Archivio del Tag ‘disoccupazione’
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Ttip, fine del diritto: ci giudicherà un Tribunale Speciale
Votare alle europee? A un patto: che i candidati si impegnino, per prima cosa, contro l’approvazione del Trattato Transatlantico. Nessuna bozza, traccia o schema di Ttip è a oggi disponibile. Di certo sappiamo solo che il presidente Obama e la Commissione Europea hanno dato mandato all’ambasciatore Usa Michael Froman e al Commissario Ue al commercio Karel de Gucht di confezionare un trattato dai mirabolanti obiettivi: incrementare il commercio Usa-Ue di 120 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni e creare due milioni di posti di lavoro. A quale prezzo? «Non si deve sapere. Le trattative si svolgono in segreto, a porte chiuse, e in quelle segrete stanze si sono già tenuti oltre 100 incontri con i più importanti lobbisti, su corpose documentazioni di parte, a totale insaputa della società civile». Le uniche vere notizie a nostra disposizione, scrive Mariangela Rosolen, provengono da blog come “s2bnetwork”, riprese da “Attac”, che presenta “Un trattato dell’altro mondo” e le informazioni diffuse da Alessandra Algostino, docente di diritto costituzionale dell’università di Torino.Il Trattato di Partenariato Usa-Ue per il Commercio e gli Investimenti, riassume Rosolen sul sito di “Attac Italia”, ci promette un reddito aggiuntivo per famiglia di 545 dollari all’anno, «a condizione che siano smantellate tutte le leggi e regolamenti di tutela sanitaria, ambientale, del lavoro, che attualmente impediscono o limitano la possibilità di realizzare il massimo profitto negli scambi e negli investimenti». Il che significa: «Libera produzione, circolazione e vendita sul mercato europeo degli organismi geneticamente modificati, della carne agli ormoni, dei polli al cloro». Addio al “principio di precauzione” contro la sospetta nocività di singoli prodotti, processi produttivi e componenti, adottato in Europa all’inizio degli anni ‘90 in seguito all’epidemia della “mucca pazza”. Obiettivo: ridurre o eliminare – tramite decisioni di prevenzione – quei rischi che non sono ancora scientificamente provati. Se verrà approvato il Ttip, dovremo dunque dire addio alle tutele a cui siamo abituati: cioè l’etichettatura e la tracciabilità dei prodotti alimentari e chimici.Emblematica, continua Rosolen, la situazione riguardante l’estrazione e lo sfruttamento del gas di scisto (fracking): circa 11.000 nuovi pozzi scavati in un anno negli Stati Uniti contro una dozzina in Europa, per effetto di divieti e moratorie in attesa di verificare i rischi che quella spericolata tecnologia estrattiva può arrecare alla salute e alla sicurezza delle persone e dell’ambiente. «La segretezza dei negoziati si confà egregiamente alla passività dei grandi mezzi d’informazione del nostro paese, che si guardano bene dal rompere il silenzio, appena scalfito dall’impegno dei “soliti” mezzi d’informazione alternativi. E poiché la Commissione Europea tratta e firmerà l’accordo a nome e per conto degli Stati membri – aggiunge Mariangela Rosolen – rischiamo di trovarci a fine 2014, data prevista per la conclusione dei negoziati, con la brutta sorpresa del pacco di Natale già confezionato e pronto per l’uso sotto l’albero». Forse però siamo ancora in tempo per fermare la macchina infernale.Alla fine degli anni ‘90, «un analogo pacco-dono del libero mercato, l’Ami – Accordo Multilterale sugli Investimenti – era stato preparato segretamente dalle stesse oligarchie che oggi lo traducono nel Ttip, e venne fatto saltare proprio grazie al fatto che i suoi demenziali contenuti erano divenuti di pubblico dominio». Certo, allora «c’erano ancora i tribunali a cui ricorrere per il ripristino dei diritti negati». Oggi è sempre più dura, ma fino a quando la sovranità giudiziaria non sarà stata smantellata siamo autorizzati a sperare che qualche autorità nazionale intervenga: «La totale cancellazione dello Stato Sociale Europeo che ora il Trip si propone, la dichiarata subordinazione al profitto di ogni tutela sul lavoro, la salute, l’ambiente che non sia compatibile con il profitto, può incontrare ancora forti resistenze nel sistema giudiziario dei paesi più evoluti».Se invece Washington e Bruxelles – obbedendo ai “suggerimenti” delle multinazionali – riusciranno ad imporci il Ttip, sarà tecnicamente finita anche l’attuale possibilità di avere giustizia: l’ultima parola infatti l’avrà il Tribunale Speciale, «organismo sovranazionale, extra-territoriale – si dice con sede presso la Banca Mondiale», pensato sul modello del collegio arbitrale, «le cui sentenze non saranno appellabili essendo sovraordinate alle stesse Costituzioni nazionali». Secondo Rosolen, è molto probabile che si tratti di tribunali simili a quelli già previsti da accordi come il Nafta, modellati su giurie private composte da tre arbitri, scelti generalmente tra “principi del foro” «un po’ distratti rispetto ai loro conflitti di interessi». Strani “giudici” che, «una volta nominati, non devono più rendere conto a nessuno», perché possono avvalersi di «lucrosissime consulenze, test e perizie», per emanare decisioni definitive e non più impugnabili. «Una gestione della giustizia di ricchi per i ricchi», che infatti non emette sentenze ma impone «multe, sanzioni, risarcimenti».Così facendo, aggiunge Rosolen, la giustizia si misura in dollari. La Lone Pine ad esempio, impresa californiana dell’energia, ha chiesto al Tribunale Speciale istituito dal Nafta di condannare lo Stato del Canada a un risarcimento di 191 milioni di dollari per aver imposto una moratoria sul fracking, il sistema di frammentazione idraulica per estrarre il gas o il petrolio di scisto. La moratoria canadese era dettata dalla preoccupazione per i rischi per la salute e l’ambiente provocati da quelle lavorazioni. La Philip Morris ha invece denunciato l’Australia al Tribunale Speciale del Wto per le leggi anti-fumo e chiesto un enorme risarcimento per i mancati profitti. Addirittura 3,7 miliardi di euro, per i mancati profitti delle sue due centrali nucleari tedesche, sono stati chiesti dalla svedese Vattenfall alla Germania, che ha abbandonato la produzione di energia nucleare dopo il disastro di Fukushima. Si contano ben 514 cause legali di questo genere negli ultimi vent’anni: 123 sono state promosse da investitori Usa, 50 da maxi-imprese olandesi, 30 britanniche e 20 tedesche.«La sola minaccia di cause legali per milioni di euro, intentate da studi legali con centinaia di avvocati per conto delle multinazionali, può mettere sul chi va là i governi e indurli ad attenuare o addirittura rinunciare a emanare leggi a tutela del lavoro, della salute e dell’ambiente», conclude Mariangela Rosolen. Traduzione: «Se le decisioni politiche a livello locale, regionale o nazionale corrono questi rischi di strangolamento economico, ben più disarticolanti di una sentenza civile o penale, è a rischio la stessa democrazia». Sarebbe la fine della nostra civiltà giuridica, difettosa e inefficiente fin che si vuole nella sua amministrazione, ma pur sempre consacrata alla difesa dei diritti fondamentali del cittadino, della sua sicurezza sociale e della sua salute. Per fortuna, un po’ ovunque – dall’Europa agli stessi Stati Uniti – si stanno organizzando movimenti sociali e sindacali che rivendicano trasparenza dei negoziati e il rifiuto dei tribunali speciali per qualsiasi tipo di trattato. Serve un impegno democratico, ora: «Chiediamolo con forza e determinazione anche ai prossimi candidati al Parlamento Europeo».Votare alle europee? A un patto: che i candidati si impegnino, per prima cosa, contro l’approvazione del Trattato Transatlantico. Nessuna bozza, traccia o schema di Ttip è a oggi disponibile. Di certo sappiamo solo che il presidente Obama e la Commissione Europea hanno dato mandato all’ambasciatore Usa Michael Froman e al Commissario Ue al commercio Karel de Gucht di confezionare un trattato dai mirabolanti obiettivi: incrementare il commercio Usa-Ue di 120 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni e creare due milioni di posti di lavoro. A quale prezzo? «Non si deve sapere. Le trattative si svolgono in segreto, a porte chiuse, e in quelle segrete stanze si sono già tenuti oltre 100 incontri con i più importanti lobbisti, su corpose documentazioni di parte, a totale insaputa della società civile». Le uniche vere notizie a nostra disposizione, scrive Mariangela Rosolen, provengono da blog come “s2bnetwork”, riprese da “Attac”, che presenta “Un trattato dell’altro mondo” e le informazioni diffuse da Alessandra Algostino, docente di diritto costituzionale dell’università di Torino.
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Rottamano la Costituzione perché hanno paura di noi
Pessima trovata, abolire il Senato. Segno di una politica senza idee, che ha paura degli elettori. E tenta di rifarsi il trucco per nascondere la sua incapacità di affrontare i veri problemi che abbiamo di fronte: «La concentrazione del potere economico e gli andamenti della finanza mondiale, l’impoverimento e il degrado del pianeta, le migrazioni di popolazioni. Ne subiamo le conseguenze, senza poter agire sulle cause». E la classe dirigente? «Non dirige un bel niente», accusa Gustavo Zagrebelsky. «Non tenta di mettere la testa fuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno tentare di metterle in pratica». Così, resta solo «il formicolio della lotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli poteri oligarchici», un formicolio «che allontana e disgusta la gran parte che ne è fuori». Pura «autoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri». Dietro ai tweet di Matteo Renzi, il giurista torinese vede «il blocco d’una politica che gira a vuoto, funzionale al mantenimento dello status quo».Una volta, ricorda Zagrebelsky, Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani definirono “razza padrona” un certo equilibrio oligarchico del potere. «Oggi, piuttosto riduttivamente, la chiamiamo “casta”. Un’interpretazione è che un sistema di potere incartapecorito e costretto sulla difensiva, avesse bisogno di rifarsi il maquillage. Se questo è vero, è chiaro che occorrevano accessori, riverniciature: il renzismo mi pare un epifenomeno». La classe dirigente italiana? «E’ decaduta a un livello culturale imbarazzante. La ragione è semplice: di cultura politica, la gestione del potere per il potere non ha bisogno. Sarebbe non solo superflua, ma addirittura incompatibile», dice il presidente onorario della Consulta alla giornalista Silvia Truzzi del “Fatto Quotidiano”. Sgomenta la memoria degli uomini che gestirono la ricostruzione del paese nel dopoguerra: Parri, Nenni, De Gasperi, Einaudi, Togliatti. «Non è che avessero le stesse idee, ma ne avevano: e le idee davano un senso politico alla loro azione».Le cose che oggi vengono dette e fatte dai politici «sono pezze, rattoppi d’emergenza necessari per resistere, non per esistere. Non è politica. Nella migliore delle ipotesi, se non è puro “potere per il potere”, è gestione tecnica». Attenzione: «La tecnica guarda indietro, la politica dovrebbe guardare avanti». Esempio, il governo Monti, cioè «la tecnica come surrogato della politica: un’illusione». Lancinante, l’assenza di politica, proprio nei momenti di massima crisi. «Basta essere nuovi e giovani? No. Quello che conta è la struttura dei poteri cui si fa riferimento e di cui si è espressione». Oggi, «in questo vuoto politico-sociale che cosa esiste e prospera? La rete degli interessi più forti. È questa rete che esprime i dirigenti attraverso cooptazioni. La democrazia resiste come forma, ma svuotata di sostanza. Se la si volesse rinvigorire, occorrerebbe una società capace di auto-organizzazione politica, ciò che una volta sapevano fare i partiti. Oggi, invece, sono diventati per l’appunto, canali di cooptazione, per di più secondo logiche di clan e di spartizione dei posti. Così, non si promuove il tanto necessario e sbandierato rinnovamento, ma si “allevano” giovani uguali ai vecchi».Ecco la parola: «Il rinnovamento sembra molto spesso un “allevamento”. Il resto è apparenza: velocità, fattività, decisionismo, giovanilismo, futurismo, creativismo. Tutte cose ben note e di spiegabile successo, soprattutto in rapporto con l’arteriosclerosi politica che dominava. Ma la novità di sostanza dov’è? La “rottamazione” a che cosa si riduce?». Magari al consueto refrain della necessità di modificare l’assetto costituzionale. «Le istituzioni possono sempre essere migliorate e rese più efficienti, ma mi pare che siano diventate il capro espiatorio di colpe che stanno altrove», sottolinea Zagrebelsky. Il vero problema: «Le difficoltà che incontra un aggregato di potere che sempre più difficoltosamente riesce a mediare e tenere insieme il quadro delle compatibilità, in presenza di risorse pubbliche da distribuire sempre più scarse». Ai tempi di Berlusconi, continua Zagrebelky, l’insofferenza nei confronti della Costituzione derivava «dalle esigenze di un potere aggressivo». Oggi, invece, «l’atteggiamento è piuttosto difensivo», perché i fautori delle “ineludibili” modifiche costituzionali dicono: c’è bisogno di cambiamenti per governare meglio, con più efficienza. Ma il vero scopo è difendersi dai cittadini, dalla democrazia: «Il terrore delle elezioni, la vanificazione dei risultati elettorali, i “congelamenti” istituzionali in funzione di salvaguardia vanno nella stessa direzione».Gli italiani avevano archiviato il Cavaliere? Ecco che Renzi l’ha prontamente riesumato. La Consulta ha definito il Parlamento illegittimo, eletto dall’incostituzionale Porcellum? Pazienza, si fa finta di niente. E proprio a parlamentari così “nominati” si chiede di manomettere la Costituzione. Larghe intese, quindi, per paura di Grillo. «Le larghe intese sono la negazione della dimensione politica», continua Zagrebelsky. «Sono il regime della paralisi, della stasi». Sicché, oggi «sembra che si viva in un eterno presente, in cui una posta di natura politica non esiste. Se non ci sono scelte, non c’è politica, e se non c’è politica non c’è democrazia, ma solo conflitti personali, di gruppo o di clan per posti, favori e, nel caso peggiore, garanzie d’immunità». Quindi siamo senza futuro? Sì, «finché la palude non viene smossa». Sfiducia, astensionismo. «Perché i cittadini vanno sempre meno a votare? Una volta si diceva “son tutti uguali”, intendendo “sono tutti corrotti”. Ma oggi è peggio, si pensa: “tanto non cambia nulla”. È un effetto della stasi politica».Il Movimento 5 Stelle, riconosce Zagrebelky, è nato col dichiarato intento di “smuovere la palude”, addirittura di «investirla con una burrasca che rovesci tutto», anche se la politica «deve contenere anche un intento costruttivo», perché «la tabula rasa e la rete non sono programmi. Non lo è nemmeno la lotta alla corruzione che, di per sé, rischia d’essere solo una competizione per la sostituzione d’una oligarchia nuova a una vecchia». Contro la corruzione «devono valere le istituzioni di controllo e l’intransigenza dei cittadini», perché «in difetto di politica, alla corruzione non c’è limite». Di fronte a noi, c’è un’oligarchia che si arrocca, pronta a tutto – anche a rottamare democrazia e Costituzione. L’Italicum: «Mi colpisce che la legge elettorale sia decisa dagli accordi d’interesse di tre persone (Berlusconi, Renzi, Alfano) invece che dalle ragioni della democrazia, cioè dalle ragioni di tutti i cittadini elettori. Mi colpisce tanta arroganza, mentre con un Parlamento delegittimato come l’attuale, si tratterebbe di fare la legge più neutrale possibile. Mi colpisce che si sospenderà il diritto alle elezioni, perché la contraddizione tra le due Camere impedirà di scioglierle».Pessima trovata, abolire il Senato. Segno di una politica senza idee, che ha paura degli elettori. E tenta di rifarsi il trucco per nascondere la sua incapacità di affrontare i veri problemi che abbiamo di fronte: «La concentrazione del potere economico e gli andamenti della finanza mondiale, l’impoverimento e il degrado del pianeta, le migrazioni di popolazioni. Ne subiamo le conseguenze, senza poter agire sulle cause». E la classe dirigente? «Non dirige un bel niente», accusa Gustavo Zagrebelsky. «Non tenta di mettere la testa fuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno tentare di metterle in pratica». Così, resta solo «il formicolio della lotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli poteri oligarchici», un formicolio «che allontana e disgusta la gran parte che ne è fuori». Pura «autoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri». Dietro ai tweet di Matteo Renzi, il giurista torinese vede «il blocco d’una politica che gira a vuoto, funzionale al mantenimento dello status quo».
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Mai più sudditi: dal Veneto alla Le Pen, monito all’Ue
La crisi innescata dall’adesione all’euro ha “bruciato” vent’anni di crescita, riportando il Veneto ai valori del 1995. Una catastrofe: la regione ha perso il 13,8% di Pil. Secondo la Cna, i settori più colpiti sono l’edilizia (-30%) e l’industria (-20%), seguiti da agricoltura e servizi. Ed ecco spiegato il clamore suscitato dal referendum popolare sull’indipendenza del Veneto, che secondo i promotori – i movimenti autonomisti – si è rivelato un plebiscito, consacrato da due milioni di elettori, proprio mentre Marine Le Pen spaventa l’Unione Europea col successo del Front National alle amministrative francesi. Su “Repubblica”, Ilvo Diamanti invita a prendere sul serio la consultazione veneta, perché la tendenza espressa è confermata da un sondaggio Demos: il 55% del campione chiede che il Veneto diventi “una repubblica indipendente e sovrana”. L’idea piace soprattutto al cuore sociale dell’economia veneta: imprenditori e operai, lavoratori dipendenti e autonomi della piccola impresa. “Traditi”, dopo gli anni del boom, dalla super-tassazione imposta da Bruxelles, dalla crisi del credito e dalle delocalizzazioni imposte dalla globalizzazione selvaggia.Il Pil veneto, rileva il newsmagazine “L’indipendenza”, nel 2013 è precipitato a 26.000 euro per abitante: «In altre parole, la crisi ha “bruciato” 18 anni di crescita economica». Lo rivela l’ultima analisi del centro studi Cna di Mestre: il quadro che ne emerge «è la triste conferma di quanto imprese, lavoratori e famiglie sanno già e vivono sulla propria pelle quotidianamente». La flessione del Pil si è inevitabilmente riversata sulla competitività del sistema economico regionale. Lo conferma uno studio della Commissione Europea: il Veneto ha perso 20 posizioni nella classifica delle regioni europee. Colpa delle manovre finanziarie varate dall’estate 2010: per il 2013, i veneti verseranno allo Stato 1,4 miliardi di euro, ben 387 milioni in più rispetto all’anno precedente. Per il 2014 si supererà il miliardo e mezzo di euro, anche per «un ulteriore inasprimento del Patto di Stabilità», che dovrebbe tradursi in una nuova stretta alla spesa pubblica, pari a 75 milioni di euro.«La rivendicazione autonomista appare fondata e largamente maggioritaria», riconosce Diamanti, che vi legge una assoluta trasversalità nell’elettorato. Indipendenza, precisa l’analista, non significa necessariamente secessione: la popolazione vuole autonomia, autogoverno, politici migliori. Certo, il test ha incuriosito la stampa internazionale, nei giorni in cui tiene banco la secessione della Crimea: la protesta del Veneto richiama quella della Catalogna contro Madrid, della Scozia contro Londra. E’ il sintomo di un’Europa smarrita, che ripudia i governi nazionali ormai chiaramente percepiti come succubi di Bruxelles e delle politiche di rigore dell’asse Ue-Bce. Piaga comune: i tagli alla spesa pubblica, che rimbalzano sul settore privato. Il ritorno immediato alla moneta sovrana è il principale cavallo di battaglia di Marine Le Pen, il cui braccio destro Steeve Briois è appena diventato sindaco di Hénin-Beaumont, una località di 26 mila abitanti. E a Marsiglia, la seconda città francese, il Fn ha superato i socialisti, con un risultato superiore al 20%.In una grande città del Sud come Perpignan, segnala il blog di Gad Lerner, i lepenisti sono arrivati in prima posizione superando il sindaco uscente dell’Ump col 34%. Un risultato che potrebbe portarli anche ad una clamorosa vittoria: per la prima volta, è a portata di mano la conquista di una città con più di centomila abitanti. «In molte altre località popolose il Fn ha superato il 30%, così confermando il ruolo di terza forza del sistema politico francese, in modo ormai strutturato. Un successo concentrato in particolare al Sud, ma che non si è limitato alle solite roccaforti della formazione lepenista». Come rimarca “Le Monde”, a questo tornata amministrativa il Fn ha scontato la sua debolezza organizzativa, con un basso reclutamento che però non nasconde la forte avanzata nelle comunali dove erano presenti liste lepeniste. Le amministrative sono state caratterizzate da un livello record di astensione (un francese su tre non ha votato) e dalla débacle dei socialisti al governo. L’Ump, nonostante le sue lotte interne, ha superato nettamente la gauche nel voto locale, tanto che “Le Monde” parla di una disfatta per Hollande.E mentre l’establishment italiano condanna il Fn bollandolo come “estrema destra xenofoba”, Napolitano si ostina a difendere l’europeismo dell’Ue – cioè la fonte della “guerra civile economica” in corso – come storica frontiera di pace. Stavolta se ne distacca persino Vendola: il successo della Le Pen, dice il leader di Sel, è tutto “merito” di politici come Hollande, cioè della sinistra che ha fatto solo e sempre politiche di destra. E’ la storia degli ultimi vent’anni: un filo diretto collega i socialisti francesi al New Labour di Blair, fino alla Spd delle larghe intese con la Merkel e naturalmente al Pd, che semmai – con Renzi e il suo ultra-liberista Jobs Act, tutto flessibilità e niente più diritti – ora sembra “scavalcare a destra” persino Forza Italia, senza più neppure tentare di apparire una forza politica di sinistra. Il Veneto, a quanto pare, non gradisce. E probabilmente sforna un antipasto delle imminenti europee. Il copione non cambia: anche nel 2013 il mainstream tentò di sbarrare la strada a Grillo, criminalizzandolo come “populista”, per poi subire – sbigottito – il trionfo del Movimento 5 Stelle.La crisi innescata dall’adesione all’euro ha “bruciato” vent’anni di crescita, riportando il Veneto ai valori del 1995. Una catastrofe: la regione ha perso il 13,8% di Pil. Secondo la Cna, i settori più colpiti sono l’edilizia (-30%) e l’industria (-20%), seguiti da agricoltura e servizi. Ed ecco spiegato il clamore suscitato dal referendum popolare sull’indipendenza del Veneto, che secondo i promotori – i movimenti autonomisti – si è rivelato un plebiscito, consacrato da due milioni di elettori, proprio mentre Marine Le Pen spaventa l’Unione Europea col successo del Front National alle amministrative francesi. Su “Repubblica”, Ilvo Diamanti invita a prendere sul serio la consultazione veneta, perché la tendenza espressa è confermata da un sondaggio Demos: il 55% del campione chiede che il Veneto diventi “una repubblica indipendente e sovrana”. L’idea piace soprattutto al cuore sociale dell’economia veneta: imprenditori e operai, lavoratori dipendenti e autonomi della piccola impresa. “Traditi”, dopo gli anni del boom, dalla super-tassazione imposta da Bruxelles, dalla crisi del credito e dalle delocalizzazioni imposte dalla globalizzazione selvaggia.
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Gallino: il nemico è la democrazia autoritaria dell’Ue
La democrazia teorizzata e realizzata dai neoliberali è una cattiva imitazione della democrazia. I popoli europei sono stati ingannati dai loro governi. È mancata una spiegazione intellettualmente onesta della crisi, delle sue cause profonde. Gli economisti ci hanno lasciato solo concetti paludati di formule, incomprensibili ai più. Credo si possano tuttavia pensare nuove forme di democrazia diretta, non fosse altro per il fatto che quella rappresentativa non gode davvero di buona salute. Bisognerebbe però operare su più livelli. A livello di Unione Europea, il Parlamento è l’unico organo che attualmente eleggiamo. Quest’ultimo, però, pur disponendo del potere di veto, tende a non utilizzarlo a sufficienza e conta ancora davvero poco. Serve dunque una democrazia rappresentativa più strutturata.La candidatura di Tsipras ha il merito di riportare la nostra attenzione al nesso tra crisi economica e crisi della democrazia. E di farlo ponendo dinanzi ai nostri occhi un esempio concreto come la Grecia, che meglio rappresenta il dramma del fallimento delle politiche di austerità. Dove, secondo l’ultimo rapporto della rivista di medicina “Lancet”, molte famiglie non hanno più nemmeno i soldi per curare i propri bambini. Dobbiamo esserne consapevoli, ciò che è successo ad Atene potrebbe avvenire anche in altri paesi dell’area euromediterranea. Questi sono i costi di una democrazia autoritaria affidata alle tecnocrazie. L’Europa è una grande dimensione politica, che non possiamo permetterci in alcun modo di affossare. Dobbiamo recuperarne l’originario spirito federalista e pretendere che si sviluppi su ben altre direttrici.Quella che oggi si chiama socialdemocrazia farebbe rivoltare nella tomba non pochi dei suoi illustri esponenti del passato. Se penso a quella tedesca, non dimentico che nella seconda metà del secolo scorso si è dimostrata in grado di introdurre grandi innovazioni in senso progressista. Poi però è arrivata l’Agenda 2010 e l’influenza del pensiero economico neoliberale ha preso il sopravvento. Nei primi anni duemila sono state approvate leggi che avevano come unico obiettivo quello di ridimensionare i capitoli principali della spesa sociale, così come sono state adottate politiche attive del lavoro che partivano dal presupposto secondo il quale se qualcuno era disoccupato lo era per propria responsabilità. Gli effetti sono stati quelli di una drastica segmentazione del mercato del lavoro tedesco e una forte moderazione salariale.Oggi in Germania si contano 7,3 milioni di cosiddetti mini-jobbers che lavorano 15 ore alla settimana per guadagnare 450 euro al mese e solo i più fortunati riescono a sommare più lavori. Altri 7,5 milioni di lavoratori hanno sì un contratto a tempo indeterminato ma lavorano per meno di 6 euro all’ora. Basterebbero questi dati a farci capire che negli ultimi due decenni i socialdemocratici in realtà hanno smesso di tutelare i più deboli. Martin Schulz? Ho letto che si è detto contrario alle modalità con cui si sta costruendo l’Unione bancaria e qualche giorno fa la Commissione affari economici di Strasburgo ha approvato una mozione su questo. Non solo, la stessa commissione ha approvato anche una risoluzione che chiede la costituzione di un Fondo Monetario Europeo che rimpiazzi la Troika. Mi sembra si tratti di decisioni in controtendenza rispetto agli orientamenti dell’attuale ministro dell’economia tedesco, Wolfang Schäuble, con il quale la Spd governa. Fatti non trascurabili, ma ancora insufficienti.Nel mio ultimo libro ho teorizzato un “colpo di stato” da parte di banche e governi. Ci sono molti studi che arrivano a questa conclusione. Si parla in un’involuzione autoritaria in cui decisioni di grande importanza, in questi anni, sono state prese da un numero ristretto di tecnici. Ciò che è avvenuto ricalca quello che la teoria politica definisce a tutti gli effetti un “colpo di Stato”, dove parti dello Stato che non ne avrebbero il diritto si arrogano poteri fondamentali attinenti alla sovranità costituzionale dello Stato medesimo. Il sistema finanziario ha preso il potere, in nome di una presunta eccezionalità, imponendosi ai governi nazionali e alla politica. Nuove forme di democrazia a livello locale da cui ripartire? Un terreno potrebbe essere quello della lotta alle privatizzazioni dei servizi di pubblica utilità. Molte analisi ormai lo affermano senza alcun timore di sorta: sono operazioni inefficienti dal punto di vista economico.Come sosteneva Hannah Arendt, la democrazia senza partecipazione non conta niente. Quello che conta maggiormente è il luogo democratico dove si forma l’agenda politica di una comunità, sia essa un comune, una regione, una nazione o un continente. Pensando agli enti locali di maggior prossimità, ci vorrebbero dei consigli comunali dove il primo obiettivo fosse quello di favore la discussione, il confronto aperto tra visioni diverse della società. Luoghi dove estrapolare e aggregare la conoscenza locale. La questione di fondo però è che i cittadini organizzati danno fastidio e la velocità dei processi economici considera i procedimenti democratici più un ostacolo che un’opportunità. Stiamo assistendo dunque a un’involuzione autoritaria. Non ci si può stupire allora che la cancelliera tedesca Angela Merkel, ma anche Van Rompuy e Olli Rehn, auspichino una democrazia “market conform”.(Luciano Gallino, dichiariazioni rilasciate a Mattia Ciampicacigli per l’intervista “Il nostro nemico è la democrazia autoritaria” pubbicata da “Il Manifesto” e ripresa il 7 marzo 2014 dal sito “Lista Tsipras”).La democrazia teorizzata e realizzata dai neoliberali è una cattiva imitazione della democrazia. I popoli europei sono stati ingannati dai loro governi. È mancata una spiegazione intellettualmente onesta della crisi, delle sue cause profonde. Gli economisti ci hanno lasciato solo concetti paludati di formule, incomprensibili ai più. Credo si possano tuttavia pensare nuove forme di democrazia diretta, non fosse altro per il fatto che quella rappresentativa non gode davvero di buona salute. Bisognerebbe però operare su più livelli. A livello di Unione Europea, il Parlamento è l’unico organo che attualmente eleggiamo. Quest’ultimo, però, pur disponendo del potere di veto, tende a non utilizzarlo a sufficienza e conta ancora davvero poco. Serve dunque una democrazia rappresentativa più strutturata.
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Navarro: crisi finita, se la Bce finanziasse gli Stati
Da almeno trent’anni, il nostro potere d’acquisto è in caduta libera, mentre le ricchezze finanziarie sono aumentate in modo esplosivo. Per metter fine alla crisi, ovvero alla Grande Recessione, basterebbe invertire semplicemente la rotta: aumentare i redditi da lavoro e tagliare le unghie alla finanza. Nel solo modo possibile: restituendo sovranità finanziaria agli Stati. Lo sostiene l’economista Vicenc Navarro, docente dell’università Upf “Johns Hopkins” di Baltimora, analizzando le cause della depressione economica. Certo, la deregulation ha creato uno sviluppo “mostruoso” del capitale finanziario, non puù legato alla produzione. Ma chi l’ha voluto? Semplice: gli stessi super-poteri che, dagli anni ‘80, hanno costantemente colpito i lavoratori, tagliando i salari. Di qui la «enorme crescita delle disuguaglianze di reddito» negli Stati dell’Ocse, «il club dei paesi più ricchi del mondo». La causa? La diminuzione dei redditi da lavoro, cioè i redditi del 99% della popolazione. Un dramma, perché proprio un’equa distribuzione dei redditi è il fattore determinante per l’evoluzione economica, sociale e politica di un paese.La maggior parte della popolazione ottiene i propri redditi dal lavoro. E quando questi diminuiscono (tagli ai salari, disoccupazione), anche la domanda di prodotti e servizi, e quindi la loro produzione, decresce. L’economia subisce una caduta: è quello che si chiama recessione. La “scoperta” di questo nesso tra discesa della domanda e crisi economica, scrive Navarro in un’analisi ripresa da “Come Don Chisciotte”, viene spesso attribuita al celebre economista inglese John Maynard Keynes, ma in realtà fu Karl Marx il primo ad avvertire che «l’accumulazione di capitale, a scapito del lavoro, porta alla crisi del capitalismo». Tesi approfondita da uno dei suoi più brillanti seguaci, il polacco Michael Kalecki, il quale a sua volta influenzò economisti come Joan Robinson e Paul Sweezy. Sintetizza Navarro: «Quando la gente non ha soldi, li chiede in prestito. E questo spiega la crescita del sistema bancario». Il super-indebitamento delle famiglie e delle piccole e medie «si deve precisamente alla diminuzione dei redditi da lavoro». Attenzione: «Sin dagli anni ‘80, c’è un’opposta relazione tra la diminuzione dei redditi da lavoro di un paese e la crescita del sistema bancario». Più calano i primi, più cresce il secondo.I dati parlano da soli, continua Navarro. Negli anni ‘80, in relazione al Pil, in Spagna i redditi da lavoro sono diminuiti dal 68%, con valori analoghi negli Usa. Stessa tendenza in tutta l’area Ocse, dalla Grecia alla Svezia, dall’Italia all’Irlanda. «In tutti questi paesi, i redditi da lavoro sono scesi rapidamente a scapito dell’incremento dei redditi da capitale. Questa è la realtà, ignorata, sconosciuta o occultata. E non è sicuramente casuale che Grecia, Irlanda, Italia e Spagna siano i paesi dove la Grande Recessione è stata più forte». Dove crolla la domanda, esplode la recessione. Il credito bancario può sopperire alla diminuzione dei redditi da lavoro e sostenere la domanda di consumi, ma fino a un certo punto. Perché poi, se l’economia si inceppa, chi ha molto denaro cessa di investire nell’economia produttiva e ripiega «in aree dove il rendimento è maggiore, come nelle attività speculative, come ad esempio, il settore immobiliare».Così «si producono le grandi bolle speculative, facilitate dalla deregolamentazione del sistema bancario». E quando la bolla scoppia, «la banca collassa o si paralizza, il credito sparisce e anche l’economia entra in crisi, perché senza credito, anche la domanda tracolla, poiché i salari, sempre più bassi, in assenza di credito, non possono sostenerla. Ed è così che nasce la Grande Recessione». Aggiunge Navarro: «L’enorme concentrazione della ricchezza ha creato la Grande Recessione, così come prima, agli inizi del secolo XX, creó la Grande Depressione». La soluzione? Tecnicamente semplice: «Ribaltare le politiche pubbliche che si sono andate sviluppando, in maggior parte dal 1980 ad oggi, cambiando il segno di questi interventi, favorendo i redditi da lavoro al posto dei redditi da capitale». Aumentare salari, occupazione e impiego, e sfavorire le rendite finanziarie, a cominciare da quelle del settore bancario: «Non ha senso che il sistema bancario privato ottenga prestiti a tassi molto bassi dalla Bce, affinché dopo le banche private possano prestare questo denaro con interessi molto alti alle autorità pubbliche, come lo Stato, o alle imprese». Molto meglio se la Bce prestasse gli euro direttamente agli Stati, incaricati di finanziare famiglie e imprese. «Che tutto ciò accada o meno, dipende da una volontà politica», conclude Navarro. «Affinché accada, si ha bisogno di un cambiamento profondo delle relazioni di potere, includendo le relazioni di potere di classe, nelle quali una minoranza controlla la maggioranza di istituzioni mediatiche e politiche dei paesi dell’Ocse, imponendo politiche ultra-liberali che stanno danneggiando grandemente la popolazione».Da almeno trent’anni, il nostro potere d’acquisto è in caduta libera, mentre le ricchezze finanziarie sono aumentate in modo esplosivo. Per metter fine alla crisi, ovvero alla Grande Recessione, basterebbe invertire semplicemente la rotta: aumentare i redditi da lavoro e tagliare le unghie alla finanza. Nel solo modo possibile: restituendo sovranità finanziaria agli Stati. Lo sostiene l’economista Vicenc Navarro, docente dell’università Upf “Johns Hopkins” di Baltimora, analizzando le cause della depressione economica. Certo, la deregulation ha creato uno sviluppo “mostruoso” del capitale finanziario, non puù legato alla produzione. Ma chi l’ha voluto? Semplice: gli stessi super-poteri che, dagli anni ‘80, hanno costantemente colpito i lavoratori, tagliando i salari. Di qui la «enorme crescita delle disuguaglianze di reddito» negli Stati dell’Ocse, «il club dei paesi più ricchi del mondo». La causa? La diminuzione dei redditi da lavoro, cioè i redditi del 99% della popolazione. Un dramma, perché proprio un’equa distribuzione dei redditi è il fattore determinante per l’evoluzione economica, sociale e politica di un paese.
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Cervelli in fuga: Renzi ha già tradito giovani e precari
Tutta la retorica sul Jobs Act, alla fine, si riduce a una flessibilità quasi selvaggia. Questo è quanto rimane dalla lettura del corposo comunicato stampa del Consiglio dei ministri del “super-mercoledì” renziano. Il miraggio del contratto unico, l’ipotesi del salario minimo o del sostegno ai disoccupati, infatti, va a finire in un progetto di legge delega la cui attuazione dipenderà dal volere degli dei, conoscendo la politica italiana. Da un decreto governativo, invece, immediatamente in vigore per essere convertito dal Parlamento, dipendono le modifiche ai contratti a tempo determinato e all’apprendistato. E si tratta di modifiche pesanti. Per il contratto a termine, infatti, scrive il testo del governo «viene prevista l’elevazione da 12 a 36 mesi della durata del primo rapporto di lavoro a tempo determinato per il quale non è richiesto il requisito della cosiddetta causalità».Ma la novità peggiore è che viene prevista «la possibilità di prorogare anche più volte il contratto a tempo determinato entro il limite dei tre anni, sempre che sussistano ragioni oggettive e si faccia riferimento alla stessa attività lavorativa». Rinnovare anche più volte, senza limiti chiari, significa, come ha notato Tito Boeri su “Repubblica”, poter rinnovare un contratto di lavoro ogni settimana e quindi ben 156 volte nell’arco di tre anni. Le aziende saranno soddisfatte, ma tutti quei lavoratori precari che, pure, hanno sperato nel “contratto unico” di Renzi, che diranno? La proposta del governo pone un solo limite, quello del 20% dei dipendenti di un’azienda che possono essere assunti con contratto a tempo. Su 50 si tratta di dieci contratti, non è poco. Inoltre, nel momento in cui verrà introdotto il contratto unico in cui per almeno tre anni non sarà previsto l’articolo 18, le aziende potranno avere fino a sei anni di disponibilità assoluta del lavoratore, minacciato in ogni momento dal licenziamento.La tendenza è confermata dall’apprendistato in cui verrà previsto il ricorso alla forma scritta solo per il contratto e per il patto di prova. Non ci sarà più, invece, in forma scritta il piano formativo individuale ma, soprattutto, si elimina la norma secondo la quale «l’assunzione di nuovi apprendisti è necessariamente condizionata alla conferma in servizio di precedenti apprendisti». Quindi, si assumeranno apprendisti, con una paga base pari al 35% della retribuzione, e questi potranno essere costantemente sostituiti. Infine, «per il datore di lavoro viene eliminato l’obbligo di integrare la formazione di tipo professionalizzante e di mestiere con l’offerta formativa pubblica, che diventa un elemento discrezionale». A fronte di queste norme, certe, la parte più attesa del “piano del lavoro” rimane rinviata nel tempo. Tutta la materia degli ammortizzatori sociali, della riforma dell’Aspi (l’indennità di disoccupazione), la riforma dei Centri per l’impiego, il contratto unico, il riordino delle forme contrattuali diverse e lo stesso salario minimo, l’estensione della maternità, finiranno in una legge-delega.Uno strumento che in genere mette su un binario morto tanti buoni propositi. In questa decisione si rintraccia una particolare “svolta” operata da Renzi. Quelli che sembravano i suoi settori di riferimento – giovani precari, partite Iva, forza lavoro intellettuale spesso in fuga dall’Italia – vedranno un peggioramento della loro condizione di lavoro e di vita. I settori tradizionali della sinistra – il classico lavoro dipendente – vedranno, invece, un piccolo miglioramento (sempre che il premier non si riveli, come ha detto lui stesso, “un buffone”). Un cambio di “base sociale” che ha spiazzato la Cgil e la minoranza Pd e che rende sempre più “acrobatico” l’esperimento governativo del giovane leader democratico.(Salvatore Cannavò, “Jobs act, il premier tradisce subito i giovani e i non garantiti”, da “Il Fatto Quotidiano” del 15 marzo 2014).Tutta la retorica sul Jobs Act, alla fine, si riduce a una flessibilità quasi selvaggia. Questo è quanto rimane dalla lettura del corposo comunicato stampa del Consiglio dei ministri del “super-mercoledì” renziano. Il miraggio del contratto unico, l’ipotesi del salario minimo o del sostegno ai disoccupati, infatti, va a finire in un progetto di legge delega la cui attuazione dipenderà dal volere degli dei, conoscendo la politica italiana. Da un decreto governativo, invece, immediatamente in vigore per essere convertito dal Parlamento, dipendono le modifiche ai contratti a tempo determinato e all’apprendistato. E si tratta di modifiche pesanti. Per il contratto a termine, infatti, scrive il testo del governo «viene prevista l’elevazione da 12 a 36 mesi della durata del primo rapporto di lavoro a tempo determinato per il quale non è richiesto il requisito della cosiddetta causalità».
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L’euro-pirla che offre alla Merkel lo scalpo degli italiani
Se scodinzoli di fronte al boia, c’è qualcosa che non torna. Tradotto da Matteo Salvini, Lega Nord: «A Berlino abbiamo assistito allo show di un euro-pirla. Renzi, amico della Germania e nemico dell’Italia. Solo un cretino può pensare che possiamo essere alleati». Infatti, «se la Merkel è contenta e gli fa gli auguri, vuol dire che ha capito che continua a guadagnarci: basti pensare che da quando siamo entrati nell’euro la Germania è cresciuta del 30% mentre l’Italia è calata del 20%». Cifre impietose, osservando gli indicatori-chiave, Pil e disoccupazione: l’Eurozona ha lanciato Berlino, massacrando l’Italia. Anche il neo-premier si genuflette: niente sforamento del 3%, rigorosa applicazione della mannaia del patto fiscale europeo. «Non battiamo ciglio quando ci viene detto che dovremo tirar fuori, da quest’anno, 50 miliardi l’anno per il Fiscal Compact, ma ci sembrano chissà quale elargizione gli 80 euro in busta paga per un quinto degli italiani», annota Debora Billi.«Eppure, a fare un piccolo conto – scrive la Billi nel suo blog – scopriamo che appena 10 milioni di persone riceveranno 1.000 euro a fine anno, mentre tutti i 50 milioni di cittadini i 1.000 dovranno pagarli proprio per il Fiscal Compact». Saldo negativo: «Conto paro per alcuni, meno 1.000 euro per tutti gli altri». Ma poco importa, aggiunge la blogger: «Tutti si affannano col mantra del “meglio che niente”, ovvero quell’elemosina dei potenti che da sempre tiene buono il popolino nei momenti di magra o di scontento. Che qualcuno regali soldi sembra ai più un miracolo, mentre il fatto che ci rapinino ogni giorno è ormai dato normale e acquisito. L’eccezione, si sa, fa notizia. Che gli 80 euro “facciano girare l’economia” poi è hard fantasy». Continua la Billi: «Alzi la mano chi non ha una multa arretrata, una cartella Equitalia, un aumento di tasse comunali o regionali o Tarsu o Taris o quel che l’è da pagare. Gli 80 euro torneranno nelle tasche dello Stato più veloci della luce, e pochi saranno quelli che riusciranno a spenderli al negozietto in affanno».Il succo? Stanno cercando di comprarci il voto: «Una vecchia usanza dei politici italiani, che credono da sempre di aver a che fare con dei pezzenti che si vendono per poche lire. Grazie per la stima, ragazzi. Se ci aggiungete due paia di calze e un sacco di carbone magari vi voto anch’io, che qua fa freddo e Putin è cattivo». Nel 1999, riassume Paolo Barnard, l’Italia era la quinta potenza mondiale, una delle maggiori economie d’Europa secondo “Standard & Poor’s”: «Esportavamo più della Germania e avevamo il Pil pro capite più alto d’Europa». Vent’anni dopo, eccoci tra i Piigs: «Siamo i “maiali d’Europa”, abbiamo il 23esimo reddito dell’Ocse, la disoccupazione maggiore da 40 anni». Ogni anno, il nostro Pil perde 800 miliardi, mentre «falliscono oltre 300.000 aziende all’anno e si suicidano più imprenditori che operai per la prima volta nella storia». Inontre, dal 1992 al 2012 l’Italia ha fatto avanzo primario. «Vuol dire che se dai conti dello Stato si tolgono le sue spese per pagare gli interessi sui titoli come i Btp o i Cct, lo Stato ha sempre incassato più tasse di quanto ci desse di denaro. Ci dava 100 e ci tassava 110. Così per 20 anni».E’ la catastrofe della finanza pubblica “privatizzata”, cioè affidata agli “investitori” internazionali che acquistato i titoli del debito pubblico da quando, nel 1981, Bankitalia divorziò dal Tesoro e cessò di essere il “bancomat del governo”, emettendo denaro a costo zero per finanziare i servizi. Poi, con l’euro, il colpo da ko: impossibilità di fare retromarcia, con lo Stato costretto a rivolgersi alle banche private, uniche destinatarie della non-moneta emessa dalla Bce. E quindi, per restare a galla, più tasse. «Se lo Stato spende 100 e tassa 80, al settore di cittadini e aziende rimane al netto 20», ragiona Barnard. «Se spende 100 e tassa 100, rimane 0, se spende 100 e tassa 120 – cioè se lo Stato fa l’avanzo primario – vuol dire che il settore privato deve andare in rosso di 20 ogni volta». Così per vent’anni.Ed ecco come s’è ridotto il settore privato italiano. Oggi, «quasi la metà dei titoli di Stato italiani sono in mani straniere, per cui quasi la metà di quel reddito se n’è andato via dall’Italia. Sono cifre enormi, miliardi su miliardi». Danni limitati, «se questa emorragia di denaro fosse stata giustamente compensata da maggiore spesa pubblica nell’interesse pubblico italiano». Invece, «montagne di denaro» sono volate per pagare interessi stranieri, mentre lo Stato «ci tassava per più di quello che ci dava, privandoci di miliardi su miliardi di spesa essenziale allo sviluppo della nazione». Ora siamo all’inevitabile: economia ko, mutui che saltano, banche che non concedono credito, super-tassazione e “spending review”, privatizzazioni, servizi pubblici in agonia. E’ in arrivo anche il Fiscal Compact, la maxi-tassa europea? Niente paura, Renzi assicura che pagheremo anche quello. Per la gioia della Merkel. Felice, finalmente, del programma di “riforme strutturali” (amputazione definitiva dello Stato, morte economica del paese) che Mario Monti ed Elsa Fornero non erano riusciti a completare.Se scodinzoli di fronte al boia, c’è qualcosa che non torna. Tradotto da Matteo Salvini, Lega Nord: «A Berlino abbiamo assistito allo show di un euro-pirla. Renzi, amico della Germania e nemico dell’Italia. Solo un cretino può pensare che possiamo essere alleati». Infatti, «se la Merkel è contenta e gli fa gli auguri, vuol dire che ha capito che continua a guadagnarci: basti pensare che da quando siamo entrati nell’euro la Germania è cresciuta del 30% mentre l’Italia è calata del 20%». Cifre impietose, osservando gli indicatori-chiave, Pil e disoccupazione: l’Eurozona ha lanciato Berlino, massacrando l’Italia. Anche il neo-premier si genuflette: niente sforamento del 3%, rigorosa applicazione della mannaia del patto fiscale europeo. «Non battiamo ciglio quando ci viene detto che dovremo tirar fuori, da quest’anno, 50 miliardi l’anno per il Fiscal Compact, ma ci sembrano chissà quale elargizione gli 80 euro in busta paga per un quinto degli italiani», annota Debora Billi.
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Padoan, il “dolore utile” che stermina i bambini greci
«Il dolore sta producendo risultati»: fa impressione, proprio ora che è divenuto ministro dell’economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il 29 aprile 2013 al “Wall Street Journal”, quando era vice segretario generale dell’Ocse. Già allora i dati sull’economia reale smentivano una così impudente glorificazione dell’austerità – e addirittura dei patimenti sociali che infliggeva – ma l’ultimo numero di “Lancet”, dedicato alla sanità pubblica in Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: «Queste cose sono il meglio che possa accadere. La caduta dell’uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili».“Lancet” non è un giornale di parte: è tra le prime cinque riviste mediche mondiali. Il suo giudizio sulla situazione ellenica, pubblicato sabato in un ampio dossier (lo ha ripreso Andrea Tarquini sul sito di “Repubblica”), è funesto: la smisurata contrazione dei redditi e i tagli ai servizi pubblici hanno squassato la salute dei cittadini greci, incrementando il numero di morti specialmente tra i bambini, tra gli anziani, nelle zone rurali. Nella provincia di Acaia, il 70 per cento degli abitanti non ha soldi per comprare le medicine prescritte. Emergency denuncia la catastrofe dal giugno 2012. Numerose le famiglie che vivono senza luce e acqua: perché o mangi, o paghi le bollette. Nel cuore d’Europa e della sua cultura, s’aggira la morte e la chiamano dolore produttivo. «Siamo di fronte a una tragedia della sanità pubblica», constata la rivista, «ma nonostante l’evidenza dei fatti le autorità responsabili insistono nella strategia negazionista». Qualcuno deve spiegare a chi agonizza come sia possibile che il dolore e la morte siano “efficaci”, e salvifiche per questo le riforme strutturali fin qui adottate.Né è solo «questione di comunicazione» sbagliata, come sosteneva nell’intervista Padoan: sottolineare gli esiti promettenti del consolidamento fiscale, ammorbidendo magari qualche dettaglio tecnico, non toglie la vittoria al pungiglione della morte. Trasforma solo un’improvvida teoria economica in legge naturale, perfino divina. Moriremo, certo, ma in cambio il Paradiso ci aspetta. Soprattutto ci aspetta se non cadremo nel vizio disinvoltamente rinfacciato agli indebitati-impoveriti: la “fatica delle riforme” (reform fatigue), peccato sempre in agguato quando i governi «sono alle prese con resistenze sociali molto forti». Quando siamo ingrati, come Atene, alle iniezioni di liquidità che l’Unione offre a chi fa bancarotta: nel caso greco, due bailout tardivi, legati a pacchetti deflazionistici monitorati dalla trojka. I contribuenti tedeschi hanno già dato troppo, dicono in Germania. Non è vero, i contribuenti non hanno pagato alcunché perché di prestiti si tratta, anche se a tassi agevolati e destinati in primis alle banche.Difficile dar torto alle “forti resistenze sociali”, se solo guardiamo le cifre fornite su “Lancet” dai ricercatori delle università britanniche di Cambridge, Oxford e Londra. A causa della malnutrizione, della riduzione dei redditi, della disoccupazione, della scarsità di medicine negli ospedali, dell’accesso sempre più arduo ai servizi sanitari (specie per le madri prima del parto) le morti bianche dei lattanti sono aumentate fra il 2008 e il 2010 del 43%. Il numero di bambini nati sottopeso è cresciuto del 19 %, quello dei nati morti del 20. Al tempo stesso muoiono i vecchi, più frequentemente. Fra il 2008 e il 2012, l’incremento è del 12,5 fra gli 80-84 anni e del 24,3 dopo gli 85. E s’estende l’Aids, perché la distribuzione di siringhe monouso e profilattici è bloccata. Malattie rare o estinte ricompaiono, come la Tbc e la malaria (quest’ultima assente da 40 anni. Mancano soldi per debellare le zanzare infette).La rivista inglese accusa governi e autorità europee, ed elogia i paesi come Islanda e Finlandia che hanno respinto i diktat del Fondo Monetario o dell’Unione. Dopo la crisi acuta del 2008, Reykjavik disse no alle misure che insidiavano sanità pubblica e servizi sociali, tagliando altre spese scelte col consenso popolare. Non solo: capì che la crisi minacciava la sovranità del popolo, e nel 2010-2011 ridiscusse la propria Costituzione mescolando alla democrazia rappresentativa una vasta sperimentazione di democrazia diretta. Non così in Grecia. L’Unione l’ha usata come cavia: sviluppi islandesi non li avrebbe tollerati. Proprio nel paese dove Europa nacque come mito, assistiamo a un’ecatombe senza pari: una macchia che resterà, se non cambiano radicalmente politiche e filosofie ma solo questo o quel parametro.Il popolo sopravvive grazie all’eroismo di Ong e medici volontari (tra cui Médecins du Monde, fin qui attivi tra gli immigrati): i greci che cercano soccorso negli ospedali “di strada” son passati dal 3-4% al 30%. S’aggiungono poi i suicidi, in crescita come in Italia: fra il 2007 e il 2011 l’aumento è del 45%. In principio s’ammazzavano gli uomini. Dal 2011 anche le donne. “Lancet” non è ottimista sugli altri paesi in crisi. La Spagna, cui andrebbe assommata l’Italia, è vicina all’inferno greco. Alexander Kentikelenis, sociologo dell’università di Cambridge che con cinque esperti scrive per la rivista il rapporto più duro, spiega come il negazionismo sia diffuso, e non esiti a screditare le più serie ricerche scientifiche (un po’ come avviene per il clima). L’unica istituzione che si salva è il Centro europeo di prevenzione e controllo delle malattie, operativo dal 2005 a Stoccolma.La Grecia prefigura il nostro futuro prossimo, se le politiche del debito non mutano; se scende ancora la spesa per i servizi sociali. Anche in Italia esistono ospedali di volontari, come Emergency. La luce in fondo al tunnel è menzogna impudente. Senza denunciarla, Renzi ha intronizzato ieri la banalità: «L’Europa non dà speranza se fatta solo di virgole e percentuali» – «l’Italia non va a prendere la linea per sapere che fare, ma dà un contributo fondamentale». Nessuno sa quale contributo. Scrive l’economista Emiliano Brancaccio che i nostri governi «interpretano il risanamento come fattore di disciplinamento sociale». Ma forse le cose stanno messe peggio: il risanamento riduce malthusianamente le popolazioni, cominciando da bambini e anziani.Regna l’oblio storico di quel che è stata l’Europa, del perché s’è unita. Dimentica anche la Germania, che pure vive di memoria. Dopo il ‘14-18 fu trattata come oggi la Grecia: sconfitto, il paese doveva soffrire per redimersi. Solo Keynes insorse, indignato. Nel 1919 scrisse: «Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza [...], se miriamo deliberatamente all’umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà». La vendetta non tardò a farsi viva, ed è il motivo per cui ben diversa e più saggia fu la risposta nel secondo dopoguerra. Quella via andrebbe ripercorsa e potrebbe sfociare in una Conferenza europea sul debito, che condoni ai paesi in difficoltà parte dei debiti, connetta i rimborsi alla crescita, dia all’Unione poteri politici e risorse per lanciare un New Deal di ripresa collettiva e ecosostenibile. È già accaduto, in una conferenza a Londra che nel 1953 ridusse quasi a zero i debiti di guerra della Germania. I risultati non produssero morte, ma vita. Fecero rinascere la democrazia tedesca. Non c’era spazio, a quei tempi, per i Pangloss che oggi tornano ad affollare le scene.(Barbara Spinelli, “Gli invisibili d’Europa”, da “La Repubblica” del 26 febbraio 2014, intervento ripreso da “Micromega”).«Il dolore sta producendo risultati»: fa impressione, proprio ora che è divenuto ministro dell’economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il 29 aprile 2013 al “Wall Street Journal”, quando era vice segretario generale dell’Ocse. Già allora i dati sull’economia reale smentivano una così impudente glorificazione dell’austerità – e addirittura dei patimenti sociali che infliggeva – ma l’ultimo numero di “Lancet”, dedicato alla sanità pubblica in Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: «Queste cose sono il meglio che possa accadere. La caduta dell’uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili».
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Sapelli: Ucraina, gli Usa ci consegnano alla Germania
Attraverso la dirompente crisi dell’Ucraina, gli Usa ci stanno di fatto “consegnando” alla Germania. Lo denuncia l’economista Giulio Sapelli: l’improvvida offensiva di Washington e l’assenza totale di politica estera da parte dell’Ue finiranno per lasciare sul campo la sola Merkel, cioè il potenziale manifatturiero tedesco, a contatto diretto – tramite Kiev – con l’enorme disponibilità russa di energia e materie prime. Tutto questo mentre cresce l’allarme sulla deflazione, imposta alla Bce per favorire il “made in Germany” a scapito dei maggiori concorrenti, Italia in primis. «Il problema – afferma Sapelli – risiede nel fatto che Mario Draghi, nonostante il sostegno americano di cui gode, ha visto la Medusa ed è rimasto pietrificato. La Medusa è la Merkel, la quale è destinata ad assurgere a un ruolo da cancellierato d’accatto deflazionistico sempre più rilevante grazie all’iniziativa diplomatica ed economica di fatto assunta da lei e dal suo governo in occasione della crisi ucraina».Del resto, continua Sapelli su “Il Sussidiario”, il kombinat tedesco-russo energetico e manifatturiero «è congeniale per esercitare su Putin e Lavrov, grande ministro degli esteri russo, un peso assai superiore a quello di ogni diplomazia europea e financo al peso della diplomazia dell’Ue». Secondo lo storico dell’economia, sarebbe bastato che «l’incredibile baronessa Ashton», referente di Bruxelles per la politica estera, «si fosse mossa alle prime increspature della crisi, assicurando a Putin e al suo blocco economico-militare di potere che l’Ue si sarebbe impegnata a conservare ai russi, in qualsivoglia situazione politica si fosse trovata l’Ucraina, l’utilizzazione della base di Sebastopoli in Crimea», che peraltro Mosca «conserva grazie a un affitto molto ingente, così come fa con quella nucleare in Kazakhstan».Il clima da guerra fredda che si sta alzando in Europa, continua Sapelli, non può che avere pesantissime conseguenze sulla situazione economica. «La paralisi di Mario Draghi è emblematica nel segnalare che il crescente potere della Merkel avrà conseguenze nefaste». Di fronte a questo, «c’è da rimanere stupefatti per la schizofrenia degli Usa», sorti agli avvertimenti dello stesso Kissinger, memore dei moniti lanciati da un intellettuale come Sergei Karaganov, «ossia la sindrome da accerchiamento della Russia postcomunuista». Oggi gli Stati Uniti «oscillano da un atteggiamento monocratico a un atteggiamento delegazionistico». Kerry, prosegue Sapelli, ha incontrato Lavrov a Roma per il vertice sulla Libia «nello stesso giorno in cui si svolgeva la riunione di Bruxelles sul caso ucraino, delegittimando di fatto l’Europa».Delegittimazione confermata anche «dallo sciagurato invio muscolare di aerei da combattimento nelle basi polacche, che hanno già i missili rivolti verso la Russia». Nel contempo, Washington dimostra anche «l’incapacità di tradurre i colloqui e le minacce in proposte concrete e realistiche». Una imperdonabile debolezza, che «apre la strada al negoziato tutto moneta e beni di scambio che la signora Merkel intrattiene». In concreto: «Se si pensa di risolvere la questione ucraina con gli 11 miliardi di euro promessi al nuovo governo ci si sbaglia di grosso». E attenzione: «Far tirare la cinghia agli europei di serie B, mentre di fa diplomazia facendo l’elemosina, non può che far incattivire la povera gente e quei settori della popolazione già stremati dalla costante, tenace e cieca distruzione del modello sociale europeo, che Frau Merkel e i suoi muti alleati da anni stanno perseguendo».Attraverso la dirompente crisi dell’Ucraina, gli Usa ci stanno di fatto “consegnando” alla Germania. Lo denuncia l’economista Giulio Sapelli: l’improvvida offensiva di Washington e l’assenza totale di politica estera da parte dell’Ue finiranno per lasciare sul campo la sola Merkel, cioè il potenziale manifatturiero tedesco, a contatto diretto – tramite Kiev – con l’enorme disponibilità russa di energia e materie prime. Tutto questo mentre cresce l’allarme sulla deflazione, imposta alla Bce per favorire il “made in Germany” a scapito dei maggiori concorrenti, Italia in primis. «Il problema – afferma Sapelli – risiede nel fatto che Mario Draghi, nonostante il sostegno americano di cui gode, ha visto la Medusa ed è rimasto pietrificato. La Medusa è la Merkel, la quale è destinata ad assurgere a un ruolo da cancellierato d’accatto deflazionistico sempre più rilevante grazie all’iniziativa diplomatica ed economica di fatto assunta da lei e dal suo governo in occasione della crisi ucraina».
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Mangiare con 50 euro al mese, anche Tsipras si piega
Pessime notizie, tanto per cambiare, da Atene: anche Alexis Tsipras, candidato di opposizione alla presidenza della Commissione Europea, si è ormai di fatto rassegnato alla retrocessione definitiva della Grecia verso il terzo mondo, guidato dai suoi spin-doctor americani. Lo sostiene Grigoriou Panagiotis, in un drammatico diario quotidiano che illustra le condizioni di vita sempre più precarie della popolazione, in un paese in cui – secondo la rivista medica “Lancet” – il rigore della Troika di Bruxelles ha fatto aumentare la mortalità infantile del 42%. Emergenza umanitaria, grazie alla spietata “cura” neoliberista dell’Unione Europea, che ha raso al suolo lo Stato greco e la sua capacità di proteggere i cittadini. Risultato: niente soldi per cibo e medicinali. Ormai si sopravvive con 50 euro al mese: è il budget medio destinato all’alimentazione della famiglia. La vera tragedia? Tutti si stanno abituando all’idea, anche Syriza.«E’ il nuovo modello pensato per la Grecia e, fatte le debite proporzioni, per l’Irlanda», scrive Panagiotis in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. E’ la nuova povertà, ovvero «l’arte di vivere con 550 euro al mese, spendendo 200 euro per l’edilizia abitativa, 100 per riscaldamento ed elettricità, 30 di costi vari come l’acqua, 40 per il telefono – Internet compreso – e 100 euro dedicati alla cosiddetta previdenza sociale». E per il cibo? Soltanto 50 euro al mese. «Da qui la recente competizione tra i partiti politici (business tutto sommato succoso) su chi organizzerà la prima migliore zuppa popolare. E’ questo, del resto, il povero modello che Syriza ha già adottato senza dirlo troppo in giro». Secondo il blogger ellenico, a rassegnarsi alla “normalizzazione” degli stipendi medi attorno ai 580 euro sono gli stessi analisti del think-tank “Levy Economics Institute” del Bard College di New York, istituto che da poco più di un anno «è diventato consulente chiave (e ufficiale) della politica economica per il partito di Alexis Tsipras».Anziché combattere contro la camicia di forza dell’Eurozona, gli specialisti americani «propongono la messa in circolazione di una moneta interna e parallela all’euro», e in ogni caso si preparano a far digerire ai greci un futuro da 500 euro al mese. «Un economista del Levy Institute – continua Panagiotis – mi aveva detto a margine di un simposio qualche mese fa che “è preferibile allineare gli stipendi sui 580 euro mensili, piuttosto che lasciar diffondere la situazione attuale dove moltissimi greci lavorano talora come schiavi per meno di 300 euro al mese”». Capito? «Aspettando i 580 euro, Syriza e anche l’elettricità, in certi quartieri gli abitanti si organizzano in assemblee popolari per inventare, forse, un modo con il quale poter resistere di fronte ai pignoramenti immobiliari organizzati dal regime bancocrate, che ha come scopo quello di sottrarre ai greci i loro beni immobiliari in modo da sottometterli in una maniera più “adeguata” al nuovo regime di neo-depauperati, probabilmente sotto l’alto patronato della Banca Mondiale, perché no?».Pessime notizie, tanto per cambiare, da Atene: anche Alexis Tsipras, candidato di opposizione alla presidenza della Commissione Europea, si è ormai di fatto rassegnato alla retrocessione definitiva della Grecia verso il terzo mondo, guidato dai suoi spin-doctor americani. Lo sostiene Grigoriou Panagiotis, in un drammatico diario quotidiano che illustra le condizioni di vita sempre più precarie della popolazione, in un paese in cui – secondo la rivista medica “Lancet” – il rigore della Troika di Bruxelles ha fatto aumentare la mortalità infantile del 42%. Emergenza umanitaria, grazie alla spietata “cura” neoliberista dell’Unione Europea, che ha raso al suolo lo Stato greco e la sua capacità di proteggere i cittadini. Risultato: niente soldi per cibo e medicinali. Ormai si sopravvive con 50 euro al mese: è il budget medio destinato all’alimentazione della famiglia. La vera tragedia? Tutti si stanno abituando all’idea, anche Syriza.
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Basta tasse: come trovare, gratis, 70 miliardi l’anno
Possiamo far ripartire l’economia risparmiando fino a 70 miliardi di euro l’anno. La soluzione è scritta nell’articolo 123 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea. Il governo può creare una banca di proprietà statale che lo finanzi. Il sistema è semplice: la Bce crea il denaro e lo presta alla banca pubblica allo 0,25% e la banca pubblica lo presta allo Stato a tassi di interesse nettamente inferiori all’attuale 4%. Lo abbiamo chiesto all’Unione Europea e il 14 gennaio 2014 abbiamo ricevuto la risposta. Si può fare. Ecco i dettagli tecnici e la corrispondenza con la Bce. L’immagine che ognuno di noi ha dell’Italia è di un paese in cui “non ci sono soldi” e la spiegazione che ci viene fornita è che i governi da decenni spendono di più di quello che incassano, per cui l’accumulo dei deficit pubblici cronici ha creato un enorme debito rendendo necessaria l’austerità.In realtà, la causa dell’elevato debito pubblico, attualmente di 2.100 miliardi, sta nel fatto che negli ultimi trenta anni lo Stato italiano ha pagato più di 3.000 miliardi di interessi. La soluzione del problema è quindi ridurre il costo degli interessi sul debito ad un livello pari o inferiore all’inflazione, come accade in Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone, Cina o come si faceva anche in Italia fino al 1981. Il problema del debito pubblico non è, quindi, un problema di deficit eccessivi, ma di interessi eccessivi: ce lo dicono i dati. Basta notare che dal 1992-1993 le spese delle Stato in Italia sono sempre inferiori alle entrate e addirittura, se guardiamo alla situazione attuale nel mondo, l’Italia è oggi il paese in cui lo Stato ha il surplus di bilancio più alto! Il debito pubblico italiano è esploso di colpo tra il 1982 al 1993, quando la spesa per interessi passò da 35 a 156 miliardi (traslando le lire di allora in euro di oggi). Si può quindi sostenere che, a parità (presumibilmente) di sprechi e corruzione, il debito pubblico è raddoppiato in percentuale del Pil a causa della spesa per interessi.I deficit annui (differenza tra spese ed entrate) hanno oscillato intorno ad una media di 40 miliardi annui e in percentuale del Pil hanno oscillato dal 3% al 7%, ma la spesa per interessi è raddoppiata in quattro anni, dai 35 miliardi del 1980 ai 69,8 miliardi del 1984 e di nuovo è raddoppiata a 142 miliardi nel 1991 per toccare un picco a 157 miliardi nel 1992. Dal 1992 lo Stato italiano ha applicato politiche di austerità, cioè di aumento delle tasse, aumentando le sue entrate in modo da avere sempre un avanzo di bilancio (differenza tra spese ed entrate prima degli interessi). Nonostante più di venti anni di politiche di austerità, cioè di imposizione fiscale crescente iniziate con i governi Ciampi e Dini nei primi anni ’90, lo Stato non è poi più riuscito a ridurre il debito pubblico a causa della “rincorsa” degli interessi che si cumulavano. La ragione di questa esplosione di spesa per interessi è che nel 1981 è caduto l’obbligo della Banca d’Italia di comprare debito pubblico calmierandone gli interessi (e dal 1989 si è vietato formalmente, nel Trattato di Maastricht ogni finanziamento dello Stato da parte della sua banca centrale).La “Troika” (Ue, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario) e i governi Monti, Letta e ora Renzi, non menzionano mai, però, questo semplice fatto, che il debito pubblico si è cumulato a causa del fatto che lo Stato è stato costretto a finanziarsi sul mercato e quindi pagare interessi reali elevati, mentre prima usufruiva del finanziamento di Banca d’Italia che ne riduceva il costo ad un livello pari o inferiori all’inflazione e quindi il debito non si accumulava (in percentuale sul Pil). In aggiunta, come molti sanno, con l’euro circa metà dei Btp sono stati comprati da investitori esteri, per cui almeno metà degli interessi pagati sono usciti dalla nostra economia (a differenza di quanto avveniva fino a metà anni ’90). Detto in parole semplici, lo Stato italiano è stato obbligato a farsi prestare denaro a costi di interessi dettati dalle banche estere (diciamo dal mercato finanziario estero), quando invece avrebbe potuto continuare a farsi finanziare a costo zero dalla Banca d’Italia. Se quindi eliminiamo questo laccio finanziario che costringe all’austerità permanente, l’Italia potrebbe ridurre le tasse in modo sostanziale e tornare ad essere un paese con un’economia paragonabile agli altri paesi europei e non un caso quasi disperato di depressione economica come accade ora.La soluzione. Lo Stato italiano può invertire questo meccanismo e da subito. In apparenza non sembra possibile farlo senza uscire dall’euro e rompere i trattati europei perché l’Unione Europea ha vietato alla Banca Centrale Europea di finanziare l’acquisto diretto di titoli di Stato e l’unica azione che la Bce può fare è quella di creare denaro per prestarlo alle banche. E’ vero che la Bce ha anche comprato nel 2011-2012 titoli di Stato di paesi in difficoltà, ma come misura di emergenza e in misura molto limitata perché appunto è vincolata dai trattati europei (a differenza delle banche centrali dei paesi anglosassoni e asiatici). La Bce da quando è iniziata la crisi finanziaria nel 2008 ha però creato (“dal niente” e senza costi) circa 2,800 miliardi di euro e ha di recente fornito alle banche più di 1.000 miliardi ad un costo vicino a zero, usati da queste per comprare titoli di Stato a lunga durata come i Btp. In pratica le banche italiane hanno ricevuto prestiti ad un costo inferiore allo 0,5% con cui hanno comprato Btp che rendevano più del 4%.E’ evidente che se lo Stato potesse prendere a prestito dalla Bce lo stesso denaro che ha fornito alle banche a questo tasso, risparmierebbe decine di miliardi e del famoso “spread” non si sentirebbe più parlare, ma come sappiamo questa strada sembra sbarrata, oltre che dall’opposizione dei quattro paesi nordici, dai trattati europei che l’Italia ha firmato. In realtà il comma 2 dello stesso articolo 123 offre una scappatoia agli Stati dell’Eurozona, perché prevede che gli enti creditizi di proprietà pubblica possano anche loro ricevere finanziamenti dalla Bce. E poi niente impedisce che girino questi soldi allo Stato. Uno stato della Ue che controlli enti creditizi potrebbe farsi finanziare da loro i deficit, pagando un interesse vicino a quello che la Bce offre, cioè vicino allo zero e comunque non superiore all’inflazione. L’ideale sarebbe non continuare ad emettere Btp, ma utilizzare prestiti diretti, ad esempio a tre anni, che rispetto all’acquisto di Btp offrono il vantaggio che il loro valore a bilancio non oscilla di anno in anno a causa di andamenti di mercato e quindi elimina il problema degli attacchi speculativi sul Btp.Su un debito pubblico italiano attuale di circa 2.000 miliardi questo significa arrivare a pagare interessi per ad esempio 10-20 miliardi annui invece che gli oltre 80 miliardi attuali. Anche se occorre del tempo perchè man mano il debito a scadenza venga rifinanziato con prestiti diretti di banche pubbliche, in pratica l’effetto di “calmiere” sul mercato lo sentiresti da subito, perché il mercato finanziario si renderebbe conto che lo Stato italiano ha di nuovo accesso diretto alla liquidità. In pratica avresti un effetto calmieratore sul costo del debito simile a quello che ottengono in Giappone, Gran Bretagna, Stati Uniti con l’accesso diretto alla liquidità della loro banca centrale. La sostanza è che se il debito pubblico venisse man mano rifinanziato tramite prestiti diretti di banche pubbliche (che hanno accesso al finanziamento della Bce), il suo costo non verrebbe più determinato dal mercato finanziario. Si tornerebbe cioè alla situazione pre-1981, quando il costo del debito pubblico non era un problema perché era costantemente pari o inferiore all’inflazione.Va sottolineato che non ci sarebbe alcun rischio per le banche pubbliche, perché lo Stato italiano, al netto degli interessi, è un ottimo “pagatore”. Infatti lo Stato italiano sarebbe in attivo negli ultimi 20 anni di 500 miliardi di euro (sempre al netto degli interessi). E’ chiaro che è un ottimo cliente per qualsiasi banca e un banca pubblica può prestare senza fini di lucro, ad un costo che copra le sue spese amministrative. Senza contare che prestare allo Stato non è considerato nei regolamenti bancari europei un rischio che richiede di accantonare capitale e di conseguenza è possibile per le banche prestare 500 o 1.000 miliardi senza dover aumentare di un euro il loro capitale (cosa dimostrata dal programma di Draghi chiamato “Ltro” lanciato a fine 2012, in cui appunto le banche hanno comprato centinaia di miliardi di Btp senza accantonare alcun capitale addizionale).Esiste quindi la strada per lo Stato italiano per arrivare a risparmiare anche 70 miliardi di euro di interessi all’anno. Abbiamo voluto verificare questa possibilità, (applicata in Germania e Francia tramite due enti pubblici, rispettivamente Kfw e Bpi), contattando gli uffici dell’Unione Europea circa la fattibilità dell’utilizzo di banche pubbliche per finanziare lo Stato. La risposta ricevuta per email (a nome della Bce) è stata affermativa: «Il divieto di scoperto bancario e di altre forme di facilitazione creditizia in favore dei governi non si applicano agli enti creditizi di proprietà pubblica che, nel contesto dell’offerta di liquidità da parte delle banche centrali, devono ricevere dalle banche centrali nazionali e dalla Banca Centrale Europea lo stesso trattamento degli enti creditizi privati». Inoltre, in riferimento a banche pubbliche: «Gli istituti di credito possono liberamente prestare i soldi ai governi o comprare i loro titoli di Stato, nonché prestare soldi a qualsiasi cliente».E’ quindi possibile per lo Stato italiano nazionalizzare una banca, la quale acceda alla liquidità della Bce e finanzi il suo debito ad un tasso di interesse appena superiore a quello applicato dalla Bce stessa e in ogni caso sempre molto inferiore a quello di mercato, che va ricordato è attualmente superiore del 3% all’inflazione. Stiamo parlando qui di come “trovare” non due o tre miliardi con l’Imu o qualche privatizzazione o risparmiando sulla sanità, le scuole, le infrastrutture, ma risparmiando sugli interessi, sulla rendita che da decenni lo Stato italiano paga a investitori esteri, banche e anche a investitori italiani. Si tratta alla fine di scegliere tra rendita finanziaria o lavoro e imprese. La rendita finanziaria ha incassato in trenta anni dallo Stato, lo ricordiamo ancora, più di 3.000 miliardi di euro di interessi, mentre le imprese e i lavoratori italiani venivano schiacciati da una tassazione soffocante, giustificata con il peso del debito pubblico di 2.000 miliardi, creato dall’accumularsi di questi interessi.Gli italiani devono rendersi conto che non è vero che “non si può fare niente” contro il peso del debito pubblico e delle tasse a causa dei trattati firmati e delle posizioni degli altri governi all’interno delle istituzioni europee. In realtà, un governo italiano competente e che abbia a cuore gli interessi degli italiani invece che del “mercato finanziario” può muoversi anche all’interno dei trattati europei. Il nostro, oltre che un articolo, è anche un appello ai cittadini italiani che trovino convincenti i fatti che abbiamo esposto e diffondano, ovunque possano, questa soluzione pratica al problema del debito, allo scopo di mettere la parola fine alle politiche di austerità che stanno soffocando l’economia italiana.(Giovanni Zibordi e Claudio Bertoni, sintesi dell’intervento “Il debito pubblico è un problema di interessi, non di deficit eccessivi e si può risolvere”, ripreso dal blog di Marco Della Luna. L’intervento integrale include il carteggio intercorso con l’Unione Europea e la Bce. Analista finanziario, Giovanni Zibordi gestisce uno dei siti finanziari più noti in Italia, www.cobraf.com; Claudio Bertoni proviene dall’imprenditoria del settore equo-solidale).Possiamo far ripartire l’economia risparmiando fino a 70 miliardi di euro l’anno. La soluzione è scritta nell’articolo 123 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea. Il governo può creare una banca di proprietà statale che lo finanzi. Il sistema è semplice: la Bce crea il denaro e lo presta alla banca pubblica allo 0,25% e la banca pubblica lo presta allo Stato a tassi di interesse nettamente inferiori all’attuale 4%. Lo abbiamo chiesto all’Unione Europea e il 14 gennaio 2014 abbiamo ricevuto la risposta. Si può fare. Ecco i dettagli tecnici e la corrispondenza con la Bce. L’immagine che ognuno di noi ha dell’Italia è di un paese in cui “non ci sono soldi” e la spiegazione che ci viene fornita è che i governi da decenni spendono di più di quello che incassano, per cui l’accumulo dei deficit pubblici cronici ha creato un enorme debito rendendo necessaria l’austerità.
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Senza moneta siamo in agonia? Toseranno i risparmi
Non fate l’errore, cari lettori, di credere davvero che quella di Graziano Delrio sia stata la classica scivolata su una buccia di banana frutto dell’inesperienza. Non è così. Perché il sottosegretario alla presidenza del Consiglio è tutto tranne che un politico inesperto: è furbo, preparato, e naviga a vari livelli nei marosi della politica attiva da qualche decennio. Se parla, sa cosa dice. E quando ha parlato di aumentare la tassazione sui Bot dall’attuale 12,5% – sottolinea Mauro Bottarelli – non ha dato fiato a una voce dal sen sfuggita: ha testato la piazza, su preciso mandato. «È come nel rugby: la prima mischia ordinata della partita serve a testare la consistenza del pacchetto avversario. Chi vince la prima, impone le regole tutta la partita. Magari non fisicamente, ma sicuramente psicologicamente».Non a caso, aggiunge Bottarelli su “Il Sussidiario”, il comunicato con cui Palazzo Chigi ha tentato di tamponare l’incidente diplomatico alla vigilia del voto di fiducia è la classica toppa peggio del buco: si dice infatti sì che l’intenzione non è quella di imporre nuove tasse bensì di abbassare quelle attuali, ma si parla anche di rimodulazione delle aliquote per finanziare l’abbattimento del cuneo fiscale. Quindi, non si esclude affatto che quel 12,5% possa diventare 15%. O magari 20%. Tanto, come ha detto Delrio, la vecchietta con i suoi Bot non starà male per questo. Tanto più che servirà a qualcosa di importante, ovvero l’abbattimento del costo del lavoro per aiutare i giovani a essere assunti e gli imprenditori ad assumere. «Un bel ricatto morale, fatto alla perfezione. Ce lo chiede l’Europa, mancava nel comunicato. Ma non tarderà a saltare fuori questa formula».Questo, insiste Bottarelli, è il governo dei curatori fallimentari, in missione per conto della Commissione Europea. Lo si capisce benissimo fin dalle prime battute, «al netto del nulla cosmico in cui si è sostanziato il discorso di Matteo Renzi al Senato, tra bambini che meritano scuole sicure e investimenti esteri mischiati insieme come in un frullato zuccheroso di buone intenzioni senza nemmeno una cifra o un provvedimento concreto». Per capire l’aria che tira, continua l’analista del “Sussidiario”, basta dare un’occhiata a quello che sta succedendo all’estero. Nel silenzio più assoluto, il governo austriaco ha appena reso noto che i detentori di bond di Hypo-Alde-Adria-Bank, nazionalizzata nel 2009, potrebbero non vedersi ripagato il capitale: questo avviene in Austria, non a Cipro o in Grecia.La decisione del governo toccherà solo i bond con garanzia della provincia della Carinzia, mentre quelli con garanzia federale pagheranno secondo le regole. Ma un nuovo modello, dopo quello cipriota del bail-in, sembra giunto in Europa a mostrare la via. «Ora, se il governo di un paese sano come l’Austria arriva a questo nei riguardi di un istituto nazionalizzato, a cosa potrà arrivare quello italiano, paese dove le banche hanno oltre il 12% di sofferenze sul totale dei prestiti e Monte dei Paschi dovrà essere nazionalizzata entro la fine dell’anno?». D’altronde, il governo Renzi «ha una genealogia lunga e tutta compresa nel documento segreto redatto dalla Commissione Europea, che la Reueters ha intercettato e letto». Eccone il punto fondamentale: «I risparmi dei 500 milioni di cittadini dell’Unione Europea saranno usati per finanziare investimenti a lungo termine per stimolare l’economia e contribuire a riempire il vuoto lasciato dalle banche dall’inizio della crisi finanziaria».Ufficialmente, la Commissione vuole “svezzare” le economie dei 28 paesi sudditi «dalla loro pesante dipendenza dai prestiti bancari, e trovare altri mezzi di finanziare le piccole imprese, i progetti infrastrutturali e altri investimenti». Tutto questo, in una situazione in cui – in previsione dell’unione bancaria – le banche temono gli stress test «che, se venissero condotti in maniera seria, vedrebbero una serie di bocciature capace gli spedire gli spread reali sulla luna». C’è poi la ricetta di Davide Serra, il guru finanziario di Renzi. Secondo Serra, «il primo problema è il debito sbilanciato: troppo debito pubblico, poco privato e poco delle aziende. Questo blocca la crescita». Serra, inoltre, propone anche l’abolizione del contante e il ricalcolo di tutte le pensioni, oggi modulate col sistema retributivo, per rimetterle al magrissimo sistema contributivo: «Il tutto – conclude Bottarelli – per dare i soldi in surplus ricavati alle imprese, sgravando le banche dal loro compito. In qualche modo, una redistribuzione forzosa dai vecchi ai giovani: tu chiamala, se vuoi, rottamazione».Da quando hanno preso i soldi dalla aste Ltro della Bce, le banche «stanno comprando debito pubblico come se non ci fosse un domani». Chiedere agli istituti di credito di finanziarie anche le imprese? «E’ troppo. Ci pensino i cittadini-contribuenti: attraverso le pensioni, la tassazione sui Bot, i tagli sulle detenzioni obbligazionarie e magari domani un bel prelievo forzoso sui conti correnti, come suggerito poco tempo fa dal Fmi». Certo, aggiunge l’analista, l’aver tenuto in piedi l’euro come moneta, agendo sul debito sovrano, ha comportato un prezzo alto da pagare, e non solo per la banche: si è fatto grippare del tutto il motore di creazione di credito in Europa. Il quale oggi è creato dalle banche, che lo fanno indebitandoci: così, la massa monetaria s’è ridotta all’1,5% annuo, ben sotto al target del 4,5% a cui fa riferimento la stessa Bce per mantenere l’inflazione al 2%, come detta il suo mandato.C’è però un problemino, reso noto da Eurostat: inflazione stabile a gennaio per l’Eurozona. Ovvero: la deflazione è dietro l’angolo. «Se non aumenta la massa monetaria, non sale l’inflazione: e Draghi non solo non è stato in grado di mantenere il suo target del 4,5% ma lo ha dimezzato, facendo scendere il tasso inflattivo sotto la metà dell’obiettivo prefissato del 2%». Avverte Bottarelli: «In queste condizioni, l’Italia muore. E i soldi vanno presi dove ci sono, ovvero nel risparmio dei cittadini, visto che le banche non prestano ad aziende non finanziarie, come mostra questo grafico. Preparatevi alla grande tosatura, cari lettori, il governo dei curatori fallimentari è qui per questo. E Delrio non è affatto lo sprovveduto che vogliono dipingere: ha tastato il polso, su mandato. Ora basterà uno scossone, un’emergenza a livello europeo, uno spavento sullo spread e tutto sarà possibile. Perché ce lo chiede l’Europa e lo farà con la faccia giovane, fresca e rassicurante di Matteo».Non fate l’errore, cari lettori, di credere davvero che quella di Graziano Delrio sia stata la classica scivolata su una buccia di banana frutto dell’inesperienza. Non è così. Perché il sottosegretario alla presidenza del Consiglio è tutto tranne che un politico inesperto: è furbo, preparato, e naviga a vari livelli nei marosi della politica attiva da qualche decennio. Se parla, sa cosa dice. E quando ha parlato di aumentare la tassazione sui Bot dall’attuale 12,5% – sottolinea Mauro Bottarelli – non ha dato fiato a una voce dal sen sfuggita: ha testato la piazza, su preciso mandato. «È come nel rugby: la prima mischia ordinata della partita serve a testare la consistenza del pacchetto avversario. Chi vince la prima, impone le regole tutta la partita. Magari non fisicamente, ma sicuramente psicologicamente».