibilità anti-crisi. E i ministri europei delle finanze «hanno deciso quello che perfino Draghi aveva implorato segretamente la Commissione Europea di non fare – cioè far pagare gli obbligazionisti e i creditori – per non rischiare di far precipitare le crisi bancarie», secondo il modello Cipro. Così, grazie a Schäuble, i privati (azionisti, obbligazionisti e correntisti con oltre 100.000 euro di deposito) si faranno carico in prima persona delle difficoltà delle banche in crisi, e solo in seconda battuta interverranno i fondi nazionali: non sostenuti con moneta sovrana – missione impossibile nell’Eurozona – ma creati grazie a nuove tasse. In ultimissima istanza, tra dieci anni, interverrebbe «un esiguo fondo europeo di 55 miliardi, sempre di origine bancaria – cioè solo lo 0,2% circa del patrimonio complessivo delle banche europee – anche se si prevede che le banche dovranno ricapitalizzarsi per circa 100 miliardi».L’accordo fa acqua da tutte le parti, insiste Grazzini: appena una banca sarà percepita in difficoltà, «i correntisti, gli azionisti e i creditori fuggiranno, creando un circolo vizioso di diminuzione del valore e di ulteriore fuga». Il caso Cipro insegna: «Si incentiva il meccanismo di panico che condanna le banche dei paesi deboli a vantaggio delle banche dei paesi forti». In Italia, continua l’analista, ci sono 2,7 miliardi di bond bancari subordinati in scadenza nel 2014 e 4,6 nel 2015. Gli investitori a rischio reagirebbero al timore di essere colpiti vendendo i bond. Interverrebbero allora gli speculatori e i fondi-avvoltoio per “salvare le banche”. Probabilmente nascerebbe una serie infinita di ricorsi in tribunale. Al che, «per evitare il fallimento delle banche e la corsa al ritiro dei depositi, gli Stati nazionali dovranno intervenire» nell’unico modo ormai possibile, ovvero «con i soldi dei contribuenti», ottenuti a suon di tasse. Risultato: «I paesi deboli si indeboliranno ancora di più e si avvicineranno all’orlo del baratro».Ma c’è di più, continua Grazzini: Draghi sta avviando gli stress test (ovvero degli esami preventivi di solvibilità in caso di crisi) su circa 130 banche europee, tra cui 13 italiane – ma sono escluse le casse di risparmio tedesche, che Schäuble non ha voluto comprendere negli stress test – per verificare se sarebbero in grado di sopportare un grave peggioramento della situazione economica. E quali saranno i criteri applicati dalla Bce per gli stress test? I fattori di rischio che potrebbero portare le nostre banche al fallimento sono sostanzialmente tre. Pirmo: la leva finanziaria troppo elevata rispetto al capitale proprio – leva che di solito viene usata dalle banche per speculare sui mercati finanziari “ombra”, come quello dei derivati e dei titoli tossici. Secondo: l’acquisto di titoli di debito sovrano di paesi con elevato debito pubblico, come l’Italia. Terzo: i crediti in sofferenza e inesigibili.«Le banche del nord Europa, in particolare quelle tedesche e francesi, hanno una leva spropositata. Hanno un attivo pari a 30-40-50 volte il loro capitale». Per intenderci: «Deutsche Bank e Credit Suisse hanno una leva di circa 50, la francese Crédit Agricole del 62, contro una leva di circa 18 di Intesa e Unicredit. La leva – legata a capitali presi a prestito – amplifica enormemente i rischi sistemici e delle singole banche, anche perché serve soprattutto a investire nel trading, cioè su titoli obbligazionari, azionari e derivati ad alto rendimento ma, appunto, molto volatili e ad alto rischio. I ricavi di Deutsche Bank derivano per esempio al 75% circa dal trading, e non da prestiti alle imprese e alle famiglie. In pratica gran parte dei maggiori istituti europei fanno le banche d’affari invece di prestare denaro alle imprese e alle famiglie». Al contrario, «le banche del sud Europa (Italia compresa) fanno meno attività speculativa, hanno in pancia meno titoli tossici, ma hanno invece il problema di avere investito molto sui titoli pubblici del loro paese e di avere molti crediti in sofferenza, a causa della crisi economica pesante attraversata dai loro paesi: in Italia le banche hanno in pancia circa 450 miliardi di titoli pubblici e hanno sofferenze per circa 150 miliardi».Domanda: quanto peseranno i diversi fattori di rischio negli stress test? La Bce considererà più rischioso – come dovrebbe essere – avere una leva abnorme e molti titoli tossici, o avere invece investito sui titoli pubblici del proprio paese? «Se, come sembra possibile, verrà sottovalutato il rischio derivato dalla leva finanziaria, dal trading e dalla speculazione, le banche del nord Europa si salveranno e supereranno l’esame senza troppe difficoltà. Se invece sarà considerato molto rischioso detenere titoli di debito pubblico del proprio paese, allora parecchie banche dei paesi del sud Europa verranno praticamente condannate (insieme ai bilanci pubblici dei loro paesi)». A quel punto, «le banche del sud che non supereranno l’esame della Bce dovranno ricapitalizzarsi, cioè aumentare ulteriormente il loro capitale», ma è facile immaginare che «troverebbero pochi capitalisti nazionali pronti a mettere il loro denaro in banche in difficoltà».Ecco allora che «le banche meno solide del sud Europa potrebbero semplicemente fallire, come ha avvertito Draghi. O potrebbero essere facilmente acquisite a poco prezzo da quelle del nord Europa». Così, «parte del risparmio nazionale potrebbe finire in mano alle banche estere dei paesi “meno stressati”». Ecco perché questa unione bancaria non s’ha da fare: certo «non risolve il problema del credito alle imprese e alle famiglie», e inoltre «rischia di premiare le banche maggiori che speculano e di bocciare le banche che investono nell’economia reale». Verità sanguinosa: il problema delle banche italiane – il debito pubblico – sarebbe risolvibile di colpo, all’istante, uscendo dall’euro o trasformando l’euro in moneta sovrana. «Ma la sinistra raramente si accorge delle minacce che vengono dalla Ue», avverte Grazzini. «Sull’unione bancaria perfino il “Manifesto” riportava: “Certo a volte è meglio qualcosa invece di niente ed è forse meglio tardi che mai”». Ora basta, però: è tempo di «abbandonare una visione idilliaca della Ue e di avere un approccio più realistico sull’egemonia tedesca». C’è solo da augurarsi che l’offerta politica alle elezioni europee di maggio riesca almeno a mettere a fuoco il problema, da cui dipende il futuro di tutti.«Quando, alla fine del 2014, le regole dell’unione bancaria cominceranno ad essere applicate, una banca in grande e seria difficoltà come in Italia Mps incontrerebbe dei problemi ancora maggiori e potrebbe rischiare veramente di chiudere se non fosse nazionalizzata o ceduta all’estero». Lo stesso Draghi avverte: molte banche dovranno chiudere, con le nuove regole decise a dicembre dai governi europei. Con l’unione bancaria in arrivo, secondo Enrico Grazzini la Bce annuncia di fatto «un’altra crisi potenzialmente dirompente dopo quella drammatica dei debiti sovrani». Soluzione che «favorisce l’inasprimento della crisi europea, non risolve la deflazione in corso e indebolisce le banche del sud a favore delle banche dei paesi più ricchi, Germania in testa». Lo riconosce anche Wolfgang Munchau, grande esperto di euro-economia. Che sul “Financial Times” scrive: «Perché i paesi europei si accontentano di stringere questi patti disgustosi? Per usare una metafora: perché i tacchini continuano a votare a favore del Natale?».
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Sapelli: via tutti, l’Italia si salva solo con una rivoluzione
«Fino al 1450 eravamo l’economia più florida del mondo. Poi abbiamo conosciuto la crisi del ‘600. Perché i figli della borghesia comunale hanno lasciato le città e sono andati a vivere in villa come nobili: quando si guadagnano troppi soldi, non si risponde più a se stessi». Secondo il professor Giulio Sapelli, per l’Italia «forse non c’è più speranza. «A forza di imporre l’ortodossia monetarista e deflazionista, i tedeschi stanno facendo dell’Europa un deserto». Italia addio: «Questa è una nazione ricca, con un grande risparmio. E la cultura. Ma i risparmi si stanno erodendo. E tra 20 anni, forse, saremo un paese desertificato». Come uscirne? Licenziare immediatamente l’attuale classe dirigente, e puntare a una svolta radicale, «socialista e rivoluzionaria», per dire no alla politica della Troika di Bruxelles.Per l’economista che ha conosciuto l’Italia di Olivetti, la grande e la media impresa, le cooperative e i distretti, scrive Giovanna Faggionato su “Lettera 43”, la crisi di oggi è il frutto di un male antico: la persistenza di una classe dirigente che ci condanna alla sudditanza estera. Così, mentre la Commissione Europea certifica che siamo il paese in cui «la situazione sociale si è deteriorata maggiormente», e in cui una quota consistente di occupati non riesce più ad arrivare a fine mese, lo studioso non si dà pace. E si chiede come il Parlamento Ue abbia potuto firmare il Fiscal Compact. Risposta: «Le nostre classi dirigenti cercano approvazione, legami e inserimento nella finanza internazionale. Lo ha fatto Romano Prodi. E poi Mario Monti. E ora anche Enrico Letta punta alle cariche all’estero». Quindi non fanno gli interessi italiani? «Monti ha fatto gli interessi di chi lo ha sempre sostenuto, cioè le istituzioni finanziarie». Draghi? «Lui viene da Goldman Sachs, dalla scuola americana. E prova a fare la politica Usa».La Germania, aggiunge Sapelli nell’intervista, «ci vuole fare morire di deflazione». Meglio gli Stati Uniti, perché a loro «in questo momento serve un’Europa forte». E’ vero, sono proiettati verso il Pacifico perché «preparano la guerra che verrà con la Cina», ma hanno bisogno di avere le spalle coperte, cioè un’economia europea in salute. «Stiamo trattando un accordo di libero scambio transatlantico: possiamo negoziare», dice Sapelli. «E comunque, meglio gli Stati Uniti del dominio tedesco», a cui Draghi “non osa” opporsi. Andiamo verso un crack come quello argentino del decennio scorso? «Dell’Argentina stiamo iniziando a copiare i leader peronisti», a comiciare da Renzi. «Abbiamo avuto due sole “rivoluzioni” generazionali in Italia. Una l’ha fatta Benito Mussolini ed era il fascismo. E l’altra è stata il ‘68. Basta guardare come sono finite». Spiragli? «Avete votato il Pd, Berlusconi…». E cosa bisogna votare, Grillo? «Nessuno. Bisogna rifondare un partito socialista, rivoluzionario. Come Syriza, in Grecia. Che non vuole uscire dall’Europa, ma rinegoziare il debito».«Fino al 1450 eravamo l’economia più florida del mondo. Poi abbiamo conosciuto la crisi del ‘600. Perché i figli della borghesia comunale hanno lasciato le città e sono andati a vivere in villa come nobili: quando si guadagnano troppi soldi, non si risponde più a se stessi». Secondo il professor Giulio Sapelli, per l’Italia «forse non c’è più speranza. «A forza di imporre l’ortodossia monetarista e deflazionista, i tedeschi stanno facendo dell’Europa un deserto». Italia addio: «Questa è una nazione ricca, con un grande risparmio. E la cultura. Ma i risparmi si stanno erodendo. E tra 20 anni, forse, saremo un paese desertificato». Come uscirne? Licenziare immediatamente l’attuale classe dirigente, e puntare a una svolta radicale, «socialista e rivoluzionaria», per dire no alla politica della Troika di Bruxelles.
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Tenetevi pure Matteo Renzi e la sua legge-porcata
Proposta secca: tenetevi la vostra schifezza di legge elettorale, quella che volete, la peggiore che vi possiate inventare, ma in cambio ridateci quello che ci avete subdolamente rubato in questi decenni: la libertà di provare a essere un paese sovrano. Evidentemente gli italiani ispirano e dilettano i loro tormentatori politici, sono perfetti per essere ferocemente presi in giro: accorrono in tre milioni alle primarie del Pd e votano in massa il Rottamatore della nomenklatura, il quale il giorno dopo si accorda nientemeno che con Berlusconi per scodellare una legge elettorale scandalosa, che ripropone le stesse liste bloccate del Porcellum. Il credo non cambia: l’essenziale è che l’italiano medio (cittadino, lavoratore, studente, pensionato, contribuente, elettore) continui a contare meno di zero. E’ un ordine, emanato dai poteri forti che hanno ormai in pugno il nostro destino. Poteri che non vogliono più avere a che fare con cittadini, ma con sudditi remissivi, disinformati e terremotati dalla precarietà.Anche a questo serve la riforma della legge elettorale: a indorare la pillola e simulare l’esercizio democratico, che in realtà è completamente svuotato perché non esistono reali alternative al Programma Unico del sistema. Sicché, i commentatori si rassegnano ad analizzare il grigio dibattito in corso, anche in materia di ingegneria istituzionale. Se non altro, osservano alcuni, il vecchio Mattarellum costringeva almeno i partiti a sfidarsi sul terreno ristretto dei piccoli collegi uninominali, proponendo cioè candidati non impresentabili, non alieni, non ostili ai territori.Con Renzi invece si torna al listino bloccato, che il fiorentino – con inarrivabile faccia tosta – tenta di spacciare per qualcosa di diverso dalla “legge porcata” che si vorrebbe far dimenticare. Eppure, nonostante ciò, se solo si potesse scegliere (ma scegliere davvero) forse già oggi gli italiani lo farebbero. Se in un ipotetico referendum si potesse decidere tra le due opzioni – lasciare la legge elettorale in pasto ai partitocrati ma avere in cambio un’inversione radicale di rotta sulla sovranità finanziaria nazionale – non è difficile immaginare un plebiscito.Nel frattempo, l’attualità è generosissima di episodi sempre più incresciosi. Al pantheon degli orrori mancavano solo figure eleganti e colte come Laura Boldrini, smascherata dai deputati “5 Stelle”. Togliere la parola al Parlamento, ecco il problema. E’ per questa ragione che un altro impavido leader della sinistra italiana, Nichi Vendola, anziché scandalizzarsi per l’autoritarismo prussiano della presidente della Camera preferisce censurare il fuoco polemico dei grillini. Ora si banchetta sulle spoglie di Bankitalia, per amputare in via definitiva la residua sovranità virtuale della finanza pubblica italiana.Solo ieri è stata decisa la vivisezione di Poste Italiane, dopo quelle di Eni e Finmeccanica. Prossimo obiettivo, la Cassa Depositi e Prestiti. Possibile che gli italiani non capiscano? Ma sì, che capiscono. E quelli che ancora non l’hanno fatto, lo faranno. E’ semplice: se ti hanno rubato il portafoglio – divorzio tra Tesoro e Bankitalia, privatizzazione del sistema bancario, cessione del debito pubblico alla finanza privata, adesione all’euro e quindi impossibilità matematica di finanziare la spesa pubblica con moneta propria – è ovvio che, dovendo pur pagare, i soldi verranno richiesti ai contribuenti, in dosi sempre più micidiali, fino a strozzare l’economia, mettendo in ginocchio imprese e famiglie.Nell’Eurozona – caso unico al mondo – per finanziare l’azione del governo (funzione pubblica, servizi vitali) non si può più contare su libera emissione di valuta sovrana, ma solo sulla moneta già circolante, proveniente dalle banche private disposte ad acquistare titoli di Stato. In queste condizioni, per il tracollo – previsto anni fa solo da alcuni isolati economisti “eretici” – è solo questione di tempo, ma intanto la condanna è certa e l’esito è inesorabile, in un crescendo di sofferenze che ormai colpiscono decine di milioni di persone. E se il governo Letta-Napolitano-Draghi continua la sua recita europea raccontando la stessa fiaba di Mario Monti (la medicina amara produrrà la guarigione) il prode Renzi propone di rottamare la Costituzione e l’ordinamento istituzionale, a cominciare dal Senato, senza mai dire una sola parola sui dolori della grande crisi e su come si potrebbe tentare di uscirne.Tace, Renzi, perché sa che il suo mandato-farsa non prevede in nessun modo la salvezza dell’Italia. E così, giusto per parlar d’altro, il segretario del Pd trova pure il coraggio di presentare impunemente, truccata da “riforma”, l’ultima barzelletta elettorale, per di più condivisa con l’amato Cavaliere. Il tutto tra gli inchini del mainstream e i balbettii dei sindacati, che si agitano per l’Electrolux evitando però di chiedersi come mai in Italia un posto di lavoro costi all’azienda 2,5 volte lo stipendio in busta paga – il resto va a finanziare le casse esangui dello Stato immiserito dal neoliberismo predatore. Mancano soldi, guardacaso. E serve un Piano-B per procurarli. Subito, ora o mai più.E’ questo il primo obiettivo dell’agenda-Italia per l’alternativa: senza denaro, senza possibilità di spesa, non ci sarà nessuna ripresa, nessuna occupazione, nessuna riconversione ecologica verso nessuna economia sostenibile. Una forza politica organizzata su questa base, con proposte chiare e inequivocabili, travolgerebbe qualsiasi infame soglia di sbarramento e supererebbe gli ostacoli di qualunque truffa elettorale. C’è da augurarsi che la spietata durezza della crisi, quantomeno, consenta alla verità di farsi strada, in questo mare di frottole indecenti. E convinca gli italiani a rottamare in fretta maggiordomi e pagliacci, perché il paese si merita ben altro: qualcuno che sappia evitare la catastrofe.(Giorgio Cattaneo, “Tenetevi Renzi e la sua legge-porcata”, da “Megachip” del 31 gennaio 2014).Proposta secca: tenetevi la vostra schifezza di legge elettorale, quella che volete, la peggiore che vi possiate inventare, ma in cambio ridateci quello che ci avete subdolamente rubato in questi decenni: la libertà di provare a essere un paese sovrano. Evidentemente gli italiani ispirano e dilettano i loro tormentatori politici, sono perfetti per essere ferocemente presi in giro: accorrono in tre milioni alle primarie del Pd e votano in massa il Rottamatore della nomenklatura, il quale il giorno dopo si accorda nientemeno che con Berlusconi per scodellare una legge elettorale scandalosa, che ripropone le stesse liste bloccate del Porcellum. Il credo non cambia: l’essenziale è che l’italiano medio (cittadino, lavoratore, studente, pensionato, contribuente, elettore) continui a contare meno di zero. E’ un ordine, emanato dai poteri forti che hanno ormai in pugno il nostro destino. Poteri che non vogliono più avere a che fare con cittadini, ma con sudditi remissivi, disinformati e terremotati dalla precarietà.