Archivio del Tag ‘disoccupazione’
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Bagnai: cretini di sinistra, l’immigrazionismo è colonialismo
«Il nostro paese è stato distrutto da quelli che ci propongono come panacea i lavoratori altrui, dopo averci proposto come panacea la moneta altrui. E un paese distrutto, semplicemente, non ha risorse per aiutare nessuno». Parola di Alberto Bagnai, che sul blog “Goofynonics” rilancia un intervento già abbozzato anni fa, destinato ai suoi studenti della Sapienza, corso di laurea in “economia della cooperazione internazionale e dello sviluppo”. La tesi: “L’immigrazionismo è la fase suprema del colonialismo”. «Per motivi scellerati – premette l’economista – abbiamo mandato al potere gli immigrazionisti: quelli che, ideologicamente, vedono nella libera immigrazione in Italia la soluzione dei problemi del mondo, senza se e senza ma». I nostri aiuti allo sviluppo? Cronicamente insufficienti: «Lo sono sempre stati, proprio perché l’egemonia culturale e politica è stata esercitata dai neoliberisti (cioè dagli idoli degli iussolisti scemi – e anche di quelli furbi), i quali, come sappiamo, vogliono reprimere la spesa pubblica – qualsiasi spesa – sotto la fulgida egida del “non ci sono risorse”». E oggi il problema si è aggravato: parte delle risorse che potremmo dedicare all’emancipazione di quei popoli «viene dedicata al loro traghettamento», via Lampedusa. «Le risorse ci sarebbero sia per traghettare, che per emancipare», ma «la scelta di fare solo una di queste cose è una scelta politica».Una scelta, avverte Bagnai, nella quale «la sovranità popolare non è stata coinvolta, venendo completamente sovrastata da quella di organizzazioni ormai chiaramente individuabili come braccio operativo di un progetto esogeno al nostro paese». Naturalmente, aggiunge l’economista, «gli iussolisti scemi erano praticamente tutti europeisti». Eppure, aggiunge, «non ce n’era nemmeno uno che notasse come da questo dibattito l’Europa fosse totalmente assente». Di fatto, «per lo iussolista scemo l’Italia è merda», e comunque è “normale” che l’Europa sia inesistente, nella gestione del problema migranti. «C’è questa strana caratteristica dell’immigrazionismo, che più di essere un’ideologia è una religione (con tanto di pensiero magico)», scrive Bagnai. «In quanto religione, ha una sua terra promessa, che però è una e una sola: l’Italia – che fra l’altro è esattamente quella dove molti di quelli che arrivano non vorrebero restare». E chi se ne importa: «Ogni religione vuole sacrifici, e le vittime dell’immigrazionismo sono, naturalmente: gli immigrati». Del resto, «un processo così complesso non dovrebbe essere affidato alla carità pelosa di organizzazioni arroganti e non trasparenti, che tanta parte hanno avuto nel generare il traffico (e quindi le vittime)».Poi c’è un problema di fondo, strutturale: «L’immigrazionismo, con buona pace dei tanti razzisti che pure circolano e che non hanno la mia simpatia, altro non è, da parte delle ex potenze coloniali, che una fase ulteriore di appropriazione delle risorse delle ex colonie». Sostiene Bagnai: «Dopo averle depredate delle loro risorse naturali, le deprediamo delle loro risorse umane». C’è chi disprezza la qualità umana dei migranti? «Se pure quelle che vediamo per strada fossero solo braccia rubate all’agricoltura», secondo Bagnai «sarebbero, appunto, braccia rubate all’agricoltura di paesi nei quali l’autosufficienza alimentare non è un dato banale». La forza lavoro è una risorsa, è un fattore produttivo. «E la libera mobilità dei fattori produttivi è benefica e equilibrante solo nei modelli neoclassici, cioè nell’ossatura ideologica del liberismo oltranzista». Qui in Europa, abbiamo visto che «la mobilità del lavoro è particolarmente destabilizzante, perché tende ad amplificare il divario fra paese di provenienza e di destinazione». Nel modello neoclassico, aggiunge Bagnai, «ogni bracciante che parte dal Niger contribuisce a far aumentare il salario di quelli che restano. Nel mondo reale, contribuisce a impoverire il paese».Questa situazione, continua Bagnai, è la stessa che «i vescovi africani vedono e stigmatizzano, perché vale, su scala minore, quello che vale per noi». E cioè: «Anni e risorse spesi per istruire persone che poi vanno altrove, creando un danno al paese di origine. Ma questo, agli immigrazionisti non interessa». Cosa gliene importa, davvero, della vita in Burkina Faso o in Sierra Leone? «Ben contenti e soddisfatti di essere nati dalla parte giusta del mondo», in un preciso spettro ideologico, «a loro interessa solo che qualcuno venga qui a “pakarglilapensione”, perché così gli hanno detto che succederà i giornali dei padroni, cui loro, da buoni imbecilli di sinistra, credono, perché Gramsci per loro se va bene è un liceo, se va male una strada, e nella maggior parte dei casi non è niente». Infierisce, Bagnai: «Questa è la feccia con la quale dovremo ricostruire questo cazzo di paese, non so se è chiaro: una torma di imbecilli sottoproletarizzati da decenni di propaganda a reti unificate, pronti a sollevarsi (sotto l’egida di ogni e qualsiasi organizzazione imperialistica i loro caporioni gli propongano in base alle loro logiche elettoralistiche) per difendere progetti la cui matrice ultraliberista (quindi fallimentare e fascista) dovrebbe essere immediatamente leggibile da chiunque avesse delle minime basi di storia del pensiero, ma anche di mero buon senso».«Il nostro paese è stato distrutto da quelli che ci propongono come panacea i lavoratori altrui, dopo averci proposto come panacea la moneta altrui. E un paese distrutto, semplicemente, non ha risorse per aiutare nessuno». Parola di Alberto Bagnai, che sul blog “Goofynonics” rilancia un intervento già abbozzato anni fa, destinato ai suoi studenti della Sapienza, corso di laurea in “economia della cooperazione internazionale e dello sviluppo”. La tesi: “L’immigrazionismo è la fase suprema del colonialismo”. «Per motivi scellerati – premette l’economista – abbiamo mandato al potere gli immigrazionisti: quelli che, ideologicamente, vedono nella libera immigrazione in Italia la soluzione dei problemi del mondo, senza se e senza ma». I nostri aiuti allo sviluppo? Cronicamente insufficienti: «Lo sono sempre stati, proprio perché l’egemonia culturale e politica è stata esercitata dai neoliberisti (cioè dagli idoli degli iussolisti scemi – e anche di quelli furbi), i quali, come sappiamo, vogliono reprimere la spesa pubblica – qualsiasi spesa – sotto la fulgida egida del “non ci sono risorse”». E oggi il problema si è aggravato: parte delle risorse che potremmo dedicare all’emancipazione di quei popoli «viene dedicata al loro traghettamento», via Lampedusa. «Le risorse ci sarebbero sia per traghettare, che per emancipare», ma «la scelta di fare solo una di queste cose è una scelta politica».
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Fiscal Horror, Cremaschi: tagliola sull’Italia, la politica tace
Nella complice e colpevole disattenzione dei palazzi della politica, in questi giorni a Bruxelles si decide del futuro del nostro paese. L’Italia è il paese Ue con il più alto numero assoluto di poveri, quasi 11 milioni. Proprio mentre emerge questo nostro record mostruoso, il governo Gentiloni decide di aderire al nuovo accordo europeo sul Fiscal Compact. C’è un rapporto tra i due fatti? Certamente, il secondo aggraverà il primo, il record di poveri non ce lo toglierà più nessuno. In questi dieci anni di crisi i poveri sono triplicati, e questo perché il lavoro e la vita stesse delle persone sono stati sacrificati al rigore di bilancio. Rigore feroce, nonostante che le fake news del regime propagandino l’idea di una spesa pubblica troppo generosa verso i cittadini. In realtà il bilancio pubblico è in attivo da più di venti anni, cioè ogni anno i cittadini versano in tasse allo Stato più di quanto ricevano in servizi e prestazioni. Il deficit della spesa pubblica deriva da una sola voce: gli interessi sul debito che si pagano alle banche. Essi ammontano a quasi 80 miliardi all’anno. Lo Stato ne copre circa 50 con i soldi dei cittadini, in particolare lavoratori, pensionati, ceti medi. Il resto sono deficit e manovre, che portano via altre risorse ai servizi pubblici.Se proiettiamo questo conto su un ventennio, alla spesa pubblica necessaria per fare dell’Italia un paese un poco più civile sono mancati circa 1000 miliardi. Mentre il debito è comunque aumentato di diverse centinaia di miliardi. Per la precisione dal giugno 2011, da quando il presidente Giorgio Napolitano reclamò lacrime e sangue per ridurre il debito pubblico, quest’ultimo è aumentato di circa 300 miliardi. I cittadini pagano sempre di più per avere sempre meno, ma il debito cresce. E non per colpa dei furbetti del cartellino o dei pensionati, come invece fa credere la propaganda di regime. Tutto questo avviene a causa dell’usura bancaria sullo Stato, divenuta legge con la fine del controllo pubblico sulla moneta. Lo Stato italiano dal 1981 non può stampare moneta per finanziarsi, ma deve chiedere prestiti alle banche. Poi dal 1992, con il Trattato di Maastricht e poi con l’euro, lo Stato italiano ha persino dovuto cancellare la sua sovranità su come e quanto indebitarsi. Sono i vincoli europei a imporre le decisioni.Così siamo arrivati ad avere cittadini che pagano sempre di più, uno Stato che dà sempre meno, un debito che cresce. Tutto in funzione dei profitti delle banche e della finanza internazionale, che grazie alla usura sul debito fanno shopping delle risorse del paese. Ora il Fiscal Compact renderà questo meccanismo ancora più feroce ed insopportabile. Questo accordo europeo, imposto dalla Germania nel 2012, infatti non solo obbliga al pareggio di bilancio, che vergognosamente Pd, Forza Italia e satelliti hanno addirittura inserito nell’articolo 81 della Costituzione. Il Fiscal Compact va oltre questa misura socialmente criminale e impone non solo la stabilizzazione del debito, ma la sua riduzione in venti anni al 60% del Pil. Per l’Italia che attualmente è al 133%, significa più che dimezzare. Dunque oltre a quelli per pagare gli interessi, dovremmo ogni anno trovare altri 40-50 miliardi per ridurre l’ammontare del debito. In totale ogni anno dovremmo fare finanziarie da 120 miliardi, come per un paese in guerra.Questa follia è sembrata esagerata persino ai burocrati di Bruxelles, che hanno capito che se la si imponeva troppo rigidamente, sarebbe saltata. Così in questi giorni tutti i governi della Ue hanno deciso di far slittare il Fiscal Compact, che avrebbe dovuto scattare già l’anno prossimo, al 2019. Inoltre questo patto non dovrebbe più essere inserito nei grandi trattati costituenti la Ue, ma diventare una direttiva. Questo fa dire a Gentiloni che l’Italia ha ottenuto un successo. Balle, se non è zuppa è pan bagnato. Anche l’usuraio a volte allenta il cappio sulla vittima, quando vede che non ce la può più fare. Preferisce rinunciare a qualcosa, ma mantenere il guadagno sicuro e tenere sempre la vittima a propria disposizione. Il Fiscal Compact sarà meno rigido, ma per questo ancora più micidiale e ridurrà l’Italia a condizioni uguali o persino peggiori della Grecia. Tutto sarà privatizzato, tutto sarà in vendita. E la democrazia sarà completa finzione, perché un superministro del tesoro Ue compilerà i nostri bilanci.Intanto però il Fiscal Compact non scatterà con le elezioni, e questo ha permesso a tutte le principali forze politiche di parlare d’altro. Avete per caso sentito Renzi, Di Maio, Berlusconi, Meloni, Grasso e Salvini affrontare davvero la questione? E soprattutto metterla in testa a tutte le altre, visto la sua importanza per i diritti sociali e le vite di tutti? Quale forza politica oggi in Parlamento propone non di sbattere i pugni su qualche inesistente tavolo, ma di disdettare il Fiscal Compact e di riconquistare il controllo sul bilancio pubblico, rompendo con tutti i vincoli dei trattati Ue, cioè rompendo con la Ue? Nessuna, per questo i burocrati di Bruxelles e la Germania hanno allentato il cappio per qualche mese. Sanno che comunque lo tengono ben saldo su chi governa o vuole governare. Solo la rottura coi vincoli Ue e con le complicità con essi può dare un futuro al paese.(Giorgio Cremaschi, “Gli usurai europei del Fiscal Compact e i loro complici”, da “Micromega” del 14 dicembre 2017).Nella complice e colpevole disattenzione dei palazzi della politica, in questi giorni a Bruxelles si decide del futuro del nostro paese. L’Italia è il paese Ue con il più alto numero assoluto di poveri, quasi 11 milioni. Proprio mentre emerge questo nostro record mostruoso, il governo Gentiloni decide di aderire al nuovo accordo europeo sul Fiscal Compact. C’è un rapporto tra i due fatti? Certamente, il secondo aggraverà il primo, il record di poveri non ce lo toglierà più nessuno. In questi dieci anni di crisi i poveri sono triplicati, e questo perché il lavoro e la vita stesse delle persone sono stati sacrificati al rigore di bilancio. Rigore feroce, nonostante che le fake news del regime propagandino l’idea di una spesa pubblica troppo generosa verso i cittadini. In realtà il bilancio pubblico è in attivo da più di venti anni, cioè ogni anno i cittadini versano in tasse allo Stato più di quanto ricevano in servizi e prestazioni. Il deficit della spesa pubblica deriva da una sola voce: gli interessi sul debito che si pagano alle banche. Essi ammontano a quasi 80 miliardi all’anno. Lo Stato ne copre circa 50 con i soldi dei cittadini, in particolare lavoratori, pensionati, ceti medi. Il resto sono deficit e manovre, che portano via altre risorse ai servizi pubblici.
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Magaldi: la truffa delle elezioni 2018, solito inciucio in arrivo
Tu chiamale, se vuoi, elezioni. Ma sapendo che il risultato, già scritto, si chiama inciucio. Con un risvolto ovviamente orrendo, per l’Italia. E cioè: ancora e sempre, sottomissione all’altrui potere. «Sono venticinque anni che il nostro paese non ha più un governo autorevole, e ci sono tutte le condizioni perché questa infelice tradizione prosegua, anche dopo le prossime politiche», sostiene Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt. «Quella che ci aspetta – dice, ai microfoni di “Colors Radio” – è solo l’ennesima truffa: precisamente, la truffa delle elezioni 2018, in cui i voti degli italiani serviranno solo a sorreggere l’ennesimo accordo basato sulle solite larghe intese, che naturalmente tutti fingono di voler evitare». Il Pd almeno porta a casa la legge sul biotestamento, «una delle pochissime buone cose fatte, insieme alle unioni civili». Renzi mostra di voler tirar dritto, ma sa già che dovrà vedersela con l’uomo di Arcore: «Fateci caso: appena Berlusconi ha rimesso fuori il naso, con il risultato delle regionali in Sicilia, si è immediatamente risvegliata una certa magistratura a orologeria. Sicché il Cavaliere si è visto costretto a elogiare la Merkel, aprendo addirittura alla possibilità di un Gentiloni-bis. Come dire: lasciatemi in pace, farò il bravo. Mi guarderò bene dal disturbare il vero potere che condiziona la penisola».Sondaggi alla mano, Renzi e Forza Italia saranno costretti a convivere, nonostante i mal di pancia di Salvini, che comunque ha prontamente ammaninato la bandiera anti-euro. «Le cosiddette destre estreme europee, come quella austriaca? Sono perfette per perpetuare in eterno il potere dell’oligarchia neo-aristocratica», osserva Magaldi. Lampante il caso francese di Marine Le Pen: «Il Front National è l’avversario che chiunque vorrebbe avere», specie se l’antagonista si chiama Emmanuel Macron. Lo strano feeling tra Palazzo Chigi e l’Eliseo? Assurdo: «In che cosa Macron potrebbe rappresentare una novità, rispetto al dominio eurocratico fondato sul rigore? E’ stato ministro di Valls, nominato da Hollande. Il che è tutto dire». Senza contare gli eminenti “padrini” del presidente francese, già banchiere del gruppo Rothschild, sostenuto dal supermassone oligarchico Jacques Attali, secondo Paolo Barnard maestro” di Massimo D’Alema. Come sperare che sia Macron a rompere il muro dell’austerity a guida tedesca? Significa solo prendere per il naso gli italiani, come sembrano aver tutta l’aria di fare gli ex Pd del cartello “Liberi e Uguali”, formazione che esibisce la foglia di fico istituzionale dell’incolore Pietro Grasso.«Da quelle parti circolano slogan che mirano a marcare le distanze dal Pd, ma dietro alle parole non c’è sostanza: piuttosto – dichiara Magaldi – lo spettacolo è quello, verminoso, della corsa alle poltrone, tramite candidature in seggi sicuri». Nulla che, in ogni caso, possa anche solo lontanamente impensierire i poteri forti che stanno piegando l’Italia. E nella “truffa” delle elezioni di primavera, Magaldi inserisce anche il Movimento 5 Stelle: al di là delle vaghe esternazioni di Di Maio su eventuali possibilità di collaborazione post-voto, i grillini sono intenzionati a restare nel loro sostanziale isolamento, non più così splendido dopo la pessima prova di Roma. Di fatto: sul tappeto, non c’è nessuna opzione per cambiare lo scenario, che vede l’Italia subire i diktat di potentati europei finanziari e industriali, che utilizzano la Merkel, Draghi e lo Juncker di turno. Terminali italiani della filiera? Per esempio il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, che Magaldi considera organico ai circuiti più reazionari dell’oligarchia supermassonica delle Ur-Lodges, gli stessi in cui – sempre secondo Magaldi – militano Mario Monti, Giorgio Napolitano e Massimo D’Alema.Sono peraltro in buona compagnia, per così dire: nel saggio “Massoni”, che mette a fuoco il “back office” del vero potere, Magaldi cita personaggi come Gianfelice Rocca (Techint e Assolombarda), Giuseppe Recchi (costruzioni) nonché il banchiere Tommaso Cucchiani, insieme ad Alfredo Ambrosetti, Carlo Secchi, Emma Marcegaglia, Matteo Arpe. Sempre all’ambiente neo-aristocratico delle superlogge sovranazionali, per Magaldi, sono associati l’ex ministro Domenico Siniscalco e Corrado Passera, Marta Dassù e l’attuale governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, insieme a ex ministri come Vittorio Grilli (governo Monti), Fabrizio Saccomanni (governo Letta) e Federica Guidi (governo Renzi). Loro sì, un’agenda ce l’hanno: è quella imposta all’Italia dall’Europa del rigore. Meno diritti e più tasse, meno lavoro e salari più bassi. E ancora: tagli al welfare e alle pensioni, disoccupazione e impieghi precari. «Non dico che un imprenditore non possa licenziare un dipendente, ma dev’essere la Costituzione a garantire che il lavoratore licenziato possa rapidamente trovare un altro lavoro», dice Magaldi, che ha impegnato il Movimento Roosevelt in un vasto studio per migliorare la Costituzione italiana, nello spirito (largamente inattuato) dei padri costituenti.Socialismo liberale: proprio a un gigante del pensiero progressista europeo, il leader svedese Olof Palme, Magadi e i suoi dedicheranno all’inizio del 2018 un importante convegno a Milano: un’occasione per misurare, davvero, l’abisso che ci separa dall’Europa che sarebbe potuta nascere e svilupparsi, con al timone uomini come Palme, che impiegarono appieno la sovranità dello Stato per ottenere benessere diffuso e garanzie sociali per tutti. Nino Galloni, prestigioso economista post-keynesiano e vicepresidente del Movimento Roosevelt, sostiene che una “moneta di Stato”, fiduciaria, potrebbe benissimo aggirare il Trattato di Maastricht e risollevare di colpo l’economia italiana, attraverso la creazione di milioni di posti di lavoro. Cosa manca? La volontà politica, in primis. Manca una visione organica, una classe dirigente capace e non più subalterna, al servizio di poteri esterni. Le elezioni prossime venture? Una farsa: nessuna vera scelta, sul piatto. Solo variazioni sul tema, che non cambia: vietato alzare la voce con i boss dell’Unione Europea. Le forze in lizza? Fingeranno di combattersi, per poi attovagliarsi allo stesso tavolo. «Per questo, comunque vadano – conclude Magaldi – le elezioni della primavera 2018 saranno una vera e propria truffa».Tu chiamale, se vuoi, elezioni. Ma sapendo che il risultato, già scritto, si chiama inciucio. Con un risvolto ovviamente orrendo, per l’Italia. E cioè: ancora e sempre, sottomissione all’altrui potere. «Sono venticinque anni che il nostro paese non ha più un governo autorevole, e ci sono tutte le condizioni perché questa infelice tradizione prosegua, anche dopo le prossime politiche», sostiene Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt. «Quella che ci aspetta – dice, ai microfoni di “Colors Radio” – è solo l’ennesima truffa: precisamente, la truffa delle elezioni 2018, in cui i voti degli italiani serviranno solo a sorreggere l’ennesimo accordo basato sulle solite larghe intese, che naturalmente tutti fingono di voler evitare». Il Pd almeno porta a casa la legge sul biotestamento, «una delle pochissime buone cose fatte, insieme alle unioni civili». Renzi mostra di voler tirar dritto, ma sa già che dovrà vedersela con l’uomo di Arcore: «Fateci caso: appena Berlusconi ha rimesso fuori il naso, con il risultato delle regionali in Sicilia, si è immediatamente risvegliata una certa magistratura a orologeria. Sicché il Cavaliere si è visto costretto a elogiare la Merkel, aprendo addirittura alla possibilità di un Gentiloni-bis. Come dire: lasciatemi in pace, farò il bravo. Mi guarderò bene dal disturbare il vero potere che condiziona la penisola».
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Ingroia: l’astensionismo è un progetto politico del potere
Emergenza Italia: urge un programma di salvezza nazionale. Era il 2011 quando Paolo Barnard pubblicava, inascoltato, il suo esplosivo saggio-denuncia “Il più grande crimine”, scritto l’anno precedente il drammatico commissariamento dell’Italia da parte di Monti e Napolitano, su input dei poteri oligarchici incarnati dalla Bce di Jean-Claude Trichet e Mario Draghi. Una predicazione nel deserto, quella di Barnard, inutilmente contattato da personaggi come Tremonti, da gruppi come Fratelli d’Italia, dagli stessi grillini – che Barnard mise in relazione diretta con Warren Mosler, traduttore della “Modern Money Theory” e autore di un piano salva-Italia da due milioni di posti di lavoro. Di mezzo, dopo Monti, ci sono stati Letta e Renzi. Il menù? Sempre lo stesso: rigore, imposto da Bruxelles. Oggi il timone (si fa per dire) è nelle mani di Gentiloni, che vanta come un successo lo slittamento del Fiscal Compact al 2019, mentre i 5 Stelle hanno definitivamente rinunciato a qualsiasi rivendicazione sovranista esattamente come la Lega, condizionata dall’alleanza elettorale col Cavaliere. Addirittura surreale la discesa in campo di Grasso, cioè Bersani (che votò l’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione) e D’Alema, recordman delle privatizzazioni quand’era a Palazzo Chigi. Alternative, sulla carta? Una, in teoria: la “Lista del Popolo” capitanata da Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa. Parole d’ordine: quelle lanciate da Barnard sette anni fa.Nei toni dell’assemblea costitutiva della lista, svoltasi a Roma il 16 dicembre, si coglie ormai la piena consapevolezza della catastrofe incombente: «Non è affatto escluso il rischio, per l’Italia, di essere commissariata in modo anche formale, esattamente come la Grecia». C’è un Rubicone da varcare: «Adesso o mai più, perché domani sarebbe tardi», sostiene Ingroia, spronando i volontari verso quella che appare una missione quasi impossibile: raccogliere da subito migliaia di firme, in pochissimi giorni, sperando di riuscire a presentare effettivamente la lista in tempo per le politiche del 4 marzo. Alla guida di “Rivoluzione Civile”, nel 2013 Ingroia fallì l’obiettivo: raccolse solo il 2% dei suffragi, restando al di sotto della soglia di sbarramento. Stavolta è diverso, sostiene: la crisi morde, la situazione italiana è peggiorata in modo drammatico. Per questo, dice l’ex magistrato, sarà più facile trovare interlocutori. Lo stesso Ingroia è pervenuto a conclusioni ben diverse da quelle di quattro anni fa: oggi infatti dichiara che, senza sovranità monetaria e sotto il peso perdurante dei trattati europei, nessun partito potrebbe mantenere quello che promette. Lui cosa annuncia? L’abolizione della legge Fornero, la rimozione del pareggio di bilancio della Costituzione, la cancellazione del Jobs Act. Smarcarsi dalla Nato, ma soprattutto da Bruxelles: rinegoziare i trattati-capestro, o addio Unione Europea.Prodi e D’Alema? «Sono proprio loro ad aver sottoscritto il Trattato di Lisbona», dice Ingroia: sono i veri responsabili del disastro, nascosti dietro un’etichetta “di sinistra” che, tagliando i viveri allo Stato, espone l’Italia al massacro sociale, alla fine del welfare e dei diritti del lavoro, alla carneficina delle privatizzazioni selvagge. «Siamo un paese impaurito, preda della paura, e questo nostro progetto politico è soprattutto un atto di coraggio», dichiara Ingroia, citando Paolo Borsellino: «Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola». Insiste Ingroia: «Ci vogliono audacia e coraggio per affrontare un’impresa che, non possiamo nascondercelo, è molto difficile». Primo step: riuscire davvero a presentare le liste. Poi: superare lo sbarramento del 3%. «Non ce la faranno mai», è la profezia televisiva di Maurizio Crozza. Ovviamente Ingroia non è dello stesso avviso: «Puntiamo a crescere fino al 60%, rispondendo alla maggioranza degli italiani che ormai ha smesso di votare. L’astensionismo? Fa comodo al potere: meno saremo, e più sarà facile controllarci». Il nemico? «Un sistema politico-finanziario corrotto e mafioso». I partiti? Nessuno affronta il toro per le corna. E in più «hanno tutti paura di noi», dice Ingroia, convinto che il mainstream politico stia sottovalutando la sua “Mossa del Cavallo”.«Vogliono ricacciarci nell’astensionismo – insiste l’ex magistrato – perché è perfettamente funzionale all’élite internazionale, che intende continuare a utilizzare, per i suoi scopi, la piccola élite rappresentata dalla classe dirigente nazionale», che a sua volta agisce «attraverso un’élite di elettori-militanti schierati, quindi controllabili». Aggiunge: «Il crescere dell’astensionismo è un progetto politico, che mira a ridurre il numero dei votanti: meno sono, e meglio sono controllabili». Ingroia spera di «trasformare la disperazione in rivoluzione, la rabbia in progetto». Il mitico 60%? «Un sogno, ovviamente, che però – non domani – potrebbe anche trasformarsi in realtà, a patto di riuscire a infondere fiducia in questa Italia spaventata». A proposito di coraggio, Ingroia cita il massone Martin Luther King, riprendendo la frase che lo stesso eroe americano dei diritti civili prese da un altro massone progressista, lo scrittore tedesco Johann Wolfgang Goethe: «Un giorno la paura bussò alla porta, il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno». Con le parole di un terzo massone, il rosacrociano Gandhi, Ingroia formula il suo auspicio: «Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi vinci».Emergenza Italia: urge un programma di salvezza nazionale. Era il 2011 quando Paolo Barnard pubblicava, inascoltato, il suo esplosivo saggio-denuncia “Il più grande crimine”, scritto l’anno precedente il drammatico commissariamento dell’Italia da parte di Monti e Napolitano, su input dei poteri oligarchici incarnati dalla Bce di Jean-Claude Trichet e Mario Draghi. Una predicazione nel deserto, quella di Barnard, inutilmente contattato da personaggi come Tremonti, da gruppi come Fratelli d’Italia, dagli stessi grillini – che Barnard mise in relazione diretta con Warren Mosler, traduttore della “Modern Money Theory” e autore di un piano salva-Italia da due milioni di posti di lavoro. Di mezzo, dopo Monti, ci sono stati Letta e Renzi. Il menù? Sempre lo stesso: rigore, imposto da Bruxelles. Oggi il timone (si fa per dire) è nelle mani di Gentiloni, che vanta come un successo lo slittamento del Fiscal Compact al 2019, mentre i 5 Stelle hanno definitivamente rinunciato a qualsiasi rivendicazione sovranista esattamente come la Lega, condizionata dall’alleanza elettorale col Cavaliere. Addirittura surreale la discesa in campo di Grasso, cioè Bersani (che votò l’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione) e D’Alema, recordman delle privatizzazioni quand’era a Palazzo Chigi. Alternative, sulla carta? Una, in teoria: la “Lista del Popolo” capitanata da Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa. Parole d’ordine: quelle lanciate da Barnard sette anni fa.
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Galloni: moneta sovrana e posti di lavoro, o addio Italia
Macché reddito di cittadinanza: serve moneta sovrana per creare 7-8 milioni di posti di lavoro, nel più breve tempo possibile, o il grande capitale straniero – francese, in primis – sbranerà quel che resta dell’Italia. Così Nino Galloni risponde all’allarme lanciato sul “Corriere della Sera” da Roberto Napoletano, già direttore del “Messaggero” e del “Sole 24 Ore”: «La Francia ha un disegno di conquista strategico e militare sull’Italia: indebolirne le banche, prenderne i gioielli, conquistare il Nord e ridurre il Sud a una grande tendopoli». Attenzione, perché Napoletano è stato molto vicino al potere: «Quindi, se in questo momento lancia un grido d’allarme così forte – dichiara Galloni a Claudio Messora, su “ByoBlu” – vuol dire che effettivamente chi è vicino al potere ha la percezione di quello che potrebbe succedere in Italia da qui a uno o due anni: una situazione sociale che si sta sempre più lacerando, fino a un’eventuale rottura». In estrema sintesi: se lo zero-virgola di Pil dell’ultimissima mini-ripresa racconta che 20 milioni di italiani stanno un po’ meglio, ce ne sono 15 che restano in condizioni di povertà vera e propria, mentre 25 milioni di italiani stanno scivolando verso il baratro, senza neppure il paracadute del welfare, che ormai è residuale e protegge solo i poveri.Non si sa fino a che punto tutto questo sia sostenibile, riassume Galloni, economista post-keynesiano e vicepresidente del Movimento Roosevelt. Il paradosso? «Quelli che stanno bene possono permettersi di pagare di tasca propria i servizi sanitari per i figli, l’assistenza agli anziani e quant’altro. I più poveri, bene o male, hanno accesso alla gratuità. Ma il grosso della classe media non ha sufficiente reddito per pagarsi i servizi essenziali, e in alcuni casi neppure per fare la spesa al supermercato o andare al cinema, al ristorante o in vacanza, per pagare le bollette, le rate del condominio. E non ha neppure accesso alla gratuità del welfare residuale». Il guaio? Ci sta crollando addosso la storia. Una storia “sbagliata”, che ha cominciato ad andare storta proprio quando l’Italia ha cessato di essere prima “un’espressione geografica”, e poi un paese popolato di contadini analfabeti. Ai fratelli maggiori d’Europa non è mai andato giù il fatto che il Belpaese potesse stupire il mondo con il suo sviluppo da record, il boom del dopoguerra fondato sull’industria. Probabilmente avremmo potuto superare la Francia, dice Galloni, se non ci fossimo fatti sfilare di mano il futuro delle telecomunicazioni, a patrire dalla geniale invenzione di Olivetti: il personal computer.Poi, aggiunge l’economista, fu essenziale il passaggio dell’89 in cui la Germania, per riunificarsi, rinunciò al marco per ottenere l’appoggio della Francia e puntare al suo vero obiettivo strategico: frenare l’Italia. «Perché un’Italia estremamente competitiva avrebbe reso proibitiva l’opera di riunificazione della Germania». Ma i “cugini” d’oltralpe, ricorda Galloni, prima ancora dei tedeschi hanno sempre lavorato contro l’Italia, contribuendo a far fuori gli italiani più decisivi, a cominciare da Enrico Mattei. Il capo dell’Eni era odiato dalle Sette Sorelle perché concedeva più soldi ai paesi petroliferi, ma a costargli la vita fu lo scontro con Parigi sul gas algerino: di fronte alla mano tesa dei francesi per accordarsi su quel business, Mattei rispose “no, grazie”. Disse: «Io tratterò solo col legittimo governo algerino, quello del popolo, che è rivoluzionario e anti-francese». E così avviene: «Gli algerini – ricorda Galloni – vincono la loro guerra di indipendenza nazionale, fanno gli accordi con l’Italia e però, poco dopo, Mattei viene ucciso. Le ultime ricostruzioni convergono sul coinvolgimento dei servizi segreti francesi».Poi è il turno di Aldo Moro, «altro uomo odiatissimo in Europa». Si era lamentato del fatto che i francesi e gli stessi “servizi” della Fiat (che come l’Eni aveva una sua “polizia segreta”, in gran parte composta da ex poliziotti e carabinieri) non comunicassero tutte le notizie riguardo alle Brigate Rosse, e che addirittura alcuni brigatisti venissero ospitati in territorio francese. Mattei e Moro, quindi Berlusconi: voleva evitare la guerra con la Libia scatenata da Sarkozy, ma è stato “convinto” dal crollo in Borsa del titolo Mediaset, precipitato del 40% in poche ore. Così ha dovuto «abbassare la testa e accettare la terza grande aggressione degli interessi nazionali dell’Italia da parte da parte dei francesi». Ci hanno sempre messo i bastoni tra le ruote, ma il peggio è che adesso l’ossigeno di sta esaurendo: «Non abbiamo più un welfare universale, abbiamo solo un welfare residuale che sta creando ulteriori lacerazioni sul territorio, anche perché spesso è destinato soprattutto agli immigrati. E quindi crea tensioni politiche e sociali che poi diventano determinanti nelle scelte dell’elettorato». Nonostante ciò, osserva Galloni, l’Italia non è ancora crollata: ha dimostrato capacità di resistenza impensabili.«In Italia ci sono 4 milioni di imprese, su quattro milioni e mezzo, che ormai sono fuori dal capitalismo perché non lavorano più per il profitto, ma per controllare risorse reali, darsi una dignità, un futuro». Aziende che «sfuggono a quelle che sono le regole dell’economia e della finanza». Anziché vendere l’azienda e vivere di rendita finanziaria, quattro milioni di imprenditori italiani – caso unico, in tutto l’Occidente – hanno tenuto duro pagando le tasse sulle perdite, senza nessun aiuto dal sistema bancario, e in più con infrastrutture oblsolete e la pubblica amministrazione che rema contro. «Però queste piccole imprese italiane hanno la caratteristica di essere competitive sui mercati internazionali, tant’è che noi siamo, con la Germania, l’unico paese che ha visto aumentare le esportazioni». Stiamo parlando di 9 miliardi di euro: «Non è tanto, però è significativo che ci sia un segno positivo. Ma ancora più significativo e positivo è che ci sia stata una riduzione di 40 miliardi di euro nell’importazione di prodotti agricoli e alimentari, dovuta ad un impressionante ritorno di tre milioni e duecentomila giovani che si sono impegnati nell’agricoltura, per fare quello che i loro padri non volevano più fare: riprendere il mestiere dei nonni». Giovani che «sono tornati a fare quello che si faceva in Italia prima del miracolo economico, che è stato soprattutto industriale».Abbiamo perso tutta la nostra grande industria privata, compreso l’80% di quella a partecipazione statale, che era un gioiello (ma quel 20% che ci rimane ancora fa molta gola a parecchi, compresi i francesi). Però, aggiunge Galloni, abbiamo mantenuto in vita l’80% della piccola industria, delle piccole imprese. «Stiamo parlando di più di 7 milioni di famiglie, che poi corrispondono grossomodo a quel 50% di elettorato che non va più a votare: è gente che non si farà abbindolare da nessuno di quelli che si presentano alle elezioni». La Francia non sta molto meglio: il suo grande problema, sociale, è quello che divide i francesi dagli immigrati, cittadini di serie B. «Da noi è esclusivamente un problema di censo, mentre da loro è un problema di nazionalità: e questo fa sì che lo studente che si è preso una laurea e che vive nella banlieue parigina non potrà mai accettare questo sistema francese». Ora, i grandi potentati finanziari – che finora si erano orientati verso i grandi immobili, i grandi alberghi – adesso stanno puntando all’agricoltura, ai terreni. E con la scusa delle crisi del sistema bancario italiano «cercheranno di entrare con grandi capitali per comprare i mutui al 10-20% del loro valore nominale, per poi rivendere gli appartamenti al 20-30% del mutuo residuo stesso. È un’operazione semplicissima, però potrebbe essere estremamente drammatica».Però poi è difficile che queste ciambelle riescano col buco, aggiunge Galloni, «perché l’Italia ha le energie per reagire e rimettersi in pista». Grande incognita, ovviamente, l’Unione Europea: avremo ancora il “quantitative easing” della Bce o prevarrà un ritorno alle posizioni più rigide, con la riapertura dell’incubo spread, che è un grande ricatto nei confronti del paese? Si insisterà sul Fiscal Compact, «che ovviamente ci metterebbe in ginocchio», oppure i “falchi” perderanno e ci sarà un recupero di fiducia fra i vari paesi? «I grandi potentati finanziari e le grandi multinazionali sono, per loro stessa natura, predatori: non guardano in faccia a nessuno. E dove vedono delle prede di più facile cattura (come siamo noi italiani, perché non abbiamo un governo, una guida, non abbiamo una pubblica amministrazione che funziona, non abbiamo un sistema bancario adeguato alle condizioni e non abbiamo – salvo alcune eccezioni – un sistema infrastrutturale adeguato) è chiaro che loro se ne approfitteranno». Nel 2018 saranno quotate in Borsa le Ferrovie dello Stato? Pessima idea: «Dopo, invece d’inseguire il miglioramento del servizio, dovranno inseguire l’aumento dei saggi d’interesse, altrimenti il titolo perderebbe valore».Lo sappiamo: è in atto una sorta di deindustrializzazione dell’Italia, a vantaggio di élite europee ed extra-nazionali a svantaggio della nostra popolazione. Come possiamo tenerci le industrie? «Dei modi ci sarebbero», risponde Galloni, «ma fanno perno sul ripristino della sovranità nazionale», che non è per forza la chiusura delle frontiere. La sovranità “saggia”, e ormai indispensabile, poggia sulla consapevolezza che quest’Europa dell’euro non sta funzionando: potrebbe implodere. Il Piano-B? «Affiancare alla moneta internazionale – che è straniera – una moneta nazionale». E gli altri paesi dovrebbero fare lo stesso. «Una moneta nazionale non è proibita dai trattati europei, perché avrebbe solo circolazione interna, ma sicuramente servirebbe per fare quegli investimenti e quelle assunzioni – dove servono – per ridare respiro al paese e ripristinare quel concetto di “welfare universale” che ci salva dalla guerra civile». Dopo il 1970, quando cioè l’umanità ha raggiunto livelli record di capacità produttiva, «la crisi ha iniziato a significare che la gente non ha abbastanza reddito». E perché il denaro non circola, beché ormai svincolato dal valore dell’oro? Presto detto: «Non esercitando più la propria sovranità monetaria, lo Stato si trova nella stessa situazione di un qualunque disgraziato che debba chiedere un prestito, se vuole fare investimenti. E non ne può fare di più grandi rispetto a quello che incamera con le tasse».Ma quello delle tasse è un falso problema, spiega Galloni: se si tagliano le tasse ma anche la spesa pubblica, la gente avrà più soldi ma li spenderà tutti per pagare i servizi che prima erano gratuiti. A quel punto la classe media si impoverisce, faccendo crollare i consumi: addio quindi a qualsiasi possibile ripresa. «I consumi aumentano se aumentano i salari, ma oggi non ci sono le condizioni: purtroppo ce le siamo bruciate per tutta una serie di scelte furiosamente sbagliate in tutti i campi, cioè tutte le politiche che hanno portato la flessibilizzazione del lavoro in precarizzazione». Questo ovviamente ha impoverito tutti, «tranne le multinazionali che venivano qui a depredare». Ma l’impresa normale «non ha un vantaggio se i lavoratori sono sottopagati, perché allora chi compra i suoi prodotti?». Si potrebbe rispondere: ci pensano le esportazioni. «Ma per essere competitivi con le esportazioni – cioè con paesi dove i salari sono ancora più bassi dei nostri – devi ridurre i salari. Quindi è sempre un cane che si morde la coda, perché per essere competitivo devi ridurre la domanda interna, ovvero l’economia interna. Che è esattamente il modello europeo. Per questo non funziona, il modello europeo. Se non si supera questo modello deflattivo, il salario sull’occupazione, non ne esce vivo nessuno. Questo lo devono capire i francesi, i tedeschi o gli olandesi e tutti quanti».Che può fare l’Italia, da subito? Lo Stato può emettere una sua moneta, in qualsiasi momento. Il Trattato di Maastricht (articolo 128a) dice che non possiamo stampare banconote. Che problema c’è? Basta stampare “Statonote”, a circolazione nazionale, da usare per assumere e per fare investimenti, «perché poi chi le accettasse le utilizzerebbe per pagare le tasse». In questo modo, si aggirerebbe anche la tagliola del pareggio di bilancio in Costituzione (regalo di Monti), «perché se abbiamo spese superiori alle tasse, basterà aggiungere questa moneta sovrana, la quale – non essendo a debito – avrà lo stesso segno algebrico delle tasse, e cioè il segno più. Quindi: tasse più moneta sovrana, uguale spesa. E abbiamo anche il pareggio di bilancio senza tanti drammi». E possiamo persino coniare degli euro. Le monete vengono stabilite dalla Bce in base a dei plafond nazionali, «quindi non possiamo coniare monete della stessa pezzatura di quelle che abbiamo in tasca. Ma possiamo farlo con altre pezzature. Già la Finlandia lo fa con monete da 2,50 euro, e la Germania ha emesso monete da 5 euro. Anche in Italia sono state emesse monete da 10 euro».In Europa, fino al 1979 la filosofia dominante era che chi fosse stato più forte doveva fare delle rinunce per aiutare gli altri. Funzionava fino a un certo punto, «perché comunque i francesi e tedeschi facevano i marpioni, i furboni, e noi italiani – come al solito – invece aiutavamo gli spagnoli, i greci e i portoghesi a entrare». Dopo il 1979, con il G7 di Tokyo, si rompe il patto di solidarietà e l’Europa ne risente, «per cui il progetto europeo diventa un altro», continua Galloni. «E allora avvengono tutta una serie di scelte che poi porteranno all’euro». A quel punto l’abbrivio è stato molto negativo, ma si voleva fare una politica “di convergenza” che costringesse gli Stati ad avere gli stessi parametri finanziari, anche se avevano situazioni diverse a livello di economia reale. E poi magari si dava un contentino con i fondi la coesione, che furono utili soprattutto per i paesi come la Polonia, che entravano nell’Unione Europea in condizioni molto difficili. «Però alla fine ci siamo trovati con un’Europa dove l’obiettivo è la massimizzazione delle esportazioni, anche a basso valore aggiunto, che si realizzano riducendo salari e occupazione. Quindi è una politica deflattiva dove l’euro funge da moneta straniera, artificiosamente scarsa, che per averla devi pagare». Una vita d’uscita? «La moneta parallela statale, che non è a debito». Non è l’unica soluzione, ma è un passaggio fondamentale: «Dobbiamo rompere l’artificiosità della scarsità, perché sennò non ne usciamo».Ad esempio, per fare il reddito di cittadinanza «dobbiamo togliere a una parte della classe media delle risorse per darle a quelli che non hanno reddito». Errore: il vero reddito di cittadinanza, dice Galloni, deve consistere nella creazione di 7-8 milioni di posizioni lavorative «per mandare a regime tutte le esigenze della società italiana in termini di ambiente, di assetto idrogeologico del territorio, di cura delle persone (soprattutto gli anziani, ma anche i bambini) e di recupero del patrimonio artistico, archeologico e comunque esistente: manutenzioni, strade e ferrovie». Quindi, «se davvero vogliamo essere un paese moderno, è chiaro che abbiamo bisogno di 7-8 milioni di addetti». Ma non ne abbiamo, «quindi non c’è bisogno di fare il reddito di cittadinanza». C’è bisogno, invece di lavoro: che si può creare rapidamente, con moneta sovrana. «Dobbiamo rompere la condizione di scarsità artificiosa, che è voluta per asservire la gente e rendere la democrazia un costo. Invece, la democrazia dev’essere un modo che noi scegliamo per vivere, come scritto nella nostra Costituzione. Se invece diciamo che la democrazia non ce la possiamo permettere – perché non abbiamo i soldi per gestirla – è chiaro che non c’è soluzione».Macché reddito di cittadinanza: serve moneta sovrana per creare 7-8 milioni di posti di lavoro, nel più breve tempo possibile, o il grande capitale straniero – francese, in primis – sbranerà quel che resta dell’Italia. Così Nino Galloni risponde all’allarme lanciato sul “Corriere della Sera” da Roberto Napoletano, già direttore del “Messaggero” e del “Sole 24 Ore”: «La Francia ha un disegno di conquista strategico e militare sull’Italia: indebolirne le banche, prenderne i gioielli, conquistare il Nord e ridurre il Sud a una grande tendopoli». Attenzione, perché Napoletano è stato molto vicino al potere: «Quindi, se in questo momento lancia un grido d’allarme così forte – dichiara Galloni a Claudio Messora, su “ByoBlu” – vuol dire che effettivamente chi è vicino al potere ha la percezione di quello che potrebbe succedere in Italia da qui a uno o due anni: una situazione sociale che si sta sempre più lacerando, fino a un’eventuale rottura». In estrema sintesi: se lo zero-virgola di Pil dell’ultimissima mini-ripresa racconta che 20 milioni di italiani stanno un po’ meglio, ce ne sono 15 che restano in condizioni di povertà vera e propria, mentre 25 milioni di italiani stanno scivolando verso il baratro, senza neppure il paracadute del welfare, che ormai è residuale e protegge solo i poveri.
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L’Italia è il paese Ue con più poveri: sono oltre 10 milioni
L’Italia è il paese europeo in cui vivono più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni, i cittadini che hanno – per esempio – difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, sostenere spese impreviste, riscaldare a sufficienza la casa, pagare in tempo l’affitto e comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Gli italiani in questa condizione rappresentano il 14% del totale europeo e sono più dei 9,8 milioni di abitanti della Romania nella stessa situazione, anche se in termini percentuali la Penisola è undicesima tra i 28 Stati membri con un 17,2% di indigenti sul totale. A rendere ufficiale la classifica è stata l’Eurostat, secondo cui dietro Roma e Bucarest c’è Parigi: i francesi in stato di deprivazione sociale sono 8,4 milioni. Il poco invidiabile primato non stupisce se si pensa che, stando ai dati Istat, negli ultimi dieci anni i “poveri assoluti” – chi non è in grado di acquistare nemmeno beni e servizi essenziali – sono triplicati. Nel 2006 erano 1,66 milioni, l’anno scorso l’istituto di statistica ne ha contati 4,7 milioni. Tra cui 1,3 milioni di bambini. Gli indicatori Ue: possibilità di fare un pasto proteico, possesso di due paia di scarpe. La cifra diffusa martedì dall’istituto europeo è più del doppio rispetto a quella relativa ai poveri assoluti perché la visuale si allarga a tutti i residenti “in stato di deprivazione”.Sono considerate tali le persone che non si possono permettere almeno cinque cose ritenute necessarie, come un pasto proteico ogni due giorni, vestiti nuovi per sostituire quelli inutilizzabili, un’auto, due paia di scarpe, una settimana di vacanze all’anno, una connessione a internet, un‘uscita al mese con gli amici. Se invece dei numeri assoluti si guardano le percentuali, la classifica cambia. I Paesi europei con le maggiori quote di cittadini deprivati sono Romania, con il 49,7%, Bulgaria (48%), Grecia (36%), Ungheria (32%) e Lituania (29%). I paesi nordici sono quelli che stanno meglio. La percentuale di indigenti sulla popolazione è solo del 3% in Svezia, del 4% in Finlandia e del 5% in Lussemburgo e del 6% in Danimarca. In tutta la Ue la deprivazione colpisce di più le persone con livelli di istruzione bassi. Il 25% dei cittadini con bassi livelli di istruzione ne soffre, mentre il tasso è solo del 14% tra chi ha un’istruzione secondaria e del 5% per i laureati. Povertà triplicata in dieci anni. La povertà in Italia è aumentata esponenzialmente dopo la crisi finanziaria: tra 2007 e 2008 i poveri assoluti sono saliti di 400mila unità, a 2,1 milioni, e i poveri relativi sono aumentati altrettanto, a 6,5 milioni.Di lì al 2012 l’incremento è stato lento e costante: i poveri assoluti sono diventati 2,3 milioni nel 2009, 2,47 milioni nel 2010, 2,65 nel 2011, addirittura 3,5 nel 2012 (la crisi ha iniziato a falcidiare i posti di lavoro), 4,4 nel 2013. L’incidenza della povertà assoluta sulla popolazione italiana è passata di conseguenza dal 2,9% del 2006 al 7,9% del 2016. Il nuovo Reddito di inclusione, un assegno variabile tra 187 e 485 euro che può essere richiesto ai Comuni dai nuclei in difficoltà, è un passo avanti ma non basta: i fondi stanziati dal governo bastano per circa 1,8 milioni di persone, un terzo di chi ne avrebbe bisogno. Nel frattempo, sempre stando ai dati Istat, ben 18 milioni di italiani si sono ritrovati “a rischio povertà o esclusione”. Si tratta del 30% della popolazione, in salita rispetto al 2015 mentre a livello Ue la percentuale è diminuita dal 23,8 al 23,5%. E’ l’effetto, secondo l’istituto di statistica, di un aumento della disuguaglianza: il quinto più ricco della popolazione ha visto crescere i propri redditi molto più di quelli della parte più povera. Il rischio povertà in Italia è “molto superiore”, ha segnalato l’Istat, “a quelli registrati in Francia (18,2%), Germania (19,7%) e Gran Bretagna (22,2%) e di poco più alto rispetto a quello della Spagna (27,9%)”.(“Povertà, Italia primo paese europeo per numero di cittadini in condizioni di deprivazione: sono 10,5 milioni”, dal “Fatto Quotidiano” del 13 dicembre 2017).L’Italia è il paese europeo in cui vivono più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni, i cittadini che hanno – per esempio – difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, sostenere spese impreviste, riscaldare a sufficienza la casa, pagare in tempo l’affitto e comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Gli italiani in questa condizione rappresentano il 14% del totale europeo e sono più dei 9,8 milioni di abitanti della Romania nella stessa situazione, anche se in termini percentuali la Penisola è undicesima tra i 28 Stati membri con un 17,2% di indigenti sul totale. A rendere ufficiale la classifica è stata l’Eurostat, secondo cui dietro Roma e Bucarest c’è Parigi: i francesi in stato di deprivazione sociale sono 8,4 milioni. Il poco invidiabile primato non stupisce se si pensa che, stando ai dati Istat, negli ultimi dieci anni i “poveri assoluti” – chi non è in grado di acquistare nemmeno beni e servizi essenziali – sono triplicati. Nel 2006 erano 1,66 milioni, l’anno scorso l’istituto di statistica ne ha contati 4,7 milioni. Tra cui 1,3 milioni di bambini. Gli indicatori Ue: possibilità di fare un pasto proteico, possesso di due paia di scarpe. La cifra diffusa martedì dall’istituto europeo è più del doppio rispetto a quella relativa ai poveri assoluti perché la visuale si allarga a tutti i residenti “in stato di deprivazione”.
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Giannuli: l’Italia è morta, in campo solo mediocri e cialtroni
Cosa sta succedendo sul palcoscenico della politica italiana? Niente. Per carità, non manca il trambusto e anzi ce n’è troppo: frenetici cambi di casacca, nuovi-vecchi partiti che si riciclano, promesse elettorali a spam, colpi di scena e frettolosi abbandoni della barca che affonda, ma nulla che abbia un senso o qualche valore politico. Come in teatro, nell’intervallo fra uno spettacolo e l’altro, quando il palcoscenico è invaso da inservienti velocissimi che spazzano, lavano, rimettono a posto i mobili, cambiamo i fondali, ma non c’è nessuna rappresentazione. I cambi di giacca e le sigle dei riciclati: un semplice cambio di costume con i soliti scadenti attori. I programmi elettorali? Sparate elettorali senza senso, di cui nessuno si ricorderà un minuto dopo i risultati. I colpi di scena? Semplici spot elettorali. Forse la cosa più significativa (se non altro la più divertente) è la gara a chi salta fuori prima dalla barca renziana che ormai affonda inesorabilmente: Lapo Elkann definisce Renzi non un Macron ma un micron, persino il maggior azionista del Pd, De Benedetti, dice che voterà scheda bianca perché Renzi non gli piace. Forse l’unica cosa che ha qualche senso (ma siamo solo agli inizi) è quello che sta succedendo in Commissione scandali bancari.Quello che colpisce più di tutto è l’assoluta estraneità di tutto questo ai problemi del paese a cominciare dal suo veloce declino di immagine a livello internazionale (esclusione dai mondiali, partita persa per l’Ema e per l’infelice candidatura di Padoan, l’esclusione di fatto dal direttorio europeo, l’assenza sulla scena internazionale della nostra diplomazia). C’è chi propone un ministero per gli anziani, magari una cosa solo di facciata, ma si dimentica la situazione catastrofica dei giovani. Lo dico appartenendo alla categoria di quelli cui dovrebbero pensare il costituendo ministero berlusconiano: per noi il problema è avere una vecchiaia dignitosa e possibilmente serena, ma quello che dovevamo fare l’abbiamo fatto, mentre i giovani hanno davanti tutta una vita per la quale si prospettano scenari da brivido. Per non parlare delle tante cose ormai solite: occupazione, sanità, istruzione, messa in sicurezza antisismica, ricostruzione, degrado delle città eccetera, di cui non vale neppure più la pena parlarne. Il problema dei problemi è che questo paese non ha più una classe dirigente, al cui posto ha una compagnia di scadentissimi guitti.Avremmo bisogno di sostituire immediatamente questa corte di cialtroni con una vera classe dirigente (e non solo in politica, ma anche nelle banche, nell’università, nei giornali, delle aziende), ma il guaio è che una classe dirigente non si improvvisa in qualche mese o anno. Quando per 25 anni hai trascurato di formare il personale politico di una nazione (e tutto il resto) poi non si può pretendere di tirare fuori il coniglio dal cilindro. In primo luogo è definitivamente battuta l’idea di estrarre una classe dirigente politica dalla mitica società civile: tutta la Seconda Repubblica è vissuta di questo mito, attingendo generosamente dai ranghi dell’imprenditoria, della magistratura, dell’università, della medicina, della finanza, e questo è il brillante risultato. E questo è accaduto per due buone ragioni: prima di tutto perché la politica è uno specialismo a sé, che può e deve attingere competenze dalla società civile, ma che non può essere sostituito da altre competenze, insomma un buon chirurgo molto probabilmente non sarà affatto un buon ministro della sanità, come i tanti avvocati che si sono succeduti al ministero di grazia e giustizia si sono dimostrati pessimi ministri.In secondo luogo perché, mettiamocelo in testa, il pesce puzza dalla testa, ma in breve va a male tutto: se la politica è corrotta e incompetente, in breve anche tutti gli altri ruoli dirigenti lo saranno (ammesso che non lo siano già da prima), e quindi è una illusione quella di sostituire la classe politica attingendo alla mitica società civile. E questo valga per dissipare quell’altra imbecillità per la quale “basta essere onesti” per dirigere lo Stato (qui, tanto per dissipare ogni dubbio, sto parlando dei miei amici 5 Stelle che, dopo tanta retorica sul cittadino comune, poi parlano di “tecnici” per un governo a 5 Stelle): no, non basta essere onesti, occorre anche capirci qualcosa dei quello che si amministra. Occorre mettere mano ad un’opera di ricostruzione culturale del paese, formare una classe dirigente vera e, nel frattempo, cercare di limitare i danni scegliendo il meno peggio.(Aldo Giannuli, “La politica italiana? Ras, rien à signaler”, dal blog di Giannuli del 29 novembre 2017).Cosa sta succedendo sul palcoscenico della politica italiana? Niente. Per carità, non manca il trambusto e anzi ce n’è troppo: frenetici cambi di casacca, nuovi-vecchi partiti che si riciclano, promesse elettorali a spam, colpi di scena e frettolosi abbandoni della barca che affonda, ma nulla che abbia un senso o qualche valore politico. Come in teatro, nell’intervallo fra uno spettacolo e l’altro, quando il palcoscenico è invaso da inservienti velocissimi che spazzano, lavano, rimettono a posto i mobili, cambiamo i fondali, ma non c’è nessuna rappresentazione. I cambi di giacca e le sigle dei riciclati: un semplice cambio di costume con i soliti scadenti attori. I programmi elettorali? Sparate elettorali senza senso, di cui nessuno si ricorderà un minuto dopo i risultati. I colpi di scena? Semplici spot elettorali. Forse la cosa più significativa (se non altro la più divertente) è la gara a chi salta fuori prima dalla barca renziana che ormai affonda inesorabilmente: Lapo Elkann definisce Renzi non un Macron ma un micron, persino il maggior azionista del Pd, De Benedetti, dice che voterà scheda bianca perché Renzi non gli piace. Forse l’unica cosa che ha qualche senso (ma siamo solo agli inizi) è quello che sta succedendo in Commissione scandali bancari.
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Zurigo vara il reddito sociale universale: 2.200 euro a tutti
Si chiama “reddito di base incondizionato”, ha qualche affinità con il reddito di cittadinanza che piace al Movimento 5 Stelle ed è stato adottato, a titolo sperimentale, dal Consiglio Comunale di Zurigo. Grazie alla mobilitazione della sinistra, gli abitanti della principale città elvetica potranno disporre di una sorta di “salario di Stato garantito” di 2.500 franchi mensili, ovvero di poco meno di 2.200 euro. Stiamo parlando, secondo i canoni svizzeri, dell’equivalente della soglia di povertà. Come prevedeva l’analogo testo di legge, sottoposto a referendum e bocciato lo scorso anno a livello svizzero, il “reddito di base incondizionato” dovrebbe toccare ogni singolo cittadino. Con la differenza che, mentre per gli adulti sarà di 2.500 franchi, per i minori dovrebbe essere di 625, più o meno 550 euro. In realtà, scrive Franco Zantonelli su “Repubblica”, sia il suo finanziamento che i tempi e modi d’applicazione non sono ancora chiari, visto che al legislativo di Zurigo la proposta è passata con soli due voti di scarto. L’esecutivo ha, in effetti, due anni di tempo per stabilire come metterla in pratica. «Ci muoviamo con i piedi di piombo», ha non a caso dichiarato alla tv pubblica il consigliere comunale socialista Urs Helfenstein.«Il progetto che avevamo proposto a livello nazionale – spiega a “Repubblica” uno dei sostenitori dell’iniziativa respinta nel 2016, il docente di economia all’università di Friburgo, Sergio Rossi – sarebbe stato sostenuto, tra l’altro, tassando le transazioni finanziarie». Era previsto, inoltre, che il “reddito di base incondizionato” si sostituisse alla maggior parte delle prestazioni sociali. In sostanza, si calcolava che lo Stato non ne avrebbe sofferto più di tanto. Rossi è contento che il progetto che era stato messo a punto per tutti gli svizzeri possa venire messo in pratica a Zurigo: «È la dimostrazione – afferma – che sul piano locale esiste, ormai, la consapevolezza che le sfide poste dalla globalizzazione e dalla digitalizzazione delle attività economiche non possono essere affrontate e superate correttamente, senza modificare in maniera fondamentale l’attuale sistema di protezione sociale, che risale alla seconda metà del secolo scorso». Il reddito di base incondizionato (Rbi) sarebbe una rendita mensile, sufficiente per vivere, versata individualmente ad ogni persona, dalla nascita alla morte, indipendentemente dalle altre sue fonti di reddito o ricchezze personali.«Attualmente ricaviamo tutte le entrate dal nostro lavoro, dal nostro patrimonio, dalla nostra famiglia o dalle prestazioni sociali che ci vengono versate», spiega il sito svizzero creato per sostenere l’iniziativa. Il “reddito di base incondizionato” si sostituisce alla parte di reddito individuale che copre i bisogni fondamentali, «mentre le altre rendite rivestiranno la funzione di completare il reddito di base, apportando il margine di comodità, di agio». In sostanza, la nuova entrata dovrebbe sostituirsi alla maggior parte delle prestazioni sociali fino alla quota del suo ammontare, coprendo assistenza sociale, sussidi allo studio, assegni familiari e assicurazione sulla disoccupazione. Le prestazioni sociali più mirate «saranno mantenute per gli aventi diritto, per esempio nel caso della disoccupazione o delle prestazioni complementari». In pratica, dicono gli elvetici, l’Rbi «garantisce la parte di reddito destinata a coprire i bisogni di base: le persone non cercheranno più un impiego perché devono sopravvivere, ma perché nessuno desidera accontentarsi di sopravvivere». Gli svizzeri «potranno così negoziare le loro condizioni di lavoro per soddisfare le loro comodità, più che i loro bisogni vitali».Secondo i sostenitori del “reddito di base”, «le condizioni di lavoro miglioreranno per motivare le persone, che già avranno una base di reddito, a impegnarsi di più». Di fatto, «potranno più facilmente negoziare condizioni di lavoro migliori a tempo parziale, se desiderano», e le imprese «saranno sollevate dalla responsabilità di far vivere le persone». Di conseguenza, «saranno incoraggiate ad automatizzare i compiti più ripetitivi e meno attraenti». Secondo i suoi sostenutori, l’Rbi non rappresenta un vero costo: l’attuale erogazione del welfare svizzero equivale già a un “reddito minimo”. «Non resta dunque che un piccolo saldo da finanziare per le persone che oggi guadagnano meno di quell’importo». Il reale saldo da finanziare, in termini di prestazioni sociali, sarebbe di appena 18 miliardi di franchi, pari al 3% del Pil svizzero. «Questo saldo può facilmente essere coperto in molti modi, come una correzione della Tva», l’Iva elvetica, oppure «della fiscalità diretta», o magari inserendo «una tassa sulla produzione automatizzata, sull’impronta ecologica», senza contare l’eventualità di introdurre una tassazione sulle transazioni finanziarie. Diverse forme di reddito sociale garantito sono state sperimentate negli Usa, in Canada, in Namibia e in India. Il principio è stato introdotto nella Costituzione del Brasile nel 2004. Il Kuwait e altri Stati del Golfo Persico hanno adottato una misura simile al reddito universale. «La Finlandia e il Quebec hannno deciso di introdurlo dal 2017. In Olanda, la città di Utrecht e una decina di altre città si preparano a realizzare dei test con l’Rbi, che intanto è entrato nel dibattito pubblico in Francia».Si chiama “reddito di base incondizionato”, ha qualche affinità con il reddito di cittadinanza che piace al Movimento 5 Stelle ed è stato adottato, a titolo sperimentale, dal Consiglio Comunale di Zurigo. Grazie alla mobilitazione della sinistra, gli abitanti della principale città elvetica potranno disporre di una sorta di “salario di Stato garantito” di 2.500 franchi mensili, ovvero di poco meno di 2.200 euro. Stiamo parlando, secondo i canoni svizzeri, dell’equivalente della soglia di povertà. Come prevedeva l’analogo testo di legge, sottoposto a referendum e bocciato lo scorso anno a livello svizzero, il “reddito di base incondizionato” dovrebbe toccare ogni singolo cittadino. Con la differenza che, mentre per gli adulti sarà di 2.500 franchi, per i minori dovrebbe essere di 625, più o meno 550 euro. In realtà, scrive Franco Zantonelli su “Repubblica”, sia il suo finanziamento che i tempi e modi d’applicazione non sono ancora chiari, visto che al legislativo di Zurigo la proposta è passata con soli due voti di scarto. L’esecutivo ha, in effetti, due anni di tempo per stabilire come metterla in pratica. «Ci muoviamo con i piedi di piombo», ha non a caso dichiarato alla tv pubblica il consigliere comunale socialista Urs Helfenstein.
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Galloni: dire no ai boss dell’euro, creato per uccidere l’Italia
Poniamo il caso che un grande economista italiano vi dicesse che l’euro è stato inventato per impedire all’Italia di rafforzarsi: ci credereste? Vi conviene farlo, dice Gianluca Scorla, se questo economista risponde al nome di Nino Galloni, già ricercatore a Berkeley e poi docente universitario a Modena, Milano e Roma. Di scuola post-keynesiana, tra il 1981 e il 1986 è stato collaboratore del professor Federico Caffè, il genio europeo dell’economia progressista. Nell’ultima stagione governativa di Andreotti, il “Divo Giulio” chiamò a sé proprio Galloni per aiutare l’Italia a non rimetterci le penne, in vista del Trattato di Maastricht. Risultato: l’allora cancelliere Kohl ingiuse al nostro governo di allontanare quel funzionario “ribelle”, che si ridusse – in ufficio – a comunicare con Andreotti mediante “pizzini”, per aggirare il rischio di intercettazioni ambientali. Galloni ha lavorato al ministero dell’economia e in quello del lavoro, all’Inpdap e all’Ocse, nonché presso gruppi come Agip, Nuova Satin, Fintext Corporation. E’ stato impegnato nell’Inps, poi nell’Inail. Oggi è vicepresidente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi. Obiettivo: costringere la politica italiana a leggere la crisi in modo corretto, capendo chi l’ha creata e perché.Sono passi indispensabili, per poterne uscire. Come? Restituendo allo Stato la sua piena sovranità operativa, monetaria e finanziaria, senza la quale ogni soluzione di rilancio non è credibile, è pura propaganda elettorale. Renzi e Berlusconi fanno a gara nel promettere bonus e sgravi fiscali? Stanno semplicemente barando: sanno benissimo che, se prima non si rovescia il tavolo europeo del rigore (che non è tecnico-economico ma solo politico, ideologico), non ci si saranno soldi per sostenere gli italiani. Era il 2014, quando Galloni – dopo aver denunciato il piano di “deindustrializzazione” dell’Italia pianificato via Eurozona dal nostro maggiore competitor, la Germania – ricordava la trama del film horror proiettato in Europa negli ultimi tre lustri. «Dalla fine della primavera del 2001 i grandi ecomomisti, i Premi Nobel, i centri di ricerca, i grandi esperti avevano previsto che “dal prossimo trimestre ci sarà la ripresa”, e che questa ripresa “slitterà al semestre successivo”, poi “all’anno successivo” e poi ancora a quello venturo, senza alcuna spiegazione sulle logiche che avrebbero dovuto guidare questa ripresa». Ma della ripresa, ovviamente, «nemmeno l’ombra», sintetizza tre anni fa Gianluca Scorla, sul “Giornale delle Buone Notizie”.E vi pare possibile che, di trimestre in trimestre, da allora, le banche abbiano emesso 800.000 miliardi di dollari di titoli derivati e altri 3 milioni di miliardi di dollari di derivati sui derivati, quindi di titoli tossici? Già nel 2014 il totale sfiorava i 4 quadrilioni di miliardi di dollari, cifra pari a 55 volte il Pil del mondo. Lacrime e sangue: quante ne hanno davvero versate gli italiani, obbedendo ai diktat degli ultimi governi euro-diretti, da Monti a Gentiloni passando per Letta e Renzi? «Nella fase storica in cui la politica è stata superata dall’economia e le scelte operate seguono il paradigma della speculazione internazionale piuttosto che del rilancio dello sviluppo», riassume Scorla, Galloni racconta come stanno realmente le cose, indicando anche la via da percorrere per risalire la china: utilizzare ogni mezzo (compresi quelli esistenti, non soppressi da Maastricht) per riattivare lo Stato come soggetto necessariamente protagonista dell’economia nazionale: per esempio emettendo moneta metallica o anche “moneta fiduciaria”, non a corso legale fuori dai confini nazionali, ma valida ad esempio per pagare le tasse. «Già solo questo – ricorda Galloni, in un recente intervento al convegno promosso a Roma dal Movimento Roosevelt sulla Costituzione – basterebbe a rimediare allo scellerato obbligo del pareggio di bilancio, introdotto dal governo Monti con i voti di Berlusconi e Bersani».“Chi ha tradito l’economia italiana” (Editori Riuniti) è uno dei recenti saggi ai quali Galloni ha affidato la sua circostanziata denuncia. In estrema sintesi: i 35 anni che vanno dal 1944 al 1979, riassume Scorla, sono lo specchio di uno stabile modello di capitalismo espansionista keynesiano che ha centrato l’obiettivo di massimizzare le vendite, i profitti complessivi e l’occupazione. Nel 1979, in concomitanza con il G7 di Tokyo, l’uscita dal sistema della solidarietà internazionale dà luogo alla genesi di un nuovo tipo di capitalismo, definito di “rivincita dei proprietari”, che durerà fino agli inizi degli anni ’90 con l’avvento della crisi del sistema monetario europeo. «Dalla fine degli anni ’70, la svolta liberista anti-keynesiana trova il suo apice devastatore nella logica del salvataggio bancario, che spinge le istituzioni e le banche stesse ad assoggettarsi, nel tempo, al sistema ultra-speculativo voluto dalla grande finanza». Dal 2001, quindi, «le banche affondano l’acceleratore nell’emissione di derivati e dei derivati sui derivati, generando così i titoli tossici. L’obiettivo raggiunto coincide con la massimizzazione del guadagno, non sul rendimento del titolo ma sul numero delle emissioni».Meglio di chiunque altro, Galloni ha spiegato come – tra il 1980 e l’anno seguente – lo sviluppo del paese fu letteralmente sabotato dal divorzio tra Bankitalia (Ciampi) e il Tesoro (Andreatta): prima ancora dell’euro, la banca centrale abdicò al suo ruolo istituzionale di “prestatore di ultima istanza”, cessando di fungere da “bancomat” del governo, a costo zero. Da allora, il deficit cominciò a essere finanziato – al prezzo di interessi salatissimi – da investitori finanziari privati: cosa che fece letteralmente esplodere, di colpo, il debito pubblico italiano, problema poi impugnato come una clava dal potere neoliberista, fin dall’inizio impegnato a fare la guerra allo Stato. Oggi, dice Galloni, la buona notizia è che l’Italia sta resistendo in modo imprevedibile al massacro sociale imposto da Bruxelles per via finanziaria. E senza alcun intervento da parte della politica: i lavoratori, semplicemente, hanno smesso di andare a votare, gonfiando l’oceano dell’astensionismo. Potremmo vivere un’accelerazione positiva esponenziale, aggiunge Galloni, se solo la politica si decidesse a dire la verità sull’accaduto, a denunciare i nemici del sistema-Italia e a mettere in campo politiche nuovamente espansive, fondate su investimenti strategici sorretti dall’emissione monetaria diretta. Premessa: innanzitutto, è urgente compiere una mossa semplice e drastica, di cui hanno paura tutti – dal Pd a Berlusconi, fino ai 5 Stelle. E cioè: mandare a stendere i poteri che manovrano i fantocci di Berlino, Bruxelles e Francoforte. Dicendo loro: se non si rinegozia tutto, da cima a fondo, l’Italia sospende la vigenza dei trattati europei. Funzionerebbe: perché, senza più il nostro paese, il bunker antieuropeo chiamato Unione Europea crollerebbe un minuto dopo.Poniamo il caso che un grande economista italiano vi dicesse che l’euro è stato inventato per impedire all’Italia di rafforzarsi: ci credereste? Vi conviene farlo, dice Gianluca Scorla, se questo economista risponde al nome di Nino Galloni, già ricercatore a Berkeley e poi docente universitario a Modena, Milano e Roma. Di scuola post-keynesiana, tra il 1981 e il 1986 è stato collaboratore del professor Federico Caffè, il genio europeo dell’economia progressista. Nell’ultima stagione governativa di Andreotti, il “Divo Giulio” chiamò a sé proprio Galloni per aiutare l’Italia a non rimetterci le penne, in vista del Trattato di Maastricht. Risultato: l’allora cancelliere Kohl ingiuse al nostro governo di allontanare quel funzionario “ribelle”, che si ridusse – in ufficio – a comunicare con Andreotti mediante “pizzini”, per aggirare il rischio di intercettazioni ambientali. Galloni ha lavorato al ministero dell’economia e in quello del lavoro, all’Inpdap e all’Ocse, nonché presso gruppi come Agip, Nuova Satin, Fintext Corporation. E’ stato impegnato nell’Inps, poi nell’Inail. Oggi è vicepresidente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi. Obiettivo: costringere la politica italiana a leggere la crisi in modo corretto, capendo chi l’ha creata e perché.
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D’Alema: gli italiani non fanno più figli. Chissà come mai…
Come mai gli italiani non fanno più figli? Non se lo chiede, Massimo D’Alema, mentre ripropone tranquillamente il più classico teorema mondialista: il nostro futuro saranno i migranti, unica risposta all’impoverimento demografico del Belpaese, sempre più anziano e spopolato. L’ex segretario del Pds è stato un esponente di punta della classe dirigente italiana, in particolare di quella “sinistra post-comunista di governo” che supportò la grande cessione della sovranità nazionale dopo la caduta (per via giudiziaria) della Prima Repubblica. Eppure, alla televisione italiana già immersa nel clima politico della campagna elettorale, D’Alema parla dell’Italia come se fosse un turista distratto, e non l’uomo che sedette per due anni a Palazzo Chigi, peraltro vantandosi di aver realizzato il massimo volume possibile di privatizzazioni, un vero e proprio record europeo. Parla come un osservatore sbadato e impreciso, D’Alema, quando si limita a prendere atto che il bizzarro problema che affligge lo Stivale, da molti anni, è la crisi della natalità, il saldo negativo che rivela la decrescita costante della popolazione. Affrontare il male a monte, occupandosi degli italiani? Aiutarli a scommettere nuovamente sul futuro? Ma no, basta rimpiazzarli con un po’ di profughi africani. Per gli italiani, tuttalpiù, D’Alema ha in mente una cura innovativa e rivoluzionaria: reintrodurre l’imposta sulla prima casa.D’Alema appartiene a pieno titolo alla storia del Novecento: il suo nome è legato per sempre all’infelice stagione che vide incrinarsi i decenni del benessere, preparando il crollo sistemico al quale stiamo assistendo. Ma la vera notizia è che l’ex premier sia ancora in campo nel 2017, tra le fila (meramente anti-renziane) di un sedicente movimento “democratico e progressista”. Quella di D’Alema sembra una voce proveniente dalle catacombe della politica, dal cimitero neoliberista nel quale marcirono e poi morirono, a volte anche assassinate, le migliori idee di progresso sociale, giustizia e solidarietà, incarnate in Europa da giganti del pensiero come Olof Palme, leader della gloriosa socialdemocrazia svedese, artefice del più avanzato welfare del continente. Nel salottino televisivo di Lilli Gruber, D’Alema parla come se nulla sapesse di quanto è avvenuto, in questi anni, al paese a cui oggi si rivolge: la colossale svendita del patrimonio nazionale, i tagli sanguinosi alla spesa sociale, l’austerity, la precarizzazione del lavoro e la piaga della disoccupazione. Dov’era, D’Alema, quando l’Italia organizzava il proprio suicidio socio-economico con il macigno del Fiscal Compact, la legge Fornero sulle pensioni, la crocifissione della Costituzione mediante pareggio di bilancio obbligatorio?L’ex premier post-comunista parla come se non conoscesse Mario Draghi, come se non avesse mai sentito nominare Napolitano e Monti, la Merkel e la spietata Troika che ha ridotto alla fame una nazione come la Grecia. Si limita a descrivere l’Italia come un paese curiosamente in crisi demografica, i cui abitanti – chissà perché – hanno smesso di sposarsi e di metter su famiglia. Il giornalista Paolo Barnard, autore del saggio “Il più grande crimine”, presenta D’Alema come “allievo” di Jacques Attali, eminente politologo francese, già “consigliere del principe” quando lavorava all’Eliseo. Un grande economista transalpino, Alain Parguez, rivela che proprio Attali, oggi padrino di Macron, contribuì a determinare la svolta neo-reazionaria del presidente socialista Mitterrand, “l’inventore” della soglia del 3% (del Pil) come tetto alla spesa pubblica. Una regola artificiosa e nefasta, anti-economica, da allora utilizzata dall’élite finanziaria per scatenare l’attacco frontale alla sovranità di bilancio degli Stati europei, mettendo fine alla loro capacità di realizzare politiche progressiste.Nel suo saggio del 2014 sulla segreta geografia supermassonica del massimo potere (“Massoni”, Chiarelettere), Gioele Magaldi collega D’Alema e Attali sul piano delle loro frequentazioni più riservate: il primo, scrive, milita in due diverse Ur-Lodges, la “Pan-Europa” e la “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”, mentre il secondo nella “Three Eyes”. Secondo Magaldi, le “logge madri” sono strutture esclusive e sovranazionali del back-office del potere, incubatrici di ogni grande decisione finanziaria, economica e geopolitica. Quelle citate, in relazione a D’Alema e Attali, sempre secondo Magaldi (a sua volta “iniziato” alla Ur-Lodge progressista “Thomas Paine”) sono superlogge orientate in senso neo-aristocratico, grandi protagoniste della globalizzazione universale che sta privatizzando il pianeta, senza più altra bandiera che quella del denaro. Se la figura politica di D’Alema resta complessa, legata alla tormentata conversione atlantica degli ex comunisti (D’Alema fu il primo premier italiano proveniente dal Pci, il partito di Togliatti e Berlinguer), può sembrare un mistero l’ipotetica attualità della sua proposta odierna, la sua stessa permanenza nel club degli interlocutori politici italiani.D’Alema sarà addirittura tra i competitori elettorali del 2018, per giunta nel cartello guidato dall’imbarazzante Bersani, che si richiama in modo surreale all’articolo 1 della Costituzione (“fondata sul lavoro”, ma in realtà “affondata” dalla costituzionalizzazione del rigore imposta dal governo Monti, con i voti di Berlusconi e dello stesso Bersani). La surrealtà di questa sedicente sinistra prosegue nell’omaggio ricorrente a Romano Prodi, il super-privatizzatore dell’Iri che riuscì a passare da Palazzo Chigi alla Goldman Sachs, fino alla guida della Commissione Europea, cioè l’organismo che ha inflitto le maggiori sofferenze ai lavoratori europei. Al fantasma di Prodi, peraltro, si oppone quello del Cavaliere, che allatta agnellini per la gioia degli animalisti ed evoca spettacolari candidature securitarie, scomodando alti ufficiali dei carabinieri. Poi naturalmente c’è l’odiato Renzi, per il quale il male italico numero uno resta “la burocrazia” (infatti: il problema di Palermo è il traffico, dice Benigni nel film in cui interpreta il boss mafioso Johnny Stecchino). E i 5 Stelle? Lontani anche loro dalla zona rossa, quella del vero pericolo: il loro mitico “reddito di cittadinanza” lo finanzierebbero semplicemente “tagliando gli sprechi”, non certo bocciando i diktat di Bruxelles. Un quadro pittoresco, nel quale diventa comprensibile persino la sopravvivenza giurassica dello stesso D’Alema, così sbadato da non domandarsi perché l’Italia sia tanto in crisi, al punto da smettere di fare figli.Perché mai gli italiani non fanno più figli? Non se lo chiede, Massimo D’Alema, mentre ripropone tranquillamente il più classico teorema mondialista: il nostro futuro saranno i migranti, unica risposta all’impoverimento demografico del Belpaese, sempre più anziano e spopolato. L’ex segretario del Pds è stato un esponente di punta della classe dirigente italiana, in particolare di quella “sinistra post-comunista di governo” che supportò la grande cessione della sovranità nazionale dopo la caduta (per via giudiziaria) della Prima Repubblica. Eppure, alla televisione italiana già immersa nel clima politico della campagna elettorale, D’Alema parla dell’Italia come se fosse un turista distratto, e non l’uomo che sedette per due anni a Palazzo Chigi, peraltro vantandosi di aver realizzato il massimo volume possibile di privatizzazioni, un vero e proprio record europeo. Parla come un osservatore sbadato e impreciso, D’Alema, quando si limita a prendere atto che il bizzarro problema che affligge lo Stivale, da molti anni, è la crisi della natalità, il saldo negativo che rivela la decrescita costante della popolazione. Affrontare il male a monte, occupandosi degli italiani? Aiutarli a scommettere nuovamente sul futuro? Ma no, basta rimpiazzarli con un po’ di profughi africani. Per gli italiani, tuttalpiù, D’Alema ha in mente una cura innovativa e rivoluzionaria: reintrodurre l’imposta sulla prima casa.
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Dezzani: Draghi punta sui 5 Stelle, scommette contro di noi
Mario Draghi e l’élite economica italiana puntano ormai sui 5 Stelle e scommettono contro l’Italia, per ultimare la svendita dell’industria: il nostro futuro si fa sempre più minaccioso man mano che il 2018 si avvicina. All’incertezza elettorale si somma un quadro europeo ostile: la Germania non ha alcuna intenzione di concederci sconti. Forse Berlino è disposta a sobbarcarsi la Francia per ragioni geopolitiche, mentre dell’Italia le interessa solo il Veneto. Si avvicina «un commissariamento esplicito o subdolo, sulla falsariga del governo Monti», scrive Federico Dezzani. E se in Germania dovesse prevalere una linea ancora più rigorista, «non si potrebbe neanche escludere l’imposizione di un “default ordinato”». Di fronte a questo scenario, sostiene l’analista, l’Italia sarà costretta a scegliere: capitolazione o uscita dall’euro. Un soccorso, per sottrarsi all’attacco della Germania, «può venire soltanto dalle potenze emergenti». I prossimi 12-18 mesi saranno cruciali per il futuro del nostro paese e della stessa Europa, insiste Dezzani: il “nuovo sacco di Roma” è stato già preparato da Germania e Francia. L’Italia deve quindi «stringere una serie di alleanze internazionali per evitare un tristissimo epilogo». Anche perché gli “Stati Uniti d’Europa”, ammesso che qualcuno li abbia mai davvero presi in considerazione, «sono stati ormai scartati da anni».Il vertice a Deauville dell’ottobre 2010, cui parteciparono Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, secondo Dezzani può essere considerato lo spartiacque che separa il progetto dell’Europa allargata da quello dell’Europa franco-tedesca, moderna riproposizione dell’Impero Carolingio. È un disegno che non soddisfa pienamente gli Usa (Dezzani lo deduce dagli attacchi al sistema-Germania, come Volkswagen e Deutsche Bank), ma ha il probabile assenso della Gran Bretagna (da cui il tentativo di fondere Lse-Deutsche Boerse e l’uscita dall’Unione Europea per facilitare i piani federativi di Angela Merkel e Macron). All’interno della coppia franco-tedesca, la posizione dominante spetta ovviamente alla Germania, la cui prestazioni economiche e finanziarie surclassano quelle della Francia. Probabilmente Berlino, se ragionasse in termini meramente egoistici – continua Dezzani – procederebbe con l’integrazione politica della sola area euro-marco (Austria, Olanda, Slovenia, Lussemburgo, Slovacchia, Estonia, Finlandia). «Ma ragioni di natura geopolitica la inducono a sobbarcarsi anche la storica rivale: la Francia dispone ancora di un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, è dotata di testate atomiche e, se abbandonata a se stessa, rischia di scivolare verso pericolose posizioni revanchiste-nazionaliste».In ogni caso, qualsiasi proposta di ulteriore integrazione europea, come l’introduzione di eurobond, è ormai circoscritta all’asse franco-tedesco. «E gli ultimi sviluppi politici in Germania, dove la destra nazionalista è in forte crescita, chiudono la porta a qualsiasi integrazione a 27 (complicando persino la convergenza tra Emmanuel Macron e Angela Merkel)», continua Dezzani. Il “resto” dell’Europa, invece, nell’ottica franco-tedesca ha un valore modesto: «Non dispiacerebbe, se possibile, annettere al neo-impero carolingio la Catalogna, regione sviluppata e contigua alla Francia. Farebbe gola anche quella “Padania” che Gianfranco Miglio sognava di federare alla Germania: il Triveneto, in particolare, è il naturale sbocco della Germania sul Mar Adriatico». E non è un caso se Luca Zaia, esponente della vecchia Lega Nord, «abbia presentato il recente referendum sull’autonomia come “una risposta al plebiscito del 18662”, che separò Venezia ed il suo retroterra all’orbita germanica». La penisola italiana nel suo complesso, però – aggiunge l’analista – non è nei desideri di Berlino. E l’improvvisa ricomparsa dei secessionismi “insulari”, in primis quello sardo, testimonia che altre cancellerie europee (Londra in testa) sono interessate allo “spezzatino” dell’Italia.«Se la Germania non ha intenzione di spendere un centesimo perché Roma rimanga agganciata all’Eurozona – ragiona Dezzani – è solo questione di tempo prima che la situazione dell’Italia, sottoposta a letali dosi di austerità (perché “smetta di vivere al di sopra dei propri mezzi”), si faccia insostenibile». In prossimità del 2018, a distanza di sette anni dall’imposizione delle ricette della Troika, l’Italia è allo stremo: «Il rapporto debito pubblico/Pil ha raggiunto livelli record», mentre «la caduta verticale dell’attività economica ha gonfiato i bilanci delle banche di crediti inesigibili». Gli indicatori occupazionali e demografici, poi, sono drammatici: «Il Sud Italia e alcune aree del Nord stanno sperimentando un vero processo di desertificazione». Se la Germania avesse interesse a tenere la penisola nell’euro, continua Dezzani, dovrebbe immediatamente invertire marcia. «Invece, tutti i segnali che provengono dal Nord vanno nella direzione di un ulteriore inasprimento dell’austerità: il testamento politico di Wolfgang Schäuble, lasciato al prossimo ministro delle finanze (un liberale ultra-rigorista?), contempla apertamente il “default ordinato” per i membri dell’Eurozona». E pesa anche il recente “ammonimento” del vicepresidente della Commissione Europea, il finlandese Jyrki Katainen, sulla «necessità di varare una manovra-bis subito dopo le elezioni». Una conferma: «Berlino non intende fare alcuno sconto all’Italia in materia di riduzione/contenimento del debito».Nel 2018, quindi, per Dezzani l’Italia avrà di fronte due strade: «La capitolazione di fronte all’asse franco-tedesco o l’uscita dall’Eurozona». La prima soluzione equivarrebbe ad inasprire ulteriormente le politiche sul lato dell’offerta (tagli alla sanità e pensioni, licenziamenti). Vorrebbe dire «taglieggiare il risparmio privato (prelievo sui conti o patrimoniale), saccheggiare quel che rimane del patrimonio pubblico (riserve di Bankitalia, immobili e partecipate) e lasciare che le ultime medie-grandi imprese italiane passino in mano straniera». Secondo Dezzani, a premere per questa soluzione è il “partito Draghi” (o “partito Bilderberg”) «che annovera, oltre al governatore della Bce, Ignazio Visco, Giorgio Napolitano, Eugenio Scalfari, Ferruccio De Bortoli, Carlo De Benedetti, Paolo Mieli, Mario Monti, Romano Prodi, gli Agnelli-Elkann». Sempre secondo Dezzani, in viste delle politiche 2016 il “partito Draghi” «punta sulla vittoria elettorale del Movimento 5 Stelle, cui andrebbe sommata in Parlamento la sinistra “prodiana”: il reddito di cittadinanza o provvedimenti analoghi sarebbero ottimi paraventi per completare con discrezione la definitiva spoliazione dell’Italia».La seconda opzione, invece, prevede l’abbandono dell’Eurozona di fronte ai diktat franco-tedeschi sempre più gravosi e umilianti. «L’uscita dalla moneta unica sarebbe emergenziale, dettata dal semplice istinto di sopravvivenza del nostro paese: non esiste al momento “un partito dell’uscita dall’euro” analogo a quello che preme per il commissariamento», osserva Dezzani: «Formazioni come la Lega Nord si sono appropriate della causa anti-euro per meri fini elettorali, senza possedere né prevedere alcun programma concreto per l’Italexit». Se non altro, «la vittoria della destra alle politiche del 2018 favorirebbe senza dubbio questa strada», secondo l’analista, che fa notare che «l’unico “boiardo di Stato” ad aver apertamente contemplato un “piano B” è stato l’economista Paolo Savona, ex-ministro del governo Ciampi». Eppure, nonostante il “partito dell’uscita dall’euro” sia ancora in gestazione, «c’è da scommettere che cresca in fretta nel corso del 2018 e, entro la fine dell’anno, prenda il sopravvento».Il progetto federativo europeo «è ormai morto», ribadisce Dezzani. E quindi, «arrendersi al commissariamento franco-tedesco significherebbe soltanto abbandonare l’Eurozona con 2-3 anni di ritardo, spogliati di ogni ricchezza residua (proprio come i governi Monti-Letta-Renzi hanno favorito il saccheggio del paese, anziché risanare le finanze)». Gli squilibri sul mercato interbancario europeo (ben visibili dai saldi dal sistema Target 2), secondo l’analista «lasciano pensare che nel mondo della finanza continentale ci si stia preparando per una Italexit nel corso dei prossimi dodici mesi». Osserva Dezzani: «Mai le banche tedesche hanno accumulato così tanto denaro presso la Bundesbank e mai, specularmente, le banche italiane si sono indebitate in maniera così alta presso Bankitalia». Un’imminente uscita dall’euro, quindi, per non essere schiacciati: contando su quali alleanze internazionali? «Evaporate in fretta le speranze riposte in Donald Trump, totalmente paralizzato dagli intrighi di Washington, solo le potenze emergenti hanno interesse a sostenere la svolta italiana: un terremoto finanziario, quindi, e geopolitico».Mario Draghi e l’élite economica italiana puntano ormai sui 5 Stelle e scommettono contro l’Italia, per ultimare la svendita dell’industria: il nostro futuro si fa sempre più minaccioso man mano che il 2018 si avvicina. All’incertezza elettorale si somma un quadro europeo ostile: la Germania non ha alcuna intenzione di concederci sconti. Forse Berlino è disposta a sobbarcarsi la Francia per ragioni geopolitiche, mentre dell’Italia le interessa solo il Veneto. Si avvicina «un commissariamento esplicito o subdolo, sulla falsariga del governo Monti», scrive Federico Dezzani. E se in Germania dovesse prevalere una linea ancora più rigorista, «non si potrebbe neanche escludere l’imposizione di un “default ordinato”». Di fronte a questo scenario, sostiene l’analista, l’Italia sarà costretta a scegliere: capitolazione o uscita dall’euro. Un soccorso, per sottrarsi all’attacco della Germania, «può venire soltanto dalle potenze emergenti». I prossimi 12-18 mesi saranno cruciali per il futuro del nostro paese e della stessa Europa, insiste Dezzani: il “nuovo sacco di Roma” è stato già preparato da Germania e Francia. L’Italia deve quindi «stringere una serie di alleanze internazionali per evitare un tristissimo epilogo». Anche perché gli “Stati Uniti d’Europa”, ammesso che qualcuno li abbia mai davvero presi in considerazione, «sono stati ormai scartati da anni».
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Il Sole 24 Ore: votate pure, intanto lo Stato non esiste più
In un paese come l’Italia, anestetizzato e abbindolato dalla propaganda e dalla disinformazione, non si è ancora capito in quale baratro ci hanno portato. E – per quanto possa sembrare incredibile – non lo hanno capito nemmeno quelli che ci hanno trascinato quaggiù. Intendo la classe politica. Infatti, alla vigilia della corsa elettorale, sui giornali si leggono annunci di programmi mirabolanti che stanno per essere sfornati dai diversi schieramenti: dal taglio delle tasse alle pensioni, dal reddito di cittadinanza ai finanziamenti allo stato sociale, dai fondi per la scuola a quelli per lottare contro la disoccupazione fino al ritorno del famoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Bene. C’è solo un problema: le chiavi e il portafoglio di casa nostra sono ormai in mano ad altri. In Italia non governano più gli italiani. In maniera molto chiara – quasi brutale – lo ha fatto presente Sergio Fabbrini in un inciso del suo editoriale pubblicato dal “Sole 24 Ore”, dove si legge: «I politici italiani continuano a pensare come se fossero all’interno di uno Stato sovrano indipendente». Attenzione, non sono parole pronunciate da un “pericoloso” sovranista, ma da un commentatore che – come il suo giornale – aderisce all’ideologia dell’Unione Europea. Rileggete quelle parole perché sono vere e drammatiche, sebbene quel commentatore – come la gran parte degli editorialisti dei giornali – ritenga tutto questo un gran progresso.Bisognerebbe domandare agli italiani: a voi è mai stato detto che non siamo più «uno Stato sovrano indipendente»? Vi è mai stata chiesta una chiara autorizzazione a disfarsi della nostra sovranità? Vi sono mai state spiegate le conseguenze? Ci rendiamo conto che siamo praticamente sudditi della “Grande Germania” chiamata Unione Europea? Per la verità alcune voci inascoltate lo hanno gridato ai quattro venti, ma sono state fulminate sui giornali con continue accuse di sovranismo, di populismo e di nazionalismo. Oggi, in questa Italia, un Enrico Mattei verrebbe considerato un pericolo sovranista e nazionalista. Perché costruì l’Eni avendo come bussola il nostro interesse nazionale. Nel 2017 gli sarebbe impossibile. Il giornale della Confindustria ieri c’informava del «radicale cambiamento» che si è verificato ovvero che «lo Stato nazionale non esiste più in Europa» (sic!). Ripeto: non sono parole di Salvini o della Meloni, ma degli stessi europeisti. È la realtà dei fatti. Certo, in teoria è ancora in vigore l’articolo 1 della Costituzione secondo cui “la sovranità appartiene al popolo” italiano. Ma nella realtà non è più così. Lo abbiamo visto nel 2011 quando è stato rovesciato l’ultimo governo scelto dagli italiani e lo vediamo continuamente con la sottomissione alla Ue.Quelli del centrosinistra sono stati così zelanti da andare perfino oltre ciò che l’Europa (o meglio: la Germania) chiedeva, attribuendo alle norme europee valore costituzionale. Giulio Tremonti in una intervista a “Libero” ha spiegato che «la sinistra italiana, tra il 2000 e il 2001» ha introdotto «non richiesta, nell’articolo 117 della Costituzione la formula della nostra sottomissione quando si afferma che il potere legislativo dello Stato è subordinato “ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”, intendendo per ordinamento comunitario non solo i trattati, ma anche i regolamenti e le direttive europee». È un’ idea così geniale che ovviamente gli altri Stati d’ Europa si sono ben guardati dal farsela venire. I volenterosi governanti italiani sono i soli ad averla escogitata. Così siamo obbligati a recepire tutto, bail-in compreso e non importa se contraddice l’articolo 47 della nostra Costituzione sulla tutela del risparmio. Ovviamente la decisiva perdita di sovranità c’ è stata anzitutto quando abbiamo rinunciato alla nostra moneta, errore che paghiamo salatamente.Eppure eravamo stati avvertiti anche da premi Nobel per l’ economia, come Paul Krugman, che nel 1999, sul “New York Times”, scriveva: «Adottando l’euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera con tutti i danni che ciò implica». Ecco la vera questione: non siamo più uno Stato sovrano e indipendente, non abbiamo più una moneta e ci vengono imposte delle politiche e delle norme che fanno l’interesse nazionale altrui, non il nostro. Ci hanno ridotto a un “fake Stato”. Una colonia. La classe politica che ci ha portato a questo punto, e che adesso fischietta distrattamente facendo finta che esista ancora uno Stato italiano sovrano e indipendente, deve rendere ragione di questa follia, alla luce dei risultati devastanti di questi anni. Se le elezioni non affrontano questo problema saranno soltanto un altro modo per prendere in giro un popolo che è stato impoverito, ingannato, tradito ed espropriato perfino della sua sovranità.(Antonio Socci, “In Italia non governano più gli italiani ma l’Europa, e non fa il nostro interesse”, dal quotidiano “Libero” del 21 novembre 2017).In un paese come l’Italia, anestetizzato e abbindolato dalla propaganda e dalla disinformazione, non si è ancora capito in quale baratro ci hanno portato. E – per quanto possa sembrare incredibile – non lo hanno capito nemmeno quelli che ci hanno trascinato quaggiù. Intendo la classe politica. Infatti, alla vigilia della corsa elettorale, sui giornali si leggono annunci di programmi mirabolanti che stanno per essere sfornati dai diversi schieramenti: dal taglio delle tasse alle pensioni, dal reddito di cittadinanza ai finanziamenti allo stato sociale, dai fondi per la scuola a quelli per lottare contro la disoccupazione fino al ritorno del famoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Bene. C’è solo un problema: le chiavi e il portafoglio di casa nostra sono ormai in mano ad altri. In Italia non governano più gli italiani. In maniera molto chiara – quasi brutale – lo ha fatto presente Sergio Fabbrini in un inciso del suo editoriale pubblicato dal “Sole 24 Ore”, dove si legge: «I politici italiani continuano a pensare come se fossero all’interno di uno Stato sovrano indipendente». Attenzione, non sono parole pronunciate da un “pericoloso” sovranista, ma da un commentatore che – come il suo giornale – aderisce all’ideologia dell’Unione Europea. Rileggete quelle parole perché sono vere e drammatiche, sebbene quel commentatore – come la gran parte degli editorialisti dei giornali – ritenga tutto questo un gran progresso.