Archivio del Tag ‘disastro’
-
Tsipras come Monti: curare la Grecia col pareggio di bilancio
La Troika va trascinata in tribunale, perché i popoli europei – a partire da quello greco – siano finalmente risarciti delle atroci sofferenze loro inflitte dai “nani” tecnocratici di Bruxelles, la feroce casta filo-tedesca, neoliberista e mercantilista che ha trasformato l’Europa nel regno neo-feudale della crisi, minacciando l’intera economia mondiale. Aberrazioni spacciate per dogmi, da funzionari mediocri: gentaglia che in un’azienda sarebbe in grado, al massimo, di accendere e spegnere i computer. Si esprime in questi termini Alexis Tsipras, in vista del voto greco forse decisivo per il futuro dell’euro, senza però annunciare la chiara volontà di uscire dall’orrore della moneta unica che ha ridotto alla fame la Grecia e terremotato mezza Europa. Di più: a parole, il leader di Syriza si scaglia contro l’austerity. Ma non intende rinunciare neppure al più micidiale strumento di austerity imposto dall’Ue, il pareggio di bilancio. Incongruenze incomprensibili o ambigui tatticismi pre-elettorali, nel timore che i “mercati” facciano a pezzi la sinistra greca dopo il voto?Tspiras, scrive l’“Huffington Post”, ha sintetizzato il suo pensiero in un libro-intervista del giornalista Teodoro Andreadis Synghellakis, “Alexis Tsipras, La mia Sinistra”, stampato dalle edizioni Bordeaux con prefazione di Stefano Rodotà. Prima incoerenza: Tsipras annuncia che Syriza non intende tornare a una politica democratica basata sul deficit positivo, l’investimento dello Stato per i cittadini. Intoccabile, quindi, la mostruosità economica del pareggio di bilancio. «Il riuscire a proseguire tenendo come punto fermo il pareggio di bilancio è realmente un punto nodale della nostra strategia, perché ci dà la possibilità di trattare da una posizione di forza», sostiene Tsipras, secondo cui «pareggio di bilancio non significa, per forza, dover ricorrere all’austerità». Il leader della sinistra greca preferisce parlare di «giusta divisione dei vari pesi» e «redistribuzione vera, nel sostegno ai più deboli». Tradotto: la cintura resta stretta, ma le torture sociali andranno estese anche ai meno poveri. «La sinistra – dice Tsipras – non è arrivata sul proscenio per servire gli interessi dei potenti, ma per essere capace di attuare una politica socialmente giusta».Retorica a parte, Tsipras si dichiara fedele al suicidio economico programmato: col bilancio inchiodato al pareggio, lo Stato non spende un euro in più di quelli che riceve sotto forma di tasse, con un saldo per i cittadini pari a zero, quindi catastrofico. Tutto questo, per tenere a bada i mercati e disinnescare il ricatto dello spread. Non spendere per i cittadini, secondo Tsipras significa «limitare fortemente i bisogni di contrarre prestiti». Austerity pura, dunque, come Mario Monti? Tsipras ripete che la priorità è «rimettere in moto l’economia». Già, ma come? Più tasse o più spesa pubblica? Visto che Syriza non intende espandere la spesa per paura di Bruxelles e della Bce, non resta che una redistribuzione fiscale, destinata forse a incidere sulla società ma non certo sull’economia, che è al collasso. L’Europa teme il voto greco, e la prudenza di Tsipras è dichiarata: «Non intendiamo ricattare nessuno e non intendiamo neanche presentarci alla trattativa indossando una cintura esplosiva», dice il leader della sinistra ellenica, alludendo al negoziato per l’unica proposta – molto modesta – per la quale Syriza si candida: dilazionare semplicemente la liquidazione del debito.Eppure, nonostante il bassissimo profilo di Tsipras, secondo il filosofo Slavoj Zizek una vittoria di Syriza «darebbe la sveglia all’Europa». Tsipras conferma: «L’Europa è come un sonnambulo che sta procedendo verso il dirupo, e noi saremo la sveglia del sonnambulo». E come? Confermando il pareggio di bilancio? Tsipras resta ben incollato al grande diktat di Bruxelles, anche se sa benissimo che conduce alla rovina: «Credo che il modello “Sud in deficit e Nord in surplus” non costituisca un esempio attraente neanche per i popoli del Nord Europa. Presuppone, infatti, che gli stipendi debbano smettere di crescere per un tempo piuttosto lungo. Allo stesso tempo, questa logica di iper-accumulo della ricchezza (che viene accumulata nei risparmi ma non investita) costituisce un pericolo enorme per l’economia europea e per quella di tutto il mondo. Accumulando la ricchezza, si accumula la crisi che sarà destinata a scoppiare domani». Con questa strategia, aggiunge Tsipras, «l’Europa è destinata a non sfuggire al suo cammino recessivo: la recessione tornerà presto, e questo vuol dire che viene avvelenata l’acqua dell’economia di tutto il mondo. Vediamo, infatti, che l’Europa esporta recessione nel resto dell’economia mondiale e credo che sia proprio ciò che fa innervosire enormemente gli americani».Non dobbiamo scordarci, aggiunge il leader di Syriza, che «per riuscire ad affrontare la crisi, gli americani hanno seguito una politica economica totalmente diversa, una politica espansiva», cioè basata sull’incremento della massa monetaria e del deficit. E’ il tabù europeo che Syriza non osa infrangere, ben sapendo che a imporlo sono stati proprio i tecnocrati di Bruxelles: «La Grecia l’hanno rovinata e insistono nell’applicare le loro ricette distruttive». In altre parole: anche se Syriza non propone ricette per uscire dalla crisi e neppure dal cappio del rigore, limitandosi solo a una più equa ripartizione del peso sociale del disastro, secondo Tsipras la sola vittoria della sua sinistra in Grecia basterebbe a mettere paura ai padroni tedeschi dell’Europa, gli inventori dell’austerity, generando uno smottamento virtuoso in senso democratico. Tutto questo, senza osare alcunché: Syriza annuncia che non farà nulla per mettere in discussione l’impianto economico di Bruxelles, basato sui falsi dogmi di chi ha ideato e imposto la tragedia europea. Per contro, finora la sinistra greca non è stata “complice” dell’euro-sistema. Basta dunque questa sua estraneità a farne il salutare spauracchio di cui parla Zizek?La Troika va trascinata in tribunale, perché i popoli europei – a partire da quello greco – siano finalmente risarciti delle atroci sofferenze loro inflitte dai “nani” tecnocratici di Bruxelles, la feroce casta filo-tedesca, neoliberista e mercantilista che ha trasformato l’Europa nel regno neo-feudale della crisi, minacciando l’intera economia mondiale. Aberrazioni spacciate per dogmi, da funzionari mediocri: gentaglia che in un’azienda sarebbe in grado, al massimo, di accendere e spegnere i computer. Si esprime in questi termini Alexis Tsipras, in vista del voto greco forse decisivo per il futuro dell’euro, senza però annunciare la chiara volontà di uscire dall’orrore della moneta unica che ha ridotto alla fame la Grecia e terremotato mezza Europa. Di più: a parole, il leader di Syriza si scaglia contro l’austerity. Ma non intende rinunciare neppure al più micidiale strumento di austerity imposto dall’Ue, il pareggio di bilancio. Incongruenze incomprensibili o ambigui tatticismi pre-elettorali, nel timore che i “mercati” facciano a pezzi la sinistra greca dopo il voto?
-
Foa: i killer di Charlie Hebdo non potranno parlare mai più
La vita dei fratelli Kouachi, gli sterminatori della redazione di “Charlie Hebdo”, non valeva un bottone. Lo si “sapeva” benissimo, fin dall’inizio. Se catturati vivi, avrebbero potuto parlare. E magari raccontare retroscena imbarazzanti. Dietrologie? Forse. Ma resta la domanda-chiave: perché giustiziarli, quando era possibilissimo catturarli vivi? Quesito che Marcello Foa rilancia, dal suo blog sul “Giornale”: perché mai sparare, visto che i due killer non stavano minacciando nessun ostaggio? E’ normale prassi, nelle operazioni di polizia: solo catturando gli esecutori è possibile interrogarli e quindi risalire agli eventuali mandanti. Viceversa, tappando loro la bocca – come già accaduto al kamikaze “solitario” Mohammed Merah (poi risultato addestrato e infiltrato dalla Dgse, l’antiterrorismo francese) si può stare sicuri che il colpevole non parlerà mai più. «Non riesco ad aggiungere la mia voce al coro di plauso ai servizi di sicurezza francesi», premette Foa. «Un blitz non può essere considerato un successo se si conclude con la morte di ben 4 ostaggi». Peggio: «E’ emersa in queste ore una serie di errori e anomalie che per ora resta senza risposta».Per Foa, l’ultimo dubbio in ordine cronologico è il più grave: «Perché i fratelli Kouachi, due terroristi che hanno sterminato i redattori di “Charlie Hebdo”, sono stati uccisi?». Mentre l’assalto al negozio kosher era «impegnativo e rischioso a causa della presenza di ostaggi e pertanto rendeva quasi inevitabile l’uccisione di Amedy Coulibaly», il blitz contro i fratelli Kouachi «è avvenuto in condizioni ben diverse, quasi ideali per catturali vivi». Ora lo sappiamo con certezza, aggiunge Foa: i due «erano asserragliati nella tipografia senza ostaggi». Nell’edificio «c’era un solo dipendente quando hanno fatto irruzione», ma i due killer non l’avevano visto. L’uomo «ha avuto la prontezza di riflessi di nascondersi in uno scatolone e i fratelli Kouachi non si sono mai accorti della sua presenza, che è stata provvidenziale per le forze di sicurezza: via sms costui ha inviato alle forze dell’ordine importanti indicazioni sulle mosse dei due terroristi. Le condizioni, dunque, erano ottimali per catturarli vivi. E invece sono stati entrambi uccisi».Secondo le ricostruzioni di stampa, i due sarebbero usciti dalla tipografia, nella quale si erano asserragliati, sparando all’impazzata contro le forze di polizia dopo che queste – probabilmente – avevano iniziato a lanciare lacrimogeni nel locale. Un contesto difficile e confuso, ammette Foa, ma di certo non insolito per delle teste di cuoio altamente preparate a questo tipo di eventi e addestrate sia ad uccidere sia a neutralizzare tenendo in vita. «Ed è evidente che la cattura è altamente preferibile all’eliminazione, tanto più in assenza di ostaggi. Vivi, i due sarebbero stati interrogati, si sarebbe potuto scoprire la loro rete di contatti, i loro mandanti, approfondire la storia del reclutamento nello jhadismo, E invece sono stati uccisi entrambi. Era davvero indispensabile?». A queste domande se ne aggiungono altre. Fino a poche settimane fa, la redazione di “Charlie Hebdo” era sorvegliata da una camionetta 24 ore su 24, poi la misura è stata revocata e a proteggere l’ufficio è rimasto solo un poliziotto. «Nonostante proprio prima di Natale le autorità fossero in allarme per possibili attentati, la protezione di uno dei siti più ovvi, sensibili e prevedibili di Francia non è stata aumentata, con una leggerezza inspiegabile e imperdonabile».Per Foa, «è il più grande regalo che si potesse fare a dei terroristi jihadisti». E dunque, «chi risponde di questa scelta? Quali le motivazioni?». E poi: «Com’è possibile che due terroristi altamente addestrati, in grado di compiere con straordinaria freddezza e professionalità una strage come quella del “Charlie Hebdo”, si rechino sul luogo dell’attentato con la carta di identità e per di più la dimentichino nell’auto usata per la fuga? Nella mia vita ne ho viste tante – aggiunge Foa – ma una doppia leggerezza così sciocca da parte di guerriglieri che da settimane preparavano l’attentato è davvero molto insolita». Inoltre c’è la storia, molto confusa, dell’ipotetico terzo complice. Che fine ha fatto? «Perché le forze dell’ordine hanno additato, sin dalle prime ore, un giovane che in realtà è risultato completamente innocente (al momento del blitz si trovava a scuola)? C’era o no? E se sì, chi era? E’ ancora in fuga?». Ma non è finita. «Dalle immagini dell’assalto a “Charlie Hebdo” si nota che l’auto, una Citroën, era ferma in mezzo alla strada. Com’è possibile che sia stata lasciata lì durante il blitz, col rischio di bloccare il traffico e di attirare l’attenzione? O era parcheggiata altrove?». E cos’è successo quando, subito dopo la strage, l’auto dei terroristi è stata bloccata da un’auto della polizia nella via di “Charlie Hebdo”?Sulla tragedia di Parigi pesano infine interrogativi molto imbarazzanti, sui quali l’attenzione dei media mainstream evita accuratamente di concentrarsi. «I fratelli Kouachi erano noti da tempo ai servizi di sicurezza francesi, a quelli americani, persino a quelli italiani. Com’è possibile che il loro ritorno in Francia sia passato inosservato?». Altamente improbabile, come chiunque può capire. «Qualcuno monitorava le loro mosse? Li controllava? Se no, perché? Se sì, perché non sono stati fermati in tempo?». Già, perché? Forse “dovevano” compiere quella missione sanguinosa, sotto la protezione di chi conosceva tutto del loro piano? «Io non ho risposte a queste domande, che restano fondamentali per capire fino in fondo i tragici attentati di Parigi. Mi limito a formularle», conclude Foa. «Certo, invece, è il giudizio sui servizi di sicurezza francesi: sono stati disastrosi sia prima, sia durante, sia alla fine». Servizi che, come spiega Aldo Giannuli, sono considerati – per efficienza – tra i primi in Europa, perfettamente preparati a contrastare il terrorismo jihadista.La vita dei fratelli Kouachi, gli sterminatori della redazione di “Charlie Hebdo”, non valeva un bottone. Lo si “sapeva” benissimo, fin dall’inizio. Se catturati vivi, avrebbero potuto parlare. E magari raccontare retroscena imbarazzanti. Dietrologie? Forse. Ma resta la domanda-chiave: perché giustiziarli, quando era possibilissimo catturarli vivi? Quesito che Marcello Foa rilancia, dal suo blog sul “Giornale”: perché mai sparare, visto che i due killer non stavano minacciando nessun ostaggio? E’ normale prassi, nelle operazioni di polizia: solo catturando gli esecutori è possibile interrogarli e quindi risalire agli eventuali mandanti. Viceversa, tappando loro la bocca – come già accaduto al kamikaze “solitario” Mohammed Merah (poi risultato addestrato e infiltrato dalla Dgse, l’antiterrorismo francese) si può stare sicuri che il colpevole non parlerà mai più. «Non riesco ad aggiungere la mia voce al coro di plauso ai servizi di sicurezza francesi», premette Foa. «Un blitz non può essere considerato un successo se si conclude con la morte di ben 4 ostaggi». Peggio: «E’ emersa in queste ore una serie di errori e anomalie che per ora resta senza risposta».
-
Bricmont: terrorismo umanitario, presto il mondo ci punirà
«Ci sono almeno due cose più facili da iniziare che da finire: un amore e una guerra». Nessuno di coloro che parteciparono alla Prima Guerra Mondiale si aspettava che durasse così a lungo o che avesse le conseguenze che ha avuto, ricorda il professor Jean Bricmont dell’università belga di Louvain, autore del saggio “Humanitarian Imperialism”. Tutti gli imperi che hanno partecipato alla Grande Guerra sono stati distrutti, inclusi quello britannico e quello francese. «E non è tutto: una guerra conduce a un’altra guerra». Per il filosofo inglese Bertrand Russell, la volontà delle monarchie europee di schiacciare la Rivoluzione Francese portò come esito a Napoleone, ma poi le guerre napoleoniche produssero il nazionalismo germanico, che a sua volta condusse a Bismarck, alla sconfitta francese di Sédan e all’annessione dell’Alsazia-Lorena. Tutto questo diede forza al revanscismo francese che portò, dopo la Prima Guerra Mondiale, al Trattato di Versailles, la cui iniquità diede un forte impulso al nazismo di Hitler.«Russell si fermò qui, ma la storia continua», scrive Bricmont in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «La sconfitta di Hitler portò alla guerra fredda e alla nascita di Israele. La “vittoria” dell’Occidente nella guerra fredda condusse al diffuso desiderio di schiacciare la Russia una volta per tutte. Quanto a Israele, la sua creazione produsse un conflitto permanente e creò una situazione inestricabile nel Medio Oriente». Ci vorrebbe un “pacifismo istituzionale”, dice Bricmont: istituzioni a guardia della pace. L’Onu? Doveva appunto «salvare l’umanità dalla “piaga della guerra”, in seguito all’esperienza della Seconda Guerra Mondiale». Sovranità degli Stati, dunque, «per impedire che le grandi potenze intervenissero militarmente contro le nazioni più deboli, a prescindere dal pretesto». Ma visto che «non esiste una forza di polizia internazionale che faccia valere il diritto internazionale», non resta che «un bilanciamento di potere», corollario dell’antica politica di potenza. Equilibrio ancora più precario dopo che l’Occidente ha interpretato la fine della guerra fredda «come una vittoria unilaterale del Bene contro il Male».Da qui il boom occidentale dell’ideologia dei diritti umani e del diritto agli “interventi militari umanitari”, sviluppata da influenti intellettuali occidentali già a partire dalla metà degli anni ’70, spesso sostenitori di Israele. Il “diritto” all’intervento umanitario, ricorda Bricmont, è stato respinto dalla maggioranza dell’umanità, anche dal Movimento dei Non Allineati a Kuala Lumpur nel febbraio 2003, alla vigilia dell’attacco Usa all’Iraq. L’intervento militare “umanitario”? «Non trova fondamento né nella Carta delle Nazioni Unite, né nel diritto internazionale». In Occidente, però, quel tipo di intervento «è quasi unanimemente accettato». L’intervento degli Stati Uniti, scrive Bricmont, «è eterogeneo ma costante, e viola sistematicamente lo spirito, e spesso anche la lettera, della Carta delle Nazioni Unite». Nonostante i principi di libertà e democrazia agitati come paravento, «l’intervento statunitense ha ripetutamente comportato conseguenze disastrose, in tutto il mondo.A pesare non solo «i milioni di morti dovuti alle guerre dirette e indirette, in Indocina, America Centrale, Sudafrica e Medio Oriente», ma anche «le opportunità perdute, “l’uccisione della speranza” per centinaia di milioni di persone che avrebbero tratto beneficio dalle politiche sociali progressiste iniziate da personaggi come Arbenz in Guatemala, Goulart in Brasile, Allende in Cile, Lumumba in Congo, Mossadegh in Iran, i Sandinisti in Nicaragua o Chavez in Venezuela, che sono stati sistematicamente rovesciati, deposti o assassinati con il pieno appoggio dell’Occidente». Inoltre, aggiunge Bricmont, «ogni aggressione compiuta dagli Stati Uniti provoca una reazione: il dispiegamento di uno scudo anti-missile produce più missili, non meno. Bombardare dei civili – sia deliberatamente, sia come “danno collaterale” – provoca più resistenza armata, non meno. Cercare di deporre o rovesciare dei governi produce più repressione interna, non meno. Incoraggiare le minoranze secessioniste dando loro l’impressione, spesso falsa, che l’unica Superpotenza verrà in loro aiuto in caso di repressione, porta a più violenza, odio e morte, non meno». E ancora: «Circondare una nazione con basi militari produce più spese per la difesa da parte di quella nazione, non meno. E il possesso di armi nucleari da parte di Israele incoraggia altri stati del Medio Oriente ad acquistare tali armi».L’ideologia dell’intervento umanitario, continua Bricmont, in realtà fa parte di una lunga storia degli atteggiamenti occidentali nei confronti del resto del mondo. «Quando i colonialisti occidentali sbarcarono sulle coste dell’America, dell’Africa o dell’Asia orientale, venivano sconvolti da ciò che noi ora definiremmo violazioni dei diritti umani, e che loro chiamavano “usanze barbare” – sacrifici umani, cannibalismo, donne costrette a legarsi i piedi». Quell’indignazione, reale o simulata, «è stata usata per giustificare o coprire i crimini delle potenze occidentali: il commercio degli schiavi, lo sterminio dei popoli indigeni e il furto sistematico di terre e risorse». Così, «questo atteggiamento di sincera indignazione è continuato fino ad oggi e sta alla base della pretesa che l’Occidente ha “il diritto di intervenire” e “il diritto di proteggere”, chiudendo al tempo stesso gli occhi di fronte a regimi oppressivi considerati “nostri amici”, ad una incessante militarizzazione e continue guerre, e allo sfruttamento massiccio del lavoro e delle risorse».I fautori dell’intervento “umanitario” rivendicano che il loro interventismo sia gestito dalla comunità internazionale? «Ma ad oggi non c’è nulla che si possa definire una vera comunità internazionale. In realtà – scrive Bricmont – niente può illustrare meglio l’ipocrisia dell’ideologia umanitaria quanto il contrasto tra la reazione occidentale alle richieste d’indipendenza del Kosovo e alla richiesta di autonomia dell’Ucraina dell’Est. In entrambi i casi vi è il rifiuto di negoziare, ma in un caso con il totale appoggio all’indipendenza, e nell’altro caso con la totale opposizione all’autonomia». I promotori dell’intervento umanitario lo presentano come l’inizio di una nuova era, ma nei fatti è la fine di una vecchia epoca, sostiene Bricmont: «La più grande trasformazione sociale del ventesimo secolo è stata la decolonizzazione. Continua oggi nella creazione di un mondo veramente democratico e multipolare, in cui il sole sarà tramontato sull’impero Usa, proprio come accadde per vecchi imperi europei». Lo pensano in molti, ormai, ancje in Occidente, anche se «purtroppo non viene riportato nei nostri mezzi di comunicazione».Aggiunge Bricmont: «Durante le recenti campagne isteriche anti-russe, i nostri media sembrano aver completamente abbandonato lo spirito critico dell’Illuminismo che l’Occidente pretende di possedere. L’ideologia dei diritti umani, che ci dipinge come i buoni contro i cattivi, presenta la caratteristica di tutte le fedi religiose, ed è particolarmente intrisa di fanatismo». Nella Prima Guerra Mondiale, «tutte le parti in causa pretendevano di avere Dio al proprio fianco». Oggi, conclude Bricmont, «l’ideologia dei diritti umani ha sostituito le antiche fedi, ma funziona come una religione ed è la base di un nuovo nazionalismo, quello degli Stati Uniti e dell’Unione Europea». C’è chi pensa che tutto questo bellicismo ideologico sia dovuto a calcoli economici razionali da parte di cinici profittatori? «Io penso che questa interpretazione sia troppo ottimista e che ignori, per citare nuovamente Russell, “l’oceano dell’umana follia sul quale la fragile barca della ragione umana naviga precariamente”. Le guerre sono state fatte per ogni tipo di ragioni non economiche, come la religione o la vendetta, o semplicemente per ostentare potere». Attenzione: «Se i cittadini occidentali non riescono a mobilitarsi contro i propri governi e mezzi di comunicazione per fermare l’attuale follia, starà ad altri paesi svolgere questo compito. C’è da sperare che possano riuscirvi, senza aggiungere un ulteriore capitolo sanguinoso alla storia che è iniziata con la volontà delle monarchie europee di schiacciare la Rivoluzione Francese».«Ci sono almeno due cose più facili da iniziare che da finire: un amore e una guerra». Nessuno di coloro che parteciparono alla Prima Guerra Mondiale si aspettava che durasse così a lungo o che avesse le conseguenze che ha avuto, ricorda il professor Jean Bricmont dell’università belga di Louvain, autore del saggio “Humanitarian Imperialism”. Tutti gli imperi che hanno partecipato alla Grande Guerra sono stati distrutti, inclusi quello britannico e quello francese. «E non è tutto: una guerra conduce a un’altra guerra». Per il filosofo inglese Bertrand Russell, la volontà delle monarchie europee di schiacciare la Rivoluzione Francese portò come esito a Napoleone, ma poi le guerre napoleoniche produssero il nazionalismo germanico, che a sua volta condusse a Bismarck, alla sconfitta francese di Sédan e all’annessione dell’Alsazia-Lorena. Tutto questo diede forza al revanscismo francese che portò, dopo la Prima Guerra Mondiale, al Trattato di Versailles, la cui iniquità diede un forte impulso al nazismo di Hitler.
-
Io non sono Charlie, che è complice dei nostri veri assassini
Qui solo qualche veloce considerazione. L’attentato ha colpito un bersaglio perfetto per alimentare di magma vulcanico la “guerra al terrorismo”, tirarci dentro milionate di boccaloni destri e sinistri a sostegno di guerre e “misure di sicurezza”, fornire benzina ai piromani dell’universo mediatico e politico globalizzato. Tutto nel nome di quella sacra “libertà di stampa”, simbolo della nostra superiore civiltà, rappresentata da noi da becchini della libertà di stampa come la Botteri, Pigi Battista, Calabresi, Gramellini, Mauro, Scalfari e, nel resto dell’emisfero, da presstituti solo un tantino meno rozzi di questi. Un verminaio ora rimescolato e infoiato da un evento che gli dà la possibilità di coprire la propria abiezione con nuovi spurghi di odio e menzogne. “Charlie Hebdo” è una rivista satirica che ha la sua ragion d’essere nell’islamofobia, cioè nella guerra imperiale al “terrorismo” e contro diversi milioni di cittadini francesi satanizzati perché con nome arabo.Accanita seminatrice di odio antislamico, beceramente razzista, un concentrato di volgarità, vuoi di solleticamenti pruriginosi (Wolinski), vuoi da ufficio propaganda dei macellai di musulmani, al servizio del suprematismo euro-atlantico-sionista e, dunque, vessillo della civiltà occidentale a tutti cara, pure alle banche. Tanto che queste la salvarono dal fallimento e le infilarono economisti di vaglia, come Bernard Maris, pure dirigente nel Consiglio Generale della Banca di Francia. Rientra in questo ordine di cose l’entusiasmo con cui il mattinale ha accolto l’opera del sodale Michel Houellebecq, celebratissimo e ora protettissimo romanziere, il cui capolavoro, “La sottomissione”, è uscito in felice sincronismo con l’attentato. La sottomissione deprecata per tutte le centinaia di pagine è quella dell’Occidente che ha “rinunciato a difendere i suoi valori” e “ha ceduto all’Islam, la più stupida delle religioni”. Non meraviglia che, sul “Il Fatto Quotidiano”, il vignettista Disegni solidarizzi con i colleghi parigini e, in particolare, con il già citato amico e maestro Wolinski.Chissà perché m’è venuto in mente il giorno, al tempo del disfacimento Nato della Jugoslavia, quando collaboravo a una sua rivista, in cui Disegni mi cacciò dal giornale, spiegandomi che non poteva tollerare nel suo giornale uno che stava dalla parte dei serbi. House Organ di sinistra, con altri (“Libération”, “Le Monde”), dei servizi segreti franco-israeliani, è anello fintamente satirico della catena psicoterrorista che ci deve ammanettare tutti e trascinarci convinti alla guerra contro democrazia e resto del mondo. L’attentato parigino, preceduto dagli altri tre grandi episodi della campagna per il Nuovo Ordine Mondiale, Torri Gemelle-Pentagono, metrò di Londra, ferrovia di Madrid (ma noi siamo stati gli antesignani: Piazza Fontana, Italicus, Brescia, Moro, le bombe del mafia-regime), si inserisce alla perfezione nella storia del terrorismo “false flag”. Minimo, o massimo, comune denominatore, un cui prodest che si risolve immancabilmente a vantaggio della vittima conclamata e a esiziale detrimento dei responsabili inventati.L’apocalisse scatenata dal capitalismo terrorista in tutto il mondo, come di prammatica anche stavolta è stata firmata dall’urlo Allah-U-Akbar. Prova inconfutabile di chi siano i mandanti, no? A prima vista, l’operazione rientra nella campagna di destabilizzazione dell’Europa che, attraverso sfascio economico-sociale, conflitti interetnici e misure di “sicurezza”, deve rafforzare la marcia verso Stati di polizia, politicamente ed economicamente assoggettati all’élite sovranazionale, ma controllati da proconsoli e signori incontrastati della vita dei loro sudditi. Si possono individuare due motivazioni specifiche: una punizione USraeliana a Hollande, che non si era peritato di invocare la revoca delle sanzioni al mostro russo, inaccettabile incrinatura del blocco bellico del Nuovo Ordine Mondiale (avviso alla Merkel e ad altri devianti), con effetti a lungo termine di disgregazione sociale e conflitto inter-etnico; oppure un contributo della casta antropofaga francese, in questo caso concordato con i padrini d’oltremare, alla guerra infinita esercitata, fuori, contro le colonie recuperande (Mali, Chad, Rca, Maghreb) e, a casa, contro il cuneo sociale islamico e l’insubordinazione di massa che compromettono le mire dei correligionari dei maestri di Tel Aviv, Hollande, Fabius, Sarkozy, Lagarde.Pensate alle ricadute della carneficina “islamista” di Parigi, ascoltate gli ululati delle mute di sciacalli che per un bel po’ avranno modo di cibarsi di cadaveri della verità. Quante ragioni di più avranno, agli occhi dei decerebrati dai media, i trogloditi nazifascisti e razzisti che si aggirano in sparuti ma vociferanti drappelli per l’Europa, e sono tanto utili a spostare il giudizio di estrema destra, di fascismo, dalla classe dirigente a queste bande di manipolati. Quanto si attenuerà la protesta per le immonde condizioni dei migranti invasori. Quanto ne saranno rafforzati l’impeto e l’impunità degli addetti alla repressione di “corpi estranei”, come dei dissidenti autoctoni: Ilva, Tav, Tap, Trivelle, basi militari, disoccupazione, miseria, Renzi che toglie gli ultimi lacciuoli ai grandi evasori (avete visto che chi guadagna di più potrà evadere di più) e a quelli in cui era stata costretta l’inclinazione a delinquere di Berlusconi. Sempre più degna dei suoi antichi e recenti titolari, si ergerà una civiltà partorita dai roghi e dagli squartamenti di mille Torquemada, dalle crociate da mille anni mai interrotte, dalla guerra infinita, dal dio bliblico, il più sanguinario e protervo della storia.Bonus aggiuntivo, la distrazione di massa occidentale dalla dittatura neoliberista in progress, dal genocidio sociale euro-atlantico e dalle guerre militari ed economiche che portano avanti. La distrazione, da noi, dalle canagliate, una dopo l’altra, che ci infliggono il ciarlatano zannuto e le sue risibili ancelle. Tutto questo si ripete nei secoli della tirannia feudalcapitalista, monotonamente e anche con trasparente pressapochismo, salvaguardato, però, dalle coperture mediatiche. Coperture nelle grandi occasioni condivise con passione sfrenata dal “Manifesto”: mobilitati tutti i furbi e i naives della redazione e del suo cerchio magico per ben 13 articoli fiammanti per 6 pagine, fotone e vignette, in difesa della libertà di stampa offesa. Ce ne fosse uno, tra questi pensosi guru del politically correct, che, sulla scorta di una storia clamorosa di “false flag” padronali, da Pearl Harbour al Golfo del Tonchino, dallo stesso 11 Settembre al piano del Pentagono (Northwoods) di far saltare per aria, sotto etichetta cubana, palazzi governativi negli Usa e abbattere un aereo di studenti statunitensi nel cielo dell’Isola, avesse osato un assolo problematico, dubbioso.Gli autori dell’eccidio, veri professionisti che non avevano nemmeno effettuato un sopralluogo sulla scena. Che bisogno c’era? Servono così, bruti selvaggi, tanto dietro hanno chi professionista lo è davvero. Kalachnikov alla mano e passamontagna sul viso, hanno sbagliato portone e cercato indicazioni da un passante. Sono stati identificati prima ancora che si asciugasse il sangue. Nuovamente esponenti di quella comunità islamica che stoltamente si è tollerata, che deve stare bagnata con la coda tra le gambe. Tre di quei 18mila tagliagole stranieri, perlopiù europei, di cui l’Intelligence e la polizia sapevano tutto e li tenevano fissi d’occhio e di intercettazioni, ma che potevano agevolmente espatriare, addestrarsi nelle basi governate da istruttori Usa-Nato e gestite dai subalterni giordani, turchi, qatarioti, sauditi. Per poi altrettanto agevolmente rientrare, sotto lo sguardo comprensivo dei protettori dello Stato, e dedicarsi al mercenariato imperiale domestico. Di conseguenza, si ammette, sorveglianza zero sui “potenziali terroristi”, pur celebrati dall’ossessiva vulgata del “nemico della porta accanto”.Ora, vista la figuraccia del mancato controllo su uscite verso il Medioriente e rientro, cambiano versione: quelli lì non sono affatto stati in Siria. Invece si sono addestrati sparacchiando qua e là per Parigi, con tanto di istruttori di rango, sempre fuori da sguardi e cimici indiscreti. Figuraccia al cubo. E così, dal momento in cui è iniziata la sparatoria, subito ripresa e telefonata dai giornalisti di “Ch” con telefonino e comunicata dal furgone della polizia sul posto, poi mitragliato, è passata quasi mezz’ora prima dell’arrivo di rinforzi, in una delle metropoli più sorvegliata e tecnologizzata del mondo. Chi fossero i tre, mica s’è saputo grazie al costante controllo su movimenti e discorsi scientificamente condotto dai modernissimi flic tecnologizzati francesi. Figurati, è bastata una carta d’identità abbandonata nella fuga da un attentatore che, comprensibilmente, terminata la sparatoria e in fuga frenetica dalla scena, ha ammazzato il tempo tirando fuori il portafoglio (per vedere se bastava per il taxi?) e frugatoci dentro, estratta la tessera, l’ha posta in bella evidenza sul sedile.Ricorda quell’umoristico passaporto di Mohammed Atta, presunto capofila dei dirottatori dell’11/9, trovato lindo e intonso nel pulviscolo di tre grattacieli disintegrati. Con Atta che dal padre viene rivelato vivo, nella disattenzione assoluta dei gazzettieri. Visto che ovviamente la carta d’identità è stata lasciata a bella posta, quale sarà stato lo scopo? Indicare una testa di legno come autore e coprire quelle vere? Vedremo, nei prossimi giorni, quanto questa operazioni prodest all’Obama in precipitoso calo di consensi (come lo era Bush al tempo delle Torri), a multinazionali, banche, Pentagono e armieri, tutti quelli che devono gestire il trasferimento di ricchezza dalla periferia al centro e dal basso verso l’alto. E poi, scendendo per li rami, a un’Ue di nominati da business e arsenali, in crisi di credibilità e fiducia; a despoti europei reclutati per fare da capro espiatorio pagatore nella guerra alla Russia e al resto del mondo; a produttori di tecnologie per il controllo sociale; alle combine mafiose tra Pd e soci e faccendieri. Allo sparaballe in carenza di aria fritta. Al papa che sollecita gli islamici, solo loro, a farla finita con il terrorismo. Dall’altra parte, vedremo di che prodest ci avvantaggeremo noi, comuni mortali, islamici, cristiani o niente, di che lacrime gronderemo e di che sangue….Concludendo, un esercizio di fantasia. Immaginiamo cosa sarebbe successo, in termini di esecrazione e persecuzione degli antisemiti, se quelle vignette su Allah a culo all’aria e Maometto stupratore bombarolo avessero preso di mira Jahve, Mosé, o un qualsiasi “eterno ebreo” alla Himmler. E immaginiamo anche cosa risponderebbero quelli delle attuali chiassate per la libertà di stampa, nel paese al 69° posto per libertà di stampa, Ordine dei giornalisti e categoria tutta, se gli si chiedesse di manifestare per le centinaia di giornalisti assassinati nei paesi sotto tutela amica, Iraq, Messico, Honduras. Sempre più urgente e credibile, fondata su potenzialità politico-economico-militari letali per la criminalità organizzata che regge un impero in decadenza, diventa la formazione del fronte antagonista avviato da Hugo Chavez e portato avanti con intelligenza e dinamismo da Vladimir Putin: blocco asiatico-latinoamericano di Russia, Cina, Brics, governi e masse insubordinati. Ne consegue l’urgenza di smascherare e spazzare via i contractors della sedicente “Sinistra” che abitano nei sottoscala del menzognificio imperiale e ne ripetono le deformazioni della realtà finalizzate alla criminalizzazione dei diversi non sottomessi: lo “zar” omofobo Putin, “dittatori” vari, i musulmani, “violenti” asociali di varia estrazione, purchè non militari e poliziotti.(Fulvio Grimaldi, “Io non sono Charlie”, dal blog di Grimaldi dell’8 gennaio 2014.Qui solo qualche veloce considerazione. L’attentato ha colpito un bersaglio perfetto per alimentare di magma vulcanico la “guerra al terrorismo”, tirarci dentro milionate di boccaloni destri e sinistri a sostegno di guerre e “misure di sicurezza”, fornire benzina ai piromani dell’universo mediatico e politico globalizzato. Tutto nel nome di quella sacra “libertà di stampa”, simbolo della nostra superiore civiltà, rappresentata da noi da becchini della libertà di stampa come la Botteri, Pigi Battista, Calabresi, Gramellini, Mauro, Scalfari e, nel resto dell’emisfero, da presstituti solo un tantino meno rozzi di questi. Un verminaio ora rimescolato e infoiato da un evento che gli dà la possibilità di coprire la propria abiezione con nuovi spurghi di odio e menzogne. “Charlie Hebdo” è una rivista satirica che ha la sua ragion d’essere nell’islamofobia, cioè nella guerra imperiale al “terrorismo” e contro diversi milioni di cittadini francesi satanizzati perché con nome arabo.
-
DeLong: l’euro è un disastro, l’Ue non impara dalla storia
Non abbiamo imparato nessuna delle quattro grandi lezioni impartiteci dalla storia nel periodo compreso tra le due guerre mondiali: la competizione economica pura, senza compensazioni da parte dello Stato, conduce al conflitto e alla rovina. Lo sostiene Bradford DeLong, economista dell’università californiana di Berkeley. Prima lezione: affinché l’economia mondiale possa essere prospera, l’aggiustamento degli squilibri macroeconomici deve essere effettuato sia dalle economie in “surplus” che da quelle in “deficit”, e non da queste ultime soltanto. Seconda lezione: per evitare o limitare le crisi, è necessario che il sistema bancario globale abbia un regolatore e supervisore bancario a sua volta globale. Terza verità: perché una crisi possa essere gestita con successo, il “prestatore di ultima istanza” deve essere veramente tale, in qualsiasi quantità il mercato possa richiedere. Quarto punto: perché una qualsiasi unione monetaria (cambi fissi) possa sopravvivere, è necessario che nel suo ambito si facciano trasferimenti fiscali su larga scala, per compensare le mancate oscillazioni dei tassi di cambio, proibite dagli accordi interregionali.«Nel mio piccolo – scrive DeLong in un post tradotto da “Come Don Chisciotte” – pensavo che tutti (o quanto meno tutti quelli che contavano qualcosa nel governo dell’economia mondiale) avessero imparato queste quattro lezioni che la storia (1919-1939) ci aveva così crudelmente impartito». E invece, i boss dell’Eurozona e i loro consulenti «guardavano fuori dalla finestra e spettegolavano su Facebook», scrive DeLong, evidentemente convinto che la causa della catastrofe europea sia imputabile a semplici, madornali errori, anziché a un calcolo cinico e lucido: costruire la crisi per contrarre lavoro e diritti, far esplodere i profitti dell’élite a spese del 99% della popolazione, far sparire lo Stato per privatizzare tutto, a cominciare dai servizi vitali. DeLong si limita a domande tecniche, chiedendosi «come si è arrivati a tanto». Ovvero: «Perché Maastricht non ha istituito un unico regolatore/supervisore bancario», per poter «allineare la politica finanziaria con quella monetaria?». Maastricht, inoltre, non ha previsto un sistema per trasferire i fondi necessari a quei paesi «che avrebbero potuto entrare in recessione (come inevitabilmente accade), quando gli altri paesi sono in grande espansione».Maastricht, poi, «ha lasciato un bel pezzo delle sue prerogative di “prestatore di ultima istanza” nelle mani dei governi nazionali, che non possono stampare denaro (e quindi ottemperare al ruolo), invece di mettere il tutto nelle mani della Banca Centrale Europea, che invece potrebbe». Inoltre, «visto che le esportazioni di un paese sono nient’altro che le importazioni di un altro», come mai «non scattano automaticamente quelle politiche idonee a che i paesi in deficit possano ridurre le loro importazioni ed aumentare le loro esportazioni?». Già, perché? «E perché, viceversa, non si adottano automaticamente le politiche idonee a che i paesi in surplus aumentino le loro importazioni e riducano le loro esportazioni?». DeLong sembra non “vedere” il disegno criminale, l’organizzazione del disastro: preferisce pensare a eurocrati imbranati, banchieri sprovveduti, tecnocrati dilettanti? L’economista francese Alain Parguez, già consulente dell’Eliseo ai tempi di Mitterrand, riferisce che Jacques Attali, uno dei massimi padri dell’euro, avrebbe pronunciato testualmente le seguenti parole: «Ma cosa crede, la plebaglia europea, che la moneta unica l’abbiamo creata per la loro felicità?».DeLong, invece, propende per l’ipotesi dell’ingenuità che avrebbe pesato sulle decisioni dei fondatori dell’Ue, certi che il tempo avrebbe corretto le imperfezioni iniziali. «In alcuni – scrive – c’era la convinzione che alcuni specifici dettagli, se posti nel Trattato Maastricht, avrebbero rimandato questo progetto per anni, o addirittura per decenni, mentre la logica degli eventi avrebbe inevitabilmente portato sia ad una crescita organica che allo sviluppo dei pezzi mancanti del Trattato». Secondo questa logica, continua DeLong, alla prima grande recessione l’unione monetaria avrebbe senz’altro istituito un sistema per i trasferimenti fiscali. E ancora, alla prima importante crisi bancaria, la Bce avrebbe senz’altro adottato le funzioni di “prestatore di ultima istanza” (e a seguire, si sarebbe velocemente realizzata l’Unione Bancaria). Gli altri paesi europei, continua l’economista, «avevano considerato il Trattato di Maastricht come un rinnovo dell’impegno politico tedesco in favore di una più stretta integrazione europea». Per questo l’Europa si è fidata, incautamente, della riunificazione tedesca? Sì, risponde DeLong: gli europei non-tedeschi erano convinti che «se si fosse scoperto che c’era qualcosa da pagare per le conseguenze non palesemente previste del Trattato di Maastricht, la Germania lo avrebbe fatto».Non abbiamo imparato nessuna delle quattro grandi lezioni impartiteci dalla storia nel periodo compreso tra le due guerre mondiali: la competizione economica pura, senza compensazioni da parte dello Stato, conduce al conflitto e alla rovina. Lo sostiene Bradford DeLong, economista dell’università californiana di Berkeley. Prima lezione: affinché l’economia mondiale possa essere prospera, l’aggiustamento degli squilibri macroeconomici deve essere effettuato sia dalle economie in “surplus” che da quelle in “deficit”, e non da queste ultime soltanto. Seconda lezione: per evitare o limitare le crisi, è necessario che il sistema bancario globale abbia un regolatore e supervisore bancario a sua volta globale. Terza verità: perché una crisi possa essere gestita con successo, il “prestatore di ultima istanza” deve essere veramente tale, in qualsiasi quantità il mercato possa richiedere. Quarto punto: perché una qualsiasi unione monetaria (cambi fissi) possa sopravvivere, è necessario che nel suo ambito si facciano trasferimenti fiscali su larga scala, per compensare le mancate oscillazioni dei tassi di cambio, proibite dagli accordi interregionali.
-
Grecia: strage per depressione di massa, made in Germany
La Gabanelli vi intrattiene con sapienza proponendovi un po’ di senso di colpa a buon mercato per le povere oche spiumate? «Bene, avete sofferto tanto: il distrattore ha funzionato», scrive Barbara Tampieri. Ma se volete inorridire veramente – non per la mattanza di oche, ma di esseri umani – c’è un documentario greco che racconta «l’epidemia di depressione che è calata sul paese come un castigo biblico». La terapia-choc, made in Germany, ha provocato «un disastro mentale su larga scala, un genocidio senza sparare un colpo», con la piena complicità della propaganda dei media. «L’ansia, il senso di colpa, quello di vergogna e la disperazione possono essere inoculati a milioni di persone, mentre si opera criminalmente per derubarle della propria ricchezza e gettarle nella disperazione. E’ istigazione collettiva al suicidio. E’ la prova di un crimine contro l’umanità, uno dei più efferati, che però non interessa a nessuno, tanto meno a coloro che vorrebbero esportare, dopo il grande successo in Grecia, la medesima terapia da noi e nel resto dell’Europa di seconda classe. Per liberarsi delle nuove vite indegne di essere vissute. O che hanno vissuto al di là delle proprie possibilità».“La Grecia che si dispera, la Grecia che spera”: tra le testimonianze raccolte nel video pubblicato su Vimeo, oltre a quelle degli operatori psichiatrici dei centri di aiuto che raccontano le cifre della tragedia, l’aumento del 28% dei suicidi e l’impennata della depressione tra la popolazione, «stringono il cuore quelle dei bambini e i loro disegni, con quei soli neri: piccoli già vittime del convincimento che siano stati sì i politici a ridurre le loro famiglie alla fame ma che soprattutto la colpa sia stata di quelle famiglie, di avere “speso troppi soldi”». Eppur, dice un intervistato, «non chiedevamo tutto quel benessere, siamo gente semplice». Scrive la Tampieri su “L’Orizzonte degli Eventi”: «C’è un particolare sadismo in colui che ti toglie la felicità sostenendo che se sei stato felice fino ad ora non ne avresti avuto diritto. C’è un che di pedagogia nera dall’origine inconfondibile in questo senso di colpa inoculato come un veleno in popolazioni talmente solari, per restare in tema, da inventarsi una terapia a base di risate per tentare di sopportare l’angoscia del quotidiano». Uno dei testimoni dice, a un certo punto: «Noi abbiamo il sole. Sono riusciti a farci sentire in colpa per avere il sole».Una donna, il cui stipendio si è ormai dimezzato e non riesce più a pagare il mutuo, esprime la rabbia di chi ha capito chi l’ha ridotta alla disperazione: «La banca avrebbe dovuto sapere che non sarei stata in grado di pagare le rate, avrebbe dovuto saperlo meglio di me». Un uomo racconta di essere invecchiato di vent’anni in poco tempo. Non si suicida, dice, perché non vuole lasciare solo il figlio, un bambino al quale riesce a dare da mangiare solo un piatto di fagioli. Però il padre ha già preparato la corda appesa, e la mostra. «Un popolo intero, quindi, in preda alla depressione, una depressione provocata scientificamente dall’invidia di chi è convinto di non potersi meritare il sole a meno di toglierlo agli altri con la violenza», scrive Tampieri. «Un popolo che sembra purtroppo fin troppo adagiato sul proprio destino, se è vero che pensa di affidarsi come unica speranza al toy boy delle damazze eurofile, quel Tsipras che, sì, poveri greci, ma l’euro non si tocca».«Questo documentario mi ha fatto stare male – scrive ancora Barbara Tampieri – perché la depressione la conosco, è la cosa più terribile che possa capitarti e l’ho avuta addosso per dodici anni. Conosco quel dolore atroce e quell’assoluta disperazione che ti danno le bellissime giornate di cielo terso, quando normalmente dovresti essere felice solo per il fatto di esistere e vedere tutta quella bellezza. Conosco quella vocina insistente che ti dice: “Non hai speranza, davanti a te c’è solo un muro nero oltre al quale c’è il nulla, il futuro non esiste, ammazzati”».E conclude: «Sono paranoica e complottista se penso che in fondo non si abbia alcun interesse a debellare la depressione ma anzi, si voglia non solo perpetuarla ma renderla endemica? Perché un popolo depresso è più facilmente controllabile, può essere sottomesso più alla svelta e difficilmente ti farà una rivoluzione perché, come per i lemming, basterà portarlo in cima al burrone e penserà da sé a suicidarsi. Come in Grecia».La Gabanelli vi intrattiene con sapienza proponendovi un po’ di senso di colpa a buon mercato per le povere oche spiumate? «Bene, avete sofferto tanto: il distrattore ha funzionato», scrive Barbara Tampieri. Ma se volete inorridire veramente – non per la mattanza di oche, ma di esseri umani – c’è un documentario greco che racconta «l’epidemia di depressione che è calata sul paese come un castigo biblico». La terapia-choc, made in Germany, ha provocato «un disastro mentale su larga scala, un genocidio senza sparare un colpo», con la piena complicità della propaganda dei media. «L’ansia, il senso di colpa, quello di vergogna e la disperazione possono essere inoculati a milioni di persone, mentre si opera criminalmente per derubarle della propria ricchezza e gettarle nella disperazione. E’ istigazione collettiva al suicidio. E’ la prova di un crimine contro l’umanità, uno dei più efferati, che però non interessa a nessuno, tanto meno a coloro che vorrebbero esportare, dopo il grande successo in Grecia, la medesima terapia da noi e nel resto dell’Europa di seconda classe. Per liberarsi delle nuove vite indegne di essere vissute. O che hanno vissuto al di là delle proprie possibilità».
-
Tutti precari, anche i pensionati: dovranno tornare al lavoro
La flessibilità azzoppa tutti: non solo i giovani precari, ma anche i loro nonni, erodendo la loro pensione. Paolo Barnard rievoca un incontro con Cinthya Fagnoni, direttrice dell’“Education, Workforce, and Income Security Issues” del General Accounting Office americano, organo del Congresso Usa. «A Washington faceva caldo, ma lei mi offriva solo caffè». La Fagnoni era autrice di uno studio commissionato dal Senato Usa sulla flessibilità. «Flessibilità sul lavoro, eravamo 14 anni fa». Gli disse: «Risulta ovvio che la flessibilità può solo essere un OPTIONAL optional del mercato del lavoro, cioè limitata alla SCELTA scelta del lavoratore/trice di VOLER voler lavorare meno e a singhiozzo. I nostri dati ci dicono che se la flessibilità diventa la regola, distruggerà non solo l’economia dei giovani, ma anche quella dei pensionati». Era il giugno del 2000. Quattordici anni dopo, calcolati i danni delle super-privatizzazioni del governo D’Alema alla vigilia dell’ingresso nell’Eurozona, eccoci alle prese con «il disastro epico di una disoccupazione giovanile italiana al 43%». Ovvero: «Ci stiamo dirigendo esattamente verso quella distruzione».Oggi, scrive Barnard nel suo blog, in America la cosiddetta “Labour Participation Rate” (quota di lavoratori attivi sul mercato del lavoro) è un numero che «precipita come una palla di piombo giù dall’Everest, perché letteralmente per i giovani non conviene più lavorare». Nel senso che «gli costa di più di quanto guadagnano con la flessibilità e coi mini-lavori, e meno che far debiti con le banche (coi tassi quasi a zero di oggi)». Tutto questo, «mentre i pensionati Usa devono tornare sul mercato del lavoro a 65 anni, se no muoiono letteralmente di fame». Cosa è successo a questi ultimi? «Non solo è crollata la quota di contributi dei giovani per le loro pensioni, ma i pensionati americani hanno dato retta alla loro Cgil e alle loro Fornero 25 anni fa, cioè si sono messi nella mani dei fondi pensione integrativi». Il meccanismo è noto: i fondi pensione «prendono i tuoi contributi e li investono, promettendoti un futuro brillante grazie alle magie della Finanza». Il refrain è noto: «Ma ancora stiamo con lo Stato? Decotto e babbione? Goldman Sachs, Jp Morgan, Unicredit, Axa, Zurich, sono il tuo sereno futuro, pensionato John! Fidati».I fondi pensione «prendono i tuoi contributi e li investono sul mercato, soprattutto in titoli di Stato». Poi accade che «mentre il pensionato John è a farsi le birre al bar sotto casa, o a portare a spasso il cane», i boss delle banche centrali «prendono un paio di decisioni che portano i tassi d’interesse a quasi zero». Sorpresa: «La pensione accumulata oggi dal pensionato John non rende più nulla, soprattutto certi titoli di Stato (hey Giacomo, hai qualcosina investita in titoli tedeschi? Sei nella merda)». Infatti, “John” sbatte la faccia a sangue contro lo Zirp, “Zero Inbred Rate Policy”, «cioè i suoi risparmi di pensione integrativa non rendono più un cazzo d’interessi». In più, «se lo sventurato aveva il suo gruzzolo sparso/investito dal suo promotore finanziario anche fra banche d’investimento, i buchi contabili e i fallimenti a catena di queste dal 2007 al 2013, gli “Hair Cuts” imposti agli investitori (anche ai piccoli) pur di salvare ’ste mega-banche, gli hanno anche mangiato più della metà della pensione, spesso tutta».Sono moltissimi, infatti, i pensionati che oggi fanno fatica, negli Stati Uniti, ad arrivare a fine mese. Per questo è sempre più alto il numero di anziani che tornano a lavorare a settant’anni. «Come voi lettori sapete – continua Barnard – l’Italia è un paese che, senza fallire un colpo negli ultimi 70 anni, imita tutto il peggio degli Usa (e mai il meglio) SEMPRE E REGOLARMENTE sempre e regolarmente 15 anni dopo. Abbiamo oggi Renzi per questo, mica per altro», “complice” un politico come Napolitano, che Barnard definisce «vecchio amico delle multinazionali Usa degli anni’ 70», e quindi corresponsabile, politicamente, del disastro socio-economico – la disarticolazione finanziaria dello Stato – avviata all’inizio degli anni ‘80 da Ciampi e Andreatta, perfezionata da Draghi e ulteriormente sviluppata da D’Alema vent’anni dopo. Smantellamento del sistema-Italia, cessione della sovranità, messa all’asta del debito, ingresso nell’euro e quindi resa alle politiche di rigore imposte dai padroni dell’Eurozona. Risultato: giovani senza lavoro, in tutta Europa, come nel 1945. E fosca vecchiaia per i loro nonni: «Auguri, pensionato Giacomo, ma non per te: per tuo figlio Giacomino, che fra 40 anni si ricorderà disperato di questo articolo. Disperato».La flessibilità azzoppa tutti: non solo i giovani precari, ma anche i loro nonni, erodendo la loro pensione. Paolo Barnard rievoca un incontro con Cinthya Fagnoni, direttrice dell’“Education, Workforce, and Income Security Issues” del General Accounting Office americano, organo del Congresso Usa. «A Washington faceva caldo, ma lei mi offriva solo caffè». La Fagnoni era autrice di uno studio commissionato dal Senato Usa sulla flessibilità. «Flessibilità sul lavoro, eravamo 14 anni fa». Gli disse: «Risulta ovvio che la flessibilità può solo essere un optional del mercato del lavoro, cioè limitata alla scelta del lavoratore/trice di voler lavorare meno e a singhiozzo. I nostri dati ci dicono che se la flessibilità diventa la regola, distruggerà non solo l’economia dei giovani, ma anche quella dei pensionati». Era il giugno del 2000. Quattordici anni dopo, calcolati i danni delle super-privatizzazioni del governo D’Alema alla vigilia dell’ingresso nell’Eurozona, eccoci alle prese con «il disastro epico di una disoccupazione giovanile italiana al 43%». Ovvero: «Ci stiamo dirigendo esattamente verso quella distruzione».
-
Israele, guerra e Pil: e i palestinesi diventano schiavi inutili
Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.A sdoganare un linguaggio più che esplicito sono alcuni esponenti dell’establishment di Tel Aviv, come la parlamentare Ayelet Shaked, quella che durante l’ultimo assedio di Gaza esortò a colpire «tutto il popolo palestinese, inclusi gli anziani e le donne, le loro città e i loro villaggi, i loro beni e infrattutture». Anche le donne, colpevoli di allevare «serpenti». Su “The Times of Israel”, Yonahan Gordan spiega «quando si approva un genocidio», e argomenta: «Che altro modo c’è allora per affrontare un nemico di questa natura che non sia lo sterminio completo?». Il vicepresidente del Parlamento israeliano, Moshe Feiglin, membro del partito Likud di Netanyahu, sollecita l’esercito israeliano a uccidere indiscriminatamente i palestinesi di Gaza e a utilizzare ogni possibile mezzo per farli andar via: «Il Sinai non è lontano da Gaza e possono andarsene, questo sarà il limite dello sforzo umanitario di Israele». Questi appelli alla pulizia etnica e al genocidio stanno crescendo di frequenza, scrive Robinson nella sua analisi, ripresa da “Come Don Chisciotte”.Il clima politico in Israele ha continuato a spostarsi a destra: «Quasi la metà della popolazione ebrea di Israele appoggia una politica di pulizia etnica dei palestinesi», scrive Robinson. Secondo un sondaggio del 2012, «la maggioranza della popolazione appoggia la completa annessione dei Territori Occupati e l’istituzione di uno stato di apartheid». Il timore di una crescita del fascismo in Israele ha portato 327 sopravissuti, discendenti di sopravissuti e vittime del genocidio ebreo perpetrato dai nazisti, a pubblicare una lettera aperta sul “New York Times” del 25 agosto che esprimeva allarme per «la estrema disumanizzazione razzista dei palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto un picco febbrile». La carta continuava: «Dobbiamo alzare la nostra voce collettiva e usare il nostro potere collettivo per porre fine a tutte le forme di razzismo, incluso il genocidio in corso del popolo palestinese». Il problema, aggiunge Robinson, è che lo stesso progetto sionista può essere letto come basato sul genocidio della pulizia etnica: testualmente, l’articolo 2 della convenzione dell’Onu del 1948 definisce il genocidio come “azioni commesse con l’intenzione di distruggere totalmente o parzialmente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.La drammatica escalation degli ultimi anni, rivela Robinson, ha origini economiche: è la globalizzazione a rendere ormai “superflui” i lavoratori palestinesi, ridotti allo status di “umanità eccedente”. «La rapida globalizzazione di Israele a partire dalla fine degli anni ‘80 coincise con le due Intifada (proteste) palestinesi e con gli accordi di Oslo, negoziati dal 1991 al ‘93 e che naufragarono negli anni seguenti». A premere per gli accordi di pace, i poteri forti finanziari: i focolai geopolitici della guerra fredda avevano ostacolato l’accumulazione di capitali e occorreva “stabilizzare” il Medio Oriente. «Il processo di Oslo – spiega Robinson – si può vedere come un pezzo chiave nel puzzle politico provocato dall’integrazione del Medio Oriente nel sistema capitalista globale emergente», il contesto nel quale poi si inserirà la stessa “primavera araba”. Gli accordi di Oslo, naturalmente, rimasero lettera morta: avevano promesso ai palestinesi una soluzione definitiva entro 5 anni, con uno statuto per i rifugiati e il loro diritto al ritorno in Palestina, una definizione delle frontiere e della gestione dell’acqua, nonché la ritirata di Israele dai Territori Occupati. Durante il periodo di Oslo, cioè tra il 1991 e il 2003, «l’occupazione israeliana della Cisgiordania e Gaza si intensificò smisuratamente».Perché fallì il processo di pace? Prima di tutto, perché «non era destinato a risolvere la difficile situazione dei palestinesi espropriati, ma a integrare una dirigenza emergente palestinese nel nuovo ordine mondiale e a dare a questa dirigenza una partecipazione nella difesa di quest’ordine, in modo che assumesse un ruolo nella vigilanza interna delle masse palestinesi nei Territori Occupati». C’è anche un profilo finanziario: l’Anp creata a Oslo doveva servire a integrare il capitale palestinese con quello dell’area del Golfo. E si sperava che l’Anp «servisse per mediare nell’accumulazione di capitali transnazionali nei Territori Occupati, mantenendo il controllo sociale sulla popolazione inquieta». Nel frattempo, la nuova economia israeliana – il complesso militare e di sicurezza, altamente tecnologico – si andava integrando col capitale corporativo transnazionale di Usa, Europa e Asia, proiettando l’economia israeliana anche nelle reti economiche regionali (Egitto, Turchia e Giordania). Infine, in quel periodo Israele «visse un episodio di grande immigrazione transnazionale, tra cui l’afflusso di circa un milione di immigrati ebrei, che indebolì la necessità di Israele di manodopera palestinese durante gli anni ‘90».«Fino a che la globalizzazione non prese vita, verso la metà degli anni ‘80, la relazione di Israele coi palestinesi rifletteva il classico colonialismo, nel quale il potere coloniale aveva usurpato la terra e le risorse dei colonizzati per poi farli lavorare, sfruttandoli», scrive il professor Robinson. «Però l’integrazione del Medio Oriente nell’economia globale e la società basata sulla ristrutturazione economica neoliberale, inclusa la ben conosciuta litania di misure quali la privatizzazione, la liberalizzazione del commercio, la supervisione del Fondo Monetario Internazionale sull’austerità e i prestiti della Banca Mondiale, aiutò a provocare la propagazione di pressioni da parte delle masse di lavoratori e dei movimenti sociali e la democratizzazione delle basi, che si riflette nelle Intifada palestinesi, il movimento operaio attraverso il Nordafrica e il malessere sociale, che si resero più visibili nelle rivolte arabe del 2011. Questa onda di resistenza forzò una reazione da parte dei governanti israeliani e dei loro alleati statunitensi».Integrandosi nel capitalismo globale, continua Robinson, l’economia israeliana visse due grandi ondate di ristrutturazione. La prima, negli anni ‘80 e ‘90, fu una transizione dall’economia tradizionale (agricoltura e industria) verso un nuovo modello basato sull’informatica: Tel Aviv e Haifa divennero le Silicon Valley del Medio Oriente, e nel 2000 il 15% del Pil di Israele e il 50% dell’export avevano origine dal settore dell’alta tecnologia. «Poi, dal 2001 in poi, e soprattutto sulla scia del disastro delle dot-com del 2000, che coinvolse imprese che commerciavano in Internet, e della recessione a livello globale, secondariamente per gli accadimenti del 11 Settembre 2001 e la rapida militarizzazione della politica mondiale, si produsse in Israele un altro spasmo volto a supportare un “complesso globale di tecnologie militari, di sicurezza, di spionaggio e di vigilanza contro il terrorismo”». Israele è divenuto la patria di imprese tecnologiche, pioniere della cosiddetta “industria della sicurezza”. «Di fatto, l’economia di Israele si è globalizzata specificamente attraverso l’alta tecnologia militare: gli istituti di esportazione israeliani stimano che nel 2007 c’erano circa 350 imprese transnazionali israeliane dedite ai sistemi di sicurezza, di spionaggio e controllo sociale, che si situarono nel centro della nuova politica economica israeliana».Le esportazioni israeliane di prodotti e servizi collegati alla “lotta al terrorismo” aumentarono del 15% nel 2006 e si prevedeva che sarebbero cresciute del 20% nel 2007, per un valore di 1,2 miliardi di dollari all’anno, secondo Naomi Klein. Questa crescita esplosiva «fa di Israele il quarto trafficante d’armi del mondo, davanti al Regno Unito». Numeri: Israele ha più azioni tecnologiche quotate al Nasdaq (molte collegate all’industria della sicurezza) che ogni altro paese straniero, e ha più brevetti hi-tech registrati negli Usa di quanti ne abbiano Cina e India messe insieme. Oggi, il 60% delle esportazioni israeliane è collegato alla tecnologia, specie nell’industria della sicurezza. In altre parole, sintetizza Robinson, «l’economia israeliana si è alimentata della violenza locale, regionale e mondiale, dei conflitti e delle disuguaglianze». Le sue principali imprese? «Hanno finito per dipendere dal conflitto». La guerra in Palestina, nel Medio Oriente e in tutto il mondo, è ormai un business che influenza l’intero sistema politico dello Stato israeliano.«Questa accumulazione militare è caratteristica anche degli Usa e di tutta l’economia mondiale globalizzata», annotra Robinson. «Viviamo sempre più in un’economia da guerra mondiale e certi stati, come Usa e Israele, sono ingranaggi chiave di questa macchina. L’accumulazione militarista per controllare e contenere gli oppressi e gli emarginati e per sostenere l’accumulazione nella crisi si prestano a tendenze politiche fasciste o a quello che noi abbiamo definito “il fascismo del XXI secolo”». Questo cambia (in peggio) la sorte della popolazione palestinese, che fino agli anni ‘90 era «una forza lavoro a basso costo per Israele». E’ stata soppiantata innanzitutto dal milione di nuovi arrivi dall’Est Europa, dopo il collasso dell’Urss, che hanno incrementato gli insediamenti coloniali: ebrei sovietici, a loro volta «resi profughi dalla ristrutturazione neoliberale post-sovietica». In più, l’economia israeliana cominciò ad attirare manodopera dall’Africa e dall’Asia, «dato che il neoliberismo produsse crisi con milioni di profughi dalle vecchie regioni del Terzo Mondo».Insieme alla recessione, la nuova mobilità lavorativa transnazionale ha permesso all’élite finanziaria mondiale «la riorganizzazione dei mercati del lavoro e il reclutamento di forze lavoro transitorie, private dei loro diritti e facili da controllare». Un’opzione «particolarmente attraente per Israele, dato che elimina la necessità di manodopera palestinese politicamente problematica». Oltre 300.000 lavoratori immigrati – provenienti da Thailandia, Cina, Nepal e Sri Lanka – ora costituiscono la forza lavoro predominante nell’agroalimentare di Israele, così come la manodopera messicana e centroamericana lo è nell’agroalimentare statunitense, nella stessa condizione precaria di super-sfruttamento e discriminazione. «Il razzismo che molti israeliani hanno mostrato nei confronti dei palestinesi (esso stesso prodotto del sistema di relazioni coloniale) ora si è tramutato in una crescente ostilità verso gli immigrati in generale», osserva Robison, «man mano che il paese si tramuta in una società totalmente razzista».E dato che l’immigrazione globale ha eliminato la necessità di Israele di avere manodopera a basso costo palestinese, quest’ultima si è convertita in una popolazione marginale eccedente. «Prima dell’arrivo dei rifugiati sovietici – scrive Naomi Klein – Israele non poteva neanche per un momento prescindere dalla popolazione palestinese di Gaza o della Cisgiordania; la sua economia non avrebbe potuto sopravvivere senza la mano d’opera palestinese». All’epoca, «circa 130.000 palestinesi abbandonavano le loro case a Gaza e in Cisgiordania ogni giorno e andavano in Israele per pulire le vie e costruire le strade, mentre gli agricoltori e i commercianti palestinesi riempivano camion di mercanzia e le vendevano in Israele e in altre parti dei Territori». Poi, in vista della grande trasformazione strutturale dell’economia israeliana, già nel ‘93 – anno della firma degli accordi Oslo – Tel Aviv inaugurò la politica di chiusura: palestinesi confinati dei Territori Occupati, pulizia etnica e forte aumento degli insediamenti ebraici. Istantaneo il crollo del reddito palestinese, di almeno il 30%, fino al bilancio del 2007, con disoccupazione e povertà al 70%.«Dal ‘93 al 2000, che si pensava dovessero essere gli anni nei quali veniva realizzato l’accordo di “pace” che esigeva la fine dell’occupazione israeliana e lo stabilirsi di uno Stato palestinese – scrive Robinson – i coloni israeliani in Cisgiordania raddoppiarono, arrivando a 400.000, poi a 500.000 nel 2009 e continuarono aumentando. La denutrizione a Gaza è agli stessi livelli di alcune delle nazioni più povere del mondo, con più della metà delle famiglie palestinesi che assumono un solo pasto al giorno. Mano a mano che i palestinesi venivano espulsi dall’economia di Israele, le politiche di chiusura e l’incremento dell’occupazione distrussero a loro volta l’economia palestinese». Il collasso degli accordi di Oslo, insieme a quella che Robinson chiama «la farsa delle negoziazioni di “pace” in corso, nel mezzo di un’occupazione israeliana sempre maggiore», può rappresentare un dilemma politico per i poteri forti transnazionali, che oggi vorrebbero «trovare meccanismi per lo sviluppo e l’assoggettamento dei ricchi palestinesi e dei gruppi capitalisti».In base alla logica perversa dell’élite, quella «del capitale militarizzato, incrostato nell’economia israeliana e internazionale», l’attuale situazione è eccellente: «E’ un’opportunità d’oro per espandere l’accumulazione di capitale per lo sviluppo e la commercializzazione di armi e di sistemi di sicurezza in tutto il mondo, attraverso l’uso dell’occupazione e della popolazione palestinese in cattività come obiettivi d’attacco e prova sul terreno». E’ questa élite affaristica e tecnologico-militare a condizionare oggi la politica di Israele. «La rapida espansione economica per l’alta tecnologia della sicurezza creò un forte desiderio nei settori ricchi e potenti di Israele di abbandonare la pace a favore di una lotta per la continua espansione della “guerra al terrore”», ricorda la Klein. Comodissimo, quindi, il conflitto coi palestinesi: non già come «battaglia contro un movimento nazionalista con mete specifiche al riguardo della terra e dei diritti», ma come «parte della guerra globale al terrorismo, come se fosse una guerra contro forze fanatiche e illogiche basate esclusivamente su obiettivi di distruzione».Israele sa che la pace non rende, scrisse su “Haaretz” nel 2009 Amira Hass, una delle poche voci critiche coraggiose nei media israeliani. L’industria della sicurezza? Fondamentale, per l’export: armi e munizioni si provano tutti i giorni a Gaza e in Cisgiordania. La protezione degli insediamenti? «Richiede uno sviluppo costante della sicurezza, la vigilanza e la dissuasione con strumenti come barriere, fili spinati, videocamere di vigilanza elettroniche e robot». Questi dispositivi «sono l’avanguardia della sicurezza nel mondo sviluppato e servono per le banche, le imprese e i quartieri di lusso a lato dei quartieri malfamati e delle enclavi etniche dove bisogna reprimere le ribellioni». Oggi, i palestinesi “rendono” ancora in un solo modo: come cavie, come bersagli. E se “la pace non rende”, si può immaginare chi investa sulla guerra, il grande business dell’Occidente sfinito dalla crisi e dominato dall’oligarchia globalista, di cui fa parte pienamente anche l’élite israeliana. Quella che ha strappato ai palestinesi le loro terra, ne ha fatto strage (pulizia etnica), ha sfruttato a lungo i superstiti, ma ora li considera “umanità eccedente”, sgradevole, da eliminare in ogni modo. Non c’è più posto, per loro: si accomodino pure sul Sinai, nel deserto.Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.
-
German Act, agonia europea imposta dalle banche tedesche
Nel Jobs Act non vi è alcun elemento né innovativo né rivoluzionario, tutto già visto 15-20 anni fa. E’ una creatura del passato che getta le proprie basi nella riforma del mercato anglosassone di stampo blairiano, nell’agenda sul lavoro del 2003 in Germania e, più in generale, nelle ricerche dell’Ocse della metà anni ’90. Inoltre si tratta di una legge delega, un grosso contenitore semivuoto che sarà riempito nei prossimi mesi o chissà quando. Non mi sembra un provvedimento che arginerà la piaga della precarietà né che rilancerà l’occupazione nel paese. Il Jobs Act potrebbe tranquillamente esser stato scritto da un ministro di un passato governo Berlusconi. Non a caso Maurizio Sacconi è uno dei politici più entusiasti. Renzi continua nel solco di politiche di destra impostate sul taglio ai diritti sul lavoro, sulla compressione salariale e sulla possibilità di un maggiore controllo delle imprese sui dipendenti, vedi l’uso delle telecamere.Negli ultimi mesi ad esser cambiata è la Cgil. In diversi frangenti non ha contrastato i nefasti provvedimenti avanzati dai governi, come nel caso della riforma pensionistica. Ha accettato supinamente leggi micidiali e lo smantellamento del nostro welfare. Sul Jobs Act è stata incisiva mettendo in piedi una dura resistenza. E le divergenze tra Cgil e Fiom – che invece ha sempre mantenuto la barra dritta – ora sono minori, questo va salutato positivamente. Dagli anni ’90 i socialisti europei e le differenti branche della socialdemocrazia hanno abdicato e sono stati contagiati dall’ideologia neoliberale, abbracciando così l’idea dei mercati da anteporre alla democrazia, alla finanza che disciplina i governi. In questo quadro, le affermazioni del premier sono vuote, alle invettive non corrispondono i fatti: il Jobs Act e la Legge di Stabilità ne sono la palese prova. Persiste l’ortodossa ubbidienza ai diktat dell’Europa, Renzi non è altro che un fedele esecutore della Troika. Siamo lontani dal contrastare le politiche imposte da Bruxelles.La sinistra italiana come espressione di massa di fatto non esiste più. Sono rimaste delle schegge, anche interessanti, ma politicamente ininfluenti soprattutto di fronte a quel che dovrebbe essere il domani di una sinistra in grado di rappresentare una valida opzione e un’opposizione solida in Parlamento. In Europa, “Podemos” e Syriza rappresentano segnali importanti, iniziano ad avere una valenza di massa. In generale, le recenti elezioni hanno confermato quasi ovunque governi di destra o, ad essere gentili, di centrodestra. Ciò significa che la maggioranza degli elettori dell’Eurozona preferisce lo status quo, purtroppo. La Germania ha rivotato in massa la cancelliera Angela Merkel e il ministro Wolfgang Schäuble malgrado le politiche restrittive e del rigore.La sinistra in Italia? Il futuro non è prevedibile, bisogna costruirlo. E di certo nel paese esistono milioni di persone mosse da ideali e sensibilità di sinistra, alla ricerca di una nuova modalità di aggregazione. Le varie schegge esistenti dovrebbero riformularsi, diventare un’unica forza per poter così rappresentare una reale alternativa. Ma c’è molta strada da percorrere, molta. Nell’euro ci siamo, consci che ci sono gravissimi problemi che andrebbero analizzati e discussi, mentre Bruxelles e in primis la Germania lo vietano in maniera categorica. Il trasferimento di poteri da Roma a Bruxelles forse è andato oltre anche a quel che era previsto a Maastricht. Viviamo in un’Europa delle diseguaglianze, che necessita di alcuni urgenti interventi. Al momento non sembra ci siano le condizioni: la Commissione non vuole modificare la propria linea economica, con Juncker sostenuto convintamente dalla Germania. L’euro sarà destinato a propagare guai ancora per molto tempo e l’emissione in Italia di Certificati di Credito Fiscale (Ccf) potrebbe mitigare i disastri della moneta unica.Pablo Iglesias, leader di Podemos, parla esplicitamente di una Spagna “colonia della Germania”? Il termine colonia è un po’ forte. Però di fatto le politiche che stanno strangolando i paesi con tagli alla spesa pubblica, con l’ossessione dell’avanzo primario – quindi tartassare sempre maggiormente i cittadini e nello stesso momento diminuire servizi – sono procedimenti suicidi e insensati. E molte di queste imposizioni sono volute dalla Germania. Dietro alla durezza del governo tedesco ci sono le banche tedesche che si erano esposte con l’acquisto di titoli internazionali. La Germania ha pensato di salvare le proprie banche. Forse non siamo una colonia, di certo soggetti ad una forma di imposizione esterna. Come noi anche gli altri paesi dell’Europa del Sud, e anche la Francia: è sempre la seconda economia dell’Eurozona e ha legami storici con la Germania dai tempi di Mitterrand, ma ha subito forti pressioni ed è stata costretta a tagliare salari, pensioni e sanità. Lo stesso governo tedesco ha introdotto nel proprio paese le misure d’austerity, a partire dall’agenda 2010 del 2003, arrivando alla creazione del settore dei lavoratori poveri più ampio d’Europa: 15 milioni di persone che guadagnano meno di 6 euro l’ora oppure occupati 15 ore alla settimana per 450 euro al mese. E 15 milioni è circa un quarto della forza lavoro tedesca.(Luciano Gallino, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Il Jobs Act, una pericolosa riforma di destra”, pubblicata da “Micromega” il 2 dicembre 2014).Nel Jobs Act non vi è alcun elemento né innovativo né rivoluzionario, tutto già visto 15-20 anni fa. E’ una creatura del passato che getta le proprie basi nella riforma del mercato anglosassone di stampo blairiano, nell’agenda sul lavoro del 2003 in Germania e, più in generale, nelle ricerche dell’Ocse della metà anni ’90. Inoltre si tratta di una legge delega, un grosso contenitore semivuoto che sarà riempito nei prossimi mesi o chissà quando. Non mi sembra un provvedimento che arginerà la piaga della precarietà né che rilancerà l’occupazione nel paese. Il Jobs Act potrebbe tranquillamente esser stato scritto da un ministro di un passato governo Berlusconi. Non a caso Maurizio Sacconi è uno dei politici più entusiasti. Renzi continua nel solco di politiche di destra impostate sul taglio ai diritti sul lavoro, sulla compressione salariale e sulla possibilità di un maggiore controllo delle imprese sui dipendenti, vedi l’uso delle telecamere.
-
Ciao Usa, l’oro di Putin rottama l’impero militare del dollaro
L’oro di Putin contro le atomiche di Obama. Chi vincerà? La Russia, facendo crollare l’impero del dollaro, avendo con sé la Cina e la maggior parte della popolazione terrestre, a cominciare dalle economie emergenti dei Brics. Washingon è in trappola, sostiene Dmitry Kalinichenko, perché l’unica scorciatoia possibile – la guerra contro Mosca – non è un’opzione realistica: la Nato e il Pentagono non riuscirebbero né a invadere la Russia, né a uscire indenni da un eventuale attacco atomico contro il Cremlino. In ogni caso la situazione è drammatica, avverte Kalinichenko, anche se «tutti i media occidentali e i principali economisti occidentali non ne parlano, come fosse un segreto militare ben custodito». Parla da solo il fallimento dell’offensiva occidentale in Ucraina: «Non è né militare né politico, ma risiede nel rifiuto di Putin di finanziare i piani occidentali per l’Ucraina». Questione di soldi: Putin scommette sulla fine accelerata del dollaro. Come? Accumulando oro, comprato a basso costo: oro svalutato artificialmente dall’Occidente per tenere alto il valore del dollaro.«La vera politica di Putin non è pubblica», afferma Kalinichenko in post ripreso da “Megachip”. Per questo, pochissimi capiscono le attuali mosse del Cremlino. «Oggi, Putin vende petrolio e gas russi solo in cambio di “oro fisico”», ma «non lo grida ai quattro venti, e naturalmente accetta ancora il dollaro come mezzo di pagamento». Ma, attenzione, «cambia immediatamente tutti i dollari ottenuti dalla vendita di petrolio e gas con l’oro fisico». Basta osservare la vorticosa crescita delle riserve auree della Russia e confrontarle con le entrate in valuta estera della Federazione Russa dovute alla vendita di petrolio e gas nello stesso periodo. Nel terzo trimestre 2014, gli acquisti da parte della Russia di “oro fisico” sono i più alti di tutti i tempi, a livelli record. Nello stesso periodo, le banche centrali di tutti i paesi del mondo hanno acquistato 93 tonnellate del prezioso metallo, dopo 14 trimestri di acquisti ininterrotti. Ma, di queste 93 tonnellate, ben 55 sono state acquisite dalla Russia.Per gli scienziati britannici e la “Us Geological”, l’Europa non potrà sopravvivere senza l’offerta energetica russa, cioè se il petrolio e il gas della Russia saranno sottratti dal bilancio globale dell’offerta energetica. «Così, il mondo occidentale, costruito sull’egemonia del petrodollaro, si trova in una situazione catastrofica, non potendo sopravvivere senza petrolio e gas dalla Russia. E la Russia – aggiunge Kalinichenko – è pronta a vendere petrolio e gas all’Occidente solo in cambio dell’oro fisico». La svolta, nel gioco di Putin, è che il meccanismo della vendita di energia russa all’Occidente solo con l’oro «funziona indipendentemente dal fatto che l’Occidente sia d’accordo o meno nel pagare petrolio e gas russi con il suo oro, tenuto artificialmente a buon mercato». Questo perché la Russia, avendo un flusso regolare di dollari dalla vendita di petrolio e gas, «in ogni caso potrà convertirli in oro ai prezzi attuali, depressi con ogni mezzo dall’Occidente», attraverso le manovre della Fed e dell’Esf, (Exchange Stabilization Fund), che abbassano il prezzo dell’oro per sorreggere un dollaro dal potere d’acquisto artificialmente gonfiato dalle manipolazioni nel mercato.Nel mondo finanziario, continua Kalinichenko, è assodato che l’oro sia un fattore anti-dollaro: nel 1971, Richard Nixon chiuse la “finestra d’oro”, ponendo fine al libero scambio tra dollari e oro, garantito dagli Stati Uniti nel 1944 a Bretton Woods. Ma ora, «Putin ha riaperto la “finestra d’oro”, senza chiedere il permesso a Washington». Premessa: «In questo momento, l’Occidente spende gran parte di sforzi e risorse nel comprimere i prezzi di oro e petrolio. In tal modo, da un lato distorce la realtà economica esistente a favore del dollaro statunitense, e d’altra parte vuole distruggere l’economia russa che si rifiuta di svolgere il ruolo di vassallo obbediente dell’Occidente». Oggi, oro e petrolio sono molto sottovalutati, rispetto al dollaro. Sicché, «Putin vende risorse energetiche russe in cambio di quei dollari artificialmente gonfiati dagli sforzi dell’Occidente, e con cui compra oro artificialmente svalutato rispetto al dollaro». Idem per l’uranio russo, da cui dipende «una lampadina americana su sei». Attenzione: «Putin usa questi dollari solo per ritirare “oro fisico” dall’Occidente al prezzo denominato in dollari Usa e quindi artificialmente abbassato dallo stesso Occidente». Ma la mossa dell’Occidente – svalutare l’oro per rivalutare il dollaro – gli si ritorce contro: quell’oro, Putin lo sta comprando sottocosto.Il cervello della «trappola economica dell’oro tesa all’Occidente», aggiunge Kalinichenko, probabilmente è il consigliere economico di Putin, Sergej Glazev, non a caso incluso da Washington nella lista nera dei “sanzionati”. Minacce inutili: il piano è perfettamente condiviso dal leader cinese Xi Jinping. Dalla Banca Centrale di Russia, intanto, Ksenia Judaeva fa sapere che la Bcr può utilizzare l’oro delle sue riserve per pagare le importazioni, se necessario: importazioni ovviamente provenienti dai Brics, date le sanzioni occidentali. Conviene a tutti, a cominciare da Pechino: per la Cina, la volontà della Russia di pagare le merci con l’oro occidentale è molto vantaggiosa. Infatti, spiega Kalinichenko, Pechino ha annunciato che cesserà di aumentare le riserve auree e valutarie denominate in dollari. Considerando il crescente deficit commerciale tra Usa e Cina (la differenza attuale è cinque volte a favore della Cina), questa dichiarazione tradotta dal linguaggio finanziario dice: “La Cina non vende più i suoi prodotti in cambio dei dollari”.«I media mondiali hanno scelto di non far notare questo storico passaggio monetario», rileva Kalinichenko. «Il problema non è che la Cina si rifiuti letteralmente di vendere i propri prodotti in dollari Usa». Come la Russia, anche la Cina continuerà ad accettare i dollari come mezzo di pagamento intermedio per i propri prodotti. «Ma, appena presi, se ne sbarazzerà immediatamente, sostituendoli con qualcosa di diverso», cioè l’oro. Di fatto, Pechino non acquisterà più titoli del Tesoro degli Stati Uniti con i dollari guadagnati dal commercio mondiale, come ha fatto finora. Così, «sostituirà i dollari che riceverà per i suoi prodotti, non solo dagli Usa ma da tutto il mondo, con qualcos’altro» appositamente «per non aumentare le riserve valutarie in oro denominate in dollari Usa». D’ora in poi solo oro, quindi, anche per i cinesi. Politica di fatto già inaugurata da Russia e Cina, per i loro scambi bilaterali: «La Russia acquista merce direttamente dalla Cina con l’oro al prezzo attuale, mentre la Cina compra risorse energetiche russe con l’oro al prezzo attuale». Il dollaro? Archiviato.Tutto questo non sorprende, dice Kalinichenko, perché il biglietto verde non è un prodotto cinese, né una risorsa energetica russa. «È solo uno strumento finanziario intermedio di liquidazione». E se l’intermediario non conviene più, visto che i partner sono ormai in relazione diretta, viene escluso. Le speranze occidentali che Russia e Cina, per le loro risorse energetiche e beni, accettino in pagamento “shitcoin” o il cosiddetto “oro cartaceo” di vario genere, non si sono concretizzate: «Russia e Cina sono interessate solo all’oro, metallo fisico, come mezzo di pagamento finale». Il fatturato del mercato dell’oro cartaceo, quello dei “futures” sull’oro, è stimato sui 360 miliardi di dollari al mese, ma le consegne fisiche di oro sono pari solo a 280 milioni di dollari al mese. «Il che fa sì che il rapporto tra commercio di oro cartaceo contro oro fisico sia pari a 1000 a 1». Sicché, «utilizzando il meccanismo di recesso attivo dal mercato, artificialmente ribassato dall’attività finanziaria occidentale (oro), in cambio di un altro artificialmente gonfiato dall’attività finanziaria occidentale (dollaro), Putin ha così iniziato il conto alla rovescia della fine dell’egemonia mondiale del petrodollaro».In questa maniera, prosegue Kalinichenko, il presidente russo «ha messo l’Occidente in una situazione di stallo, priva di alcuna prospettiva economica positiva». L’Occidente, infatti, «può usare la maggior parte dei suoi sforzi e risorse per aumentare artificialmente il potere d’acquisto del dollaro, nonché ridurre artificialmente i prezzi del petrolio e il potere d’acquisto dell’oro», ma il suo problema è che «le scorte di oro fisico in suo possesso non sono illimitate». Risultato: «Più l’Occidente svaluta petrolio e oro contro dollaro statunitense, più velocemente svaluterà l’oro dalle sue non infinite riserve». Il metallo prezioso detenuto da Usa ed Europa, e pesantemente svalutato, finisce quindi rapidamente in Russia e in Cina, ma anche in Brasile, in India, in Kazakhstan e negli altri paesi Brics. «Al ritmo attuale di riduzione delle riserve di “oro fisico”, l’Occidente semplicemente non avrà tempo di fare nulla contro la Russia di Putin, fino al crollo dell’intero mondo del petrodollaro occidentale». Scacco matto?«Il mondo occidentale non ha mai affrontato eventi e fenomeni economici come quelli attuali», sostiene Kalinichenko. «L’Urss vendette rapidamente oro durante la caduta dei prezzi del petrolio», mentre la Russia di Putin, al contrario, «acquista rapidamente oro durante la caduta dei prezzi del petrolio», minando il monopolio finanziario del dollaro statunitense. «Il principio fondamentale del modello mondiale basato sul petrodollaro permette che i paesi occidentali guidati dagli Stati Uniti vivano a spese del lavoro e delle risorse di altri paesi e popoli, grazie al ruolo della moneta statunitense, dominante nel Sistema Monetario Globale (Smg). Il ruolo del dollaro Usa nell’Smg consiste nell’essere il mezzo ultimo di pagamento. Ciò significa che la moneta nazionale degli Stati Uniti, nella struttura dell’Smg, è l’accumulatore finale degli attivi patrimoniali, e scambiarlo con qualsiasi altro bene non avrebbe senso». Quel che fanno ora i paesi Brics, guidati da Russia e Cina, consiste invece nel cambiare, di fatto, il ruolo e lo status del dollaro Usa nel sistema monetario globale: da «ultimo mezzo di pagamento e accumulazione del patrimonio», la moneta Usa «viene trasformata in un mero mezzo di pagamento intermedio, destinato solo allo scambio con un’altra attività finanziaria ultima: l’oro», che come il dollaro è «un bene monetario riconosciuto», col vantaggio di essere «denazionalizzato e depoliticizzato».Impensabile, ovviamente, che gli Stati Uniti accettino una sconfitta epocale e planetaria così bruciante. E qui, infatti, entriamo in zona-pericolo. «Tradizionalmente, l’Occidente utilizza due metodi per eliminare la minaccia all’egemonia mondiale del modello fondato sul petrodollaro e ai conseguenti eccessivi privilegi occidentali. Uno di questi metodi è costituito dalle “rivoluzioni colorate”. Il secondo metodo, di solito applicato dall’Occidente se il primo fallisce, sono le aggressioni militari e i bombardamenti. Ma nel caso della Russia entrambi questi metodi sono impossibili o inaccettabili per l’Occidente», afferma Kalinichenko. Intanto, tutta la popolazione russa è con Putin: impossibile fabbricare una “rivoluzione colorata” per eliminare il capo del Cremlino. Restano le armi, cioè i missili. Ma la Russia non è la Jugoslavia, né l’Iraq, né la Libia. «In ogni operazione militare non-nucleare contro la Russia, sul territorio della Russia, l’Occidente guidato dagli Stati Uniti è destinato alla disfatta. E i generali del Pentagono che esercitano la vera guida delle forze della Nato ne sono consapevoli». Una guerra nucleare? «Sarebbe egualmente senza speranza», perché la Nato «non è tecnicamente in grado di infliggere un colpo che disarmi completamente la Russia del potenziale nucleare». La rappresaglia equivarrebbe all’apocalisse: sarebbe «la nota finale e l’ultimo punto dell’esistenza della Storia», cioè «la fine della vita sul pianeta, fatta eccezione per i batteri».I principali economisti occidentali, conclude Kalinichenko, sono certamente consapevoli di quanto grave e disperata sia la situazione in cui si trova l’Occidente, caduto nella trappola economica d’oro predisposta da Putin. «Sin dagli accordi di Bretton Woods conosciamo tutti la regola aurea, “Chi ha più oro detta le regole”. Ma in Occidente stanno tutti zitti. Sono silenziosi perché nessuno sa come uscire da tale situazione». Se si svelassero all’opinione pubblica occidentale tutti i dettagli del disastro economico incombente, l’élite del sistema basato sul petrodollaro si troverebbe a dover rispondere alle domande più terribili. Ovvero: per quanto ancora l’Occidente potrà acquistare petrolio e gas dalla Russia in cambio di oro fisico? E cosa accadrà ai petrodollari Usa dopo che l’Occidente esaurirà l’oro fisico per pagare petrolio, gas e uranio russi, così come per pagare le merci cinesi? «Nessuno in Occidente oggi può rispondere». E questo, aggiunge Kalinichenko, si chiama davvero scacco matto.L’oro di Putin contro le atomiche di Obama. Chi vincerà? La Russia, facendo crollare l’impero del dollaro, avendo con sé la Cina e la maggior parte della popolazione terrestre, a cominciare dalle economie emergenti dei Brics. Washingon è in trappola, sostiene Dmitry Kalinichenko, perché l’unica scorciatoia possibile – la guerra contro Mosca – non è un’opzione realistica: la Nato e il Pentagono non riuscirebbero né a invadere la Russia, né a uscire indenni da un eventuale attacco atomico contro il Cremlino. In ogni caso la situazione è drammatica, avverte Kalinichenko, anche se «tutti i media occidentali e i principali economisti occidentali non ne parlano, come fosse un segreto militare ben custodito». Parla da solo il fallimento dell’offensiva occidentale in Ucraina: «Non è né militare né politico, ma risiede nel rifiuto di Putin di finanziare i piani occidentali per l’Ucraina». Questione di soldi: Putin scommette sulla fine accelerata del dollaro. Come? Accumulando oro, comprato a basso costo: oro svalutato artificialmente dall’Occidente per tenere alto il valore del dollaro.
-
Stampano moneta e comprano noi, poveri euro-fessi
Stampare moneta per l’economia reale, contro lo strapotere del sistema finanziario. Moneta funzionale, emessa direttamente dallo Stato o dalla “banca centrale di emissione”, di cui il potere pubblico assuma il governo. Obiettivo: fornire «tutto il denaro necessario a fare gli investimenti pubblici diretti», destinati a incentivare «occupazione, domanda interna, adeguamento infrastrutturale, innovazione scientifico-tecnologica, assicurando al contempo l’impossibilità del default». Per Marco Della Luna, è esattamente ciò che servirebbe per «uscire dall’attuale recessione-deflazione, dopo il fallimento ormai visibile delle ricette dell’austerità e del quantitative easing, difese oramai soltanto da soggetti in malafede e per interesse». Di fronte alla possibilità di creazione monetaria, il neoliberismo obietta: non si può immettere moneta a piacimento nell’economia, perché ci deve essere un rapporto tra quantità di moneta e quantità di beni, altrimenti la moneta si svaluta o si generano bolle speculative, mobiliari e immobiliari. L’alternativa? Ce l’abbiamo sotto gli occhi, e si chiama disastro.Se la moneta aggiuntiva viene usata per aumentare la produzione, quindi l’offerta di beni e servizi, allora non vi sarà inflazione monetaria (ossia aumento generalizzato dei prezzi), mentre vi sarà un aumento della ricchezza prodotta e del reddito, oltre che dell’occupazione. Certo, aggiunge Della Luna, questa moneta in più «bisogna spenderla bene, e una classe dirigente avida e idiota, come tale selezionata, non lo può fare». Se invece la moneta aggiuntiva viene usata per acquistare titoli finanziari e immobili, «allora vi sarà una salita dei valori delle Borse e degli immobili, e questo fa piacere a tutti gli investitori mobiliari e immobiliari». E se anche vi fosse, come conseguenza dell’immissione monetaria, una certa inflazione iniziale, «questa aiuterebbe i debitori (cioè gli Stati, molte imprese, molti privati) e danneggerebbe i creditori non indicizzati all’inflazione, mentre stimolerebbe le spese che oggi vengono differite perché si prevede un calo o una costanza dei prezzi, il che alimenta la deflazione». Quindi, nel complesso, «dopo la presente deflazione, una certa inflazione o reflazione sarebbe benefica».Oggi, continua Della Luna, il grosso dell’offerta monetaria è assorbito dal settore finanziario-speculativo, ossia da “prodotti” finanziari separati dall’economia reale (produzione, consumi). Sono “prodotti” producibili all’infinito, fino alla saturazione del mercato, cioè all’esaurimento «dell’abilità di collocarli, rifilarli o sbolognarli ai clienti ingenui, allorquando una bolla sta per scoppiare». Problema: questo settore dell’economia assorbe il grosso dell’offerta monetaria, «lasciando a secco della fisiologica liquidità il mercato dei beni-servizi reali e degli investimenti per produrli». Ed ecco il paradosso di oggi: «Da un lato un’esorbitante creazione-offerta di moneta, che le banche centrali creano e mettono a disposizione, in quantità enormi, non dell’economia reale ma delle banche universali per le loro speculazioni finanziarie, improduttive anzi distruttive, e dall’altro una carestia di moneta nell’economia reale, cui le medesime banche (in Italia) fanno sempre meno credito, con conseguente declino-insufficienza di domanda solvibile e di possibilità di investimento e occupazione – onde la deflazione».In altre parole, l’offerta di moneta «è eccessiva per il settore finanziario, da cui viene continuamente alimentata, mentre è gravemente insufficiente per quello reale, a cui viene continuamente ridotta». Primo passo: non solo «separare le banche di credito e risparmio da quelle speculative», ma anche «fare in modo che la liquidità del settore produttivo, dell’economia reale (quello da cui dipendono gli stipendi, il cibo, i servizi) sia assicurata e protetta dalle interferenze e distrazioni del settore finanziario, molto più grosso e turbolento». Della Luna Parla di «anemizzazione monetaria dell’economia reale», con detentori di liquidità che “tesaurizzano” gli investimenti anche all’estero, mentre il prelievo fiscale imposto dal Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità, drena altro denaro dal sistema-Italia, insieme al regime di austerity europea che impone «la realizzazione forzata di avanzi primari del bilancio pubblico e il pagamento di alti interessi a detentori esteri di titoli del debito pubblico». Domanda: «In una situazione di recessione interna e fuga verso l’estero di imprenditori, lavoratori qualificati e capitali, che cosa potrebbe essere più demenziale che imporre tasse al paese per sostenere il debito pubblico di paesi in crisi (Spagna, Grecia) al fine puntellare una valuta, l’euro, che ostacola le esportazioni e induce la deindustrializzazione del paese?».«Eppure gli italiani hanno dato fiducia persino a chi ha fatto questo», continua Della Luna. «Si aggiunga, infine, a questo museo degli orrori dell’imbecillità politica, o dell’alto tradimento istituzionale – se preferite – il fatto che la deprivazione-anemizzazione monetaria del paese, di cui sopra, fa sì che gli asset produttivi migliori – industria, commercio, finanza, alberghi, terreni agricoli pregiati – si deprezzino e vengano massicciamente comperati da soggetti-capitali finanziari stranieri, e che quindi il reddito generato da questi asset esca dal reddito nazionale italiano, divenendo reddito dei paesi che li comperano». E l’auto-privazione monetaria, che produce tutti questi mali, non è che un trucco: perché la moneta sovrana «è solo un simbolo e non ha costi o limiti di produzione intrinseci», e i paesi stranieri che rastrellano le nostre migliori aziende «lo possono fare appunto perché fanno la scelta opposta all’auto-privazione monetaria, ossia perché scelgono di produrre a costo zero grandi masse di moneta-simbolo». Che dire: «Il quadro dell’idiozia totale è perfetto. Non resta che ringraziare i nostri governanti nazionali ed europei e le nostre banche centrali, e lusingarci per tutti i consensi, i voti, le tasse e gli onori che continuiamo tributare loro».Stampare moneta per l’economia reale, contro lo strapotere del sistema finanziario. Moneta funzionale, emessa direttamente dallo Stato o dalla “banca centrale di emissione”, di cui il potere pubblico assuma il governo. Obiettivo: fornire «tutto il denaro necessario a fare gli investimenti pubblici diretti», destinati a incentivare «occupazione, domanda interna, adeguamento infrastrutturale, innovazione scientifico-tecnologica, assicurando al contempo l’impossibilità del default». Per Marco Della Luna, è esattamente ciò che servirebbe per «uscire dall’attuale recessione-deflazione, dopo il fallimento ormai visibile delle ricette dell’austerità e del quantitative easing, difese oramai soltanto da soggetti in malafede e per interesse». Di fronte alla possibilità di creazione monetaria, il neoliberismo obietta: non si può immettere moneta a piacimento nell’economia, perché ci deve essere un rapporto tra quantità di moneta e quantità di beni, altrimenti la moneta si svaluta o si generano bolle speculative, mobiliari e immobiliari. L’alternativa? Ce l’abbiamo sotto gli occhi, e si chiama disastro.
-
Sinistra-fantasma, non ci ha difeso da Berlino né dall’euro
Proseguendo con le politiche di austerity l’Eurozona è destinata a deflagrare. Per questo, una sinistra degna di questo nome avrebbe il dovere di ragionare anche sulle modalità di uscita dalla moneta unica, per non lasciare il campo soltanto alle destre. Nel 2011 fui invitato a Parigi dal Partito socialista europeo a presentare lo “standard retributivo”, una proposta per interrompere la gara al ribasso tra i salari dei paesi membri dell’Unione. Ma i tedeschi si opposero. Di quella, come di altre ipotesi di coordinamento europeo, anche le più blande, non se ne fece nulla. Anzi, da allora i conflitti tra paesi sono aumentati. Sotto l’influenza del governo tedesco, a Napoli il recente vertice Bce ha ribadito che i singoli Stati nazionali dovranno restare fedeli alla linea dell’austerity. Inoltre, dal vertice è emerso un altro elemento che getta nuove ombre sul futuro dell’Eurozona. Draghi ha annunciato che la Bce immetterà sul mercato nuova liquidità per un ammontare complessivo fino a 1.000 miliardi in due anni. Sembrano tanti soldi, eppure da molti è stato considerato un intervento insufficiente.Il motivo possiamo comprenderlo facendo un confronto con altre banche centrali, ad esempio la Federal Reserve. Dall’inizio della crisi, la banca centrale statunitense ha effettuato acquisti di titoli e conseguenti emissioni di moneta per un ammontare tale da quintuplicare il suo bilancio. La Bce, invece, non lo ha nemmeno raddoppiato. Questo raffronto chiarisce che dovremmo sfatare l’opinione comune secondo cui Draghi sarebbe pronto a fare “tutto ciò che è necessario” per stabilizzare l’Eurozona. In realtà, messi a confronto con quelli di altre istituzioni, i suoi interventi sono stati abbastanza modesti. Nell’Eurozona registriamo da tempo un dissidio sulle interpretazioni dei vincoli europei, che vede la Germania e i suoi satelliti da un lato e l’Italia e gli altri Stati del Sud Europa dall’altro. Adesso nel conflitto viene coinvolta apertamente anche la Francia, che per un certo periodo si era tenuta un po’ in disparte ma che adesso inizia anch’essa a patire gli effetti dell’austerity. Temo però che non esistano le condizioni politiche per convincere il governo tedesco ad accettare finalmente una svolta negli indirizzi europei.Non vedo svolte di politica economica all’orizzonte. La mia opinione è che i paesi del Sud Europa avrebbero dovuto insistere sul fatto che in gioco è il futuro non solo della moneta unica ma anche del mercato unico europeo. Solo così, forse, avremmo potuto persuadere i tedeschi. Ma una trattativa del genere non è mai nemmeno iniziata. Ora mi sembra tardi. Il problema è che, come è stato ormai evidenziato dalla più autorevole letteratura scientifica, insistere con le politiche di austerity e di precarizzazione significa accrescere i divari tra paesi forti e paesi deboli. A lungo andare, come segnala il “monito degli economisti”, la forbice risulterà insostenibile e ai decisori politici non resterà altro che una scelta tra modi alternativi di uscita dall’Eurozona, ognuno dei quali può avere effetti diversi sulle diverse classi sociali. Sarebbe ora che tale punto entrasse nell’agenda politica delle forze politiche e sociali che si considerano eredi, più o meno degne e dirette, della tradizione del movimento dei lavoratori. Le destre nazionaliste, reazionarie e al limite xenofobe, appaiono prontissime a cogliere l’occasione di una crisi dell’euro. Le sinistre europee, invece, sembrano del tutto imbambolate. Verso una débacle storica.L’ex viceministro Pd Stefano Fassina parla di “disintegrazione caotica della moneta unica” e di “insostenibilità dell’euro”? Se si volesse far sul serio, bisognerebbe ripartire dai fondamenti. Per lungo tempo a sinistra ha prevalso un’idea astratta e retorica della globalizzazione e dell’europeismo. Un’idea basata sul convincimento che l’indiscriminata apertura ai mercati globali e l’unificazione monetaria europea potessero creare le condizioni per una maggiore convergenza tra lavoratori di diversi paesi, e quindi per un nuovo internazionalismo del lavoro. Ma la realtà si è rivelata molto più complessa. Basti notare che dall’introduzione dell’euro i differenziali salariali tra i diversi paesi non sono diminuiti ma al contrario sono aumentati. Anche questo ha reso difficile l’avvio di qualsiasi forma di coordinamento europeo della contrattazione. La sinistra, se ne esiste ancora una, dovrebbe partire da una revisione critica di quell’europeismo retorico e privo di aderenza ai fatti che per tanti anni l’ha caratterizzata. L’uscita dall’euro un salto nel buio? Abbiamo mostrato, dati alla mano, che i nemici della moneta unica sottovalutano i problemi di una eventuale uscita dall’Eurozona, per esempio riguardo ai salari o alle possibili acquisizioni estere di capitali nazionali. Questi problemi evidenziano che una uscita dall’euro andrebbe accompagnata da opportune politiche di salvaguardia, in primo luogo dei lavoratori. Ma i difensori dell’euro, che agitano il pericolo del salto nel buio, sono talvolta capaci di errori analitici anche più gravi.Prendiamo ad esempio il rischio di fughe di capitali. La verità è che queste già avvengono dentro l’Eurozona. I capitali sono fuggiti dalla Grecia nel 2010, da Italia, Spagna e Irlanda nel 2011, e più di recente le fughe di capitale hanno colpito Cipro, dove per arginarle è stato persino ipotizzato un ripristino dei controlli sui movimenti di capitale. Un tipico errore in malafede degli apologeti dell’euro è quello di evocare lo spettro di quel che succederebbe fuori senza considerare che i disastri che già si stanno già verificando dentro l’Eurozona. Intanto la Troika detta le politiche di austerity che portano a maggiore flessibilità, privatizzazioni e smantellamento di quel che resta dello Stato sociale. In Italia, il governo giustifica il Jobs Act sostenendo che occorre rendere il mercato del lavoro italiano più flessibile, più equo e più simile a quello della Germania. In realtà i dati Ocse mostrano che le riforme Treu, Biagi e Fornero hanno determinato una caduta delle tutele dei lavoratori italiani che è stata addirittura tripla rispetto alla riduzione delle protezioni che nello stesso periodo si è registrata in Germania.Gli indici dell’Ocse mostrano che ormai i lavoratori a tempo indeterminato in Italia sono meno protetti che in Germania. Inoltre, quando si parla di “apartheid” del mercato del lavoro, cioè di un divario tra protetti e precari, bisognerebbe ricordare che in Germania quel divario è triplo rispetto all’Italia. Infine, bisognerebbe smetterla con questa litania secondo cui una maggiore precarizzazione del mercato del lavoro riduce la disoccupazione. Questa tesi è stata seccamente smentita da vent’anni di ricerche empiriche. Dunque il Jobs Act si fonda su tesi false e per questo andrebbe respinto al mittente. Quanto al Tfr in busta paga, è un’anticipazione che rischia solo di deteriorare ulteriormente i risparmi dei lavoratori e che avrà effetti sulla crescita risibili. E’ l’ennesima dimostrazione che quella di Renzi non è una politica definibile tradizionalmente di “centro”: in realtà il governo segue una linea demagogica e populista.(Emiliano Brancaccio, estratti delle dichiariazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “L’Ue è fallita, la sinistra ragioni sull’euro”, pubblicata da “Micromega” il 7 ottobre 2014).Proseguendo con le politiche di austerity l’Eurozona è destinata a deflagrare. Per questo, una sinistra degna di questo nome avrebbe il dovere di ragionare anche sulle modalità di uscita dalla moneta unica, per non lasciare il campo soltanto alle destre. Nel 2011 fui invitato a Parigi dal Partito socialista europeo a presentare lo “standard retributivo”, una proposta per interrompere la gara al ribasso tra i salari dei paesi membri dell’Unione. Ma i tedeschi si opposero. Di quella, come di altre ipotesi di coordinamento europeo, anche le più blande, non se ne fece nulla. Anzi, da allora i conflitti tra paesi sono aumentati. Sotto l’influenza del governo tedesco, a Napoli il recente vertice Bce ha ribadito che i singoli Stati nazionali dovranno restare fedeli alla linea dell’austerity. Inoltre, dal vertice è emerso un altro elemento che getta nuove ombre sul futuro dell’Eurozona. Draghi ha annunciato che la Bce immetterà sul mercato nuova liquidità per un ammontare complessivo fino a 1.000 miliardi in due anni. Sembrano tanti soldi, eppure da molti è stato considerato un intervento insufficiente.