Archivio del Tag ‘disoccupazione’
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E bravo Draghi, ha ridotto l’Europa a un nano economico
Mario Draghi alla scadenza del suo mandato è stato celebrato come il salvatore della Ue e dell’euro, e non c’è dubbio che abbia fatto di tutto per evitare il collasso della moneta unica e che ci sia riuscito. Ma per l’economia reale – ecco il rovescio della medaglia – questo non ha portato ad alcun giovamento. Nei dieci anni successivi alla crisi, dal 2007 al 2017, secondo i dati della World Bank, il Pil globale nel mondo è aumentato del 22%. Tutto merito della Cina e l’India? Per la verità gli Usa sono cresciuti del 29%. E l’Europa della Ue e dell’euro? Il dato clamoroso è che l’Europa dell’euro in dieci anni è cresciuta, come Pil, dell’1,7%. Questo è incredibile. L’Europa ha a disposizione scienza e tecnologia quanto l’America e l’Asia e si lavora in media otto ore al giorno anche qui. Americani, giapponesi e cinesi prendono un po’ meno vacanze e hanno meno mesi in maternità, vanno in pensione qualche anno più tardi. Ma la differenza non è poi così grande come si pensa. Una differenza così abissale della crescita economica su dieci anni non la si spiega con le ore lavorate, che sono in Eurozona solo un 10 o 15% di meno complessivamente.E in ogni caso questa differenza esisteva anche vent’anni fa, quando invece la crescita europea era paragonabile a quella del resto dei paesi Ocse.Questo enorme divario di crescita si spiega soprattutto con le politiche molto espansive del credito e dei deficit pubblici, che il resto del mondo ha fatto e noi nella Ue no. In Usa, il Pil è aumentato da 15.000 a 19.300 miliardi, mentre il deficit pubblico aumentava da 10.000 a 21.000 miliardi, più che raddoppiato in dieci anni (e tuttora l’America mantiene un deficit pubblico di 1.000 miliardi l’anno). In Cina il totale del debito (incluso quello di imprese e famiglie) era meno di 10.000 miliardi, e in dieci anni è esploso a oltre 40.000 miliardi. In Italia invece il credito totale a famiglie e imprese è calato, negli ultimi dieci anni, perché quello alle imprese è stato tagliato moltissimo (da 940 a 650 miliardi) e quello alle famiglie è salito solo leggermente. E la politica di Draghi alla Bce, che ha espanso il bilancio della Bce di quasi 3.000 miliardi? Questi miliardi sono andati a comprare debito pubblico, sia direttamente che indirettamente (dandoli alle banche che poi compravano ad esempio Btp). Sarebbe stato utile all’economia se si fossero aumentati i deficit tagliando le tasse, ma “le regole Ue” lo hanno impedito. E allora a cosa sono serviti i 3.000 miliardi di Draghi? Solo a far scendere a zero (o sottozero) il rendimenti di tutti i titoli di Stato, persino quell greci.Questo danneggia i risparmiatori, che infatti oggi in Italia hanno abbandonato i titoli di Stato comprando polizze, fondi e prodotti del risparmio gestito, e poi mettendo 300 miliardi nei conti correnti, che sono saliti a 1.400 miliardi. Se schiacci a zero i rendimenti dei titoli, chi vuole risparmiare deve spendere un poco di meno per compensare il reddito che non riceve più sui suoi soldi messi da parte. In compenso, a questi tassi artificialmente bassi diventa più facile indebitarsi per chi opera speculativamente sui mercati. Buona fortuna. Nel resto del mondo si è reagito alla crisi con politiche aggressive di aumento dei deficit e del credito per far circolare più soldi con ogni mezzo anche tra famiglie e imprese. Si sono tagliate le tasse e si è aumentata la spesa, e le banche sono state spinte ad aumentare il credito. Le statistiche mondiali del debito privato e pubblico mostrano un enorme aumento del debito delle imprese specie in Usa e Cina. Oggi il debito equivale in pratica alla moneta che circola, e se si vuole aumentarla bisogna aumentare il debito. Nessuno lo ha capito meglio dei giapponesi e dei cinesi. Il Giappone infatti come si sa ha un debito pubblico doppio del nostro, e la Cina ha trascinato l’economia globale negli ultimi dieci anni aumentando il debito privato di 30.000 miliardi!Se invece non si aumenta il deficit e non si stimolano le banche a prestare alle imprese, stampare moneta come ha fatto Draghi fa solo scendere i tassi sui titoli di Stato a zero o sottozero. Una cosa irrazionale, mai successa in 4.000 anni di storia, e che accade più che altro in Eurozona. Draghi ha pompato liquidità solo per comprare e far comprare alla banche titoli sui mercati. Poco o niente è andato all’economia reale. Questi dati sull’enorme divario tra il resto del mondo che cresce del 22% e l’Eurozona che cresce dell’1% indicano che siamo diventati una eccezione nel mondo; siamo l’area della crescita demografica zero o negativa, come in Italia, perché siamo prigionieri di una gabbia finanziaria che soffoca l’economia e riduce l’occupazione. L’Eurozona sacrifica le prospettive dei suoi figli, che non riproduce più, per rispettare “vincoli finanziari e di bilancio” di cui il resto del mondo se ne frega.C’è chi usa più che altro il debito privato, come i cinesi (ma le loro banche sono pubbliche), chi usa sia quello pubblco come Usa e Uk, e chi usa il debito pubblico, come i giapponesi: sì anche i giapponesi, i quali hanno goduto di un incremento del reddito pro capite dal 2008 di circa il 7% contro un calo dell’8% dell’Italia, nonostante il loro debito pubblico sia il doppio del nostro. La politica della Bce di Draghi è servita solo a impedire che la zona euro si sfaldasse; ma occorre – in Europa, e in Italia prima di ogni altro paese – uno “shock monetario”, una espansione dell’ordine dei 100 miliardi di euro, sotto forma soprattutto di riduzioni di tasse, per rilanciare gli investimenti. L’attuale legge di bilancio mette il paese in coma farmacologico, ma il prossimo anno ci saranno elezioni politiche anticipate e Salvini andrà a Palazzo Chigi; sarà meglio preparere sin d’ora un valido programma per rianimare l’Italia.(Paolo Becchi e Giovanni Zibordi, “I disastri dell’Euro: l’Ue è cresciuta un decimo rispetto al mondo”, da “Libero” del 3 novembre 2019; articolo ripreso sul blog di Becchi).Mario Draghi alla scadenza del suo mandato è stato celebrato come il salvatore della Ue e dell’euro, e non c’è dubbio che abbia fatto di tutto per evitare il collasso della moneta unica e che ci sia riuscito. Ma per l’economia reale – ecco il rovescio della medaglia – questo non ha portato ad alcun giovamento. Nei dieci anni successivi alla crisi, dal 2007 al 2017, secondo i dati della World Bank, il Pil globale nel mondo è aumentato del 22%. Tutto merito della Cina e l’India? Per la verità gli Usa sono cresciuti del 29%. E l’Europa della Ue e dell’euro? Il dato clamoroso è che l’Europa dell’euro in dieci anni è cresciuta, come Pil, dell’1,7%. Questo è incredibile. L’Europa ha a disposizione scienza e tecnologia quanto l’America e l’Asia e si lavora in media otto ore al giorno anche qui. Americani, giapponesi e cinesi prendono un po’ meno vacanze e hanno meno mesi in maternità, vanno in pensione qualche anno più tardi. Ma la differenza non è poi così grande come si pensa. Una differenza così abissale della crescita economica su dieci anni non la si spiega con le ore lavorate, che sono in Eurozona solo un 10 o 15% di meno complessivamente.E in ogni caso questa differenza esisteva anche vent’anni fa, quando invece la crescita europea era paragonabile a quella del resto dei paesi Ocse.
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Ilva: quel regalo di Prodi all’Ue che piegò l’industria italiana
Un’antologia di Spoon River della politica industriale: il paragone tra gli ultimi decenni dell’economia italiana e il celebre “cimitero” letterario rischia di diventare ancora più calzante se ad aggiungersi alla grande massa di settori strategici, centri produttivi di vitale importanza e campioni nazionali smantellati da scelte politiche scriteriate (specie le privatizzazioni selvagge), carenze nella definizione delle priorità strategiche e disastri dei gestori privati dovesse aggiungersi l’Ilva. La corsa frenetica a demolire l’economia mista imperniata nell’Istituto di Ricostruzione Industriale (Iri) è stata devastante. Lo ha fatto notare con durezza e nitida chiarezza il direttore del “Quotidiano del Sud” Roberto Napoletano in un recente editoriale: «La vecchia Stet dell’Iri ha ricostruito l’impero romano regalando all’Italia il primato mondiale delle telecomunicazioni e i segreti dell’industria del futuro globale. (…) La vecchia Italstat dell’Iri regala all’Italia un player globale delle costruzioni e delle grandi opere. Apre e chiude i cantieri, si percepisce il progetto paese dello Stato imprenditore, le due Italie sono riunificate con l’Autostrada del Sole costruita e inaugurata prima della scadenza prevista». Entrambe finiranno poi per naufragare dopo la fine dell’epoca d’oro dello Stato-imprenditore.Destino analogo a quello dell’acciaio: «La vecchia Finsider dell’Iri ha regalato all’Italia l’impianto che garantiva a tutti i paesi europei l’indipendenza nella disponibilità di una materia cruciale (l’acciaio) per lo sviluppo industriale. L’uscita dall’orbita pubblica è stata fatale». Il susseguirsi di caos giudiziari, problematiche amministrative e incertezze politiche, dai Riva a Arcelor Mittal, ha fatto il resto. E ora l’Italia rischia di ritrovarsi di fronte a una Caporetto industriale. La chiusura dell’Ilva, la perdita dell’1,5% del Pil legato all’acciaio, la distruzione di 10.700 posti di lavoro diretti e decine di migliaia indiretti per il contenzioso tra il governo Conte II e Arcelor-Mittal, compratore in ritiro dello stabilimento, per il problema dello “scudo penale” previsto dal piano firmato da Luigi Di Maio e ipotizzato prima di lui da Carlo Calenda, certificherebbe il fallimento della (non) strategia italiana dell’acciaio. Iniziata quando Romano Prodi decise di mettere in liquidazione Italsider e Finsider, nel corso del suo mandato da direttore dell’Iri e presidente del Consiglio, perché…ce lo chiedeva l’Europa. Perché l’Ue chiedeva che l’Italia, svenandosi, pagasse il prezzo dell’entrata nell’euro privandosi dei gioielli di famiglia. E iniziando una spirale decrescente che ha fatto venire meno la compatta integrazione di filiera e portato al degrado delle condizioni ambientali e lavorative in Ilva.I lavoratori dell’Ilva di Taranto, per troppo tempo, hanno dovuto scegliere tra due alternative: la trappola della povertà, ovvero l’abbandono di un posto di lavoro che tra standard ambientali insani e tumori dilaganti rappresentava comunque una delle poche opportunità occupazionali dell’area, o l’accettazione di una precarietà di condizioni disarmante e degradante. Un governo desideroso di fare davvero politica industriale dovrebbe in primo luogo vincolare la vendita dell’Ilva alla risoluzione di questa asimmetria. Tante sono le questioni su cui ci dovremmo interrogare: perché introdurre lo scudo penale per Arcelor Mittal senza condizionarlo a una sorta di “golden power” pubblico, ovvero monitorando strettamente il compratore imponendogli il rispetto di un serio piano ambientale, la transizione operativa e la tutela di standard definiti? Perché non proporre altro che un cambio repentino di legislazione che Arcelor ha potuto cogliere come palla al balzo per svincolarsi? Perché non aver fatto chiarezza sui contratti di affitto dell’ex Ilva stipulati anche dai commissari straordinari? Perché il Conte II ha questa smania di smantellare ciò che, pur confusamente, il Conte I aveva concluso senza proporre un piano di lungo periodo alternativo?La verità è che manca la politica, la vera visione strategica delle priorità del paese. Manca la volontà di indirizzare lo sviluppo dello Stato nei settori strategici, di tutelare l’occupazione e il futuro produttivo del paese. Lo vediamo in questi giorni: Fca e Peugeot vanno verso la conclusione di un’alleanza strategica in cui il governo italiano non ha saputo intervenire con il potere di persuasione morale, pensando che i cambi di residenza fiscale neghino la realtà, che impone di preservare il futuro del settore auto. Lo vediamo sui gasdotti, sulle trivelle, sui porti, su Alitalia, sui cantieri navali, sulle telecomunicazioni. Lo vediamo quando 10.700 persone rischiano il posto di lavoro e un polo tanto importante di evaporare come neve al sole: non sarebbe riduttivo pensare all’ipotesi di dimissioni del governo Conte in caso di chiusura dell’Ilva. È il deserto della politica. Di un sistema paese che ha smesso di pensarsi tale. E di una politica che pensa alla supremazia dei mercati e non a come intervenire, laddove necessario, per tutelare lavoro e produzione. Il padre della grande stagione dell’acciaio italiano, Oscar Sinigaglia, partì ragionando da un assunto semplice: senza acciaio non c’è industria. Sarebbe meglio che anche a Roma si iniziasse a capire un pensiero tanto basilare quanto vitale per un comparto chiave e, a cascata, per l’economia.(Andrea Muratore, “Quel regalo di Prodi all’Europa che piegò l’industria dell’Italia, dietro il disastro Ilva il vuoto si una seria politica industriale”, dall’inserto “InsideOver” de “Il Giornale” del 10 novembre 2019).Un’antologia di Spoon River della politica industriale: il paragone tra gli ultimi decenni dell’economia italiana e il celebre “cimitero” letterario rischia di diventare ancora più calzante se ad aggiungersi alla grande massa di settori strategici, centri produttivi di vitale importanza e campioni nazionali smantellati da scelte politiche scriteriate (specie le privatizzazioni selvagge), carenze nella definizione delle priorità strategiche e disastri dei gestori privati dovesse aggiungersi l’Ilva. La corsa frenetica a demolire l’economia mista imperniata nell’Istituto di Ricostruzione Industriale (Iri) è stata devastante. Lo ha fatto notare con durezza e nitida chiarezza il direttore del “Quotidiano del Sud” Roberto Napoletano in un recente editoriale: «La vecchia Stet dell’Iri ha ricostruito l’impero romano regalando all’Italia il primato mondiale delle telecomunicazioni e i segreti dell’industria del futuro globale. (…) La vecchia Italstat dell’Iri regala all’Italia un player globale delle costruzioni e delle grandi opere. Apre e chiude i cantieri, si percepisce il progetto paese dello Stato imprenditore, le due Italie sono riunificate con l’Autostrada del Sole costruita e inaugurata prima della scadenza prevista». Entrambe finiranno poi per naufragare dopo la fine dell’epoca d’oro dello Stato-imprenditore.
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Matolcsy No-Euro, Magaldi: chi vuole quest’Europa debole
«Dobbiamo ammettere che l’euro è stato un errore. È giunto il momento di cercare una via d’uscita». Nel giorno del primo discorso della neopresidente della Bce, Christine Lagarde, fanno rumore le parole di György Matolcsy, governatore della banca centrale ungherese, che dalle colonne del “Financial Times” chiede l’introduzione di un meccanismo di uscita dalla «trappola dell’euro». Per Matolcsy, come riporta l’“Huffinfton Post”, è necessario liberarsi dal «dogma nocivo» secondo cui l’euro sarebbe stato un passo “naturale” verso l’unificazione dell’Europa occidentale. «Due decenni dopo il lancio dell’euro, mancano ancora i pilastri necessari per una moneta globale di successo: uno Stato comune, un budget che copra almeno il 15-20% del Pil dell’Eurozona e un ministro delle finanze dell’area euro». Tra chi plaude alla sortita di Matolcsy (che giunge dopo la dichiazione della stessa Lagarde, secondo cui la moneta andrebbe “restituita” al popolo), c’è Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: «Le parole del banchiere centrale ungherese sono musica, per le nostre orecchie: piuttosto che restare in questa Disunione Europea, tanto vale tornare alla sovranità nazionale per poi ripensare da zero, in modo democratico, la prospettiva confederale degli Stati Uniti d’Europa».Rompere con Bruxelles? A un patto: che si dica tutta la verità. Anche quella che Matolcsy per ora non inquadra. Ovvero: alla Russia – cui l’Ungheria guarda – questa Ue disastrosa sta benissimo così, litigiosa e debole, in crisi perenne. «Sia in Russia che negli Usa esistono ambienti massonici conservatori che lavorano perché l’Europa resti prigioniera dei suoi problemi», afferma Magaldi, esponente dei circuiti massonici progressisti sovranazionali. Gran maestro del Grande Oriente Democratico e autore del saggio “Massoni” (Chiarelettere), Magaldi accusa: «La Bce è gestita in modo privatistico da quegli stessi ambienti massonici che operano affinché l’Europa, di fatto, continui a non esistere, a non avere una politica estera autonoma né un budget federale». Occorrerebbe una svolta radicale: «Fine dell’austerity, investimenti robusti per l’occupazione senza paura di ricorrere al deficit. Servirebbero gli eurobond, per far sparire il ricatto dello spread. E ci vorrebbe una Costituzione europea finalmente politica». Viceversa, stando così le cose, l’Ue continua a non esistere, se non come “fiction”.«È giunto il momento di svegliarsi da questo sogno dannoso e infruttuoso», dice Matolcsy. «Un buon punto di partenza sarebbe riconoscere che la moneta unica è una trappola praticamente per tutti i suoi membri – per ragioni diverse – e non una miniera d’oro». Gli Stati dell’Ue, fuori e dentro l’Eurozona, «dovrebbero ammettere che l’euro è stato un errore strategico». L’obiettivo di costruire una valuta occidentale globale che competesse con il dollaro «era una sfida verso gli Stati Uniti», secondo il banchiere centrale ungherese. «La visione europea degli Stati Uniti d’Europa – aggiunge – negli ultimi due deceni ha portato a una guerra americana, aperta e nascosta, contro l’Ue e l’Eurozona». Magaldi non concorda: purtroppo, sostiene, i vecchi occhiali con cui osservare la geopolitica non bastano più. Dietro a espressioni come “l’America”, “la Russia” e “l’Europa” si nascondono fazioni precise e contrapposte, interamente massoniche: massoni progressisti e reazionari. «Proprio la componente neoaristicratica, incarnata da uomini come Mario Draghi, ha finora gestito Ue e Bce, in perfetto accordo con i circoli oligarchici – russi e americani – contrari a uno sviluppo sostanziale e democratico dell’Europa».Il vento sta cambiando? Lo lascerebbero supporre le recenti uscite di massoni come Draghi e la Lagarde, per decenni personaggi-simbolo della massoneria neoaristicratica: alla “moneta del popolo” della tecnocrate francese si aggiunge l’evocazione della Mmt da parte del super-banchiere italiano. Ora, a sparigliare le carte si aggiunge Matolcsy: «Dobbiamo capire come liberarci da questa trappola», dice. «I membri dell’Eurozona dovrebbero essere autorizzati a lasciare la zona di valuta nei prossimi decenni, e quelli rimanenti dovrebbero costruire una valuta globale più sostenibile». Da Matolcsy, una provocazione che lascerà il segno: nel 2022, per il trentesimo anniversario del Trattato di Maastricht, propone di «riscrivere il patto che ha generato l’euro». Magaldi l’aveva preannunciato: tutto sta per cambiare, perché il vecchio blocco di potere massonico (incarnato da politici come Merkel e Macron) è entrato in crisi. «Il neoliberismo ha un ben misero bilancio da vantare, e il malessere dei popoli europei sta crescendo». Possibile aspettarsi colpi di scena, in una situazione sempre più instabile in cui ora anche l’Ungheria sembra pronta a dire la sua.«Dobbiamo ammettere che l’euro è stato un errore. È giunto il momento di cercare una via d’uscita». Nel giorno del primo discorso della neopresidente della Bce, Christine Lagarde, fanno rumore le parole di György Matolcsy, governatore della banca centrale ungherese, che dalle colonne del “Financial Times” chiede l’introduzione di un meccanismo di uscita dalla «trappola dell’euro». Per Matolcsy, come riporta l’“Huffington Post”, è necessario liberarsi dal «dogma nocivo» secondo cui l’euro sarebbe stato un passo “naturale” verso l’unificazione dell’Europa occidentale. «Due decenni dopo il lancio dell’euro, mancano ancora i pilastri necessari per una moneta globale di successo: uno Stato comune, un budget che copra almeno il 15-20% del Pil dell’Eurozona e un ministro delle finanze dell’area euro». Tra chi plaude alla sortita di Matolcsy (che giunge dopo la dichiazione della stessa Lagarde, secondo cui la moneta andrebbe “restituita” al popolo), c’è Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: «Le parole del banchiere centrale ungherese sono musica, per le nostre orecchie: piuttosto che restare in questa Disunione Europea, tanto vale tornare alla sovranità nazionale per poi ripensare da zero, in modo democratico, la prospettiva confederale degli Stati Uniti d’Europa».
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Austerity: tradimento 5 Stelle, camerieri della Colonia Italia
Se il cameriere, cioè il governo italiano, non si sbriga a tassare i cittadini, allora puntuale arriva la letterina del padrone, dell’Unione Monetaria Europea che tradotta significa più o meno “non ci interessano le vostre faide tra colonizzati; obbedite, poi vi sistemerete nel microscopico spazio di ipocrisia che resta”. Forse sono parole pesanti, ancorché vere, ma credo vi ricordino qualcosa, tipo l’impostazione che un certo MoVimento aveva quando si trattava di Uem, di stagnazione, di politiche degli zero virgola (briciolesimo) e di intrallazzi di palazzo. Certo, la critica che gli muovevo all’epoca era “meno toni strumentalizzabili dai media, più tecnica e decisione nei fatti”, mentre adesso mi indigno per come i giornalisti della carta stampata non denuncino un’evidenza: quel MoVimento è passato dal rifiuto della maggioranza dei cittadini italiani verso certi parametri Uem (inventati, peraltro), al rispetto religioso di essi e perfino all’aggressione di chi non professi altrettanto!!! Avete presente quando un truffatore, di quelli che si presentano ai cancelli delle persone anziane fingendosi dell’Enel, viene sgamato e se ne va ostentando proteste ma trasmettendo imbarazzo e cialtroneria (cioè quel mix tra l’essere disperati e mentecatti)?
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Voltagabbana non-eletto, è Grillo a tagliare la democrazia
Dopo il taglio dei parlamentari ci sarà la loro vivisezione? Per anni ho sostenuto la necessità di dimezzare il numero dei parlamentari a livello nazionale e regionale, dimezzando contestualmente le costose e inutili authority con i rispettivi impiegati e commessi annessi alle Camere e agli uffici, che ricevono stipendi spropositati pur essendo commessi e impiegati come gli altri dipendenti pubblici. La riduzione del numero dei parlamentari fu un cavallo di battaglia della destra che lo propose tanti anni fa e che fu poi bocciato nel referendum del 2006. Ma ora che si sta convertendo in legge la proposta grillina di portare a 600 i parlamentari, sento puzza d’inganno e d’imbroglio. A cosa doveva servire il taglio? A rendere più agili e spediti i lavori parlamentari, a diminuire i rischi di corruzione e trasmigrazione, ad avere candidati più selezionati e dunque migliori, circoscrizioni più ampie in cui contava di più il prestigio dei candidati e contava di meno il potere clientelare. Era un modo per elevare la qualità della rappresentanza, la responsabilità dei parlamentari e per diminuire le possibilità del voto di scambio. Il taglio che si promuove ora spunta da tutt’altro contesto. La preoccupazione principale non è qualificare il Parlamento, innalzare il livello qualitativo diminuendo la quantità, scegliere parlamentari più prestigiosi, ma esattamente il contrario.
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Lotta alla CO2? Acqua senza plastica, anziché tasse “green”
Uno dei segreti di un paese sano economicamente ed ecologicamente (eco deriva da “òikos” che in greco significa “casa”, concetto che richiama anche alla famiglia…) è riconvertire aziende praticamente parassitarie in realtà che producano beni e servizi davvero rispondenti ai bisogni delle persone comuni. Ma in Italia, come al solito, si apprende che stanno per piovere sulle nostre tasche nuove imposizioni fiscali spacciate per “green” che, ovviamente, non risolvono un bel niente e danneggiano le famiglie. Secondo voi un costo leggermente più alto sul diesel, soprattutto in assenza di servizi pubblici, ridurrà l’utilizzo delle auto o rappresenterà un ennesimo balzello per i comuni mortali? E collegandomi a ciò, la presunta democrazia diretta ci ha fornito il top delle menti in economia o per l’ennesima volta personaggi pilotati da chissà chi e in cerca d’autore? Qualcosa di simile alla questione diesel riguarda la molecola inorganica da noi più amata e indispensabile: l’acqua! Ciò che adesso può sembrare utopico, fino a 20 anni fa è stata la regola: bere acqua del rubinetto. L’acqua in bottiglia all’epoca non predominava negli spot televisivi fino alla manipolazione di massa e veniva riservata a ruoli marginali come festini e gite, insieme a bibite zuccherate e patatine.Immaginate, considerando la totalità dei cittadini italiani, quanto si svilupperebbe l’economia nazionale se si evitasse di far finire questo denaro nelle solite multinazionali che in parte non reinvestono (lo accumulano: tesaurizzazione). Non serve un genio dell’economia per capire che i posti di lavoro persi in questa filiera verrebbero più che compensati da assunzioni di altro tipo visto che circolerebbero più soldi, in primis localmente, e che quindi si incrementerebbe il benessere. Senza che ce ne rendessimo conto, quindi, chi sta dietro al business dell’acqua in bottiglia ne ha “costruito la domanda” a nostre spese, sia economiche che come rischio salute (vedi “Aduedi, bottiglie in plastica). Se non fosse stato così, pensate che a qualcuno sarebbe saltato in mente di comperare a peso d’oro l’H2O (!?), qualcosa di immediatamente disponibile in casa? Non stiamo quindi parlando di una tematica limitata agli ambientalisti.Pensate che sia un caso che in certe realtà locali, quando non in intere regioni, gli acquedotti non siano sicuri e perdano ingenti quantità di risorsa? Unite a questo la promozione sulle etichette di immagini accattivanti di cervi, paesaggi freschi e laghetti, in un contesto di continuo bombardamento televisivo, radiofonico e internettiano, e il gioco è fatto. Essendo dal 2012 che mi interesso a codesto tema, credo siano maturi i tempi per sollevare la questione e per essere “gretiano”, ma in modo intelligente; oltre a fare azioni con campagne che interessano il fenomeno a valle (spesso strumentalizzate vergognosamente dai partiti politici), dovremmo permettere ai cittadini di tornare al rubinetto con acquedotti sicuri su tutto il territorio nazionale, ristrutturandoli e/o rifacendoli di sana pianta e assumendo ricercatori, microbiologi e tecnici in questo comparto.Tutte queste azioni concrete ridurrebbero drasticamente le emissioni (in Italia comunque storicamente minori, pro capite, come si può vedere dal primo grafico), il consumo di fonti fossili per produrre plastica, le bottiglie in mare e perfino nei parchi marini con effetti devastanti sulla fauna e sulla catena alimentare (microplastiche) e le idee balzane di altri prelievi fiscali sulle persone comuni che sono le meno responsabili secondo tutti i dati come da secondo grafico. Si pensi che, se riempiamo una brocca da mezzo litro con acqua del rubinetto, essa ha un costo per noi di circa duemila volte minore rispetto a quella del negozio; e il sapore, dai test effettuati, risulta generalmente migliore. Ciò che è ignorato dai più, inoltre, è che l’acqua – prima di giungere sulle nostre tavole dal negozio – viene depositata spesso e volentieri in luoghi dove si scalda, e il suo contenitore di plastica in questo modo rilascia antimonio, benzofenone, acetaldeide e formaldeide quantità tutte da valutare (vedi “Bevi meno plastica, approfondimenti”).Benissimo (!) direte, non ne ho mai sentito parlare; cosa saranno mai queste sostanze!? Sono sostanze cancerogene, che cioè provocano il cancro, e mutagene, che cioè modificano il nostro Dna mettendoci nelle condizioni di partorire un figlio non sano (o renderci sterili). E la brutta notizia è che i controlli per valutare i livelli presenti in ciò che beviamo sono rarissimi e incerti: si pensi che un’acqua a 30 gradi vede quasi decuplicato il proprio contenuto di queste sostanze; effetti paragonabili avvengono anche quando l’acqua sta nei contenitori per 3 mesi o più. Non so che effetto vi farà questo articolo; ma sono certo che, se condiviso e conosciuto, finirebbe sul tavolo dei governi. La buona notizia è che possiamo farci sentire.(Marco Giannini, “Lotta alla CO2? Non tasse ma acquedotti sicuri in tutta Italia!”, Libreidee, 17 ottobre 2019).Uno dei segreti di un paese sano economicamente ed ecologicamente (eco deriva da “òikos” che in greco significa “casa”, concetto che richiama anche alla famiglia…) è riconvertire aziende praticamente parassitarie in realtà che producano beni e servizi davvero rispondenti ai bisogni delle persone comuni. Ma in Italia, come al solito, si apprende che stanno per piovere sulle nostre tasche nuove imposizioni fiscali spacciate per “green” che, ovviamente, non risolvono un bel niente e danneggiano le famiglie. Secondo voi un costo leggermente più alto sul diesel, soprattutto in assenza di servizi pubblici, ridurrà l’utilizzo delle auto o rappresenterà un ennesimo balzello per i comuni mortali? E collegandomi a ciò, la presunta democrazia diretta ci ha fornito il top delle menti in economia o per l’ennesima volta personaggi pilotati da chissà chi e in cerca d’autore? Qualcosa di simile alla questione diesel riguarda la molecola inorganica da noi più amata e indispensabile: l’acqua! Ciò che adesso può sembrare utopico, fino a 20 anni fa è stata la regola: bere acqua del rubinetto. L’acqua in bottiglia all’epoca non predominava negli spot televisivi fino alla manipolazione di massa e veniva riservata a ruoli marginali come festini e gite, insieme a bibite zuccherate e patatine.
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Germania, cresce ancora il divario tra poveri e super-ricchi
Diseguaglianze dei redditi: il divario tra ricchi e poveri ha toccato un nuovo massimo storico in Germania. «Dieci anni di crescita, un boom economico e l’aumento dei salari non sono riusciti ad arrestare la tendenza di una crescente disparità di reddito», scrive Isabella Bufacchi sul “Sole 24 Ore”. Secondo la Fondazione Hans-Böckler, vicina al mondo dei sindacati, la disparità di reddito disponibile ha continuato ad allargarsi tra il 2005 e il 2016: alla fine del 2016, il coefficiente di Gini, il noto metro per misurare la disuguaglianza, era superiore del 2% rispetto al 2005. «Le famiglie povere sono sempre più al di sotto della soglia di povertà», avverte il rapporto dell’istituto di ricerca Wsi. Due i fattori chiave: chi ha redditi elevati ha tratto maggiore beneficio dai profitti aziendali e dai rialzi delle azioni in Borsa, mentre la stragrande maggioranza delle famiglie è rimasta indietro. Pur in una situazione di apparente benessere diffuso – disoccupazione ai minimi storici e crescita economica dal 2010 – il reddito disponibile è salito per il ceto medio ma non per i più poveri, con grandi disparità di trattamento tra chi percepisce regolarmente lo stipendio e chi no.Secondo Dorothee Spannagel, tra gli autori del rapporto Wsi, il settore delle retribuzioni molto basse continua ad essere molto ampio, mentre i super-ricchi (multimilionari e miliardari) hanno tratto più beneficio dal boom della Borsa, dall’impennata dei prezzi nel mercato immobiliare, dagli alti profitti aziendali. Riflessi negativi: «La disuguaglianza riduce la partecipazione sociale e politica e compromette il funzionamento dell’economia sociale di mercato». La crescita economica degli ultimi anni non è dunque servita a ridurre la disparità tra ricchi e poveri: uno sviluppo macroeconomico positivo non è sufficiente per ridurre le disuguaglianze e la povertà. La stampa tedesca – ricorda sempre il “Sole 24 Ore” – cita anche un recente studio dell’istituto di ricerca Diw, secondo il quale la ricchezza in Germania è distribuita in modo molto disomogeneo: l’1% dei tedeschi più ricchi ha quasi un quinto del patrimonio netto nazionale, il 10% ha il 56 per cento. Il 50% della popolazione è il ceto più povero, circa 40 milioni di persone. Soluzioni? Dorothee Spannagel indica «una tassazione più alta per la popolazione con i redditi più elevati e un aumento dei salari minimi».La ricerca, aggiunge Bufacchi sul “Sole”, tiene conto del coefficiente di Gini, l’indicatore più comune della distribuzione del reddito con valori compresi tra zero (tutte le famiglie hanno lo stesso reddito) e uno (una singola famiglia ha l’intero reddito nel paese). Alla fine del 2016, il coefficiente Gini del reddito familiare disponibile in Germania era di 0,295 con un aumento del 19% della disuguaglianza rispetto alla fine degli anni ‘90, quando il Gini era poco meno di 0,25 e comunque in aumento rispetto allo 0,289 del 2005. «La disuguaglianza in Germania è aumentata molto rapidamente alla fine degli anni ‘90 e nella prima metà degli anni 2000». Svariati analisi ricordano che Berlino ha a lungo evitato di investire per ammodernare le infrastrutture. E la Germania, con la riforma Hartz, è stato il primo paese industriale europeo a esasperare la “flessibilità” sul lavoro, convincendo gli operai ad accettare salari modesti. Già dirigente della Volkswagen (accusato di avver corrotto i sindacati per danneggiare i lavoaratori), Peter Hartz è stato poi preso a modello dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder. Se in Germania sono legali i mini-job da 400 euro al mese, il tallone d’Achille di Berlino è l’export: un’economia interamente vocata alle esportazioni, anche demolendo in modo sleale la concorrenza dell’Italia (sabotata da Bruxelles) alla fine rende più fragile il sistema industriale tedesco.Diseguaglianze dei redditi: il divario tra ricchi e poveri ha toccato un nuovo massimo storico in Germania. «Dieci anni di crescita, un boom economico e l’aumento dei salari non sono riusciti ad arrestare la tendenza di una crescente disparità di reddito», scrive Isabella Bufacchi sul “Sole 24 Ore”. Secondo la Fondazione Hans-Böckler, vicina al mondo dei sindacati, la disparità di reddito disponibile ha continuato ad allargarsi tra il 2005 e il 2016: alla fine del 2016, il coefficiente di Gini, il noto metro per misurare la disuguaglianza, era superiore del 2% rispetto al 2005. «Le famiglie povere sono sempre più al di sotto della soglia di povertà», avverte il rapporto dell’istituto di ricerca Wsi. Due i fattori chiave: chi ha redditi elevati ha tratto maggiore beneficio dai profitti aziendali e dai rialzi delle azioni in Borsa, mentre la stragrande maggioranza delle famiglie è rimasta indietro. Pur in una situazione di apparente benessere diffuso – disoccupazione ai minimi storici e crescita economica dal 2010 – il reddito disponibile è salito per il ceto medio ma non per i più poveri, con grandi disparità di trattamento tra chi percepisce regolarmente lo stipendio e chi no.
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Contro la disoccupazione l’unica guerra di Trump: stravinta
Quando incontro persone che sono venute a conoscenza delle mie osservazioni su Putin e Trump, il refrain che ascolto è sempre lo stesso: da quando in qua ti piacciono i dittatori? Vorresti forse un modello che si ispira agli autoritarismi? E avanti di questo passo. Tralasciando l’analisi su Putin (ho scritto un libro su di lui dove è spiegato tutto quello che c’è da sapere), prendiamo in considerazione la mia “simpatia” per Donald Trump, anche e soprattutto alla luce di quanto accaduto oggi. In primo luogo, deve essere chiaro che non nutro alcuna simpatia per il presidente americano. Non mi piace come speaker, né tanto meno la sua carriera privata, sbandierata in modo presuntuoso sui media, quando in realtà stiamo parlando di un palazzinaro newyorkese che ha ereditato una cospicua fortuna dal padre costruttore. Non mi piace il suo look – abiti fuori misura – né la sua trasmissione televisiva sull’imprenditoria, dove esibiva il solito fare paternalistico dell’imprenditore che si è fatto da sé (e non è vero…). Mi stufano i seimila tweet che pubblica quotidianamente, e che sono spesso contraddittori. Fatta questa doverosa precisazione, veniamo però alle cose che Trump ha davvero detto e poi davvero fatto.In primo luogo Trump ha promesso di non iniziare nuovi conflitti geopolitici, al fine di risparmiare le vite di giovani americani e di consentire ad ogni paese ove vi sono tensioni di superarle in autonomia. Una volta eletto, ha rispettato questo impegno? I dati sono sotto gli occhi di tutti. Trump non ha iniziato alcun conflitto e i suoi interventi (ad esempio in Siria) sono risibili rispetto a quelli dei suoi predecessori, Obama e Bush. Ha minacciato Turchia, Corea del Nord, Venezuela. Ma stava solo prendendo per i fondelli i falchi del Pentagono, che da anni sono rimasti senza cibo. Sentite cosa ha dichiarato su di lui l’economista Paul Krugman, non senza un travaso di bile: «A quanto pare, per Trump distruggere la Nato non è un mezzo per raggiungere uno scopo: è lo scopo in sé. Trump non vuole riformare l’ordine mondiale. Vuole distruggerlo». E tutto l’intervento di Krugman viene riportato sul maggior organo di informazione finanziaria d’Italia. Sì, insomma, quando questi si arrabbiano è segno che la direzione intrapresa è quella giusta.Ma veniamo all’economia, alla “struttura”, tanto per usare termini marxisti. Trump aveva promesso di aiutare il settore economico manifatturiero americano. Anche se il manifatturiero pesa pochino dentro la balena economica americana, molti statunitensi sono infatti in difficoltà da anni, perché diverse fabbriche hanno chiuso i battenti per lasciare la produzione nelle mani dei paesi emergenti o di quelli già emersi, come la Cina. Gli Usa, infatti, non sono abitati solo da avvocati ebrei della Grande Mela che vanno a teatro e suonano il flauto nei pub, come Woody Allen, né la costa ovest è frequentata solo dagli smanettoni della Silicon Valley e dagli artisti di San Franciso. Ci sono anche operai, artigiani, estrattori, agricoltori. Insomma, l’America non è solo Apple e Facebook! Trump lo ha capito e ha pensato di aiutare il mondo del lavoro anche della gente comune, e lo sta facendo con politiche protezionistiche tese a savaguardare le produzioni locali. I risultati che finora ha ottenuto sono di destra o di sinistra? Se ancora vi piacciono queste classificazioni, giudicate da soli il dato uscito stamani: il tasso di disoccupazione negli Usa oggi è arrivato al 3,5%.Sembrerà strano, ma non tutti quelli che mi leggono sono intelligenti, e allora per i più duri di comprendonio vale la pena ripeterlo almeno 5 volte, con l’invito di ripetere questa frase ogni mattina, prima delle abluzioni. «Il tasso di disoccupazione – recitano le agenzie – non era così basso dal dicembre di 50 anni fa. Rivisti al rialzo anche i dati sull’occupazione dei due mesi precedenti: a luglio i nuovi posti sono passati da 159.000 a 166.000, ad agosto da 130.000 a 168.000». Cosa significa, per una comunità di enormi dimensioni (327 milioni di abitanti) abbassare la disoccupazione al 3,5%? Due cose, anzitutto: i lavoratori dipendenti hanno maggior potere contrattuale, e in quei territori non lavora solo chi non vuole lavorare. Pregherei i detrattori di risparmiarmi la filastrocca sull’America che non ha la sanità pubblica, il diritto allo studio e le solite cose. Lo so benissimo e combatto contro questo, nel mio piccolo, da sempre. Ma sono distorsioni del capitalismo che non sono di sicuro imputabili a Trump, eletto nel 2016. Che piaccia o no, Trump sta dimostrando almeno due cose: da un lato, che la pianificazione pubblica dell’economia può dare enormi risultati. Dall’altro, che il mondo può essere una realtà politica e culturale multipolare.(Massimo Bordin, “Trump ha ucciso la disoccupazione, ora tocca ai suoi critici”, dal blog “Micidial” del 4 ottobre 2019).Quando incontro persone che sono venute a conoscenza delle mie osservazioni su Putin e Trump, il refrain che ascolto è sempre lo stesso: da quando in qua ti piacciono i dittatori? Vorresti forse un modello che si ispira agli autoritarismi? E avanti di questo passo. Tralasciando l’analisi su Putin (ho scritto un libro su di lui dove è spiegato tutto quello che c’è da sapere), prendiamo in considerazione la mia “simpatia” per Donald Trump, anche e soprattutto alla luce di quanto accaduto oggi. In primo luogo, deve essere chiaro che non nutro alcuna simpatia per il presidente americano. Non mi piace come speaker, né tanto meno la sua carriera privata, sbandierata in modo presuntuoso sui media, quando in realtà stiamo parlando di un palazzinaro newyorkese che ha ereditato una cospicua fortuna dal padre costruttore. Non mi piace il suo look – abiti fuori misura – né la sua trasmissione televisiva sull’imprenditoria, dove esibiva il solito fare paternalistico dell’imprenditore che si è fatto da sé (e non è vero…). Mi stufano i seimila tweet che pubblica quotidianamente, e che sono spesso contraddittori. Fatta questa doverosa precisazione, veniamo però alle cose che Trump ha davvero detto e poi davvero fatto.
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Di Maio ci offre un caffè: tanto vale il taglio delle Camere
Sapete quanto vale, nelle nostre tasche, il regalone che ci ha appena fatto Luigi Di Maio con il taglio di un terzo dei parlamentari? Un caffè all’anno, per ognuno di noi. Che lusso, davvero. A fare il conticino della vergogna è l’antropologo Marco Giannini, già grillino “eretico”, in rotta con Grillo e soci dopo il tentato trasbordo, a Strasburgo, tra le fila degli euro-fanatici dell’Alde, il club “lacrime e sangue” di Verhofstadt e Monti. E’ passato qualche anno: all’epoca, Di Maio e Di Battista cantavano ancora nello stesso coro, all’opposizione. Poi è arrivata l’anomala e precaria stagione “grilloverde”, con Di Maio trasformato in vicepremier “di cittadinanza” per tentare di mascherare i bidoni rifilati, uno dopo l’altro, agli elettori del MoVimento. Ma che la recita stesse per finire lo si capì già in primavera, quando Grillo firmò (con Renzi, tu guarda) il mitico “Patto per la Scienza”, cioè il tradimento definitivo di qualsiasi promessa “free-vax”. E infatti adesso eccoli là, Beppe e Matteo, impegnati a tenere in piedi l’imbarazzante Conte-bis, anche col penoso stratagemma della riduzione del numero di deputati e senatori. Depistaggi puerili, sembra dire Giannini: l’Italietta traballa, strattonata tra Usa e Russia e tritata dall’asse franco-tedesco che la costringe a grattare il fondo del barile (leggasi Iva). All’orizzonte, il nulla sta per essere oscurato dal peggio? Ma niente paura: ecco il prode Di Maio che sforbicia il Parlamento.«Cosa bolle in pentola nello Stivale?», si domanda Giannini. «Questioni di una pericolosità senza precedenti, ma il governo – afferma – reagisce cercando di distrarre l’opinione pubblica con un provvedimento forse condivisibile ma economicamente ridicolo». Secondo Giannini, si tratta di una strategia «comprensibile dal punto di vista mediatico, ma che fallirà». C’è ben altro, sulla bilancia: «I dazi Usa contro il nostro paese sono un monito terrificante: gli americani ci lasciano al nostro destino, cioè soli di fronte alle arroganti violenze economico-finanziarie e geopolitiche francesi e tedesche». Visione impietosa: «Più che una penisola siamo una barchetta, o meglio un barcone in attesa di un… ciclone». E non è per niente casuale, secondo Giannini, che tutto ciò «coincida con l’emergere di questioni oscure riguardanti servizi segreti e spionaggio internazionale (vedasi il premier Conte), perché queste questioni le hanno volute rendere pubbliche proprio gli Usa». Esplicito e brutale, per Giannini, il messaggio dello Zio Sam: cari italiani, non siete più il nostro partner privilegiato in Ue.«Se si esclude il periodo della Seconda Guerra Mondiale – aggiunge Giannini – ho la vaga (e fondata) sensazione che i rapporti del governo italiano con gli americani non siano di buon sangue». Nel frattempo, purtroppo, «si riacutizza il problema delle tragedie nel Mediterraneo, causate dalla ingannevole attrattiva dei porti di nuovo aperti». Ingannevole, certo, «perché attraversare il mare in mano a degli scafisti per giungere in un paese privo di lavoro è una trappola», piaccia o no al pelosissimo buonismo nazionale, caro ai sacerdoti del politically correct. Comunque la si veda, siamo in un oceano di guai. «E proprio in questo contesto si inserisce il dimezzamento dei parlamentari». Ebbene: «Quanto fa risparmiare a ogni italiano? Il costo di un caffè all’anno». Solo fuffa, dunque, e senza neppure un disegno istituzionale alle spalle: si teme infatti che la nuova legge elettorale (ridisegno dei collegi, per adeguarli alla riduzione della rappresentanza) verrebbe improvvisata in extremis, in base alla convenienza del momento dettata dai sondaggi. Per ora i partiti hanno votato compatti, sfilando a Di Maio il monopolio dell’eroica riforma, che poi non è ancora detto che diventi davvero legge. Intanto, Giannini osserva: «Stiamo ballando sul Titanic, e i pentastellati stanno elargendo “generosamente” dilettantismo: un dilettantismo che non ha i tratti del solo Luigi Di Maio».Sapete quanto vale, nelle nostre tasche, il regalone che ci ha appena fatto Luigi Di Maio con il taglio di un terzo dei parlamentari? Un caffè all’anno, per ognuno di noi. Che lusso, davvero. A fare il conticino della vergogna è l’antropologo Marco Giannini, già grillino “eretico”, in rotta con Grillo e soci dopo il tentato trasbordo, a Strasburgo, tra le fila degli euro-fanatici dell’Alde, il club “lacrime e sangue” di Verhofstadt e Monti. E’ passato qualche anno: all’epoca, Di Maio e Di Battista cantavano ancora nello stesso coro, all’opposizione. Poi è arrivata l’anomala e precaria stagione “grilloverde”, con Di Maio trasformato in vicepremier “di cittadinanza” per tentare di mascherare i bidoni rifilati, uno dopo l’altro, agli elettori del MoVimento. Ma che la recita stesse per finire lo si capì già in primavera, quando Grillo firmò (con Renzi, tu guarda) il mitico “Patto per la Scienza”, cioè il tradimento definitivo di qualsiasi promessa “free-vax”. E infatti adesso eccoli là, Beppe e Matteo, impegnati a tenere in piedi l’imbarazzante Conte-bis, anche col penoso stratagemma della riduzione del numero di deputati e senatori. Depistaggi puerili, sembra dire Giannini: l’Italietta traballa, strattonata tra Usa e Russia e tritata dall’asse franco-tedesco che la costringe a grattare il fondo del barile (leggasi Iva). All’orizzonte, il nulla sta per essere oscurato dal peggio? Ma niente paura: ecco il prode Di Maio che sforbicia il Parlamento.
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Sapelli: patto segreto Vaticano-Cina, e Conte si è allineato
Via della Seta? Attenti alla Cina: l’asse Roma-Pechino indebolisce l’Italia, facendo perdere al Belpaese la protezione di Washington di fronte all’Ue a trazione franco-tedesca. Quello che pochi conoscono è il ruolo del Vaticano nella svolta filo-cinese del governo italiano. Lo afferma il professor Giulio Sapelli, economista e storico, acuto analista degli scenari geopolitici. Il 22 settembre 2018, scrive Sapelli sul “Sussidiario”, è stato firmato un accordo tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese, «ancor oggi secretato e sconosciuto all’opinione pubblica». Altrettanto in ombra è la storia, travagliata, dei rapporti diplomatici tra l’Oltretevere e Pechino, interrottisi nel 1951 e riapertisi di fatto solo nel 2014, «giungendo a influenzare più profondamente di quanto non si pensi la stessa vicenda italico-governativa». L’accordo stipulato un anno fa, spiega Sapelli, si fonda sulla libertà del governo cinese di proporre i vescovi cattolici. In cambio, la Santa Sede potrà scegliere quelli che ritiene più idonei al ruolo pastorale. «L’autorità immensa di cui ancor oggi la Santa Sede e il Romano Pontefice godono nel mondo – osserva Sapelli – sono in tal modo sottoposti al rischio di porsi di fatto al servizio delle ambizioni egemoniche e quindi anche culturali cinesi». Oggi, peraltro, «la gerarchia pastorale di Hong Kong ha levato la sua voce contro l’accordo».Le implicazioni con il Conte-bis? Il cuore dell’intesa che ha dato vita all’attuale accordo “pastorale”, scrive Sapelli, non risiede solo nella Segreteria di Stato vaticana, ma anche nella struttura diretta per decenni dal cardinale Achille Silvestrini, prefetto delle Chiese Orientali e grande protettore di Giuseppe Conte. L’attuale premier «è stato una figura importante nell’azione di Villa Nazareth», annota Sapelli. E la sua presenza a Palazzo Chigi, prima alleato con la Lega e ora col Pd, «illumina di una luce molto interessante il profilo culturale sia del governo, sia della nuova politica “pastorale” vaticana». Alcuni hanno parlato di “nuovo cesaropapismo”. In realtà, sintetizza Sapelli, «il governo ha intrapreso una strada parallela in merito ai rapporti economici e geostrategici con la Cina». Questo è appunto l’oggetto del contendere con gli Usa, come ben dimostra la visita riservata del Segretario di Stato americano Mike Pompeo in Vaticano, «che ha avuto come oggetto proprio la questione cinese». Secondo Sapelli, anche in merito alla collocazione internazionale dell’Italia, «gli Usa non possono non essere preoccupati dello straordinario azzardo geostrategico compiuto prima dal governo Conte-1 e poi dalla sua replica», che ha lasciato invariati «i termini di un accordo che segna un pericoloso cambiamento della politica estera italiana».La stessa polemica in corso sui dazi, continua Sapelli, non è stata affrontata in modo serio e veritiero: è stato infatti sottaciuto che il conflitto sul commercio non è tra Italia e Usa, ma tra Stati Uniti e Ue. Una guerra iniziata nel 2004 con il ricorso degli Usa alla Wto per gli aiuti di Stato europei al progetto Airbus, che avrebbe danneggiando la Boeing e l’industria nordamericana (avionica e difesa, telecomunicazioni, elettronica). «Senza dimenticare il ruolo cruciale del “dieselgate” e delle pulsioni anti-industrialiste insite nel progetto della cosiddetta auto elettrica». Non a caso, aggiunge Sapelli, «il peso degli interessi francesi e del Regno Unito in Italia sta crescendo con una velocità imprevista, che non potrà non riflettersi sull’azione del governo». Dal Conte-bis, nessuno spiraglio per una ripresa economica: «L’Iva è certo un tema importante, ma se non è collegato a una politica di investimenti e di creazione di nuove imprese e di sostegno delle esistenti non può provocare né l’innovazione competitiva, né l’aumento del mercato interno», letteralmente indispensabile «per riavviare la crescita e sconfiggere la povertà in Italia». Rimediare con le privatizzazioni? Sarebbe un tragico suicidio. Sapelli cita Luigi Campiglio, economista in forza alla Pirelli: «Privatizzare le migliori imprese italiane, come raccomanda il Fondo Monetario Internazionale, non produrrebbe affatto conseguenze positive per la nostra economia».Il nostro principale problema, infatti, resta l’incremento della domanda interna: se crolla, vincono i prodotti d’importazione. Privatizzando, aggiunge Campiglio, «si darà qualche soldo allo Stato, ma le aziende che producono per la domanda interna diventano straniere», e quindi «l’Italia ne beneficerà soltanto in minima parte». Per Sapelli, la questione è molto chiara: «Senza tutte le politiche economiche ancora importanti per la creazione di occupazione sostenendo le imprese esistenti, in primo luogo le piccole, le artigiane e le medie, non si potrà uscire da questa depressione, che si profila molto pesante». Facili previsioni: «La deflazione secolare rischia di tramutarsi da stagnazione in recessione». Opporsi è possibile, secondo il professore, «solo facendo comprendere che la resilienza italiana è la sola via che oggi deve intraprendere tutta l’Europa, Germania e Francia in primis». Ovvero: se si pone al centro l’ampliamento del mercato interno, l’occupazione, la lotta alla povertà e alla disgregazione sociale, «l’interesse nazionale è l’interesse di tutta l’Europa, al di là delle differenze di produttività del lavoro, di innovazione e di collocazione nelle catene del valore».Al Conte-bis si richiede dunque «un cambiamento di rotta profondo, a cominciare dalla politica estera, riaffermando l’alleanza con gli Usa e respingendo l’idea che sia possibile una crescita europea riproponendo continuamente la divisione geostrategica e geoeconomica iniziata nel 2003 anche per difetto della politica unipolarista degli Usa, che condusse alla divisione tra Francia e Germania da un lato, e Stati Uniti dall’altro». Il guaio è che, per Sapelli, le prospettive del governo, soprattutto in politica estera, «non sono solo insufficienti, ma preoccupanti». Roma dovrebbe «sciogliere i legami dipendenti con la Cina, riaffermare l’interesse prevalente del Mediterraneo per difendere le nostre industrie energetiche e infine uscire dalla confusione sulla cosiddetta economia verde, che mortifica gli interessi industriali italiani (mentre l’industria italiana è la più sostenibile al mondo, non solo nel tessuto energetico e chimico)». Dalla politica estera si giunge alla politica industriale, «che non è solo nazionale, ma sempre continentale e mondiale per l’inserzione italiana nelle filiere industriali e dei servizi alle imprese nel mondo». Quello che molti italiani non sanno, però, è che a Palazzo Chigi siede un premier attentissimo alle indicazioni del Vaticano, che oggi ha stretto un patto strategico con la Cina, vero antagonista storico del nostro tradizionale riferimento, cioè gli Usa.Via della Seta? Attenti alla Cina: l’asse Roma-Pechino indebolisce l’Italia, facendo perdere al Belpaese la protezione di Washington di fronte all’Ue a trazione franco-tedesca. Quello che pochi conoscono è il ruolo del Vaticano nella svolta filo-cinese del governo italiano. Lo afferma il professor Giulio Sapelli, economista e storico, acuto analista degli scenari geopolitici. Il 22 settembre 2018, scrive Sapelli sul “Sussidiario”, è stato firmato un accordo tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese, «ancor oggi secretato e sconosciuto all’opinione pubblica». Altrettanto in ombra è la storia, travagliata, dei rapporti diplomatici tra l’Oltretevere e Pechino, interrottisi nel 1951 e riapertisi di fatto solo nel 2014, «giungendo a influenzare più profondamente di quanto non si pensi la stessa vicenda italico-governativa». L’accordo stipulato un anno fa, spiega Sapelli, si fonda sulla libertà del governo cinese di proporre i vescovi cattolici. In cambio, la Santa Sede potrà scegliere quelli che ritiene più idonei al ruolo pastorale. «L’autorità immensa di cui ancor oggi la Santa Sede e il Romano Pontefice godono nel mondo – osserva Sapelli – sono in tal modo sottoposti al rischio di porsi di fatto al servizio delle ambizioni egemoniche e quindi anche culturali cinesi». Oggi, peraltro, «la gerarchia pastorale di Hong Kong ha levato la sua voce contro l’accordo».
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Giannini: alzare l’Iva è folle, meglio tassare i super-ricchi
Non so se vi siete resi conto dell’assurdità insita nel meccanismo delle clausole di salvaguardia dell’Iva: se un paese non ha i conti a posto significa che non è cresciuto abbastanza; e in quel caso che cosa non dovrebbe fare l’Unione Monetaria Europea? Fargli alzare l’Iva. Questa imposta, infatti, è una tassa recessiva perché comprime i consumi, che sono il fattore che genera crescita (Pil): se un paese cresce poco, aumentando l’Iva finisce per crescere ancora meno e l’anno successivo sarà messo ancor peggio. Che senso ha, quindi? Nessuno, al massimo quello di renderlo ancor meno competitivo. Visto che accenniamo alla competitività, da questo punto di vista è essenziale un tasso maggiore di meritocrazia nella pubblica amministrazione, visto che i dipendenti incapaci provocano disservizi che ci rendono una nazione scarsamente attrattiva per gli investimenti, una criticità che si affronta non nell’immediato. E se nell’immediato dovessimo rastrellare diversi miliardi?In questo caso è controproducente ridurre il potere di acquisto delle famiglie (dipendenti, piccole imprese) perché spendono i loro stipendi/profitti entro la fine del mese, mentre è auspicabile incidere una tantum su quei tesoretti che, anziché circolare e così generare consumi, Pil e occupazione, se ne stanno fermi nelle tasche di pochi, cioè fermi in banca. Perché, quando si parla di patrimoniali o di tasse, non si scomoda mai quel 10% di italiani che possiede circa la metà della ricchezza nazionale? Una patrimoniale una tantum su queste fascia non scandalizzerebbe nessuno. Questo 10% per caso finanzia i tentacoli di qualche partito importante? Trovo estremamente grave che l’attuale ministro dell’economia Gualtieri, a prescindere dal discorso delle clausole europee, avesse auspicato un aumento selettivo dell’Iva per scelta governativa (in aggiunta peraltro ai prossimi aumenti dei costi delle bollette). Per fortuna questo suo intento pare sia stato scongiurato.(Marco Giannini, “Qualsiasi aumento dell’Iva è uno scandalo”, intervento datato 1° ottobre 2019. Antropologo versiliese già vicino al Movimento 5 Stelle, nel 2015 Giannini ha pubblicato il saggio “Il neoliberismo che sterminò la mia generazione”, edito da Andromeda, contenente autorevoli prefazioni tra cui quella di Anna Maria Variato, economista dell’università di Bergamo. Il libro è stato citato tra gli altri da Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni. «Mi hanno citato più i neoliberisti che i presunti keynesiani, troppo intenti a occupare spazi mediatici», dice l’autore, che nel 2017 è uscito dall’orbita grillina in polemica con il tentato trasloco del gruppo europarlamentare tra gli ultra-euristi dell’Alde, il gruppo di Guy Verhofstadt in cui militava Mario Monti. Giannini è stato tra i primi, nel 2013, a denunciare il legame tra banca d’affari Jp Morgan e lo stravolgimento della Costituzione italiana – Fiscal Compact, pareggio di bilancio – attuato proprio da Monti, Berlusconi e Bersani. «Destra e sinistra? Meglio “cittadini contro lobby”»).Non so se vi siete resi conto dell’assurdità insita nel meccanismo delle clausole di salvaguardia dell’Iva: se un paese non ha i conti a posto significa che non è cresciuto abbastanza; e in quel caso che cosa non dovrebbe fare l’Unione Monetaria Europea? Fargli alzare l’Iva. Questa imposta, infatti, è una tassa recessiva perché comprime i consumi, che sono il fattore che genera crescita (Pil): se un paese cresce poco, aumentando l’Iva finisce per crescere ancora meno e l’anno successivo sarà messo ancor peggio. Che senso ha, quindi? Nessuno, al massimo quello di renderlo ancor meno competitivo. Visto che accenniamo alla competitività, da questo punto di vista è essenziale un tasso maggiore di meritocrazia nella pubblica amministrazione, visto che i dipendenti incapaci provocano disservizi che ci rendono una nazione scarsamente attrattiva per gli investimenti, una criticità che si affronta non nell’immediato. E se nell’immediato dovessimo rastrellare diversi miliardi?
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Il Fatto: povero Draghi, aveva le mani legate. Ora ci salverà
«Pensate se i vertici della Nasa aprissero alle teorie negazioniste dello sbarco sulla Luna. Oppure se un accademico di grido palesasse serie perplessità sulla condensa delle scie d’aeroplano. O ancora, se il presidente della Bce si interrogasse sulla opportunità di immettere moneta nelle tasche dei cittadini anziché nelle casse delle banche. Il mondo al contrario, giusto? Non è mica possibile. Tutti conosciamo bene il confine tra certe verità consolidate, e introiettate dalle masse, e il mare controverso e insidioso delle teorie “alternative”. Eppure, la terza che avete letto sopra è successa davvero». Così si esprime Francesco Carraro sul “Fatto Quotidiano”, commentando il discorso di congedo nel quale Super-Mario ha suggerito al suo successore, Christine Lagarde, di prendere in considerazione misure alternative come la Modern Money Theory o l’“helicopter money”. «Significa, né più né meno, immettere denaro nell’economia reale recapitandolo ai consumatori e alle imprese anziché al sistema bancario». Sembra eresia pura, certo: proposte sconcertanti, se a pronunciarle è un “sicario dell’economia” come Draghi, massimo artefice del rigore europeo. «Finché le avanza un cospirazionista», scrive Carraro, certe idee «è facile liquidarle come pattume, alla stessa stregua delle “scie chimiche” o del “finto allunaggio”».Forse, Carraro considera “cospirazionista” il generale Fabio Mini, alto ufficiale Nato e già a capo delle forze Kfor nei Balcani, che sul “pattume complottistico” delle scie chimiche afferma: i cittadini hanno diritto di sapere cosa siano, le istituzioni devono decidersi a dare finalmente risposte precise. Carraro ha già la risposta, beato lui, visto che le definisce “condensa delle scie d’aeroplano”? Quanto al “finto allunaggio”, probabilmente lo stesso Carraro non sa che i maggiori fotografi del mondo – da Oliviero Toscani a Peter Lindbergh – nel documentario “American Moon” di Massimo Mazzucco si dicono certi che siano state «realizzate evidentemente in studio, a terra» le immagini (foto e video) del presunto sbarco sulla Luna del 1969. Resta il fatto, come dice il collaboratore del “Fatto”, che se a sdoganare il ritorno alla disponibilità di moneta è «il massimo rappresentante di una istituzione come la Bce», questo produce «una dissonanza cognitiva», al punto che «la prima reazione è: non può essere vero». Secondo Carraro, invece, dovremmo «approfittare della circostanza per liberarci di un tabù», cominciando finalmente a «parlare senza pregiudizi» della moneta: «Se lo ha fatto Draghi, possiamo farlo anche noi, cominciando a porci una serie di domande interessanti». La più importante, però, Carraro sembra non porsela proprio. E cioè: perché Draghi propone di finanziare l’economia reale solo adesso, alla scadenza del suo mandato, quando non sarà più lui a poter prendere decisioni?Sempre Carraro ricorda che nel 2014, a una giornalista che gli chiedeva se la Bce potesse finire i soldi, rispose testualmente, con un sorriso imbarazzato: «Be’, tecnicamente no, non possono finire, i soldi». Quindi è vero, «abbiamo ampie risorse per fare fronte a tutte le emergenze». Quello che Carraro evita di ricordare è cosa ha fatto, Draghi, in tutti questi anni. Da direttore generale del Tesoro italiano salì sul panfilo Britannia, dove si decise la grande svendita del paese: dal suo ministero strategico, l’allora giovane funzionario gestì poi con la massima cura le maxi-privatizzazioni all’italiana, che posero le premesse per la crisi strutturale del paese. In cambio fu promosso alla Goldman Sachs, quindi a Bankitalia e infine alla Bce, poltronissima da cui Draghi ha gestito in modo spietato l’austerity inflitta all’Europa, cominciando dalla Grecia e poi dall’Italia sottoposta alla “cura” Monti, a esclusivo vantaggio dell’élite finanziaria neoliberista. Dov’era, Carraro, quando il potentissimo clan a cui appartiene Draghi mieteva vittime in tutta Europa e faceva salire alle stelle i profitti della speculazione, che “scommetteva” milioni, a comando, proprio sul collasso dei titoli di Stato che sarebbero finiti nel mirino della Troika?Tutto questo rende l’idea di come il giornale di Travaglio, il cui vice Stefano Feltri è sfilato nel 2019 sulla passerella del Bilderberg, informi i suoi lettori sulla crisi in corso: la visione del “Fatto” non si discosta dal pensiero unico che il neoliberismo mercantilista ha imposto a reti unificate come nuova religione, anche di fronte all’evidenza del ridicolo (memorabile la gaffe dei guru di Harvard, Kenneth Rogoff e Carmen Reinhardt, che provarono a vendere la teoria della cosiddetta “austerity espansiva” – più tagli, più cresci – sulla base di calcoli comicamente falsati da un banale errore di computo sul programma Excel, dov’erano stati caricati numeri semplicemente sbagliati). Sempre sulla versione online del quotidiano di Travaglio, Carraro segnala la sostanziale innocenza di Draghi, laddove – si legge – il super-banchiere «manifesta una sorta di impotenza genetica del suo board». Dice Draghi: «Mettere soldi nelle tasche dei cittadini è compito della politica fiscale, non della politica monetaria». Secondo Carraro, il motivo sarebbe anche di carattere giuridico, dal momento che la Bce «non crea propriamente denaro “dal nulla”», ma lo emette «solo grazie, e in virtù, di una piattaforma “sottostante” rappresentata da asset costituiti, per lo più, da titoli del debito pubblico». La banca centrale (peraltro espressione di gruppi bancari privati) “emette” liquidità elettronica «solo in cambio di una posta positiva costituita da un titolo».Quindi, sempre secondo Carraro, si tratta sempre e comunque «dell’antichissimo paradigma della moneta-debito di cui siamo psicologicamente “debitori” da secoli e da cui non riusciamo a liberarci». Qui però l’equivoco è colossale: se denominato in moneta sovrana (dollaro, rublo, sterlina), il debito pubblico è in realtà il credito dei cittadini, la loro ricchezza in termini di beni, servizi e infrastrutture, dunque posti di lavoro. Se invece – come nel caso dell’euro, unico al mondo – la moneta non è sovrana, gli Stati sono costretti a prenderla in prestito a caro prezzo, scaricando sui cittadini (in termini di tasse) l’intero onere finanziario. Non a caso, l’Italia è da anni in regime di avanzo primario: ai cittadini lo Stato chiede più soldi di quanti non ne spenda per loro. Una spirale senza uscita, che deprime l’economia declassando lo Stato al ruolo di arcigno esattore, peraltro sempre più povero. L’Eurozona così gestita, con la Bce che gestisce la moneta in modo privatistico, è il capolavoro mondiale dell’oligarchia post-democratica che ha svuotato la politica, trasformando le stesse elezioni in rito formalistico e senza conseguenze. Il potere è detenuto da quello che proprio Draghi definì “il pilota automatico”, dipingendolo come un meccanismo quasi metafisico. In realtà, il “pilota automatico” di Draghi (che ha nomi e cognomi) è servito finora a impoverire le popolazioni, delocalizzare il lavoro, svendere il patrimonio degli Stati.Secondo Carraro, il Draghi versione estate-autunno 2019 sarebbe «affascinato dall’idea», dalla possibilità di smentire se stesso e l’intera sua storia, restituendo la moneta al popolo. E infatti «confessa di non “potere” – più che di non “volere” – regalare soldi ai cittadini». Carraro gli crede: non scrive che Draghi “sostiene” di non poter farlo, assicura che “confessa” la sua ipotetica impotenza, che quindi è presentata come reale, certa. In pratica, l’oligarca Draghi sarebbe una sorta di filantropo, che ora «ha offerto un assist straordinario per una riflessione eccentrica, e fuori dagli schemi, ma interessante e proficua». Come invece sappiamo, questa “riflessione” tiene banco da oltre dieci anni quasi ovunque, tranne che sui media mainstream come il “Fatto”, secondo cui la Bce «ha le mani legate». Ma ora, grazie all’eroe Draghi, «forse è giunto il momento di rivedere i nostri sclerotici paradigmi», proclama Carraro, «anche a costo di “rileggere” con occhi nuovi, o addirittura di correggere, le leggi e i trattati, se necessario». Aggiunge, senza ridere, lo stesso Carraro: «Lo esigono i tempi, come ha sottolineato proprio Mario Draghi: “Tutte le innovazioni in politica monetaria devono essere esaminate, studiate e ponderate. Questi sono grandi cambiamenti del mondo in cui la politica monetaria funziona e non ne abbiamo discusso. Sono argomenti che potrebbero far parte di una futura revisione strategica”». Di Carraro, che sembra proprio un fan di Draghi, è impagabile anche la chiosa: «Se lo dice lui, fidiamoci. Osiamo».«Pensate se i vertici della Nasa aprissero alle teorie negazioniste dello sbarco sulla Luna. Oppure se un accademico di grido palesasse serie perplessità sulla condensa delle scie d’aeroplano. O ancora, se il presidente della Bce si interrogasse sulla opportunità di immettere moneta nelle tasche dei cittadini anziché nelle casse delle banche. Il mondo al contrario, giusto? Non è mica possibile. Tutti conosciamo bene il confine tra certe verità consolidate, e introiettate dalle masse, e il mare controverso e insidioso delle teorie “alternative”. Eppure, la terza che avete letto sopra è successa davvero». Così si esprime Francesco Carraro sul “Fatto Quotidiano”, commentando il discorso di congedo nel quale Super-Mario ha suggerito al suo successore, Christine Lagarde, di prendere in considerazione misure alternative come la Modern Money Theory o l’“helicopter money”. «Significa, né più né meno, immettere denaro nell’economia reale recapitandolo ai consumatori e alle imprese anziché al sistema bancario». Sembra eresia pura, certo: proposte sconcertanti, se a pronunciarle è un “sicario dell’economia” come Draghi, massimo artefice del rigore europeo. «Finché le avanza un cospirazionista», scrive Carraro, certe idee «è facile liquidarle come pattume, alla stessa stregua delle “scie chimiche” o del “finto allunaggio”».