Archivio del Tag ‘diritti’
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Spyware di Stato: è italiano il software con cui ci spiano
È tutto italiano lo spyware usato da governi e forze di polizia per violare Pc, smartphone e tablet. Le vicende relative allo spionaggio da parte dei governi emerse negli ultimi anni, dai documenti pubblicati da Wikileaks nel 2011 sino al più recente Datagate, hanno una cosa in comune: danno l’impressione di aver coinvolto l’Italia soltanto in qualità di vittima. Eppure, proprio dal nostro paese, e per la precisione da Milano, provengono dei software largamente adoperati da governi e forze di polizia per spiare i cittadini: si tratta del Remote Control System di Hacking Team e dei moduli per dispositivi mobili ad esso collegati. Nonostante il nome inglese, Hacking Team è un’azienda italiana che sviluppa software di controllo e spionaggio destinato alle forze dell’ordine: lo commercializza come Rcs DaVinci e, più di recente, Rcs Galileo. Hacking Team va ripetendo che la sua attività è perfettamente legale; non c’è ragione di dubitarne, semmai è la legittimità dell’uso di questi spyware a essere dubbio.Ma i software hanno attirato l’attenzione delle aziende che si occupano di sicurezza e, negli ultimi tempi, sia CitizenLab sia Kaspersky Labs hanno pubblicato dei rapporti contenenti informazioni interessanti. Dai rapporti emerge come di recente l’attenzione dell’azienda italiana si sia concentrata su smartphone e tablet, e in particolare sui software di spionaggio per iOS e Android, che vanno ad aggiungersi ai “trojan” già realizzati per Windows, Linux e Mac OS X (oltre che per Symbian, Windows Mobile e Blackberry). Tali software sono in grado di prendere il controllo dei moduli Wi-fi e Gps, registrare tutto ciò che il microfono capta (attivandolo anche da remoto), controllare le fotocamere a distanza, leggere le email, gli Sms e gli Mms, consultare l’intera cronologia di navigazione e il calendario, fungere da “keylogger” e accedere alle note e agli appunti.In più, il loro codice è offuscato e sono presenti diversi accorgimenti per far sì che l’utente non si accorga della loro presenza, come accendere il microfono solo in determinate occasioni per evitare che l’eccessivo consumo della batteria faccia insospettire il proprietario dello smartphone o del tablet. La minaccia è, fortunatamente, per certi versi limitata: la versione per iOS funziona solo su quei dispositivi ai quali è stato praticato il “jailbreak” e, in ogni caso, chi vuole installare il software deve avere accesso fisico al dispositivo-bersaglio: non basta, come nel caso di “malware” comune, navigare nel web. Tuttavia, c’è un altro dato dal quale si possono ricavare le preoccupanti dimensioni del fenomeno costituito dallo spionaggio condotto dai governi.“SecureList” ha infatti realizzato una lista dei server dotati di Remote Control System, verso i quali i software di Hacking Team inviano le informazioni raccolte, e gli Stati in cui essi si trovano, cercando di stabilirne anche i proprietari. «Diversi indirizzi Ip», spiega “SecureList”, «sono collegati a entità governative, stando alle informazioni “Whois”». Scopriamo così che gli Usa sono degli utenti particolarmente fedeli di Rcs con 64 server sul suolo nazionale; dietro di loro ci sono Kazakistan (49 server), Ecuador (35 server), Regno Unito (24 server), Cina (15 server) e Polonia (7 server). In questa peculiare classifica l’Italia si trova piuttosto in basso, ma è comunque presente: nel nostro paese ci sono (almeno) 2 server con Remote Control System.(“Spyware di Stato: le app spione del governo”, da “Zeus News” del 1° luglio 2014).È tutto italiano lo spyware usato da governi e forze di polizia per violare Pc, smartphone e tablet. Le vicende relative allo spionaggio da parte dei governi emerse negli ultimi anni, dai documenti pubblicati da Wikileaks nel 2011 sino al più recente Datagate, hanno una cosa in comune: danno l’impressione di aver coinvolto l’Italia soltanto in qualità di vittima. Eppure, proprio dal nostro paese, e per la precisione da Milano, provengono dei software largamente adoperati da governi e forze di polizia per spiare i cittadini: si tratta del Remote Control System di Hacking Team e dei moduli per dispositivi mobili ad esso collegati. Nonostante il nome inglese, Hacking Team è un’azienda italiana che sviluppa software di controllo e spionaggio destinato alle forze dell’ordine: lo commercializza come Rcs DaVinci e, più di recente, Rcs Galileo. Hacking Team va ripetendo che la sua attività è perfettamente legale; non c’è ragione di dubitarne, semmai è la legittimità dell’uso di questi spyware a essere dubbio.
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Tutto online, il lavoro sparisce: vincono solo i miliardari
Nell’era di Internet, la libertà è per pochi: ormai lo ammette anche il compositore Jaron Lanier, pioniere della creatività digitale. Musicista, informatico e imprenditore, Lanier incarna «il tipico prodotto della subcultura di Berkeley, nella quale l’ipermodernità si lega ecletticamente ai linguaggi estetici anni sessanta-settanta, e l’individualismo legittima la piena ricerca del successo e il più spregiudicato utilizzo dei meccanismi della moda», scrive Alessandro Visalli, citando un’intervista di Riccardo Staglianò sul “Venerdì di Repubblica”. «Lanier si è pentito: dopo aver sostenuto per anni che Internet libererà l’uomo, che produrrà un anarcoide e liberato mondo della piena affermazione per tutti, depurato del potere e leggero come le idee, si è accorto che si va nella direzione opposta». Nel suo settore più amato, la musica, «ha visto che tutto cala man mano che il prodotto si diffonde “liberamente”, che le sale da incisione chiudono, i musicisti iniziano a cambiare mestiere, i negozi restano deserti», anche perché ormai con un’iPhone da poche centinaia di euro «si possono ottenere risultati che richiedevano decine di migliaia di euro e il lavoro di molte persone».Sono nati giganti – cui lo stesso Lanier ha venduto ben tre “start-up”– che impiegano la millesima parte dei lavoratori che erano prima impegnati nei loro settori: anche così le strade si svuotano dei negozi, scrive Visalli su “Tempo Fertile”, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Secondo alcune ricerche, è a rischio di ulteriore distruzione il 47% dei mestieri attualmente praticati negli Usa e il 40% della forza lavoro. Esempio: «Kodak, che impiegava 140.000 persone, oltre ad un enorme indotto per la distribuzione e commercializzazione di miliardi di pellicole, poi per il loro sviluppo e conservazione, è stata praticamente sostituita dai telefonini, da qualche app e qualche “social”». Un caso limite è Instagram, che impiega appena 13 dipendenti ed è stata appena venduta per un miliardo di dollari (Kodak ne valeva 28 con tutti i suoi stabilimenti). «Le catene di viaggi cedono a Expedia, Orbitz; le librerie ad Amazon; le case editrici a Kindle e al fenomeno dei libri fai-da-te; i traduttori stanno per essere spazzati via da software di traduzione che impiegano le innumerevoli traduzioni esistenti fatte da uomini, per automatizzarle e renderle sempre migliori con l’uso».Non è tutto: Skype sta per lanciare un servizio di sottotitoli automatico che “farà fuori” gli interpreti (magari insieme a Google Glass); l’istruzione universitaria potrà essere distribuita da Berkeley in tutto il mondo, a decine di milioni di discenti, a prezzi unitari bassissimi; una app (“Uber”) farà fuori i tassisti; altre stanno facendo lo stesso con gli alberghi; arriveranno le Google Car, a sfidare i camionisti; ma la cosa non dovrebbe lasciare tranquilli neppure gli analisti di borsa (“Warren”), i giornalisti, i commercialisti, gli avvocati, gli architetti. «E’ il modello della new economy, “winner takes all”. Ed è basato sullo sfruttamento senza restituzione di valore di una miriade di microcontenuti che sono sommati, resi significativi dall’immensa potenza del “big data”». Questo, continua Visalli, è il punto messo in evidenza da Lanier: il segreto del successo di Google Translate, di Facebook, di Amazon, di You Tube, è che «tutti i contenuti che nelle loro mani diventano oro sono regalati». Cosa resterà? «Sicuramente una élite dotata del capitale culturale, simbolico e informatico per rendersi necessaria nel mondo della iper-rappresentazione che ci si prepara; sono i vincenti che prendono tutto». E poi?«Qui la cosa si fa difficile», prosegue Visalli. «Una polvere di nicchie di mestieri di cura uno-ad-uno, autoprodotti e inventati; l’apologia dell’individualismo estremo. In mezzo? Se nessun meccanismo pubblico o privato (ma regolato) distribuirà le risorse che salgono ai “vincitori”, garantendo che chi veramente le produce (e non solo chi le rende aggregate, visibili e spendibili) ne abbia di che vivere, avremo un centro deserto». In quel caso, «non avremo neppure i mestieri di cura». Fondamentalmente, aggiunge il blogger, l’economia diventerà «un sistema in cui i beni sono prodotti in modo automatico da una piccolissima parte dei lavoratori». La tendenza è scendere molto sotto il 10%, forse sotto il 5%. Si tratta di lavoratori che “valgono” poco e ppercepiscono stipendi molto bassi. «I contenuti linguistici ed estetici – veicoli identitari e di senso primari – sono il vero veicolo di valore, ma si concentrano in pochissime mani; il resto, la grande parte della società, resterà impegnata in circuiti di auto-cura di reciprocità, poveri dal punto di vista monetario, ricchi da quello sociale e antropologico. Una società che potrebbe ricordare il medioevo».Nell’era di Internet, la libertà è per pochi: ormai lo ammette anche il compositore Jaron Lanier, pioniere della creatività digitale. Musicista, informatico e imprenditore, Lanier incarna «il tipico prodotto della subcultura di Berkeley, nella quale l’ipermodernità si lega ecletticamente ai linguaggi estetici anni sessanta-settanta, e l’individualismo legittima la piena ricerca del successo e il più spregiudicato utilizzo dei meccanismi della moda», scrive Alessandro Visalli, citando un’intervista di Riccardo Staglianò sul “Venerdì di Repubblica”. «Lanier si è pentito: dopo aver sostenuto per anni che Internet libererà l’uomo, che produrrà un anarcoide e liberato mondo della piena affermazione per tutti, depurato del potere e leggero come le idee, si è accorto che si va nella direzione opposta». Nel suo settore più amato, la musica, «ha visto che tutto cala man mano che il prodotto si diffonde “liberamente”, che le sale da incisione chiudono, i musicisti iniziano a cambiare mestiere, i negozi restano deserti», anche perché ormai con un’iPhone da poche centinaia di euro «si possono ottenere risultati che richiedevano decine di migliaia di euro e il lavoro di molte persone».
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Meno democrazia: Renzi, il tecno-populista dell’élite
L’Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), negli ultimi vent’anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l’economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo – prima delle merci e del denaro – le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell’illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano – ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso.Effetto culturale, questo, dell’antipolitica capitalista, che per essere sovrano assoluto e culturalmente monopolista deve rimuovere ogni sovrano concorrente. Berlusconi: il populista che prometteva la modernizzazione neoliberale del paese. In realtà, un populismo del cambiare tutto per non cambiare nulla (soprattutto i suoi interessi personali e aziendali).Un populismo aziendalista, con la figura del padre/leader sostituita da quella dell’imprenditore che si è fatto da solo (o quasi), perfetta nell’esprimere il modello culturale che tutti dovevano apprendere: l’edonismo, il godimento immediato, la deresponsabilizzazione egoistica ed egotistica. Per legittimare – questa l’azione appunto culturale, pedagogica prima che economica – le retoriche neoliberiste dell’essere imprenditori di se stessi e della competizione come unica forma di vita.Bossi e la Lega: il mezzo populismo (non solo perché limitato a una parte del territorio), apparentemente il più classico dei populismi con il richiamo alla tradizione, ai simboli di terra e di sangue. All’essere padroni a casa nostra: da intendere però non come sovrani sulla nostra terra ma come padroni nel senso antico del capitalismo. Populismo da piccola impresa, da capitalismo molecolare come versione localistica dell’ordoliberalismo tedesco e della sua pedagogia per imporre il modello impresa all’intera società. Grillo: il populista contestatore, il teorico del net-populismo come forma perfetta della democrazia. Grillo come l’uomo del cambiamento ma incapace di cambiare (dice solo no) e forse populista anche di se stesso. E Matteo Renzi. Un populismo di tipo nuovo ma evoluzione dei precedenti. Perché anch’egli cerca il rapporto diretto con il popolo e lo invoca come propria totalizzante legittimazione. Perché aspira ad essere insieme Partito di Renzi e Partito della Nazione. Un partito-non-partito, tuttavia, ormai anch’esso trasversale – e quasi un non-luogo nel senso di Marc Augé: come un aeroporto, un supermercato, un luogo di consumo di politica.Un populismo che invoca il popolo contro le caste e il sindacato, salvando invece le oligarchie che lo sostengono come un sol uomo; che ha grandi mass-media schierati dalla sua parte e che gli consentono ciò che mai avrebbero consentito a Berlusconi; un populismo fideistico e teologico-politico (noi contro loro, noi il tutto che non accetta il due e il tre e il molteplice e gli eretici; noi il nuovo, gli altri il vecchio). Un populismo che vuole rottamare appunto il vecchio, ma che non rottama, non corregge (una volta si chiamava autocritica, ma il nuovo che avanza travolge anche la memoria) i molti errori del passato: il sì all’austerità, all’articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio. Un populismo finalizzato alla modernizzazione dell’Italia – e ogni populismo è stato, storicamente, anche una via per la modernizzazione, facendo accettare al popolo, in nome del popolo, quelle trasformazioni che altrimenti non sarebbero state possibili per trasformare un paese e quel popolo. Per questo, quello di Renzi è un populismo tecnocratico: che produce quella modernizzazione neoliberista che Berlusconi non è riuscito a produrre e Grillo fatica a poter produrre.Un populismo nel nome della tecnocrazia, che la tecnocrazia ama; un populismo che trasforma (forse questa volta per davvero) il potere politico nel senso richiesto dalla tecnocrazia: meno democrazia (la riforma del Senato, le proposte di nuova legge elettorale); meno diritti sociali e quindi politici (diventati un costo); più decisionismo; meno partecipazione e più adattamento alla realtà immodificabile del mercato; meno cittadinanza attiva e più accettazione della ineluttabilità del reale. Perché le sue pratiche politiche – al di là delle apparenze e delle discussioni con Angela Merkel e di alcuni interventi comunque virtuosi – sono tutte dentro alla cultura della modernizzazione richiesta dall’ideologia neoliberista (flessibilità del lavoro, privatizzazioni, un nuovo modo di essere imprenditori di se stessi, riduzione ulteriore dello stato sociale, crescita invece di sviluppo, competizione invece di solidarietà); e la flessibilità sul Fiscal Compact (invece della sua abolizione, per evidente irrazionalità e surrealtà economica), pure invocata, è un pannicello caldo rispetto al nuovo new deal che sarebbe invece necessario (e urgente).Un populismo futurista, inoltre: nel nome della velocità, delle macchine, delle parole in libertà, dell’azione per l’azione. Il populismo di Renzi è dunque più di un classico neopopulismo, che ha dominato la scena per trent’anni coniugando populismo e neoliberismo, mercato e popolo, modernizzazione e impoverimento e disuguaglianze. E’ un neopopulismo tecnocratico – per altro discendenza diretta di quello neoliberista – che scardina ancor più di quello neoliberista le forme e le pratiche della democrazia; riduce a niente la società e la società civile; attacca il sindacato o lo rende inutile (in coerenza con le tecnocrazie globali); che spettacolarizza se stesso proponendosi come outsider, come rottura, come alternativa, in realtà portandoci nella società dello spettacolo della tecnocrazia. Una tecnocrazia che non si espone più direttamente con i noiosi e antipatici tecnici, ma con la fantasia e l’estro di un populismo mediatico e spettacolare, moderno e postmoderno insieme, dove twittare è più importante che ascoltare.(Lelio Demichelis, “Il populismo tecnocratico del rottamatore”, da “Sbilanciamoci” del 4 luglio 2014).L’Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), negli ultimi vent’anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l’economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo – prima delle merci e del denaro – le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell’illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano – ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso.
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Sei povero? Tranquillo, la riforma del Senato è pronta
Chissà come sono contenti della riforma del Senato i sei milioni e ventimila poveri assoluti d’Italia, aumentati nell’ultimo anno di un milione e 206 mila unità. E chissà come sono entusiasti del nuovo corso i dieci milioni di poveri “relativi” e come gongolano vedendo che le priorità di chi li governa riguardano il castigo per i senatori dissidenti, le mediazioni di Calderoli e il patto del Nazareno. Faranno la òla, altroché, di fronte al nuovo che avanza. Per ora il “nuovo” è che loro aumentano a ritmo spaventoso, e un altro “nuovo” è che la povertà – anche quella assoluta – riguarda anche gente che lavora. Come dire che il disagio e l’indigenza non sono più (da un bel pezzo) faccende di marginalità, ma componenti strutturali del paese (il 10% di poveri assoluti, quasi il 15% di poveri relativi), componenti strutturali a cui si presentano priorità come “governabilità”, “stabilità” e non, come si sarebbe detto un tempo, pane e lavoro.I dati Istat diffusi ieri, come spesso fanno i numeri, specie se spaventosi, fanno un po’ di giustizia di tanti discorsetti teorici. Uno su tutti: l’eterna, noiosissima, stucchevole diatriba su destra e sinistra. Categorie vecchie: ora va di moda il sopra e sotto, il di fianco, l’oltre, e altre belle paroline utili all’ammuina. Poi, in una pausa della creatività ideologica corrente, arrivano quei numeri a ricordare che la forbice della diseguaglianza continua ad aprirsi, che i poveri aumentano (di moltissimo) e che il paese è ormai due paesi: chi ce la fa e chi non ce la fa. Con in mezzo chi ce la fa a fatica e vive nel terrore del passaggio di categoria, verso la retrocessione, ovviamente. A questi ultimi sono andati gli 80 euro di Renzi: un po ’ di ossigeno ai “quasi poveri” che un tempo si sarebbero detti ceto medio.I numeri dell’Istat sono il solo vero discorso politico sentito in Italia negli ultimi mesi. L’unico che meriti di essere approfondito, un filino più serio dei pranzetti con Verdini, degli incontri in streaming, della pioggia di emendamenti sulla riforma della Costituzione. Un discorso che dovrebbe parlare anche a quella sinistra dispersa e bastonata che si oppone (ah, si oppone?) alle larghe e larghissime intese. Un solo punto, un solo programma, basta una riga: ridurre le distanze, attenuare le differenze, diminuire le diseguaglianze. Le cifre dell’Istat – e le persone che mestamente ci stanno dietro – indicano l’unica vera priorità del paese, altro che Italicum. E sarebbe interessante capire, sia detto per inciso, quanti di quei milioni di nuovi poveri, assoluti o relativi, sono scivolati indietro a causa dell’affievolirsi della parola “diritti”. Parola vecchia, bollata come conservatrice.E così non è più un diritto il lavoro, non è più un diritto la casa, e di scivolata in scivolata, la povertà diventa questione privata, colpa individuale e non, come dovrebbe essere, piaga pubblica e sociale. Il “governo più di sinistra degli ultimi trent’anni” (cfr. Matteo Renzi, febbraio 2014) non solo ha altre priorità, ma pare intenzionato a intaccare alcune forme di welfare (la cassa integrazione in deroga, per dirne una) facilitando, e non contrastando, lo scivolamento verso l’indigenza di altre centinaia di migliaia di italiani. Per questo i numeri dell’Istat sono il solo vero discorso politico sentito negli ultimi tempi: dicono di come oggi una sinistra che lotti contro le diseguaglianze non esista, e di quanto invece ce ne sarebbe bisogno. Come il pane. Appunto.(Alessandro Robecchi, “Sei povero? Calma, la riforma del Senato è quasi pronta”, da “Micromega” del 17 luglio 2014).Chissà come sono contenti della riforma del Senato i sei milioni e ventimila poveri assoluti d’Italia, aumentati nell’ultimo anno di un milione e 206 mila unità. E chissà come sono entusiasti del nuovo corso i dieci milioni di poveri “relativi” e come gongolano vedendo che le priorità di chi li governa riguardano il castigo per i senatori dissidenti, le mediazioni di Calderoli e il patto del Nazareno. Faranno la òla, altroché, di fronte al nuovo che avanza. Per ora il “nuovo” è che loro aumentano a ritmo spaventoso, e un altro “nuovo” è che la povertà – anche quella assoluta – riguarda anche gente che lavora. Come dire che il disagio e l’indigenza non sono più (da un bel pezzo) faccende di marginalità, ma componenti strutturali del paese (il 10% di poveri assoluti, quasi il 15% di poveri relativi), componenti strutturali a cui si presentano priorità come “governabilità”, “stabilità” e non, come si sarebbe detto un tempo, pane e lavoro.
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Pardi: Renzi peggio della P2, è in arrivo una dittatura
La P2 è cosa passata e sepolta. E comunque tale riforma è peggio di quel che era il programma della P2 perché essa era una cosa visionaria di ultradestra, frenata dall’interno da tutti i meccanismi della democrazia, Dc compresa non essendo complice fino in fondo. Oggi invece abbiamo il partito di centrosinistra che instaura la dittatura della maggioranza, peggio della P2. Renzi sta applicando e realizzando il programma di Berlusconi. Come un mantra, il premier si dice continuamente soddisfatto dell’affidabilità di Forza Italia, la quale avrebbe mantenuto in vita il Patto del Nazareno. Lo credo bene, è il loro programma! Quante volte Berlusconi si è lamentato di una Costituzione che non darebbe a chi governa gli strumenti per farlo? Hanno inventato questo meccanismo di dittatura della maggioranza (e di dittatura del leader della maggioranza sulla sua maggioranza) per liquidare ogni possibilità di opposizione parlamentare.La riforma del Titolo V è frutto di un dialogo tra Pd e Fi. Vi sembra normale che un pregiudicato come Berlusconi sia protagonista di una riforma costituzionale? La legge elettorale è platealmente incostituzionale come quella attuale: con un mostruoso premio di maggioranza mantiene il voto diseguale ed esclude dalla rappresentanza politica milioni di cittadini. Tra l’altro le liste saranno bloccate quindi a decidere la composizione saranno i partiti, nelle loro segrete stanze. C’è il rischio si instauri in Italia – in senso tecnico – una dittatura della maggioranza in grado di modificare la Corte Costituzionale ed eleggersi il suo presidente della Repubblica. Inoltre sarà la dittatura del leader della maggioranza sulla sua stessa maggioranza. Questo Parlamento non ha alcuna legittimità a legiferare sulla Costituzione essendo composto da nominati in base a una legge elettorale, il Porcellum, ritenuta incostituzionale dalla Consulta. Di cosa stiamo parlando? Abbiano il buon gusto e la serietà di legiferare su temi come lo sviluppo, il lavoro, l’economia, i diritti civili ma si astengano rigorosamente dal toccare la nostra Carta. È un’anomalia pericolosissima.Il soggetto promotore è senza diritto: solo Camere elette con una legge che restauri il principio dell’articolo 48 (il voto è personale ed eguale) potranno modificare la Costituzione. In secondo luogo, ci vogliono far credere che il bicameralismo sia la causa di tutti i mali. Una bugia. Da tempo il Parlamento è esautorato dai propri compiti: si governa il paese tramite decreti leggi con le Aule relegate al solo compito di votare la fiducia. I disegni di legge sono rarissimi e il potere legislativo è di fatto nelle mani dell’esecutivo. Il vero problema è che la maggioranza non è compatta e i leader non riescono a gestire i propri partiti. Bicameralismo perfetto? No, potremmo anche rivederlo. Ma il focus è un altro: la riforma costituzionale va associata alla nuova legge elettorale in cantiere. I due provvedimenti sono parte di uno stesso disegno. Vogliono declassare il Senato e lasciare intatta la Camera che permetterà al partito che prende più voti un dominio assoluto.(Pancho Pardi, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “La riforma di Renzi peggio della P2”, pubblicata da “Micromega” il 14 luglio 2014).La P2 è cosa passata e sepolta. E comunque tale riforma è peggio di quel che era il programma della P2 perché essa era una cosa visionaria di ultradestra, frenata dall’interno da tutti i meccanismi della democrazia, Dc compresa non essendo complice fino in fondo. Oggi invece abbiamo il partito di centrosinistra che instaura la dittatura della maggioranza, peggio della P2. Renzi sta applicando e realizzando il programma di Berlusconi. Come un mantra, il premier si dice continuamente soddisfatto dell’affidabilità di Forza Italia, la quale avrebbe mantenuto in vita il Patto del Nazareno. Lo credo bene, è il loro programma! Quante volte Berlusconi si è lamentato di una Costituzione che non darebbe a chi governa gli strumenti per farlo? Hanno inventato questo meccanismo di dittatura della maggioranza (e di dittatura del leader della maggioranza sulla sua maggioranza) per liquidare ogni possibilità di opposizione parlamentare.
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Cremaschi: Renzi come Reagan, e nessuno osa fermarlo
Se le parole sono pietre, si devono lanciare con la giusta forza verso il bersaglio scelto. Invece le iniziative concrete di coloro che denunciano il disegno autoritario di Renzi non corrispondono alla gravità dell’allarme lanciato e così la denuncia stessa rischia di risultare inefficace. Sul terreno economico e sociale il governo ha adottato tutti i peggiori dogmi del liberismo. La vicenda Alitalia, come al solito presentata dal regime come l’ultima spiaggia dello sviluppo, non è solo una svendita all’incanto dopo il fallimento bipartisan di imprese, banche, governo. È anche e prima di tutto un terribile esperimento sociale, perché per la prima volta dagli anni ‘50 del secolo scorso un governo autorizza il licenziamento in tronco di migliaia di lavoratrici e lavoratori, rifiutando l’utilizzo della cassa integrazione. È un altro pezzo del Jobs Act, che intende sostanzialmente cancellare la Cig. Solo il presidente più di destra del ‘900 americano, Ronald Reagan, aveva attuato con i controllori di volo una misura del genere.Ci si rende conto, dalle parti del mondo che si definisce democratico, che cosa vuol dire con la crisi economica che si aggrava dare il via ai licenziamenti di massa nelle grandi aziende? Significa che sul piano sociale non tiene più niente, che siamo come la Grecia. E infatti, dopo quel paese, il nostro è la seconda cavia dell’Europa dell’austerità e del Fiscal Compact. Con la prima si è proceduto in modo troppo brutale, al punto da suscitare una reazione politica che rischia di compromettere il disegno. Con l’Italia, che Monti e Letta stavano portando alla stessa crisi di consenso della Grecia, si è deciso di correggere la rotta. Meno bastone e, almeno all’inizio, più carota. La carota è Renzi. Il progetto di controriforma costituzionale di Renzi serve a costruire in anticipo quel sistema di potere autoritario che dovrà gestire la distruzione sociale dell’Italia.Per questo Renzi lo vende all’estero al posto dei tagli di bilancio dei suoi predecessori. E per questo banche e finanza per ora si accontentano di riforme politiche al posto di quelle economiche. Perché i poteri finanziari che hanno fatto diventare presidente del consiglio uno sconosciuto sindaco di Firenze vogliono che, una volta avviato, il percorso liberista non si fermi più. Ci vuole allora una manomissione complessiva e organica della Costituzione, che garantisca a un potere insindacabile di poter privatizzare servizi, chiudere ospedali, vendere alle multinazionali, cancellare contratti e diritti, licenziare, precarizzare, selezionare. Quello che le élites speravano facesse Berlusconi nel 1994. Dopo venti anni quel disegno viene realizzato da Renzi, con ben altro sostegno in Italia ed in Europa.Non facciamo i provinciali, la controriforma renziana non è tanto figlia della P2 quanto di Bilderberg. Il principio che la ispira è molto semplice e in fondo e quello di tutte le dittature: si vota una volta e poi chi vince comanda per sempre, impedendo l’organizzazione e la rappresentanza ad ogni forma di vera critica, contestazione, dissenso. Di fronte a tutto questo il campo avverso o critico è complessivamente incerto, contraddittorio, confuso. Nel mondo sindacale, Cisl, Uil e Ugl sono oramai paracarri del sistema renziano, al quale son stati concessi in dono da Marchionne. La Cgil si muove come un pugile suonato, e i colpi che riceve non la fanno reagire. Intanto l’accordo del 10 gennaio diventa la trasposizione del’Italicum sul terreno della rappresentanza sindacale. Anzi è persino peggio, perché quell’intesa programma l’esclusione del dissenso addirittura prima del (e non con il) voto.Dalla Fiom, alla sinistra Cgil, ai sindacati di base non sono poche le forze che si oppongono a questo sistema, ma non lo stanno facendo assieme e con la dovuta determinazione comune. Soprattutto la Fiom non trasforma il suo dissenso in vera disobbedienza e così avanza la normalizzazione sindacale. Sul piano politico il “Movimento 5 Stelle”, con tutto il rispetto, pare entrato dopo le europee in una fase confusionale, nella quale sta forse emergendo la debolezza delle sue basi politiche di fondo. Così oscilla tra la denuncia della svolta autoritaria e le letterine di buoni propositi indirizzati a chi di quella svolta è l’artefice. Le sinistre che si sono raccolte attorno alla Lista Tsipras non hanno ancora chiarito cosa vogliono fare da grandi. E quando ci provano, si spaccano. La sinistra radicale italiana non è in crisi per l’assenza di buoni propositi, belle idee e bei programmi, ma per una storia di incoerenze tra il dire ed il fare. Queste forze sono oggi disponibili a combattere il Pd renziano ovunque, per esempio e per cominciare in Emilia Romagna nelle elezioni del prossimo autunno? O si pensa ancora a tenere assieme chi vuol contrastare davvero il sistema renziano e chi si illude di condizionarlo dal suo interno?I movimenti sociali, le lotte ambientali e territoriali sono oggi una forza diffusa, che subisce una repressione autoritaria vergognosa. Ma i loro gruppi dirigenti non pensano ad una politica di alleanze con gli altri che si oppongono, lanciano le loro scadenze e si aspettano che tutti aderiscano. Così anche qui ci si logora. Il non molto vasto mondo degli intellettuali rimasto fuori dal regime delle larghe intese si muove con efficacia ridotta anche rispetto alle proprie forze reali. Pesa evidentemente la fine della guerra fredda tra mondo Fininvest e mondo Repubblica-Espresso. Entrambi oggi sono nel pacchetto di mischia renziano, con qualche dissidenza che, se non esagera, fa molto pluralismo. È comprensibile quanto sia difficile rompere con storie e schieramenti ventennali, ma la critica del pensiero unico renziano proprio questo dovrebbe fare per essere efficace.Ciò che unifica tutte queste deboli opposizioni al regime renziano è la convinzione di chi le guida di poter andare avanti come ha sempre fatto. Così si fanno la petizione, la manifestazione, l’appello, l’assemblea, come sempre. E così si contraddice il senso profondo dello stesso allarme che si lancia. Se si fanno le stesse cose di sempre, allora forse non è vero che la situazione sia così grave come la si denuncia. Se si andrà avanti così, questo periodo verrà ricordato come quello in cui, grazie anche alla fiacchezza e all’opportunismo di chi denunciava il regime, il regime nacque. Per concludere, tutte le forze democratiche che intendono davvero opporsi a Renzi e a ciò che rappresenta, ci provano a interloquire tra loro e magari a sedersi attorno ad un tavolo per discutere, anche in streaming, su cosa fare assieme per fermare il regime? O andiamo avanti così fino al disastro e alle recriminazioni finali?(Giorgio Cremaschi, “Per fermare la svolta autoritaria non bastano gli appelli”, da “Micromega” del 17 luglio 2014).Se le parole sono pietre, si devono lanciare con la giusta forza verso il bersaglio scelto. Invece le iniziative concrete di coloro che denunciano il disegno autoritario di Renzi non corrispondono alla gravità dell’allarme lanciato e così la denuncia stessa rischia di risultare inefficace. Sul terreno economico e sociale il governo ha adottato tutti i peggiori dogmi del liberismo. La vicenda Alitalia, come al solito presentata dal regime come l’ultima spiaggia dello sviluppo, non è solo una svendita all’incanto dopo il fallimento bipartisan di imprese, banche, governo. È anche e prima di tutto un terribile esperimento sociale, perché per la prima volta dagli anni ‘50 del secolo scorso un governo autorizza il licenziamento in tronco di migliaia di lavoratrici e lavoratori, rifiutando l’utilizzo della cassa integrazione. È un altro pezzo del Jobs Act, che intende sostanzialmente cancellare la Cig. Solo il presidente più di destra del ‘900 americano, Ronald Reagan, aveva attuato con i controllori di volo una misura del genere.
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Una parlamentare: uccidete tutte le madri palestinesi
«Devono morire e le loro case devono essere demolite in modo che non possano portare alla luce altri terroristi. Loro sono tutti nostri nemici e il loro sangue deve essere versato sulle nostre mani. Ciò vale anche per le madri dei terroristi morti». “Loro” sono, semplicemente, i palestinesi. Anzi, le madri dei palestinesi, che hanno la colpa di dare alle luce «piccoli serpenti», cioè neonati, che un giorno potrebbero diventare nemici. Meglio quindi ucciderle tutte, le «madri palestinesi», nel corso di un bell’attacco via terra nella Striscia di Gaza, prima che mettano al mondo altri piccoli mostri. A esprimersi in questi termini, sulla sua pagina Facebook, non è un orco nazista o un serial killer psicopatico, ma una donna. Addirittura, una parlamentare israeliana. Si chiama Ayelet Shaked ed è stata eletta nelle file della “Casa Ebraica”, una formazione politica sionista religiosa che si definisce di destra, e che per alcuni media occidentali è «un partito di estrema destra».Ayelet Shaked, rileva il newsmagazine “Fronte Sud News”, ha espressamente invocato l’uccisione di tutte le madri palestinesi, quelle che partoriscono i «piccoli serpenti» destinati a odiare Israele, lo Stato-prigione che nega loro ogni diritto sottoponendoli a vessazioni quotidiane e durissime repressioni anche in tempo di “pace”, quando cioè non si levano in volo i bombardieri che radono al suolo centinaia di case con dentro le loro famiglie. Le dichiarazioni della Shaked, sottolinea “Sponda Sud”, «sono considerate un vero e proprio invito al genocidio nei confronti dei palestinesi, considerati tutti nemici di Israele e dunque da eliminare». Parole sanguinarie, che ancora nel 2014 hanno libero corso in un paese che dopo decenni non riesce ad ammettere di essere nato, storicamente, dal “peccato originale” della pulizia etnica contro i palestinesi, come ricorda il professor Ilan Pappe, il più importante storico israeliano. Un genocidio avviato molto prima di Auschwitz e poi rimosso dai maggiori leader, tutti ex terroristi ricercati dalle autorità coloniali inglesi prima della Seconda Guerra Mondiale.Contro le sanguinarie parole di Ayelet Shaked, riferisce “Press Tv”, si è scagliato anche il premier turco, Recep Tayyip Erdoğan: «Una donna israeliana ha detto che le madri palestinesi devono essere uccise. Questa donna è un membro del Parlamento israeliano: qual è la differenza tra questa mentalità e Hitler?». Il premier turco ha inoltre accusato Israele di fare del terrorismo di Stato contro i palestinesi nella regione. Parlando in Parlamento, Erdoğan ha anche criticato il silenzio del mondo verso le atrocità commesse da Tel Aviv contro il popolo palestinese, in particolare nella Striscia di Gaza. Se Erdoğan parla anche per ragioni di politica interna – i turchi non hanno dimenticato l’aggressione della marina israeliana contro la Freedom Flotilla che portava aiuti umanitari nella Striscia – colpisce la incredibile sordità della “comunità internazionale” di fronte all’ennesimo massacro ordinato dal governo Netanyahu. Data la situazione, le terribili parole di Ayelet Shaked sono più illuminanti del bagliore dei missili.«Devono morire e le loro case devono essere demolite in modo che non possano portare alla luce altri terroristi. Loro sono tutti nostri nemici e il loro sangue deve essere versato sulle nostre mani. Ciò vale anche per le madri dei terroristi morti». “Loro” sono, semplicemente, i palestinesi. Anzi, le madri dei palestinesi, che hanno la colpa di dare alle luce «piccoli serpenti», cioè neonati, che un giorno potrebbero diventare nemici. Meglio quindi ucciderle tutte, le «madri palestinesi», nel corso di un bell’attacco via terra nella Striscia di Gaza, prima che mettano al mondo altri piccoli mostri. A esprimersi in questi termini, sulla sua pagina Facebook, non è un orco nazista o un serial killer psicopatico, ma una donna. Addirittura, una parlamentare israeliana. Si chiama Ayelet Shaked ed è stata eletta nelle file della “Casa Ebraica”, una formazione politica sionista religiosa che si definisce di destra, e che per alcuni media occidentali è «un partito di estrema destra».
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Triste miracolo: paghe da fame per un tedesco su quattro
Mario Monti, 20 gennaio 2013: «Noi ammiriamo la Germania e vogliamo imitarla in alcune riforme». Beppe Grillo, 15 marzo 2013: «Dobbiamo realizzare un piano comparabile con l’Agenda 2010 tedesca, quel che ha dato buoni risultati in Germania lo vogliamo anche noi» Matteo Renzi, 17 marzo 2014: «La pretesa di creare posti di lavoro con una legislazione molto severa e strutturata è fallita, dobbiamo cambiare le regole del gioco: in questo senso abbiamo nella Germania il nostro punto di riferimento». “Fare come la Germania” è il mantra di tutti, fino al Jobs Act renziano. Storia: nel 2003 il socialdemocratico Schroeder ha smantellato i diritti sociali e tagliato gli stipendi ai lavoratori, per poter rilanciare un’economia basata interamente sull’export e quindi sul basso costo del lavoro. La riforma prende il nome da Peter Hartz, industriale della Volkswagen. Un genio? Fate voi: “Hartz ammette di aver corrotto i sindacalisti Vw ed evita 10 anni di carcere”, titolò di recente il “Sole 24 Ore”. Facile, no? Risultato: nel regno della Merkel dilagano i mini-job da 450 euro, che dopo una vita di lavoro danno diritto a una pensione di 200 euro mensili.Sul sito “MeMmt.info”, Daniele Della Bona ripercorre i passaggi chiave del falso “miracolo” tedesco, basato sul doppio ricatto imposto ai lavoratori e ai partner europei, costretti alla politica di rigore per colpire l’industria nazionale e quindi smantellare la concorrenza industriale, dell’Italia in primis, così scomoda per la manifattura tedesca. Per Roland Berger, storico consulente di Berlino, la chiave delle riforme iniziate nel 2003 è stata «una liberalizzazione del mercato del lavoro», con stipendi rimasti al palo rispetto all’incremento della produttività, a tutto vantaggio del capitale industriale. «Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale, l’aumento dell’ età pensionabile a 67 anni, la creazione di un segmento di bassi salari». Una confessione peraltro tardiva, rileva Della Bona nel post ripreso dal blog “Vox Popoli”. Più tempestivo era stato lo stesso Schroeder, il cancelliere che regalò un maxi-sconto a Gazprom per poi essere profumatamente assunto dalla compagnia russa. Già nel 2005, al World Economic Forum di Davos, Schroeder ammise: «Abbiamo dato vita ad uno dei migliori settori a bassa salario in Europa».La chiave del boom tedesco sono i famigerati mini-job, per i quali non è obbligatorio neppure versare contributi sociali. Paghette da fame, per 15 ore settimanali. In compenso, il business trova super-conveniente questa formula di assunzione: nel 2003 i minijobber erano 5 milioni e mezzo, nel 2011 erano almeno 7,5 milioni. Una catastrofe, secondo Della Bona, per i lavoratori tedeschi: esplosione di operai con bassi salari, boom del lavoro temporaneo e part-time, crollo dei salari reali medi, aumento della disuguaglianza sociale e reddituale, calo delle tutele contrattuali per tutti i lavoratori. A chi era funzionale questo disegno? E chi ne ha tratto beneficio? «La prima conseguenza è stata quella di creare un mercato del lavoro altamente segmentato», con alcuni lavoratori ben pagati e «un esercito di bassi salariati, spesso costretti a chiedere un sussidio per sopravvivere o a svolgere un secondo lavoro: fra i minijobber sono 2,5 milioni quelli con un secondo impiego». Non a caso, la quota di lavoratori nella categoria a basso salario (cioè inferiore ai 2/3 del salario medio) è il 24,3% degli occupati: è pagato con un’elemosina un lavoratore tedesco su 4, cioè quasi 8 milioni e mezzo di occupati.Nel 2010, secondo Eurostat, all’interno dell’Unione Europea, su 27 paesi membri soltanto 6 avevano una quota di lavoratori a basso salario maggiore di quella tedesca: Estonia, Cipro, Lituania, Lettonia, Polonia e Romania. «Non solo 8,4 milioni di lavoratori percepivano nel 2012 una paga oraria inferiore ai 9,30 euro, ma – di questi – 6,6 milioni guadagnavano meno di 8,5 euro all’ora, 5,7 milioni meno di 8 euro, 4 milioni meno di 7 euro, 2,5 meno di 6 euro e 1,7 milioni avevano una paga oraria inferiore addirittura ai 5 euro». Non solo i mini-job “costano” pochissimo e fanno “risparmiare” anche sui contributi previdenziali, ma minacciano di terremotare l’impianto socio-produttivo della Germania, perché creano «le premesse per sostituire lavoratori che avevano contratti a tempo indeterminato». Secondo l’Instituts für Arbeitsmarkt und Berufsforschung (Iab), «il fenomeno è maggiormente visibile nei servizi: qui, molti minijobber svolgono lavori in precedenza assegnati ad occupati a tempo pieno – ma lo fanno con una paga più bassa». Le prove della sostituzione sono visibili anche nel commercio al dettaglio, nel turismo, nella sanità e nel sociale, scrive lo Iab, istituto di ricerca interno all’Agenzia federale per il lavoro. «Soprattutto nelle piccole aziende con meno di 10 dipendenti, i ricercatori hanno potuto confermare che la creazione di nuovi minijobs va di pari passo con l’eliminazione degli occupati a tempo pieno con regolare contratto».I ricercatori dello Iab ritengono «un pericolo» la sostituzione dei lavoratori regolari nelle piccole imprese: indeboliscono le casse sociali e quindi il sistema sociale tedesco. «In particolare, i lavoratori che per un lungo periodo hanno svolto un minijob, rischiano la trappola della povertà in vecchiaia a causa di una pensione troppo bassa». Non solo: «I minijobber non hanno diritto alle ferie e non hanno accesso ai bonus e alle indennità aziendali». Un trend che viene confermato dai dati dell’Ocse: la quota complessiva di lavoratori a tempo determinato e part-time è aumentata notevolmente a partire dal 2003, superando abbondantemente la soglia del 50% fra i giovani occupati tedeschi. «Non dovrebbe dunque stupire che i salari reali medi siano calati in Germania fra il 2003 e il 2009 di oltre il 6%». La situazione tedesca ha allarmato persino l’Ilo, l’International Labour Office delle Nazioni Unite, secondo cui il boom della Germania non è affatto dovuto a un aumento della produttività, ma solo al super-sfruttamento dei lavoratori sottopagati, dal momento che «gli sviluppi della produttività sono rimasti in linea con gli altri paesi dell’Eurozona».Il trucco, a tutto danno dei lavoratori tedeschi, sono state «politiche di deflazione salariale che non solo hanno avuto un impatto sui consumi privati, ma hanno anche condotto ad un ampliamento delle disuguaglianze reddituali ad un velocità mai vista prima, nemmeno dopo la riunificazione, quando molti milioni di persone della Germania Est persero il loro lavoro». Addirittura la Commissione Europea, nel 2012, «ormai a babbo morto», si è accorta del problema, aggiunge Della Bona. Il commissario europeo agli affari sociali, Laszlo Andor, intervistato dal giornale tedesco “Faz.net”, ha infatti riconosciuto che «il mercato del lavoro in Germania è sempre più segmentato», visto che «un gran numero di occupati ha solo un minijob». Pessimo scenario: «Se continua così – avverte Andor – il divario fra lavori regolari e minijobs crescerà rapidamente: i minijobber rischiano di restare in questa situazione e di cadere nella trappola della povertà». La stretta tedesca sui salari, dice ancora il commissario europeo, ha danneggiato gli altri Stati Ue: «Con la sua politica mercantilista, la Germania ha rafforzato gli squilibri in Europa e causato la crisi».Meglio tardi che mai, dirà qualcuno. Peccato che adesso tutti ripetano che anche i paesi del Sud Europa dovrebbero fare come la Germania, ben interpretata dalla stessa Merkel a Davos nel 2013: «Per ottenere riforme strutturali è necessario esercitare pressione», ha detto la cancelliera, ammettendo che «anche in Germania i disoccupati sono dovuti arrivare fino a 5 milioni, prima di ottenere la disponibilità all’attuazione delle riforme strutturali». Rispondendo ai Verdi, nella primavera 2013 il governo tedesco ha risposto – mentendo – che la mancanza di competitività dei paesi in crisi nasce da salari troppo alti e scarsa produttività. La strada maestra, ovviamente, sarebbe «la flessibilizzazione del salario, che in futuro dovrà essere orientato allo sviluppo della produttività», per «garantire l’occupazione e aumentarla». Ci sarebbe da ridere, se non fosse che tutti i partner europei – a cominciare da Renzi – mostrano di credere ancora, nei fatti e negli atti di governo, alla fiaba atroce dell’austerity espansiva made in Germany. I lavoratori tedeschi sono condannati anche dall’Epl, l’indice di protezione del lavoro dell’Ocse, che misura la facilità con la quale si può essere licenziati. Quando si parla di Germania, sottolinea Della Bona, dobbiamo tenere a mente che a Berlino ci sono le grandi multinazionali mercantiliste e i lavoratori, e che l’euro ha beneficiato sicuramente le prime e danneggiato enormemente i secondi.«La politica economica e commerciale tedesca di tipo mercantilistico (esportare il più possibile e ridurre le importazioni per mantenere un saldo estero positivo: “essere competitivi”, come si dice spesso sui media) ha dapprima condotto a una forte riduzione dei salari dei lavoratori tedeschi, fortemente scesi in termini reali a partire soprattutto dal 2003», e ora minaccia – di conseguenza – di mettere in crisi il bilancio statale (esattamente come in Italia) a causa del crollo dei consumi interni e del gettito fiscale. «Se il salario non cresce, difficilmente il lavoratore tedesco può comprare beni e servizi prodotti a casa propria o all’estero: meno soldi hai e meno cose compri». Ci guadagna solo l’industriale tedesco, che fa affari d’oro in due modi: sottopagando i lavoratori e beneficiando della politica europea decisa a Berlino per colpire la concorrenza, come quella italiana. Il super-export tedesco è esploso alla fine degli anni ‘90, «mentre il volume dei consumi delle famiglie, gli investimenti interni e i salari reali sono rimasti pressoché stazionari». Non stupisce che, dall’ingresso nell’euro fino alla crisi finanziaria del 2007, la Germania sia stata il paese che è cresciuto meno in Europa, come conferma l’outlook 2013 del Fmi.Infine, a completare l’affresco ci sono i dati – truccati – della disoccupazione. Ufficialmente, l’Agenzia federale per il lavoro a settembre 2012 parla di 2,7 milioni di disoccupati e di 5 milioni di “persone in età lavorativa ricevono un sussidio di disoccupazione”. Con questi numeri si arriva ad un tasso di disoccupazione di circa l’11.9 %, rileva Della Bona. Ma la stessa agenzia fornisce anche il motivo per cui circa 2,3 milioni di persone in grado di lavorare, destinatarie di un sussidio di disoccupazione, non siano incluse nel tasso di disoccupazione ufficiale: «Non vengono considerati disoccupati tutti coloro che si trovano all’interno di un programma di politica del mercato del lavoro (formazione e inserimento)», cioè quasi 1 milione di persone. Anche chi ha un basso reddito, e per questo riceve un’integrazione, non viene considerato disoccupato: erano 655.000 persone già nel maggio 2012. Sono escluse dal calcolo dei disoccupati altre 630.000 persone, quelle che ricevono un sussidio perché crescono dei figli o vanno a scuola. Poi ci sono 248.000 persone assistite perché “non capaci di lavorare”, e altri 235.000 individui “anziani” che ricevono un sussidio perché hanno più di 58 anni e negli ultimi 12 mesi, semplicemente, non hanno più lavorato. Solo metà dei beneficiari del sussidio è registrata come disoccupata, ammette la stessa agenzia. Anche così, truccando le cifre, la Germania continua a raccontare il suo miracolo triste da 400 euro al mese.Mario Monti, 20 gennaio 2013: «Noi ammiriamo la Germania e vogliamo imitarla in alcune riforme». Beppe Grillo, 15 marzo 2013: «Dobbiamo realizzare un piano comparabile con l’Agenda 2010 tedesca, quel che ha dato buoni risultati in Germania lo vogliamo anche noi» Matteo Renzi, 17 marzo 2014: «La pretesa di creare posti di lavoro con una legislazione molto severa e strutturata è fallita, dobbiamo cambiare le regole del gioco: in questo senso abbiamo nella Germania il nostro punto di riferimento». “Fare come la Germania” è il mantra di tutti, fino al Jobs Act renziano. Storia: nel 2003 il socialdemocratico Schroeder ha smantellato i diritti sociali e tagliato gli stipendi ai lavoratori, per poter rilanciare un’economia basata interamente sull’export e quindi sul basso costo del lavoro. La riforma prende il nome da Peter Hartz, industriale della Volkswagen. Un genio? Fate voi: “Hartz ammette di aver corrotto i sindacalisti Vw ed evita 10 anni di carcere”, titolò di recente il “Sole 24 Ore”. Facile, no? Risultato: nel regno della Merkel dilagano i mini-job da 450 euro, che dopo una vita di lavoro danno diritto a una pensione di 200 euro mensili.
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Grillo: stop al racket dell’oscuro parassita chiamato Europa
Dobbiamo togliere di mezzo ogni ostacolo che impedisca ai cittadini di sapere cosa accade, chi prende le decisioni, chi ne fa le spese e chi governa senza essere mai stato eletto dal popolo, ma cambia la vita di chi resta senza lavoro, di chi non ha i soldi per comprarsi da mangiare, di chi è costretto a licenziare i suoi dipendenti o a dichiarare fallimento. Dobbiamo dire alla gente chi sono i nominati, da chi sono stati messi sulle loro poltrone e perché sanno solo ripetere che “serve più Europa”, “servono più soldi alle banche”, “serve più rigore”. L’austerity! Cioè tagli alla spesa pubblica, ma soprattutto ai salari, agli stipendi e alle pensioni. E quando qualcosa si taglia, qualcos’altro deve per forza aumentare: le tasse. Le tasse in Italia sono diventate così alte che ormai bisogna lavorare fino a ottobre non per guadagnare, ma solo per riuscire a pagarle. Ci hanno detto che la soluzione era l’austerity. Era una soluzione, certo, ma era quella sbagliata! In Irlanda e in Portogallo ha funzionato talmente bene che c’è stato un esodo quasi senza precedenti verso altri paesi.In Italia ha funzionato anche meglio: solo nel 2013, più di trecento aziende al giorno sono state costrette a chiudere. Il motivo è semplice: i grandi sacerdoti dell’austerity hanno basato la loro religione su dati parziali. Non serviva essere economisti per accorgersi che una compressione della spesa in un momento di crisi avrebbe portato a una stagnazione, la quale avrebbe peggiorato la crisi. Perfino al Fondo Monetario Internazionale, alla fine, se ne sono accorti: Blanchard ha ammesso l’errore, ma nessuno ha cambiato direzione. Ne ammazza di più la medicina della malattia, ma nessuno che pensi di interrompere il salasso: si continua a succhiare sangue alle aziende, alle imprese, ai lavoratori, ai pensionati, ai cittadini, ai quali si sottrae ogni giorno una fetta di sovranità, per conferirla nelle mani di un oscuro centro di potere governato da non eletti. Così, questa Europa si è trasformata in un gigantesco parassita, un parassita che vive sulle nostre spalle, un parassita che ci afferra per la gola e ci toglie ossigeno.Ci rassicurano che le cose vanno meglio, che la crisi sta passando, che si intravede la luce alla fine del tunnel, ma sono i fari del treno che ci sta per venire addosso! Il treno si chiama Fiscal Compact, il nuovo irrigidimento del Patto di Stabilità e di Crescita che negli anni è stato sforato dalla stragrande maggioranza degli Stati europei. Così, a un paziente già ammalato, hanno somministrato il colpo di grazia: il pareggio di bilancio. Che in Italia abbiamo inserito addirittura nella Costituzione. Significa che se non abbiamo soldi non possiamo neppure trovarne, privi come siamo di sovranità monetaria, senza indebitarci. Una genialata! In più, ci hanno chiesto di ridurre il rapporto debito pubblico-Pil al 60% in 20 anni. Significa prendere un tessuto economico già disastrato, un tessuto imprenditoriale disperato, un tessuto assistenziale ai limiti dell’inesistente, e applicarvi tagli a pioggia pari anche a 50 miliardi all’anno per vent’anni! E lo chiamano “grande sogno europeo”! Ci accorgeremo presto delle conseguenze del Fiscal Compact sui paesi già piegati dal rigore a tutti i costi. «E poi», come in un celebre romanzo di Agatha Christie, «non ne rimase nessuno».Non contenti, per salvare gli amici degli amici, cioè il mondo della tecno-finanza la cui sconsiderata ingordigia ha ridotto in povertà decine di milioni di persone, hanno istituito il Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità, e l’hanno ratificato quatti quatti, zitti zitti, come piace a loro. Il Mes indebita interi popoli all’infinito, impegnandosi per centinaia di miliardi che possono essere rinnovati a piacere da un gruppo di oscuri oligarchi che si ritrovano in Lussemburgo, come una setta, senza che nessuno possa leggere le carte che si passano, senza che nessuno possa citarli in giudizio, senza che nessun governo nazionale, neppure futuro, possa rifiutarsi di pagare. E a fronte di questo salasso, che per l’Italia vale da subito 125 miliardi e poi chi lo sa, se un giorno dovessimo avere bisogno di essere salvati, il Mes ci presta i soldi. Ce li presta! E’ come se tu pagassi una kasko per l’assicurazione della tua auto e poi, quando qualcuno ti viene addosso, ti prestano i soldi per il carrozziere. Ce li prestano in cambio di “condizionalità”. Le chiamano “condizionalità”. Ma significano “cessioni di sovranità”. Si infilano nei Parlamenti nazionali e sottraggono ai cittadini ogni giorno un pezzetto dei loro diritti, per conferirli dentro a qualcosa che non c’è ancora. E’ a questo che è servita la crisi. Perché le guerre oggi non si fanno più con i carri armati. Si fanno con lo spread. Da un carrarmato ti puoi difendere: lo spread non lo vedi e non lo senti. E’ un assassino perfetto. Silenzioso ed ineffabile.Grazie allo spread puoi creare strumenti micidiali come l’Erf. Hanno sempre questi nomi biblici, quasi rassicuranti: il Fondo Europeo di Riscatto. Ti fanno credere che devi essere riscattato, perché sei un Piigs. Sei un Piigs anche se versi più soldi all’Europa di quanti alla fine l’Europa non te ne renda. E allora come ti riscattano? Se non ce la fai a rispettare il Fiscal Compact, vengono a suonare con l’esattore alla frontiera, e ti costringono a consegnare gli asset patrimoniali nazionali, le riserve valutarie, le riserve auree e parte del gettito fiscale fino ad ottenere garanzie per tutta la parte eccedente il rapporto del 60% del debito sul Pil. Un curatore fallimentare poi vende tutto. Una immensa Equitalia al cubo! E se consideriamo il gettito fiscale come lo stipendio di uno Stato, l’Europa si trasforma in un creditore che ti impone la cessione del quinto senza che tu possa avere più il controllo del tuo conto in banca.Cosa sarebbe tutto questo? Cosa stiamo diventando? E’ un’immensa Matrix, siamo governati da scienziati pazzi che fanno esperimenti di ingegneria tecnologico-finanziaria su interi popoli e se poi gli esperimenti falliscono e decine di milioni di persone muoiono, allora fa niente: siamo tutti sacrificabili. L’importante è che la casta mondiale, quel 10% degli abitanti della Terra che detiene il 90% delle ricchezze, sopravviva e continui a godere di ottima salute. In Grecia negli ultimi due anni si sono suicidate oltre 7.000 persone: gente che l’ha fatta finita non perché avesse perso il lavoro, ma perché non aveva più neppure da mangiare. Ci sono genitori che hanno deciso di abbandonare i propri figli negli orfanotrofi per garantirgli almeno un pasto al giorno e un letto caldo per l’inverno. In Italia, rispetto ai livelli pre-crisi, ci sono tre milioni di poveri in più (+93,9%), 3 milioni e 700.000 persone disoccupate in più (+122,3%), il Pil è crollato del 9%, la produzione industriale è precipitata del 23,6%, le costruzioni del 43,15%, i consumi delle famiglie si sono ridotti dell’8%, gli investimenti del 27,5%, c’è il -7,8% di occupazione e abbiamo perso quasi due milioni di posti di lavoro.E’ questo il grande successo dell’Europa? Una élite di mentitori di professione che cambia i metodi di calcolo alla bisogna, facendo così sparire in un attimo i dati che non devono essere mostrati? A noi in Italia raccontano spesso che servono più sacrifici, perché “ce lo chiede l’Europa”. Ma l’Europa che vogliamo noi non è quella che continua a drenare linfa dalla propria gente, che rovina i suoi imprenditori, i suoi lavoratori, che toglie lo Stato sociale ai deboli e tutela i ricchi e i forti. L’Europa che vogliamo noi non è quella che costringe le democrazie in crisi a versare centinaia di miliardi che finiscono su un conto in Lussemburgo a finanziare le democrazie che stanno bene, quelle della Tripla A, come la Germania. L’Europa che vogliamo noi non è quella oscura, un buco nero nel quale tutto entra e dal quale nulla esce, ma è l’Europa della democrazia diretta, dei referendum popolari, delle informazioni che circolano e della conoscenza condivisa. E’ l’Europa consapevole delle scelte ambientali che possono ancora cambiare le sorti del nostro pianeta. E’ l’Europa della libertà individuale, dei diritti, della sostenibilità. E’ l’Europa dei cittadini, non quella di Van Rompuy.(Beppe Grillo, estratti dal discorso “L’Europa che vogliamo”, pronunciato a Strasburgo il 1° luglio 2014).Dobbiamo togliere di mezzo ogni ostacolo che impedisca ai cittadini di sapere cosa accade, chi prende le decisioni, chi ne fa le spese e chi governa senza essere mai stato eletto dal popolo, ma cambia la vita di chi resta senza lavoro, di chi non ha i soldi per comprarsi da mangiare, di chi è costretto a licenziare i suoi dipendenti o a dichiarare fallimento. Dobbiamo dire alla gente chi sono i nominati, da chi sono stati messi sulle loro poltrone e perché sanno solo ripetere che “serve più Europa”, “servono più soldi alle banche”, “serve più rigore”. L’austerity! Cioè tagli alla spesa pubblica, ma soprattutto ai salari, agli stipendi e alle pensioni. E quando qualcosa si taglia, qualcos’altro deve per forza aumentare: le tasse. Le tasse in Italia sono diventate così alte che ormai bisogna lavorare fino a ottobre non per guadagnare, ma solo per riuscire a pagarle. Ci hanno detto che la soluzione era l’austerity. Era una soluzione, certo, ma era quella sbagliata! In Irlanda e in Portogallo ha funzionato talmente bene che c’è stato un esodo quasi senza precedenti verso altri paesi.
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L’Aspen: rivolte senza rivoluzione, non ci fanno paura
Per fortuna le nostre sono proteste senza un vero progetto politico, capace di cambiare le cose e costruire un’alternativa sociale basata sulla giustizia. Lo dichiara l’Aspen Institute, influente think-tank dell’oligarchia mondiale, che in Italia annovera tra i suoi dirigenti personaggi come Enrico Letta e Giulio Tremonti. Finanziato da fondazioni come Rockefeller, Ford e Carnegie Corporation, l’Aspen lavora per «la creazione di un terreno comune di comprensione approfondita in uno scenario non ideologizzato». Originale l’ultimo studio commissionato al bulgaro Ivan Krastev, presidente del “Centro di strategie liberali” di Sofia e tipico esponente di quella “nuova classe dirigente” dell’Est europeo cresciuta a forza di commissioni internazionali, liberismo e “formazione liberale delle leadership”. Lo studio «fornisce lo sguardo dei “padroni del globo” nel trattare le rivolte degli ultimi anni», come se fossimo giunti alla fine di un’epoca fondata sui diritti.«L’unica “ideologia” che conquista cuore e menti, di fronte al feticcio meccanico del capitalismo disincantato attuale, resta tristemente la religione», scrive Dante Barontini su “Contropiano”. «Ma le rivolte nascono dalla crisi economica, dal peggioramento delle condizioni di vita, dalla confusa sensazione che “non ci sia futuro”, e tantomeno “miglioramento”». L’ideologia «arriva dopo, come “spiegazione” e promessa». Per questo «siamo arrivati, come mondo, ad un punto limite: e nessuno sa dove sia costruibile il passaggio epocale ad un altro modello di vita». All’Aspen, aggiunge Barontini, non interessa ovviamente “superare” il capitalismo: «La posizione “ideologica” è dunque saldamente conservatrice, ma questo non ha mai impedito ai padroni del mondo di guardare in faccia ai problemi reali per trovare anche ciò che serve alla conservazione». Lo sguardo di Krastev coglie momenti rilevanti, comuni a paesi lontani fra loro, per intercettare lo “spirito del tempo” e ovviamente neutralizzare la richiesta di cambianento.Per conto dell’Aspen, il bulgaro Krastev «analizza i movimenti di rivolta come da un osservatorio satellitare, disinteressandosi dei dettagli» e andando al sodo. Dice: «Le proteste differivano, ma gli slogan erano incredibilmente simili: ai quattro angoli del globo i manifestanti si scagliavano contro la corruzione delle élite, le crescenti diseguaglianze economiche, la mancanza di solidarietà e di giustizia sociale e il disprezzo per la dignità umana». Ma aggiunge: «I manifestanti, a differenza dei loro padri rivoluzionari, non mirano a un rovesciamento violento dell’ordine costituito». La nuova generazione degli “indignados” – di Grecia e Spagna, Italia e Ucraina, Brasile e Portogallo – non ci pensa proprio a “cambiare il sistema”: «Non possiede le conoscenze di base, le categorie, la cultura per poter pensare che questo “sistema” sia rovesciabile; non è insomma in grado di immaginare un altro realistico modo di vivere». Soprattutto, aggiunge Barontini, «è ai margini del pensiero politico, non dentro».Per Krastev, «si tratta di una rivoluzione senza ideologia e senza scopi definiti: in mancanza di alternative politiche, si risolve in uno scoppio di indignazione morale». Una febbre passeggera, che non spaventa affatto il potere. Lo studioso bulgaro, continua “Contropiano”, sembra profondamente consapevole del fatto che la gestione del mondo è troppo complessa per lasciarla decidere a opinioni labili, poco consapevoli e altamente disinformate («insomma, a libere elezioni»). Ed è perfettamente a suo agio nell’affontare in modo ironico il mantra dei “social network” come mezzo d’elezione delle nuove proteste planetarie: «I nuovi movimenti si concepiscono come reti, nella convinzione che queste possano avere la meglio sulla gerarchia: l’onnipotente rete è l’arma organizzativa d’elezione, allo stesso modo in cui il piccolo ma disciplinato partito rivoluzionario era l’arma d’elezione dei comunisti».E qui, osserva Barontini, scatta l’ironia crudele di chi è seduto in una lussuosa suite nel cielo del capitale nei confronti delle formiche formicolanti sulla superficie o nelle viscere della terra: «Uno che sa benissimo che “la rete” ha dei gestori, dei proprietari, dei sorveglianti». E lo sa ovviamente anche Krastev, che dice: «I governi hanno appreso in fretta a esercitare il controllo e la manipolazione nell’universo digitale. “Caro utente, sei stato schedato come partecipante a una massiccia turbativa dell’ordine pubblico”: questo il messaggio che i manifestanti ucraini si sono ritrovati sul cellulare a metà gennaio, nel momento esatto in cui la legislazione anti-dimostrazioni veniva approvata dal Parlamento. La stessa tecnologia che aveva portato la gente in strada l’ammoniva di tornarsene a casa». Gli attivisti di Occupy Wall Street sono stati trattati con forse più irritante sufficienza dall’establishment Usa: il pacchetto dei profili Facebook dei “sensibilizzati al movimento” è stato valutato 25 milioni di dollari. E qualche multinazionale delle vendite online o della pubblicità mirata – oltre che le agenzie di intelligence degli Stati Uniti – se l’è certamente comprato.Negli Stati Uniti o in Spagna, prosegue Barontini, gli esecutivi hanno prontamente riconosciuto la legittimità delle preoccupazioni espresse dai manifestanti e hanno dato mostra di ascoltare la piazza. Le proteste non hanno inciso sulle politiche dei governi; piuttosto, hanno cambiato il modo in cui questi comunicano ciò che fanno. Chiaro, no? «Un governo furbo non spiana le proteste popolari a manganellate, ma le “rintontonisce de bucie”. O, come si dice adesso, “cambia la comunicazione”». Il quasi-conflitto di oggi è pressoché innocuo, «molto più “potabile” della guerra rivoluzionaria novecentesca». Chiarisce Krastev: «Oggi, il sistema non interessa quasi più a nessuno. La rivoluzione attuale non è fatta di lettori; gli odierni studenti radicali si preoccupano solo di come essi stessi vivono il sistema, non della sua natura e dei meccanismi che lo governano. Non pensando in termini di gruppi sociali, questi ragazzi hanno un’esperienza comune, ma mancano di un’identità collettiva», in assenza di cultura politica.Riflettendo sulle proteste di São Paulo dell’estate scorsa, il ricercatore brasiliano Pablo Ortellado ha osservato che in tutto il Brasile i manifestanti protestavano sulla scorta di due messaggi simultanei e tra loro contraddittori: “Il governo non ci rappresenta” e “Vogliamo servizi pubblici migliori”. Era una protesta di consumatori radicali, più che di rivoluzionari utopici. Così, quando le condizioni di vita diventano intollerabili, chi oggi protesta «è portato a ritenere che ci sia una “ingiustizia” (dei ladri, una “casta”) che fa funzionare in modo distorto o inefficace un meccanismo altrimenti “buono”», sottolinea “Contropiano”. «I manifestanti sono individui esasperati: amano stare insieme e combattere insieme, ma non hanno un progetto collettivo», sostiene Krastev. «Diffidano delle istituzioni, ma non sono interessati a prendere il potere: sono una miscela tra un desiderio genuino di comunità e un incoercibile individualismo».I manifestanti di oggi, in fondo, si comportano come “consumatori” insoddisfatti. E così, l’arretramento politico dell’attuale società “ribelle” è tale che l’analista dell’Aspen «affonda il coltello nella piaga con autentica gioia», spiegando che «le proteste del XXI secolo somigliano, per alcuni versi, a quelle medioevali», quando le persone «non scendevano in piazza con l’ambizione di rovesciare il re o di sostituirlo con un altro a loro più gradito», ma si limitavano a manifestare «per obbligare il sovrano a fare qualcosa in loro favore, o per impedirgli di far loro del male». L’etica del rigetto può essere radicale e totale, come il rifiuto del capitalismo globale di Occupy Wall Street, oppure modesta e localistica, come le proteste contro la nuova stazione ferroviaria di Stoccarda. «Ma il principio è lo stesso: le proteste possono riuscire o fallire, ma ciò che ne definisce il profilo politico è un generalizzato “no”. Per essere gridato, questo “no” non ha più bisogno di leader o istituzioni: bastano telefonini e social network». Il potere ne ride apertamente, sapendo benissimo come aggirare e manipolare la protesta, mentre il neoliberismo totalitario dell’élite sta mandando in pensione la vecchia democrazia liberale, con elezioni ormai svuotate di senso e Stati senza più sovranità.«Per molti aspetti – chiosa l’analista dell’Aspen – le odierne proteste di massa sono atti in cerca di concetti, pratica senza teoria. Sono l’espressione più plateale della convinzione diffusa che le élite non governino nell’interesse del popolo e che l’elettorato ha perso il controllo sugli eletti». Ma oltre le manifestazioni non si va mai, aggiunge Barontini: «Proteste impolitiche, strumenti organizzativi affidati alla Rete, assenza di identità collettiva e progetto politico, legami reciproci labili… Una contestazione con queste caratteristiche non ha possibilità di mettere in crisi il potere. Basta un cerino di violenza – controllato da una mente politica (posizionata nel satellite iperuranio della finanza globale, per cui conto Krastev scrive) – per “far sciogliere come neve al sole” piazze anche più di grandi di Tahrir, al di là delle buone intenzioni o dell’estrazione sociale di chi le riempie». Nessuno progetta alternative al capitalismo globalizzato. «L’unica cosa di cui abbia timore questo potere è il sempre possibile riaffacciarsi del “comunismo”, il diavolo di San Pietroburgo, il soffio liberatore degli anni ‘60 e ‘70, dal Vietnam al ‘68, dal ‘77 a L’Avana». Krastev alla fine diventa esplicito: le proteste, come le elezioni, servono a tenere il più lontano possibile la rivoluzione, la promessa di un futuro radicalmente diverso. «Il “laureato senza futuro” non è il nuovo proletario», perché «confonde “ideologia” e “visione del mondo”». E il cambiamento continua a non apparire all’orizzonte.Per fortuna le nostre sono proteste senza un vero progetto politico, capace di cambiare le cose e costruire un’alternativa sociale basata sulla giustizia. Lo dichiara l’Aspen Institute, influente think-tank dell’oligarchia mondiale, che in Italia annovera tra i suoi dirigenti personaggi come Enrico Letta e Giulio Tremonti. Finanziato da fondazioni come Rockefeller, Ford e Carnegie Corporation, l’Aspen lavora per «la creazione di un terreno comune di comprensione approfondita in uno scenario non ideologizzato». Originale l’ultimo studio commissionato al bulgaro Ivan Krastev, presidente del “Centro di strategie liberali” di Sofia e tipico esponente di quella “nuova classe dirigente” dell’Est europeo cresciuta a forza di commissioni internazionali, liberismo e “formazione liberale delle leadership”. Lo studio «fornisce lo sguardo dei “padroni del globo” nel trattare le rivolte degli ultimi anni», come se fossimo giunti alla fine di un’epoca fondata sui diritti.
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Addio democrazia, Renzi e Silvio i manovali del piano
Le chiamano “riforme”, come fossero sinonimo di “migliorie”, secondo la vulgata mainstream accettata dai media come verità di fede. Ma sono soltanto le “indicazioni” – leggasi: diktat – che l’oligarchia euroatlantica da anni reitera all’Italia, a colpi di spread (Mario Monti) oppure confidando nell’appeal demiurgico di Renzi, che attraverso il ministro Padoan (Ocse) e con la collaborazione dell’immancabile “uomo di sinistra”, il ministro Poletti, propone la stessa cura-Monti spacciandola per innovazione entusiasmante. Tutto molto semplice: smantellare i punti cardine della Costituzione antifascista, quella che Jamie Dimon (Jp Morgan) ritiene obsoleta, perché tutela l’interesse pubblico di cittadini e lavoratori contro la legge del business. Quella che – con l’applicazione del Ttip, il Trattato Transatlantico voluto dai padroni di Obama e imposto a Renzi – farà sparire in tutta Europa le ultime garanzie di tutela su ambiente, salute, lavoro e sicurezza alimentare, liquidando la qualità del made in Italy. Logica traduzione: sbaraccare lo Stato di diritto e il “rischio” che possa essere governato dai cittadini tramite politici onesti e responsabili.Marco Travaglio lo chiama “il patto Renzi-Berlusconi”, individuandone la declinazione italiana di oggi, i suoi manovali. Ma è un “patto” che viene da lontano, a metà strada tra Wall Street, Bruxelles e Berlino. «Unendo i puntini delle varie riforme vaganti tra governo e Parlamento, costituzionali e ordinarie, ma anche di certe prassi quotidiane passate sotto silenzio per trasformarsi subito in precedenti pericolosi, come le continue interferenze del Quirinale nell’autonomia del Parlamento, della magistratura e della stampa, viene fuori un disegno che inquieta», scrive Travaglio sul “Fatto Quotidiano”. «Una democrazia verticale, cioè ben poco democratica: sconosciuta, anzi opposta ai principi ispiratori della Costituzione, fondata invece su un assetto orizzontale in ossequio alla separazione e all’equilibrio dei poteri». Svolta autoritaria: «All’insaputa del popolo italiano, mai consultato sulla riscrittura della Costituzione, e fors’anche di molti parlamentari ignoranti o distratti, il combinato disposto di leggi, decreti e prassi – di per sé all’apparenza innocue – rischia di costruire un sistema illiberale e piduista fondato sullo strapotere del più forte e sul depotenziamento degli organi di controllo e garanzia».Il pericolo, sintetizza Travaglio, è una «dittatura della maggioranza». Una “democratura”, come direbbe Giovanni Sartori, «a disposizione del primo “uomo solo al comando” che se ne impossessa, diventando intoccabile, incontrollabile, non contendibile, dunque invincibile». Unendo l’ultimo dei “puntini” – il più importante, anche se Travaglio lo sfuma, forse dandolo per scontato – si scopre che il cervello della manovra per liquidare la residua democrazia italiana non risiede a Roma, ad Arcore o a Firenze, ma nei centri di potere economico-finanziari e tecnocratici che negli ultimi trent’anni hanno logorato senza sosta i gangli vitali della fragile e sgangherata democrazia italiana, per assoggettarla a regole scritte altrove, nei santuari del neoliberismo: fine della sovranità nazionale, debito pubblico ostaggio della speculazione finanziaria, demonizzazione del deficit, taglio della spesa pubblica e del welfare, attacco ai salari, flessibilità e precarizzazione del lavoro (Jobs Act), massacro delle pensioni (riforma Fornero). Tutto questo è avvenuto grazie all’alibi del debito, in realtà esploso dopo il divorzio tra Bankitalia e Tesoro nel 1981, che privò di colpo il paese della possibilità di finanziare il deficit – cioè l’investimento pubblico – a costo zero.Da allora, tutti i “tecnici” al potere (in prima linea e nelle retrovie: Draghi, Ciampi, Amato, Andreatta, Prodi, Dini, Padoa Schioppa, Visco, Treu, Bassanini, Monti) hanno proseguito la missione: dire agli italiani che “bisogna” suicidare lo Stato, cioè spillare più soldi – in tasse – di quanti lo Stato non sia disposto a spendere per i cittadini. “Lo vuole l’Europa”, naturalmente, ovvero la Germania, interessata a sbarazzarsi della concorrenza industriale italiana, e lo vuole – da sempre – l’élite economica euroatlantica, insofferente alla relativa autonomia di paesi come l’Italia, capaci di sviluppare benessere diffuso (nonostante la casta corrotta dei politici) proprio grazie alla spesa pubblica strategica dello Stato, che finisce per fare concorrenza al “mercato”, ovvero ai signori delle multinazionali. Sono loro, i “padroni dell’universo”, gli unici a comandare oggi – a fare le leggi che contano – grazie alle lobby insediate a Bruxelles e a organismi sovranazionali pressoché onnipotenti, dal Wto alla Banca Mondiale, dal Fmi alla Bce, dal Bilderberg alla Banca dei Regolamenti Internazionali. Tutto il potere che conta è verticalizzato, nel sistema neo-feudale dell’euro, in mano a poche “menti raffinatissime” che vogliono la morte per fame dello Stato democratico e la impongono mediante rigore e austerity, Fiscal Compact, unione bancaria europea, pareggio di bilancio.Nella sua lunga analisi, Travaglio osserva la traduzione italiana del piano, affidato a Renzi e Berlusconi con la regia di Napolitano sin dai tempi di Monti (Goldman Sachs, Commissione Trilaterale) e Letta (Aspen, Bilderberg). Il fondatore del “Fatto” individua i punti-chiave della definitiva archiviazione della macchina democratica così come l’abbiamo conosciuta finora. La spaventosa legge elettorale, battezzata “Italicum”, che impedirebbe ai cittadini di eleggere i loro candidati. Il Senato, ridotto a comparsa della democrazia. La fine dell’opposizione, con l’emarginazione dei parlamentari scomodi nelle commissioni (il caso Mineo) e una riforma costituzionale che «disarma le minoranze, istituzionalizzando la “ghigliottina” calata dalla presidente Laura Boldrini contro il M5S che tentava di impedire la conversione in legge del decreto-regalo alle banche». E mentre vengono falciati i poteri di controllo, il capo dello Stato abdica al suo storico ruolo di garanzia per ripiegare su una «funzione gregaria del governo», se per eleggerlo basteranno 33 senatori, dopo che il premier – con la legge-truffa per le elezioni – disporrà «del 55% dei deputati da lui nominati».Chi andrà al governo con l’Italicum, continua Travaglio, controllerà anche la Corte Costituzionale, il Csm, i procuratori della Repubblica: un’ingerenza mai vista prima del potere esecutivo, che – con le nuove regole – metterà al guinzaglio il potere giudiziario, proprio come sognava di fare Licio Gelli. Su tutto, resta ovviamente in piedi l’immunità parlamentare anche per i neo-senatori “nominati”, cioè sindaci e consiglieri regionali: «Basterà che un consiglio regionale li nomini senatori, e nel tragitto dalla loro città a Roma verranno coperti dallo scudo impunitario, che impedirà ai magistrati di arrestarli, intercettarli e perquisirli senza l’ok di Palazzo Madama». Tutto questo proviene dal giovane Renzi: interessato a “rottamare” la democrazia, si guarda bene dal toccare le due leggi-vergogna sull’informazione, la Gasparri sulla televisione e la Frattini sul conflitto d’interessi, mentre i grandi giornali italiani restano in mano a editori impuri come «imprenditori, finanzieri, banchieri, palazzinari (per non parlare di veri o finti partiti, con milioni di fondi pubblici), perlopiù titolari di aziende assistite e/o in crisi e dunque ricattabili dal governo, anche per la continua necessità di sostegni pubblici». Non è strano, quindi, che non raccontino ciò che sta davvero accadendo.Addio, cittadini italiani: «Espropriati del diritto di scegliersi i parlamentari, scippati della sovranità nazionale (delegata a misteriose e imperscrutabili autorità europee), i cittadini non ancora rassegnati a godersi lo spettacolo di una destra e di una sinistra sempre più simili e complici, che fingono di combattersi solo in campagna elettorale, possono rifugiarsi in movimenti anti-sistema ancora troppo acerbi per proporsi come alternativa di governo (come il M5S); o inabissarsi nel non-voto (che sfiora ormai il 50%)». In teoria, la Costituzione prevede alcuni strumenti di democrazia diretta, come i referendum abrogativi: «Che però, prevedibilmente, saranno sempre più spesso bocciati dalla Consulta normalizzata». Restano le leggi d’iniziativa popolare, peraltro quasi mai discusse dal Parlamento, ma i “padri ricostituenti” hanno pensato anche a queste, «quintuplicando la soglia delle firme necessarie, da 50 a 250 mila. Casomai qualcuno s’illudesse ancora di vivere in una democrazia».Nella peggiore delle ipotesi, l’allarme di Travaglio sarà costretto a impallidire se il Trattato Transatlantico che avanza a porte chiuse fosse davvero approvato, come vogliono Obama e Renzi, entro la fine del 2015: i giudici italiani non avrebbero più nessun potere contro le pretese delle multinazionali, pronte a chiedere maxi-risarcimenti a Stati e governi che oseranno opporre leggi a tutela del territorio, dei lavoratori, delle persone. E se a qualcuno il “nuovo ordine” non starà bene, l’Unione Europea – ora guidata dall’impresentabile oligarca Juncker – sta già addestrando in gran segreto l’Eurogendfor, polizia militare antisommossa e multinazionale, incaricata di reprimere le proteste: a caricare i cortei italiani potranno essere agenti francesi e olandesi, poliziotti spagnoli e portoghesi. Entro due o tre anni, secondo i critici più pessimisti, la Costituzione italiana sarà ricordata soltanto sui libri di storia.Le chiamano “riforme”, come fossero sinonimo di “migliorie”, secondo la vulgata mainstream accettata dai media come verità di fede. Ma sono soltanto le “indicazioni” – leggasi: diktat – che l’oligarchia euroatlantica da anni reitera all’Italia, a colpi di spread (Mario Monti) oppure confidando nell’appeal demiurgico di Renzi, che attraverso il ministro Padoan (Ocse) e con la collaborazione dell’immancabile “uomo di sinistra”, il ministro Poletti (Lega Coop), propone la stessa cura-Monti spacciandola per innovazione entusiasmante. Tutto molto semplice: smantellare i punti cardine della Costituzione antifascista, quella che Jamie Dimon (Jp Morgan) ritiene obsoleta, perché tutela l’interesse pubblico di cittadini e lavoratori contro la legge del business. Quella che – con l’applicazione del Ttip, il Trattato Transatlantico voluto dai padroni di Obama e imposto a Renzi – farà sparire in tutta Europa le ultime garanzie di tutela su ambiente, salute, lavoro e sicurezza alimentare, liquidando la qualità del made in Italy. Logica traduzione: sbaraccare lo Stato di diritto e il “rischio” che possa essere governato dai cittadini tramite politici onesti che abbiano a cuore l’Italia.
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Guido Rossi: conta solo il denaro, la democrazia è finita
omo del regime economico, non solo italiano ma europeo, che ci condiziona dagli anni ‘80», da quando cioè i mercati sono diventati «il valore di riferimento», e il denaro «la misura di tutte le cose». Tutto è denaro, quindi ogni bene pubblico è privatizzabile. Con tanti saluti allo Stato di diritto.C’è un sistema ideologico alla base delle politiche economiche, accusa Rossi in un editoriale sul “Sole 24 Ore” ripreso da “Micromega”: «Un erroneo concetto di libertà ha fatto sì che le scuole, gli ospedali e persino le prigioni possano essere privatizzate a scopo di lucro. E se così è, perché non dovrebbe essere, allo stesso scopo, privatizzato anche ogni ufficio pubblico?». Questo sistema, continua Rossi, ha creato due conseguenze parallele: «Le ineguaglianze, delle quali ha dato un’impareggiabile recente documentazione il tanto discusso libro di Thomas Piketty “Le capital au XXI siècle”», e naturalmente «la corruzione, sia nel settore pubblico sia in quello privato». Secondo la “London Review of Books”, che parla di “Disastro italiano”, l’Italia in Europa non è un caso anomalo, ma piuttosto una sorta di concentrato, visto che «la manipolazione da parte dei poteri esecutivi nei confronti dei legislativi e la generale involuzione e crisi delle classi politiche causano un silenzioso deficit di democrazia, alimentato da una quasi assoluta scarsità di mezzi di informazione indipendenti e con un aumento della corruzione».Un panorama impressionante in tutti i paesi: dalla Germania di Helmut Kohl, indiscusso cancelliere per 16 anni, che ricevette due milioni di marchi tedeschi in fondi neri, «rifiutandosi di rivelare il nome dei donatori per timore che emergessero i favori che avevano ricevuto in cambio», alla Francia di un altro super-potente, il presidente Jacques Chirac, in sella per 12 anni, che a fine mandato (cessata l’immunità) fu accusato di abuso d’ufficio, peculato e conflitto di interessi. Clamoroso, ancora in Germania, il governo del socialdemocratico Gerhard Schröder, che garantì un prestito da un milione di euro a Gazprom per creare una pipeline nel Baltico, «poche settimane prima che lo stesso cancelliere, terminato il mandato, diventasse consulente di Gazprom a un compenso molto maggiore di quello fino a quel momento ricevuto per governare il paese». Dalla Grecia alla Spagna non si salva nessuno. Spiccano, in Gran Bretagna, i favori elargiti alla Faith Foundation di Tony Blair, il rottamatore della sinistra inglese.«Le diseguaglianze dovute all’abnorme concentrazione in poche mani della ricchezza e le varie forme di corruzione sono indissolubilmente legate», sottolinea Guido Rossi, e costituiscono «la conseguenza principale e più grave dell’intreccio ormai inevitabile fra politica ed economia». Non è un caso che questo intreccio, nelle ideologie contemporanee, diventi inestricabile, al punto che le stesse istituzioni politiche ancora formalmente democratiche «diventino a loro volta causa ed effetto delle diseguaglianze e della corruzione». Non ne sono immuni neppure gli Usa, dove si sta erodendo una Costituzione nata per «assicurare l’indipendenza del governo federale da chiunque non fosse il solo popolo», secondo le famose parole di James Madison. Nel suo libro-denuncia del 2011 sulla “Repubblica perduta” (“Republic, Lost: How Money Corrupts Congress – And a Plan to Stop It”), Lawrence Lessig spiega che la “gift economy” americana prevede uno scambio corruttivo fatto di «favori e rapporti», innescando un conflitto istituzionale che minaccia la democrazia americana, secondo il grande filosofo Ronald Dworkin. Nel 2010 e poi il 2 aprile 2014, infatti, la Corte Suprema ha riconosciuto il diritto costituzionale di «finanziare candidati e campagne elettorali senza limiti alle somme di denaro profuse».Di conseguenza, secondo Lessig, il denaro «è diventato il problema della politica americana e la radice di ogni altro male, che avvelena la fiducia del cittadino nel governo e nella democrazia, divenuta una sorta di sciarada». Così, osserva Rossi, emerge «un virus distruttivo delle democrazie, che induce i tre poteri dello Stato a confrontarsi fra loro nel tentativo di combattere senza successo la corruzione pubblica, che anche quando viene individuata rimane senza sanzione», confermando l’intreccio tra politica e affari. «Né i grandi banchieri né i politici corrotti sono di norma puniti con la reclusione, perché entrambi sono, secondo l’espressione americana, “too big to jail” (troppo importanti per la galera)». E’ così che, lentamente, soccombe il potere che più di ogni altro dovrebbe combattere le disuguaglianze: la giustizia. La mondializzazione tende a privatizzare anche quella: «Le sanzioni contro la corruzione internazionale delle grandi multinazionali globalizzate sono comminate con il versamento di cospicue somme di danaro, attraverso accordi con organismi del potere esecutivo e delle agenzie indipendenti (Doj, Sec), con una giustizia negoziata e privatizzata, secondo la perversa ideologia in voga».In questo modo, «la repressione della corruzione delle grandi società viene definita al di fuori delle autorità giurisdizionali, attraverso una collaborazione interna e un’autodichiarazione di colpevolezza da parte delle società che, pur di evitare la giustizia penale, pericolosa sotto ogni aspetto, anche quello reputazionale, preferiscono dichiararsi colpevoli e collaborare utilizzando complessi sistemi di indagini interne». Si chiamano “accordi di giustizia”, e sono semplici trattative. Senza più una vera giustizia, la corruzione pubblica e privata incoraggiata dalla deregulation continua a dilagare, senza freni, assumendo forme «di apparente legalità, difficilmente sanzionabili». Così, per Rossi, «la lotta contro le disuguaglianze e le corruzioni, pubbliche e private, illegali o elusive, deve essere ormai considerata il principale obiettivo per far sopravvivere le società che le corrette idee del passato, prima della loro disgregazione, ci avevano consegnato attraverso la tutela dei diritti dei cittadini».Plutocrazia, tutto il potere all’élite dei più ricchi. Se ormai conta solo il denaro – ed è quello a decidere chi sale e chi scende, chi vince e chi perde – possiamo dire addio alla politica, alla giustizia e alla stessa democrazia dei diritti. La corruzione dilagante? E’ solo una naturale conseguenza, in un mondo degradato dallo strapotere del denaro, immense ricchezze nelle mani di pochi oligarchi. Ne è convinto Guido Rossi, economista italiano e storico “controllore” della Consob, l’agenzia di vigilanza borsistica. La corruzione dilagante, che ha ormai «permeato tutta la vita politica, economica e sociale del nostro paese», segnando l’evidente «declino dell’ordine e delle istituzioni politiche», è un vero e proprio «sintomo del regime economico, non solo italiano ma europeo, che ci condiziona dagli anni ‘80», da quando cioè i mercati sono diventati «il valore di riferimento», e il denaro «la misura di tutte le cose». Tutto è denaro, quindi ogni bene pubblico è privatizzabile. Con tanti saluti allo Stato di diritto.