Archivio del Tag ‘diritti’
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La guerra dell’Ue contro la nostra civiltà democratica
L’attuale guerra condotta con mezzi commerciali e finanziari sta trasformando l’Ue nel più grande esperimento di riduzione dei diritti umani. Il tema più dibattuto e complesso è quello sullo status dei diritti sociali nell’odierna Europa: si è passati lentamente dalla concezione che le esigenze di protezione sociale potessero costituire sviluppo e potenziamento delle libertà individuali, all’ideologia ultraliberista del “s’aiuti dunque chi può”, tipico pensiero spietato delle classi privilegiate nei riguardi delle classi povere. La polarizzazione della ricchezza e lo svuotamento della classe media ha portato con sé una guerra accanita nella quale i più forti schiacciano inesorabilmente i deboli e gl’inesperti. Gli uomini, senza unità di scopo, guidati dal solo dogma della legge di mercato, vengono manipolati verso il progetto europeo e parallelamente verso una progressiva degradazione strutturale del rango e dell’orgoglio delle nazioni aderenti ad esso.Il dissidio tra democrazia costituzionale italiana e trattati Ue è del tutto evidente, se si analizza il modello sociale ed economico che la Costituzione italiana ha indubbiamente abbracciato nel modello del 1948. Il dovere alla solidarietà, considerato come “base della convivenza democratica”, viene completamente disatteso dall’impianto europeo, in particolar modo in quella che è stata la gestione della crisi economica dal 2008 in poi: comunità nazionali deprivate delle conquiste economico-sociali di oltre un secolo di lotte, con una subdola gradualità che non deve consentirgli di accorgersene in tempo utile (attraverso meccanismi infernali di controllo totalizzante ed anti-democratico come la Troika). La competizione inevitabile e programmatica tra Stati aderenti all’Unione esclude la solidarietà tra i membri: economie di interi Stati si stanno completamente dissolvendo in nome dell’irrazionale equazione Ue = euro, rendendo schiave generazioni di popoli a cui si predicano “i diritti civili”, non consentendo loro di esercitare diritti politici e sociali.Allo sfaldamento della base economica dello Stato democratico italiano corrisponde dunque un’accelerazione della perdita di diritti in toto, che è pericolosamente derivante dall’originaria incompatibilità del disegno di Maastricht coi principi fondamentali della nostra democrazia costituzionale. Le “riforme” pretese dal “cammino di convergenza”, che si è ormai trasformato in un campo di macerie da Berlino ad Atene, non sono altro che il mezzo per accelerare irreversibilmente la caduta del modello socio-economico costituzionale per l’instaurazione dell’impianto ordoliberista, che esclude totalmente la solidarietà e la centralità della persona umana.(Martina Carletti, “L’Unione Europea e la distruzione della solidarietà sociale”, da “Appello al Popolo” del 22 settembre 2014).L’attuale guerra condotta con mezzi commerciali e finanziari sta trasformando l’Ue nel più grande esperimento di riduzione dei diritti umani. Il tema più dibattuto e complesso è quello sullo status dei diritti sociali nell’odierna Europa: si è passati lentamente dalla concezione che le esigenze di protezione sociale potessero costituire sviluppo e potenziamento delle libertà individuali, all’ideologia ultraliberista del “s’aiuti dunque chi può”, tipico pensiero spietato delle classi privilegiate nei riguardi delle classi povere. La polarizzazione della ricchezza e lo svuotamento della classe media ha portato con sé una guerra accanita nella quale i più forti schiacciano inesorabilmente i deboli e gl’inesperti. Gli uomini, senza unità di scopo, guidati dal solo dogma della legge di mercato, vengono manipolati verso il progetto europeo e parallelamente verso una progressiva degradazione strutturale del rango e dell’orgoglio delle nazioni aderenti ad esso.
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Laurea inutile, qui lavoreranno solo schiavi sottopagati
Perché mai formare giovani laureati, in un paese che l’euro-crisi sta declassando al rango di colonia per manovalanza a basso costo? «Continuando a tagliare sul finanziamento di università e ricerca si continuerà ad aggravare una situazione che già ora sembra essere irrecuperabile», afferma Francesco Sylos Labini: «Un folle gioco al ribasso che rende necessario, per supplire alla mancanza d’innovazione, abbassare i costi del lavoro e i diritti dei lavoratori». E’ il “miracolo” dell’Eurozona, che fabbrica concorrenza sleale a beneficio della sola Germania. La Deutsche Bank domina l’Unione Europea attraverso la Commissione e la Bce, col pieno accordo dei super-poteri finanziari atlantici, rappresentati dal Fmi e dalle potentissime lobby che – attraverso trattati-capestro come il Ttip – a Bruxelles dettano le regole per spianare la strada al business, smantellando lo stato sociale e i diritti dei cittadini, consumatori e lavoratori. Lo scalpo dell’Italia? Uno dei punti-chiave del piano: per indossare i panni di kapò della nuova Europa, la Germania ha preteso che venisse rasa al suolo la temutissima concorrenza italiana. Incluso, ovviamente, il capitolo della formazione.“Hanno scelto l’ignoranza”, è il titolo della lettera.-appello che Sylos Labini ha scritto con un gruppo di scienziati di diversi paesi. Ripresa da tutta la stampa europea, la lettera è stata finora firmata da più di 15.000 persone. Il titolo è ispirato a una famosa riflessione di Derek Bok, ex presidente dell’università di Harvard: «Se pensi che l’istruzione sia costosa, prova l’ignoranza». Il progressivo taglio di finanziamenti all’istruzione e alla ricerca – scrive Sylos Labini sul “Fatto Quotidiano” – sta rapidamente portando a una situazione di non ritorno molti paesi in cui l’ignoranza, cioè il deficit di preparazione avanzata, riguarderà, purtroppo, le fondamenta strutturali. L’Italia, ad esempio, ha circa la metà (21%) di laureati nella fascia di popolazione tra 25 e 34 anni della media Ocse (38%). Inoltre, nell’ultimo decennio il numero di immatricolati è diminuito del 20%: «Il capro espiatorio della crisi sembra essere l’università incapace di preparare al mondo del lavoro», ma in realtà, aggiunge Sylos Labini, «c’è una bassissima richiesta di personale con formazione avanzata: la quota di occupati nelle professioni ad alta specializzazione è tra le più basse in Europa, come anche la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese italiane (la metà rispetto alla media europea) mentre i ricercatori delle imprese rispetto agli occupati sono un terzo della Francia e della Germania».Renzi sostiene che, come soluzione, le università italiane dovrebbero imitare i garage della Silicon Valley, dove, nell’immaginario collettivo, nascerebbero l’innovazione e il business grazie a giovani scamiciati e geniali aiutati dalle forze del libero mercato? «In questa fantasiosa rappresentazione della realtà ci si dimentica del fatto che, nel paese per altri versi paladino del libero mercato, la ricerca di base è finanziata dal governo federale per 40 miliardi di dollari all’anno. Se si possono impunemente raccontare queste favole – conclude Sylos Labini – significa che li stiamo toccando con mano, i danni dell’ignoranza». Se n’è sicuramente reso conto il milione di persone che ha manifestato in piazza con la Cgil, un popolo «che si è ritrovato orfano di un qualsiasi riferimento non solo politico ma anche culturale». La farsa, intanto, deve continuare: il governo enfatizza i 150.000 nuovi assunti dell’ultimo periodo, mentre prepara i contratti-spazzatura del Jobs Act. Un lavoro per tutti, magari pagato 450 euro al mese come per i mini-job alla base del super-export tedesco, di cui la Germania non si vergogna. Prima o poi anche gli sfruttati tedeschi esploderanno, avverte Luciano Gallino. Ma intanto si continua a demolire tutto ciò che può dare fastidio all’élite industriale e finanziaria di Berlino.Perché mai formare giovani laureati, in un paese che l’euro-crisi sta declassando al rango di colonia per manovalanza a basso costo? «Continuando a tagliare sul finanziamento di università e ricerca si continuerà ad aggravare una situazione che già ora sembra essere irrecuperabile», afferma Francesco Sylos Labini: «Un folle gioco al ribasso che rende necessario, per supplire alla mancanza d’innovazione, abbassare i costi del lavoro e i diritti dei lavoratori». E’ il “miracolo” dell’Eurozona, che fabbrica concorrenza sleale a beneficio della sola Germania. La Bundesbank domina l’Unione Europea attraverso la Commissione e la Bce, col pieno accordo dei super-poteri finanziari atlantici, rappresentati dal Fmi e dalle potentissime lobby che – attraverso trattati-capestro come il Ttip – a Bruxelles dettano le regole per spianare la strada al business, smantellando lo stato sociale e i diritti dei cittadini, consumatori e lavoratori. Lo scalpo dell’Italia? Uno dei punti-chiave del piano: per indossare i panni di kapò della nuova Europa, la Germania ha preteso che venisse rasa al suolo la temutissima concorrenza italiana. Incluso, ovviamente, il capitolo della formazione.
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Cucchi incarcerato solo perché classificato come straniero
La sentenza di assoluzione è il nuovo anello della catena di eventi relativi alla morte di Stefano Cucchi, non ancora l’ultimo. Altri se ne aggiungeranno, con il ricorso in Cassazione e i nuovi sviluppi giudiziari. Per adesso la Corte d’assise d’appello ha ritenuto insufficienti le prove raccolte contro tre guardie carcerarie e tre infermieri (per la seconda volta) e sei medici (ribaltando il giudizio di primo grado), dopo un’indagine che forse poteva essere condotta diversamente e di un’impostazione dell’accusa cambiata più volte in corsa. Tuttavia le cause della drammatica fine di quel giovane entrato vivo e uscito cadavere dalla prigione in cui era stato rinchiuso risalgono a comportamenti precedenti a quelli finiti sotto processo, responsabilità di strutture statali che non sono mai state giudicate. Fin dalla sera dell’arresto di Cucchi, 15 ottobre 2009. Lo sorpresero con qualche dose di erba e cocaina, lo accompagnarono in una caserma dei carabinieri e Stefano ha cominciato a morire lì, prima stazione di una via crucis dalla quale non s’è salvato.Nel verbale d’arresto i militari dell’Arma scrissero che Cucchi era «nato in Albania il 24.10.1975, in Italia senza fissa dimora»; peccato che fosse nato a Roma in tutt’altra data, e che l’abitazione in cui risultava ufficialmente residente fosse appena stata perquisita, senza esito, alla presenza sua e dei genitori. Evidentemente il verbalizzante aveva utilizzato, sul computer, il modello riempito in precedenza con i dati di un albanese, senza preoccuparsi di modificarli: una sciatteria che ebbe conseguenze fin dalla mattina successiva, visto che il giudice che convalidò l’arresto negò i domiciliari per la «mancanza di una fissa dimora risultante con certezza dagli atti». Fosse tornato a casa, sia pure da detenuto, probabilmente Stefano sarebbe ancora vivo. Incredibile, ma vero.Nello stesso provvedimento venne anche scritto che «il prevenuto, interpellato, dichiara di non voler dare notizia del suo avvenuto arresto ai propri familiari»; in realtà i genitori l’avevano visto quasi in diretta, perché dopo il fermo e la perquisizione i carabinieri gliel’avevano comunicato. E al papà che chiedeva se dovesse avvisare l’avvocato, risposero che non c’era bisogno, avevano già provveduto loro. La mattina dopo, però, Stefano non trovò in aula il difensore di fiducia che voleva, ma uno d’ufficio. Quel giorno, nei sotterranei del tribunale, Cucchi è stato picchiato come risulta dalle stessa sentenza che, in primo grado, non era riuscita a individuare le prove per condannare i responsabili (in quella d’appello si vedrà, ma è verosimile che sia avvenuta la stessa cosa).La morte del trentenne però – che certamente aveva un fisico gracile ma sano, tanto che poche ore prima di finire in gattabuia era stato nella palestra che frequentava regolarmente – non dipende solo dalle botte. È dovuta al viavai tra il carcere di Regina Coeli (dove a un medico che aveva constatato i segni delle percosse disse che era caduto dalle scale, tipica giustificazione dei detenuti che non si fidano di denunciare gli aggressori) e l’ospedale dove si decise di non farlo restare per evitare i piantonamenti, fino al ricovero nel reparto penitenziario delPertini: un pezzo di carcere trasferito dentro un policlinico.Anche qui si sono susseguiti eventi che hanno contribuito alla tragica fine di Stefano: l’assurdo divieto per i genitori che non solo non poterono incontrarlo prima di ottenere il permesso del giudice – e siccome c’era di mezzo il fine settimana, il via libera arrivò solo il giorno della morte – ma per loro era vietato anche ricevere informazioni sul suo stato di salute. Avevano avuto la comunicazione del ricovero, ma era impossibile conoscerne il motivo: una regola talmente incredibile che dopo la morte di Stefano fu cancellata dalla burocrazia penitenziaria. In quei giorni di isolamento – con papà e mamma lasciati dietro una porta blindata, ai quali fu concesso solo di lasciare un cambio per il figlio, rimasto però integro perché nessuno si preoccupò di aiutarlo a cambiarsi visto che non si poteva muovere dal letto – Cucchi chiese inutilmente di parlare col suo avvocato o con un assistente del centro per tossicodipendenti che frequentava in passato.Richiesta che non è mai uscita dal chiuso dell’ospedale Pertini, nonostante fosse annotata sul diario clinico, visto che per quel motivo Stefano rifiutava il cibo e le cure. Con la calligrafia ormai malferma per lo stato di sofferenza in cui versava, aveva perfino scritto una lettera all’operatore sociale, per chiedergli aiuto: qualcuno la spedì dopo che era morto. Per tutta questa incredibile catena di fatti e misfatti, e altri ancora, Stefano Cucchi «ha concluso la sua vita in modo disumano e degradante», come scrisse il magistrato Sebastiano Ardita, all’epoca funzionario dell’amministrazione carceraria, nella relazione ispettiva del dicembre 2009. Cinque anni dopo quella fine è rimasta senza colpevoli, ma il problema non è certo – o non solo – l’ultima sentenza.(Giovanni Bianconi, “Cucchi, tutti gli incredibili errori”, dal “Corriere della Sera” del 2 novembre 2014).La sentenza di assoluzione è il nuovo anello della catena di eventi relativi alla morte di Stefano Cucchi, non ancora l’ultimo. Altri se ne aggiungeranno, con il ricorso in Cassazione e i nuovi sviluppi giudiziari. Per adesso la Corte d’assise d’appello ha ritenuto insufficienti le prove raccolte contro tre guardie carcerarie e tre infermieri (per la seconda volta) e sei medici (ribaltando il giudizio di primo grado), dopo un’indagine che forse poteva essere condotta diversamente e di un’impostazione dell’accusa cambiata più volte in corsa. Tuttavia le cause della drammatica fine di quel giovane entrato vivo e uscito cadavere dalla prigione in cui era stato rinchiuso risalgono a comportamenti precedenti a quelli finiti sotto processo, responsabilità di strutture statali che non sono mai state giudicate. Fin dalla sera dell’arresto di Cucchi, 15 ottobre 2009. Lo sorpresero con qualche dose di erba e cocaina, lo accompagnarono in una caserma dei carabinieri e Stefano ha cominciato a morire lì, prima stazione di una via crucis dalla quale non s’è salvato.
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Della Luna: tutti i falsi dogmi che fanno la nostra rovina
E’ tutto falso, ma c’è un problema: sembra vero. Viviamo in mezzo a verità di fede, spacciate per realtà. Basta ripeterle all’infinito, sui giornali e in televisione. I mercati infallibili, la spesa pubblica da tagliare, l’inevitabile Europa dell’euro. Dogmi che servono a occultare il conflitto tra oligarchia parassitaria e cittadini-lavoratori. Economia, legittimazione del potere, interpretazione della storia. Avverte Marco Della Luna: chi osa uscire dal recinto dei dogmi viene etichettato come «antagonista, estremista, antisociale, populista», viene delegittimato ed emarginato, «finché i fatti e le realtà censurate non rompono l’incantesimo del sistema dogmatico». E’ la legge del regime attuale, con la «classe finanziaria» che si prende quasi tutto il reddito disponibile ed erode, «attraverso l’indebitamento pubblico e le tasse», anche il risparmio. Questo, grazie al consenso e all’acquiescenza «ottenuti tanto mediante l’indottrinamento con dogmi, quanto con il sistematico nascondimento di conflitti di interessi, che non devono apparire onde evitare che la gente percepisca il male che le viene fatto».Nel suo blog, Della Luna offre un drammatico “inventario” dei dogmi su cui si fonda la falsa verità spacciata dal sistema. Prima favola, quella dei “mercati efficienti”, cioè liberi e trasparenti: moneta, credito, materie prime ed energia non sono oggetto di monopoli e di cartelli. I mercati «prevengono o correggono efficientemente le crisi e realizzano l’ottimale distribuzione delle risorse e dei redditi», in più «abbassano i prezzi e le tariffe» e inoltre «puniscono gli Stati inefficienti e spendaccioni mentre premiano quelli efficienti e virtuosi». Di conseguenza, «la regolazione della politica va ultimamente affidata ad essi, non ai Parlamenti». Così si arriva al secondo dogma, quello della spesa pubblica concepita come zavorra: «La spesa pubblica è la causa dell’indebitamento pubblico, il quale a sua volta è la causa delle tasse, della recessione e dell’inefficienza del sistema». Obiettivo? Facile: «Tagliare la spesa pubblica come tale e affidare i servizi pubblici alla gestione del mercato, cioè alla logica del profitto».Tutto questo, in Europa, sotto il grande ombrello del terzo dogma, quello dell’integrazione europea: che è al tempo stesso «benefica, possibile e inevitabile». Dunque, chi la contrasta «si oppone a una tendenza naturale e storica, va contro la realtà e gli interessi di tutti». L’Europa quindi «legittimamente detta le regole a cui tutti devono adeguarsi». A cominciare dalla moneta unica, cioè il dogma dell’euro, valuta che «produce la convergenza delle economie europee, quindi sostiene l’assimilazione e l’integrazione tra i paesi europei, favorisce la crescita economica e la loro solidarietà». Bugia per bugia, ecco il quinto dogma: la preziosità e scarsità oggettiva della moneta, che «non è un simbolo prodotto a costo zero, ma è un bene, una commodity, con un costo di produzione che giustifica il fatto che coloro che la producono (come moneta primaria o creditizia), in cambio di essa, tolgano grandi quote del reddito a chi produce beni e servizi reali». Lo fanno anche grazie alla pretesa “indipendenza” della banca centrale, sesto dogma: la banca centrale è indipendente dalla politica, dai governi e dai Parlamenti. «Non è vero che renda la politica dipendente dai banchieri, bensì assicura al paese un’adeguata disponibilità di liquidità e di credito, previene le bolle speculative e le crisi bancarie».Il settimo dogma è quello della contrazione salariale: «Se si riducono i salari e i diritti dei lavoratori, se si rende liberi i licenziamenti e impraticabili gli scioperi, allora i costi di produzione calano, l’economia diventa più competitiva, la disoccupazione viene riassorbita, gli investimenti aumentano e diventiamo tutti più ricchi, e non è vero che la domanda interna cali». Il lavoro scarseggia ma l’immigrazione aumenta? Nessun problema, perché l’immigrazione – ottavo dogma – è sempre benefica: «Va accolta anche sostenendo grosse spese», perché ormai «è indispensabile per compensare l’invecchiamento e il diradamento della popolazione attiva, quindi per sostenere il sistema previdenziale e per coprire i molti posti di lavoro che gli italiani rifiutano; non è vero che tolga posti di lavoro agli italiani, che faccia loro concorrenza al ribasso sui salari, che serva come manovalanza alle mafie, che comporti un apprezzabile aumento della criminalità e dei costi sanitari o assistenziali».Carattere comune di questo catechismo propagandistico, continua Della Luna, è la censura: l’occultamento dei conflitti di interesse e di bisogni, e ancor più della lotta di classe in atto. Il primo conflitto oppone la «classe globale finanziaria, improduttiva, parassitaria e speculatrice» alle classi produttive dell’economia reale, «legate ai loro territori e sempre più private di potere», di istituzioni democratiche nonché di quote di reddito, «in favore delle rendite finanziarie», attraverso «una serie di riforme del sistema finanziario, del diritto del lavoro e delle Costituzioni», e anche attraverso «i trattati internazionali come quelli europei e come il Wto, che modificano dall’esterno le Costituzioni». Forte, in Italia, il conflitto di interessi tra Nord e Sud, con risorse trasferite verso «alcune regioni meridionali, onde tenere unito il sistema paese». Terzo conflitto negato, quello dei bisogni oggettivi tra paesi manifatturieri come Italia e Germania, «nel quale la Germania ha interesse a tenere l’Italia entro una moneta comune per togliere all’Italia il vantaggio di una moneta più debole, quindi di una maggiore competitività rispetto alla Germania, così da prendere anche sue quote di mercato».Poi c’è il conflitto di bisogni oggettivi tra paesi creditori, come la Germania, e paesi debitori, come l’Italia: «I tedeschi, essendo detentori di crediti sia personali, previdenziali, da investimento, sia anche pubblici, sono interessati a mantenere forte il ricorso della valuta in cui quei crediti sono denominati, cioè l’euro». Da qui «l’esigenza di tenere stretti i cordoni della borsa, cioè di far scarseggiare la moneta» per tenerne alto il costo. Per contro, «l’Italia e gli italiani, essendo indebitati e avendo i loro investimenti perlopiù in immobili, hanno bisogno di una moneta meno forte». Quinto conflitto oscurato: quello tra paesi in recessione, che hanno bisogno di politiche monetarie espansive, e paesi in crescita, che hanno bisogno di politiche monetarie restrittive. Poi ci sono paesi ad economia manifatturiera-trasformatrice e paesi ad economia basata sui servizi finanziari e il commercio, come il Regno Unito. «Tutti conflitti che rendono dannosa l’unione monetaria, o meglio che fanno sì che la politica monetaria faccia gli interessi del paese più forte dentro di essa (la Germania) a danno dei paesi meno forti».Gli ultimi due conflitti d’interesse sono fortemente paralleli. Un conflitto classico oppone gli imprenditori ai lavoratori: «I primi hanno interesse a togliere ai lavoratori quanto più possibile forza negoziale e capacità di resistenza, di sciopero, oltre che di salario». L’altro grande conflitto, ormai dilagante, vede da una parte i cittadini-utenti e dall’altra i monopolisti (o al massimo oligopolisti) dei servizi pubblici: «Questi ultimi hanno interesse a imporre tariffe sempre più alte in cambio di servizi sempre più scarsi, onde massimizzare i loro profitti; da qui la privatizzazione sistematica di tali servizi». I pochi che, da sinistra, contestano il trend neoliberista in chiave socialista, spesso «dimenticano che il settore pubblico spende in modo inefficiente e molto condizionato dalla criminalità burocratica, partitica, mafiosa», senza trascurare il «cattivo sindacalismo» che ha incoraggiato «una mentalità e una prassi parassitarie e improduttive», squalificando la pur sacrosanta difesa dei diritti del lavoro, quelli che il neoliberismo oggi confisca.Grazie al mainstream politico e mediatico, «il complesso di dogmi e nascondimenti è stato costruito come senso comune socio-economico, cioè come percezione comune e condivisa della realtà». Proprio questo, scrive Della Luna, «consente a una classe globale parassitaria di perfezionare la spoliazione dei diritti e dei redditi delle altre classi, facendola apparire come espressione naturale di leggi impersonali del mercato, e non come una guerra di classe», come se la storia del genere umano non fosse nient’altro che «una competizione assoluta e totale tra individui per la conquista della ricchezza e del potere». Ideologia del “mercatismo”, individualismo di massa: «Ciascuno è solo davanti allo schermo, davanti alle tasse, davanti alle banche, davanti ai problemi di salute, vecchiaia, disoccupazione». Ognuno è solo «soprattutto davanti a un sempre più impersonale e grande datore di lavoro», e si scopre «senza diritti comuni, senza solidarietà e garanzie».Si vive in un mondo «dove tutto è merce e prestazione, dove la vita è riconosciuta solo come scambio di valori commerciali, dove tutto è quantificato in debiti e crediti, dove è proibito agli Stati persino introdurre tutele alla salute pubblica, se queste possono limitare il profitto delle corporations (norme del Wto e del Ttip)». Lavoro autonomo, piccole imprese, professionisti indipendenti? Tutti «vessati e costretti a cedere il campo o a confluire in grandi aziende», mentre i lavoratori dipendenti «sono impossibilitati a conservare i propri diritti, conquistati con dure e lunghe lotte, dalla scelta politica di mantenere il sistema economico, attraverso la pratica dell’austerità (della anemizzazione monetaria), in una condizione di diffusa disoccupazione e precarietà che, combinata col diritto al libero licenziamento e demansionamento dei lavoratori, priva questi di ogni potere di lotta e contrattazione, rendendo pressoché impraticabile lo sciopero».E’ un modello socio-economico «che viene costruito metodicamente, anche a livello legislativo e costituzionale, nazionale ed europeo, dalle nostre élites», denuncia Della Luna, indicando in Italia «la staffetta dei governi Berlusconi-Monti-Letta-Renzi (sotto la guida dei banchieri centrali e la locale regia di Giorgio I». E’ un modello “markt-konform”, «conforme e ideale per le esigenze del mercato, del capitale e del profitto», ma incompatibile con «le esigenze psicofisiologiche dell’essere umano, inteso sia come individuo che come famiglia, che come comunità sociale». Esigenze che comprendono «una prospettiva stabile per la progettazione e l’impostazione della vita, per la procreazione e l’educazione della prole», ma anche «ambiti di non-mercificazione e di non-competitività», con in più «la garanzia di una dimensione pubblica sottratta alla logica del profitto finanziario». L’Interesse Pubblico, estirpato dalle riforme neoliberiste degli ultimi decenni.Lo spettacolo attuale è desolante: generazioni di giovani senza lavoro o costretti ad accettare salari precari e irrisori, da contendere ai colleghi-coetanei in una spietata gara al ribasso. «E quando iniziano a invecchiare e non riescono più a tenere il ritmo, sono fuori». La prospettiva della pensione? Diventa un miraggio. Nessuna speranza, se a decidere saranno gli yes-men di cui si circonda Renzi. Nessuno che si possa opporre alla “voce del padrone”: «Se guardiamo alla storia, vediamo sempre, solo e dappertutto società che non si gestiscono dal loro interno per i loro interessi, ma sono gestite da padroni (oligarchie) esterni, che perseguono il duplice obiettivo di rinforzare il loro dominio sulla società e di intensificare lo sfruttamento di essa». Tecnologia e globalizzazione, accentramento planetario degli strumenti di controllo: oggi l’élite piò spingersi oltre ogni limite, sottoponendoci a tensioni altissime. Un giorno, però, la corda si spezzerà: «I vari sistemi di dominazione, nel corso dei secoli, si sono rotti tutti, prima o poi». Qualche fattore fa sempre saltare il gioco, conclude Della Luna. E paradossalmente, oggi più che mai, «la più concreta ragione di speranza del genere umano sta proprio in questo, ossia nel fatto che finora tutti i tentativi umani di soggiogare definitivamente l’umanità siano falliti, si siano rotti. Speriamo quindi nel caos, che vinca ancora e presto, nonostante la tecnologia».E’ tutto falso, ma c’è un problema: sembra vero. Viviamo in mezzo a verità di fede, spacciate per realtà. Basta ripeterle all’infinito, sui giornali e in televisione. I mercati infallibili, la spesa pubblica da tagliare, l’inevitabile Europa dell’euro. Dogmi che servono a occultare il conflitto tra oligarchia parassitaria e cittadini-lavoratori. Economia, legittimazione del potere, interpretazione della storia. Avverte Marco Della Luna: chi osa uscire dal recinto dei dogmi viene etichettato come «antagonista, estremista, antisociale, populista», viene delegittimato ed emarginato, «finché i fatti e le realtà censurate non rompono l’incantesimo del sistema dogmatico». E’ la legge del regime attuale, con la «classe finanziaria» che si prende quasi tutto il reddito disponibile ed erode, «attraverso l’indebitamento pubblico e le tasse», anche il risparmio. Questo, grazie al consenso e all’acquiescenza «ottenuti tanto mediante l’indottrinamento con dogmi, quanto con il sistematico nascondimento di conflitti di interessi, che non devono apparire onde evitare che la gente percepisca il male che le viene fatto».
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Frana la fiaba Torino-Lione? Tutt’intorno, intanto, è guerra
Il progetto Tav Torino-Lione resta un oggetto misterioso, anche dopo le polemiche mediatiche sulla “tratta internazionale” di una linea che la Francia ha già ufficialmente declassato, dichiarando che tornerebbe a esaminare l’ipotesi solo a partire dal 2030. Voci di protesta, da parte di sostenitori della grande opera, manifestano sorpresa e sconcerto per la decisione di Rfi di elevare a 7 miliardi di euro il costo inziale della parte “internazionale” della futura galleria transalpina, fino a ieri quotata 2,9 miliardi. Nessuno si premura di ricordare le ragioni del “no”, ribadite ancora nel 2012 in un appello al presidente della Repubblica, firmato da 360 docenti, tecnici ed esperti dell’università italiana. La Torino-Lione sarebbe infatti un inutile doppione della linea internazionale esistente in valle di Susa, la Torino-Modane, già ora disertata dalle merci. Inoltre devasterebbe il territorio alpino alle porte di Torino: crisi idrica, cantieri dall’impatto insostenibile, dissesto urbanistico, pericoli per la salute causa uranio e polveri di amianto. Infine, la linea Tav gonfierebbe in modo spaventoso il debito pubblico con una spesa palesemente inutile e improduttiva, senza futuro visto che la rotta europea del traffico merci non è più il “corridio 5” est-ovest, abbandonato dall’Ue, ma la tratta nord-sud Genova-Rotterdam.Giornali e televisioni parlano dei costi dell’opera dando per scontata la sua utilità, assunto dimostratamente falso, e si guardano bene dal citare la recente indagine della magistura antimafia che indica il rischio di infiltrazioni della ‘ndrangheta nell’unico cantiere finora aperto, quello per la piccola galleria esplorativa di Chiomonte. Le uniche indagini degne di cronaca sono invece quelle contro il movimento NoTav, che si fermano all’aspetto dell’ordine pubblico, la cui gestione è entrata in crisi nel momento in cui la politica ha provocatoriamente rifiutato di dare risposte ai sessantamila abitanti della valle di Susa, lasciando sul campo – come unico interlocutore – i reparti antisommossa. Questo ha inevitabilmente trasformato la valle di Susa in una trincea nazionale di protesta, che oppone i cittadini a istituzioni sempre più lontane e anonime, tenocratiche, evidentemente dominate da lobby affaristiche economico-finanziarie. Lobby interessate al business di grandi cantieri affidati all’opaca gestione di “general contractor” che agiscono in piena autonomia, grazie a leggi speciali: un copione che in Italia ha determinato il puntuale “impazzimento” dei costi e il prosperare della filiera dei subappalti a cascata, in cui molto denaro passa di mano in mano, per la felicità delle banche, ma i posti di lavoro restano pochissimi e costosissimi.Sul piano politico, resta da decifrare il significato della cerimonia pubblica dello stupore, esibito per il “sorprendente” lievitare dei costi dell’ipotetico futuro traforo ferroviario italo-francese, già definito l’opera pubblica più costosa della storia italiana, nonché la più inutile della storia europea. Denunciarne il rincaro preventivato significa cominciare a prendere le distanze da un’operazione ormai insostenibile e non più difendibile, dati i tempi di crisi? Agitare il problema dei “nuovi” costi può servire anche a disertare dalla lobby pro-Tav senza dover dare ragione agli oppositori del progetto, che non sono più solo i valsusini: da qualche anno il movimento NoTav ha infatti conquistato l’attenzione di milioni di italiani. I distinguo e le richieste di chiarimento potrebbero essere l’inizio di una ritirata strategica? E’ presto, per dirlo. Ma va ricordato che il progetto fu ritirato già una prima volta, nel 2006, dopo l’insurrezione nonviolenta della popolazione valsusina alla fine del 2005. Non volò una pietra, ma decine di migliaia di manifestanti – guidati dai sindaci in fascia tricolore – pretesero di essere trattati come cittadini e non come sudditi.Problema che dalla valle di Susa si è esteso al resto d’Italia, dal momento in cui è Bruxelles a scrivere il bilancio del governo di Roma, dettando i tagli alla spesa pubblica che condannano l’economia nazionale alla recessione perpetua. Eppure, nonostante lo sfacelo istituzionale di questi anni, simboleggiato dal governo della Troika affidato a Mario Monti, oggi il mainstream se la cava facendo le pulci al peventivo di Rfi sulla Torino-Lione. Come se fossimo ancora in tempo di pace, come se la sorda guerra programmata dall’élite finanziaria non avesse già accerchiato quel che resta delle nazioni sovrane, coi rottami dei loro diritti e le macerie del welfare e del lavoro che fu. Le “riforme” in arrivo mirano a sbaraccare il residuo ingombro di quote di democrazia, cominciando dal potere civico esercitato mediante libere elezioni. La vittoriosa battaglia civile dei NoTav nel 2005 assomiglia sempre più a una pagina da libri di storia, una esemplare protesta – condotta in tempo di pace – in nome dello Stato di diritto e delle prerogative della cittadinanza garantite dalla Costituzione italiana nata dalla Resistenza antifascista. Nulla che possa più fare davvero notizia, nell’imperante barbarie euroatlantica che semina guerre ai confini, dall’Est al Medio Oriente al Nordafrica, terremotando nel frattempo la vita dei cittadini europei e cancellando il loro diritto al futuro dignitoso nel quale crebbero i padri, convinti di costruire un avvenire di pace, benessere e giustizia.Il progetto Tav Torino-Lione resta un oggetto misterioso, anche dopo le polemiche mediatiche sulla “tratta internazionale” di una linea che la Francia ha già ufficialmente declassato, dichiarando che tornerebbe a esaminare l’ipotesi solo a partire dal 2030. Voci di protesta, da parte di sostenitori della grande opera, manifestano sorpresa e sconcerto per la decisione di Rfi di elevare a 7 miliardi di euro il costo inziale della parte “internazionale” della futura arteria transalpina, fino a ieri quotata 2,9 miliardi. Nessuno si premura di ricordare le ragioni del “no”, ribadite ancora nel 2012 in un appello al presidente della Repubblica, firmato da 360 docenti, tecnici ed esperti dell’università italiana. La Torino-Lione sarebbe infatti un inutile doppione della linea internazionale esistente in valle di Susa, la Torino-Modane, già ora disertata dalle merci nonostante il costoso ampliamento del traforo del Fréjus, capace di ospitare treni carichi di container. Inoltre l’opera devasterebbe il territorio alpino alle porte di Torino: crisi idrica, cantieri dall’impatto insostenibile, dissesto urbanistico, pericoli per la salute causa uranio e polveri di amianto. Infine, la linea Tav gonfierebbe in modo spaventoso il debito pubblico con una spesa palesemente inutile e improduttiva, senza futuro visto che la rotta europea del traffico merci non è più il “corridio 5” est-ovest, abbandonato dall’Ue, ma la tratta nord-sud Genova-Rotterdam.
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Ovadia: il ‘900 è finito, infatti con Renzi torniamo all’800
Auspico un autunno caldo e la rinascita di una sinistra, autentica, altro che Pd. Se Renzi ammettesse di essere un uomo di destra, sarebbe un gesto di grande onestà intellettuale. Quando sento parlare di due sinistre, mi vien da sorridere: quale sarebbe la seconda? Il Pd? E allora io sono Papa. Il Pd non ha più nulla di sinistra. Massimo Cacciari, non un pericoloso bolscevico come me, recentemente ha spiegato come quel partito non sia mai veramente nato e che ora è nelle ferree mani di Matteo Renzi, i cui modelli sono la Thatcher e Blair. Li copia nella distruzione dello Stato Sociale e delle sue regole. Lo stesso utilizzo degli anglicismi è indicativo. Perché termini come Local Tax, Spending Review e Jobs Act? Tra l’altro se analizziamo al dettaglio, i termini sono esplicati: Job in inglese non è lavoro bensì impiego in senso lato, e Act sottintende un gesto unilaterale, non un accordo tra due contraenti. Renzi ha scardinato qualsiasi ipotesi di patto sociale.Alle europee prende il 40,8%? E’ un bravissimo comunicatore, si vende bene. Incarna la retorica del nuovismo contro chi è ancora ancorato al Novecento, peccato lui voglia tornare all’Ottocento dove si poteva licenziare arbitrariamente. Forse è più vecchio lui di quella folla che sabato scorso ha invaso Roma in difesa dei propri diritti. Vince perché altrove c’è il nulla. Grillo ha perso il treno. Poteva rappresentare un’interessante proposta ma ha sposato veementemente la retorica dell’urlo. Pur avendo ottimi parlamentari, questo va riconosciuto al M5S, hanno fallito, non sono riusciti a incidere e la novità dopo mesi annoia. Anche la destra è allo sfascio, Berlusconi è un uomo patetico. La sinistra, quella vera, avrebbe un vastissimo popolo e potrebbe arrivare anche al 20%. Ma è più presa a litigare e dal proprio narcisismo ombelicale che a fare politica. Ora è in attesa che l’ex sinistra del Pd le getti un osso. Così – tra paura, opportunismo e crisi – le persone optano per questo giovanotto tronfio, con uno stile dinamico e sbarazzino, il quale dice di voler cambiare e modernizzare il paese.Conosco gente, autenticamente di sinistra, che per mancanza di alternative alle europee l’ha votato. C’è un disperato bisogno di un’aggregazione del popolo di sinistra, lo dovrebbero auspicare anche le persone sinceramente democratiche. In tutta Europa esiste, tranne che in Italia. In Germania abbiamo la Linke, in Francia un fronte variegato intorno al 10, in Grecia l’esperienza trionfante di Syriza, in Spagna l’innovazione di Podemos. E da noi? Abbiamo bisogno di una vera sinistra capace di tutelare il mondo del lavoro, l’ambiente e arrestare razzismo e deriva ultraliberista. Senza, chi osteggerà il trattato europeo del Ttip? Chi si batterà per i beni comuni e contro le privatizzazioni? Non abbiamo l’ambizione di diventare il partito della nazione, ma una forza forte e dialogante con gli altri.Decine di operai di Terni vengono licenziati e con la disperazione nel cuore, con vite perse senza più un’occupazione, e magari con figli senza futuro, si riversano nella capitale per una manifestazione non violenta e che succede? Vengono caricati e manganellati. Ma siamo matti? In un’epoca di dramma sociale e aumento delle diseguaglianze, invece di parlare di solidarietà umana e primaria, si cancellano diritti e dignità dei lavoratori. Dubito che gli agenti l’abbiamo fatto di loro sponte, sarà giunto un comando dall’alto. Come succedeva in Gran Bretagna ai tempi della Thatcher, lì torniamo. I minatori inglesi sanno cosa hanno passato in termini di repressione per aver osato rivendicare salari dignitosi e tutele. Passatemi una battuta: il Papa sembra al momento l’unico leader di sinistra. Landini? Ha un potenziale enorme, un leader già pronto. Quando lo sento parlare in televisione, vedo l’autenticità di un uomo che la sua vita se l’è sudata. La schiettezza di un uomo senza doppi fini, che non vuole fregarti. E’ autenticamente indignato. Le sue sono parole pronunciate col cuore perché da anni vicino alla povera gente e ai deboli. La nostra Italia migliore. Altro che manganellate.(Moni Ovadia, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Se Renzi e il Pd sono di sinistra, io sono il Papa”, pubblicata da “Micromega” il 31 ottobre 2014).Auspico un autunno caldo e la rinascita di una sinistra, autentica, altro che Pd. Se Renzi ammettesse di essere un uomo di destra, sarebbe un gesto di grande onestà intellettuale. Quando sento parlare di due sinistre, mi vien da sorridere: quale sarebbe la seconda? Il Pd? E allora io sono Papa. Il Pd non ha più nulla di sinistra. Massimo Cacciari, non un pericoloso bolscevico come me, recentemente ha spiegato come quel partito non sia mai veramente nato e che ora è nelle ferree mani di Matteo Renzi, i cui modelli sono la Thatcher e Blair. Li copia nella distruzione dello Stato Sociale e delle sue regole. Lo stesso utilizzo degli anglicismi è indicativo. Perché termini come Local Tax, Spending Review e Jobs Act? Tra l’altro se analizziamo al dettaglio, i termini sono esplicati: Job in inglese non è lavoro bensì impiego in senso lato, e Act sottintende un gesto unilaterale, non un accordo tra due contraenti. Renzi ha scardinato qualsiasi ipotesi di patto sociale.
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La superstizione del Nuovo, per piegarci al loro dominio
Renzi definisce conservatori i compagni del suo partito, che resistono all’abolizione definitiva dell’articolo 18. Non è la prima volta, negli ultimi anni, che nel dibattito politico esplode il motivo del conflitto tra conservatori e innovatori. Con un rovesciamento di senso rispetto a quel che normalmente significano questi due termini. È un collaudato artificio retorico per mettere in difficoltà chi difende diritti e conquiste sociali consolidati, bollandolo come oppositore delle splendide novità portate dalla storia che avanza. Ci sarebbe da chiedersi se tutto il nuovo che si realizza nel corso del tempo corrisponda ad aspirazioni generali, porti benefici per tutti. Prendiamo ad esempio il campo della scienza, quello che al senso comune appare come il campo trionfante del progresso. Davvero tutto l’avanzamento scientifico dell’età contemporanea è andato a beneficio dell’umanità? La bomba atomica è stata una delle più grandi innovazioni scientifiche del ‘900.In campo militare si è passato dalle armi per combattere un nemico sul terreno a uno strumento di genocidio, di cancellazione di tutto il vivente. Mi pare difficile ascriverla tra i progressi dell’umanità. L’amianto è un magnifico materiale ignifugo, che ha trovato infinite applicazioni industriali. È un vero peccato che esso induca il tumore mortale alla pleura o al polmone. Ma quella magnifica innovazione ci è costata e continua a costarci migliaia di morti all’anno oltre alle somme ingenti per eliminarlo da case e aziende. Anche i gas clorofluorocarburi, quelli che servivano alla refrigerazione, rappresentavano una geniale innovazione chimica. Com’è noto, lacerano lo strato atmosferico dell’ozono ed espongono gli esseri viventi a raggi solari che alterano la struttura del Dna. Dunque, non sempre andare avanti significa migliorare le cose. Questa idea che cambiando l’esistente si approdi necessariamente al meglio, che andando più in là si diventi più felici che stando qui, è un vecchio cascame culturale sopravvissuto all’illuminismo. È una superstizione paesana, e ora dispositivo retorico di un ceto politico senza prospettive, che crede di cambiare il mondo cambiando il senso delle parole.Ma poi è sempre da condannare la conservazione? Chi si oppone a che un territorio verde venga coperto col cemento di nuove costruzioni genera un danno alla collettività o crea qualche vantaggio agli abitanti del luogo e più in generale ai viventi? Chi lotta perché la via Appia non divenga luogo di lottizzazione per villette private è certamente un conservatore: vuole preservare le pietre di duemila anni fa da edifici nuovi fiammanti. Ma chi esprime rispetto per la bellezza e la grandezza del nostro passato, chi ha una idea di società meno spiritualmente gretta, chi propone la visione di un paesaggio irriproducibile da godere collettivamente, chi si fa carico delle nuove generazioni, chi esprime un senso dell’interesse generale e del bene comune: è da mettere alla gogna? Tutto questo distillato di civiltà dobbiamo buttarlo via perché è vecchio?Ma la retorica contro i conservatori ha avuto come bersaglio prevalente le tutele dei lavoratori. Tanto il centro-sinistra quanto il centro-destra hanno aperto una vasta breccia di innovazione nel mondo del lavoro: hanno inaugurato l’era del lavoro precario: lavoro in affitto, a progetto, interinale, somministrato, ecc. Un florilegio mai visto di innovazioni legislative. In Italia la Fornero è riuscita a creare una figura unica nel suo genere: gli esodati, lavoratori senza salario e senza pensione. Nessuno può dire che non si tratti di una innovazione. Stabilire a vantaggio di chi è altra questione. Anche il presidente della Repubblica, nella discussione intorno all’articolo 18, ha portato un rilevante contributo di innovazione. Lo ha fatto sul piano del linguaggio. Ha esortato il governo e i suoi ad avere più coraggio. Coraggio a rendere più facilmente licenziabili operai e impiegati, coloro che tengono in piedi l’economia e i servizi del paese, spesso per un misero salario, coloro che talora entrano ed escono dalla cassa integrazione, che si infortunano, che sul lavoro ci muoiono, che rinunciano alla maternità, che vivono nell’angoscia di un licenziamento che può gettarli in strada da un momento all’altro. Non siamo di fronte a una innovazione?Chi è, nel senso comune universale, coraggioso? Certamente colui che affronta un avversario più forte, che alza la voce contro chi sta in alto. Ad esempio chi mette in atto una politica fiscale contro le grandi ricchezze, chi critica l’arrogante politica bellica degli Usa, chi cerca di limitare l’arricchimento privato di tante pubbliche professioni? Il presidente della Repubblica capovolge la verità storica e anche quella delle parole e si schiera contro i lavoratori del suo paese. A favore degli imprenditori, che così potranno disporre in piena e completa libertà della forza-lavoro. Come facciamo a non considerarlo un innovatore? Ma questa innovazione ci porta “avanti”? Indebolire la classe operaia, dunque il lavoro produttivo, non sembra che faccia avanzare le società del nostro tempo. La vasta ricerca di Thomas Piketty, (“Il capitale nel XXI secolo”, Bompiani) mostra al contrario come l’ineguaglianza che si va accumulando, stia facendo ritornare indietro la ruota della storia.Misurando il peso crescente che l’eredità va assumendo nelle società industriali odierne, egli ricorda che «il passato tende a divorare il futuro: le ricchezze provenienti dal passato crescono automaticamente, molto più in fretta – e senza dover lavorare – delle ricchezze prodotte dal lavoro, sul cui fondamento è possibile risparmiare. Il che, quasi inevitabilmente, porta ad assegnare un’importanza smisurata e duratura alle disuguaglianze costituitesi nel passato, e dunque all’eredità». “Le mort saisit le vif”, si diceva un tempo, “il morto trascina il vivo”, il passato ingoia il presente. I novatori che avanzano innalzando i loro vessilli corrono in realtà verso il passato. L’innovazione dei coraggiosi capovolge non solo la verità morale delle parole, ma anche il corso, preteso progressivo, della storia del mondo.(Piero Bevilacqua, “Il vecchio e il nuovo”, da “Il Manifesto” del 30 settembre 2014, ripreso da “Megachip”).Renzi definisce conservatori i compagni del suo partito, che resistono all’abolizione definitiva dell’articolo 18. Non è la prima volta, negli ultimi anni, che nel dibattito politico esplode il motivo del conflitto tra conservatori e innovatori. Con un rovesciamento di senso rispetto a quel che normalmente significano questi due termini. È un collaudato artificio retorico per mettere in difficoltà chi difende diritti e conquiste sociali consolidati, bollandolo come oppositore delle splendide novità portate dalla storia che avanza. Ci sarebbe da chiedersi se tutto il nuovo che si realizza nel corso del tempo corrisponda ad aspirazioni generali, porti benefici per tutti. Prendiamo ad esempio il campo della scienza, quello che al senso comune appare come il campo trionfante del progresso. Davvero tutto l’avanzamento scientifico dell’età contemporanea è andato a beneficio dell’umanità? La bomba atomica è stata una delle più grandi innovazioni scientifiche del ‘900.
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Foa: posto fisso, perché non possiamo credere a Renzi
C’è qualcosa che non torna negli annunci di Matteo Renzi sulla liberalizzazione del mercato del lavoro. Sia chiaro: le economie di mercato funzionano quando possono operare con la dovuta flessibilità. Vale per il mercato dei cambi (vedi i danni provocati dalla rigidità dell’euro) e anche per il mercato del lavoro. A una condizione: che agli imprenditori sia permesso di fare impresa e che la cultura sociale del paese sia basata solidamente sulla convivenza civile e il rispetto della persona. Mi spiego. Come sanno i lettori di questo blog, da tre anni sono tornato in Svizzera, dove dirigo il gruppo editoriale “Corriere del Ticino-Timedia”. In Svizzera il posto fisso non è garantito a nessuno. Si può licenziare con un preavviso di 2 mesi e senza Tfr, tuttavia nessun imprenditore abusa di questo diritto. I posti non sono tecnicamente fissi, nel senso che nessuna legge li tutela vita natural durante, ma molto stabili. Si licenzia a fronte di gravi mancanze professionali o in caso di crisi/ristrutturazione.C’è un vincolo sociale, o se preferite morale, che porta i dirigenti delle imprese a usare con buon senso e nelle giuste proporzioni un diritto in sé molto potente. La cultura prevalente tende a biasimare chi scade nell’abuso o nello sfruttamento e, sebbene ci siano dei casi disdicevoli, pochi violano questa legge non scritta. Inoltre, come noto, la Svizzera primeggia nelle classifiche mondiali sull’imprenditoria. La Svizzera è business friendly: le aziende nascono, crescono, si sviluppano e restano sul territorio. Risultato: la disoccupazione è bassissima e la Confederazione elvetica continua ad assumere lavoratori dall’estero, a riprova di un mercato dinamico. Ma in Italia? Purtroppo in Italia non si può dire lo stesso. La cultura sociale non è basata sul rispetto, ma sulla sfiducia sociale, sull’elusione della legge, sui rapporti di forza con le controparti sociali.A fronte di molti imprenditori seri che hanno un rapporto corretto, spesso esemplare, con i propri dipendenti, ne esistono altri – sovente nei servizi – che scadono nello sfruttamento; quegli imprenditori (ammesso che possano essere considerati tali) che assumono in nero o vanno avanti con contratti a tempo determinato senza mai trasformarli in contratti a tempo indeterminato, insomma che sfruttano i lavoratori, che speculano sulla loro disperazione sociale. Sono questi figuri che alla fine legittimano e rafforzano il sindacato. E c’è l’Italia di oggi: un’Italia ormai quasi deindustrializzata non per demerito dei suoi imprenditori ma a causa degli effetti delle politiche irresponsabili, vessatorie e ingiuste volute dall’establishment europeo e portate a termine con solerzia da Mario Monti ed Enrico Letta, con la benedizione del pontefice di Francoforte Mario Draghi.Nell’Italia di oggi il problema non è il posto fisso, bensì che il posto non c’è più. Coloro che hanno provocato questa desertificazione economica sono gli stessi che da 15 anni promettono di anno in anno riprese che non arrivano mai, paradisi che non si materializzano mai, vaticinano di economia di mercato e di flessibilità ma promuovono la burocratizzazione dell’economia europea, avallando rigidità strutturali insostenibili. E fino a quando Matteo Renzi non avrà affrontato questo problema, trovando il coraggio di distanziarsi dal pensiero unico dominante e di mettere di nuovo le aziende nelle condizioni di crescere in libertà, nulla verrà risolto. La riforma dell’articolo 18 rischia di non produrre gli effetti virtuosi sperati ma, paradossalmente, di far aumentare la disoccupazione o di comprimere ancor di più verso il basso i salari. Da sola non basta. Ci vorrebbero un progetto, un’idea del paese, fiducia nel genio imprenditoriale degli italiani e il coraggio di liberare le imprese e l’Italia dai vincoli burocratici ed esterni che ne inibiscono la creatività. Ci vorrebbe un leader concreto, coraggioso e lungimirante. Qualcuno di ben diverso da Matteo Renzi.(Marcello Foa, “Posto fisso, perché non possiamo credere a Renzi”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 27 ottobre 2014).C’è qualcosa che non torna negli annunci di Matteo Renzi sulla liberalizzazione del mercato del lavoro. Sia chiaro: le economie di mercato funzionano quando possono operare con la dovuta flessibilità. Vale per il mercato dei cambi (vedi i danni provocati dalla rigidità dell’euro) e anche per il mercato del lavoro. A una condizione: che agli imprenditori sia permesso di fare impresa e che la cultura sociale del paese sia basata solidamente sulla convivenza civile e il rispetto della persona. Mi spiego. Come sanno i lettori di questo blog, da tre anni sono tornato in Svizzera, dove dirigo il gruppo editoriale “Corriere del Ticino-Timedia”. In Svizzera il posto fisso non è garantito a nessuno. Si può licenziare con un preavviso di 2 mesi e senza Tfr, tuttavia nessun imprenditore abusa di questo diritto. I posti non sono tecnicamente fissi, nel senso che nessuna legge li tutela vita natural durante, ma molto stabili. Si licenzia a fronte di gravi mancanze professionali o in caso di crisi/ristrutturazione.
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Cremaschi: ho visto un mondo libero dal ricatto della paura
Ho visto un altro mondo e ora mi sembra un sogno. Non siamo più negli anni ’70, mi rinfaccia con rabbia e arroganza o semplicemente con tristezza chi mi chiede di tacere. E non sa fino a che punto potrei dargli ragione. Ho visto un mondo dove il posto di lavoro era la partenza, non l’arrivo incerto di un percorso a ostacoli. I primi volantini che da studente negli anni ’60 ho distribuito timidamente davanti a una fabbrica di Bologna chiedevano l’abolizione dell’apprendistato e dei contratti a termine, perché, si scriveva, servivano solo a pagare di meno e a sfruttare di più. Furono davvero aboliti. Ricordo quando il periodo di prova per entrare al lavoro durava due settimane per un operaio, poco più di un mese per un impiegato. Durante questo periodo il nuovo assunto era esentato dagli scioperi e da ogni partecipazione alla vita sindacale e politica nel luogo di lavoro. Erano gli stessi militanti sindacali a consigliare quel comportamento, suggerendo: poi, quando sarai confermato, ti potrai sfogare.Oggi la prova non finisce mai, contratti precari su contratti precari per fare sempre lo stesso lavoro. E siccome non c’è mai fine al peggio, a tutto questo si vuol aggiungere il nuovo contratto di lavoro renziano. Che stabilisce che per tre o quattro anni si potrà essere assunti in prova con paga ridotta, senza alcun diritto e licenziabili in qualsiasi momento. E dopo la conferma sarà lo stesso. Una nuova regola finalmente, diranno gli estimatori. Sì, la regola: o ti va bene così o quella è la porta. Quella stessa porta da cui puoi uscire improvvisamente se, una volta raggiunto con tanta fatica il fatidico posto fisso, ti comunicano che la tua azienda delocalizza, o che viene sostituita da una cooperativa del subappalto, o che la “spending review” ha imposto il taglio del servizio. Da lavoratore flessibile a risorsa, da risorsa a esubero. Il ciclo vitale del lavoratore subisce le stesse mutazioni della vita degli insetti, si passa in stadi diversi e sempre più spesso quello che si presenta come il più bello è quello che dura di meno. I lavoratori come farfalle.Neanche allora c’era davvero la piena occupazione e tuttavia il sistema aspirava ad essa, la disoccupazione di massa del dopoguerra era stata riassorbita, anche attraverso dolorose migrazioni interne. Ripeto: il posto di lavoro era la partenza, da lì ci si muoveva per cominciare a pensare al salario, all’orario, ai diritti, al rispetto e alla dignità. E da tutto ciò derivavano forza e orgoglio. Ricordo una delle prime assemblee operaie a cui mi capitò di assistere, ancora da studente abbastanza intimidito. Era in un cinema di Bologna ove le operaie di una fabbrica tessile si incontravano con il consiglio di fabbrica di una grande impresa metalmeccanica. Si scambiavano esperienze e solidarietà e i metalmeccanici naturalmente si vantavano un bel po’ davanti a centinaia di giovani donne. Uno di loro mostrò un fischietto e spiegò: questa è la nostra arma; qualcosa non va, una prepotenza ci sta per colpire? Noi fischiamo e tutti si fermano. Ricordo le risate e la commozione, gli applausi e una fischiata generale di prova.Oggi la condizione psicologica normale di chi lavora è un intreccio di rancore rassegnato e di paura. La paura di fronte al ricatto. Su questa paura si è lavorato per decine di anni. Anche buona parte dei sindacati ha finito per adeguarsi ad essa, persino per servirsene. Senza il sistema della paura, anche nella mutata organizzazione del lavoro, le persone troverebbero di nuovo il coraggio di alzare la testa. Si è investito sulla paura, si educa alla paura. Nel linguaggio politicamente corretto essa si chiama senso di responsabilità, accettazione delle compatibilità, persino giusto spirito della modernità e della competitività nelle versioni più sfacciate. Ma sempre di paura si tratta. Si afferma: o così o il lavoro sparisce. Ma una ricerca in Germania ha mostrato che su cento aziende che hanno annunciato la delocalizzazione, solo una o due l’hanno poi fatta davvero. Però quella minaccia è bastata per ottenere condizioni salariali e di lavoro peggiori. Colpiscine uno per educarne cento. E d’altra parte, se non fosse così, come spiegare che anche là dove l’attività non può essere delocalizzata, ma anzi deve essere rigidamente localizzata, domina il rapporto di lavoro fondato sulla paura?Le grandi cattedrali del consumo, quei mastodontici centri commerciali che spesso prendono il posto degli antichi insediamenti industriali ora dismessi, sono luoghi ove lavorano migliaia di persone. Anche qui dominano paura e rassegnazione, ognuna e ognuno hanno ormai il proprio contratto di lavoro, che si rinnova al ribasso periodicamente. E il centro commerciale non può certo essere spostato in Romania. Ma i contratti precari, le flessibilità articolate con astuzia sopraffina, in modo da fare sì che non ci siano due persone con gli stessi immediati interessi, la continua violenta sopraffazione ideologica verso tutto ciò che minimamente potrebbe alludere al conflitto, producono alla fine ciò che più interessa a chi comanda: la passività.(Giorgio Cremaschi, “Divieni farfalla, poi muori”, da “Carmilla online” del 3 ottobre 2014).Ho visto un altro mondo e ora mi sembra un sogno. Non siamo più negli anni ’70, mi rinfaccia con rabbia e arroganza o semplicemente con tristezza chi mi chiede di tacere. E non sa fino a che punto potrei dargli ragione. Ho visto un mondo dove il posto di lavoro era la partenza, non l’arrivo incerto di un percorso a ostacoli. I primi volantini che da studente negli anni ’60 ho distribuito timidamente davanti a una fabbrica di Bologna chiedevano l’abolizione dell’apprendistato e dei contratti a termine, perché, si scriveva, servivano solo a pagare di meno e a sfruttare di più. Furono davvero aboliti. Ricordo quando il periodo di prova per entrare al lavoro durava due settimane per un operaio, poco più di un mese per un impiegato. Durante questo periodo il nuovo assunto era esentato dagli scioperi e da ogni partecipazione alla vita sindacale e politica nel luogo di lavoro. Erano gli stessi militanti sindacali a consigliare quel comportamento, suggerendo: poi, quando sarai confermato, ti potrai sfogare.
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Marchionne ci ha fregati tutti, è avanti di vent’anni
Era circa il 1500 quando io avvisai il popolo bue italiano, e le scimmiette cagnetti del M5S e del “Fatto Quotidiano” sugli Inversion Deals e la Fiat. Pazienza dai, non si può ribadire in eterno l’anagrafe del pollaio puzzoso coi galletti-chiccirichì dei blog dei soliti noti “informatori” italiani. Stiamo sui fatti. La Fiat è oggi guidata da un uomo, Marchionne, che ha una testa stratosferica, ha pochi rivali al mondo nella comprensione del capitalismo industriale e finanziario. Poi è una merda, perché mente agli operai italiani in modo vomitevole: «Recupereremo i posti di lavoro degli stabilimenti italiani», ha detto, quando sa benissimo che ogni singola mossa Fiat va nella direzione di kosovizzare quegli stabilimenti, cioè di mantenerli aperti solo se la base salariale italiana verrà depressa a livello albanese con annessi diritti sindacali (cosa cui penserà il Pd – leggi punto B). In ogni caso le mosse di Marchionne sono state geniali:A) Un Inversion Deal fra i più spettacolari del mondo, cioè la sede in Olanda e le tasse si pagano in Gran Bretagna. L’Italia, da cui quelle merde degli Agnelli hanno ciucciato il ciucciabile per quasi un secolo a spese di milioni di disgraziati e del Tesoro, si fotta. Good Bye e neppure un grazie. B) Ha capito che fra mezz’ora la Cina produrrà roba tipo le Panda o Punto 20 volte più accessoriate e venti volte meno costose della Fiat, e ha compreso che lì non esiste gara. La Fiat deve buttarsi sul mercato alto del lusso, Suv, high-performance (Maserati) super technology software-driven vehicles, che la Cina non saprà fare per altri 40 anni. C) Con Chrysler, che per ora tira sui bull markets delle equities, Marchionne piazzerà sulla borsa di NY le azioni degli azionisti Fiat che col diritto di recesso decidono di non partecipare alla nuova avventura, zero problemi. Dopo l’alluvione di liquidità del Qe di Bernanke i compratori sono garantiti, quindi il nostro non ci perderà nulla (e forse ci screma un profitto).D) Poi ha piazzato, fra le minuscole righe di quei contratti di 6.000 pagine, una clausoletta che si chiama “garantire a certi soci il voto doppio”, e indovinate chi sono i principali? Ma gli Agnelli ovvio, cioè la loro finanziaria Exor, tanto per non dimenticarsi mai di chi è il padrone. E) Ha capito che l’Eurozona – cioè l’alchimia criminosa di un progetto Neofeudale franco-tedesco naufragato nelle fogne assieme al peggior banchiere centrale mai esistito, Draghi, e dove gli inglesi si sono tenuti accortamente fuori (con tutta la City!) – conta già, come mercato, come conta un bagnino di Rimini nel consiglio d’amministrazione della Sony Corp. E quindi, viaaaaa….. ciao ciao! Un capolavoro. Marchionne è una merda, ma cazzo ha una testa che ne avessimo anche solo tre così noi “attivisti” (puzzoni) avremmo già vinto da 30 anni. Onore al merito.(Paolo Barnard, “Non si può non ammirare Marchionne: bugiardo, criminale, ma una mente avanti 20 anni a tutti”, dal blog di Barnard del 24 agosto 2014).Era circa il 1500 quando io avvisai il popolo bue italiano, e le scimmiette cagnetti del M5S e del “Fatto Quotidiano” sugli Inversion Deals e la Fiat. Pazienza dai, non si può ribadire in eterno l’anagrafe del pollaio puzzoso coi galletti-chiccirichì dei blog dei soliti noti “informatori” italiani. Stiamo sui fatti. La Fiat è oggi guidata da un uomo, Marchionne, che ha una testa stratosferica, ha pochi rivali al mondo nella comprensione del capitalismo industriale e finanziario. Poi è una merda, perché mente agli operai italiani in modo vomitevole: «Recupereremo i posti di lavoro degli stabilimenti italiani», ha detto, quando sa benissimo che ogni singola mossa Fiat va nella direzione di kosovizzare quegli stabilimenti, cioè di mantenerli aperti solo se la base salariale italiana verrà depressa a livello albanese con annessi diritti sindacali (cosa cui penserà il Pd – leggi punto B). In ogni caso le mosse di Marchionne sono state geniali:
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Tutti precari? Sembra un affare, invece uccide le imprese
Jobs Act per rilanciare economia e occupazione? Errore: «La definitiva abolizione dell’articolo 18 è destinata a intensificare la recessione», secondo Guglielmo Forges Davanzati. «L’ulteriore indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori, riducendo i salari, accentua il circolo vizioso: dalla compressione della domanda interna alla caduta dell’occupazione e del tasso di crescita della produttività del lavoro». Lo dimostra l’evidenza empirica, che «smentisce la convinzione secondo la quale la moderazione salariale favorisce l’aumento delle esportazioni e, per questa via, l’aumento dell’occupazione». Avvertiva Achille Loria nel lontanissimo 1899: «Quanto più la depressione procede e con essa si accentua il disagio dei capitalisti, tanto più veemente si fa la reazione di questi contro gli operai, la resistenza alle loro pretese, la riduzione violenta dei salari». Come volevasi dimostrare: «Non è l’articolo18 dello Statuto dei Lavoratori a frenare la crescita economica in Italia e a tenere alto il tasso di disoccupazione».Non lo è, scrive Davanzati su “Micromega”, perché la sua applicazione interessa una platea ristretta di lavoratori. E perché è già stato, di fatto, superato con la cosiddetta riforma Fornero. Inoltre, «le scelte di assunzione delle imprese non sono motivate da presunte “rigidità” della normativa a tutela dei lavoratori, ma semmai dalle aspettative di profitto», dunque, dalla mancanza di domanda: consumi a picco. Non è “colpa” dell’articolo 18, «soprattutto perché è ormai ampiamente provato che non è la deregolamentazione del mercato del lavoro ad accrescere l’occupazione». Prova del nove, ampiamente dimostrata dalle statistiche: «All’aumentare della flessibilità del lavoro – misurata dall’Epl (Employment protection legislation) – l’occupazione non aumenta». Fatto «ancora più certo», sul piano empirico, è che «la flessibilità riduce i salari».In una fase di intensa e prolungata recessione, scrive Forges Davanzati, è davvero ardua impresa provare ad uscirne sottraendo diritti ai lavoratori. Indebolire ulteriormente il lavoro servirà solo a far crollare, ancora, la domanda interna di consumi. «La sola ratio economica che può motivare questa misura risiede nella convinzione – propria della Commissione Europea – in base alla quale la fuoruscita della crisi si rende possibile solo accrescendo la competitività sui mercati internazionali». Solo export, dunque. E quindi: taglio dei salari, riduzione dei prezzi, aumento delle esportazioni, incremento dei profitti delle imprese esportatrici. In teoria, poi: reinvestimento dei profitti e aumento finale dell’occupazione interna. Peccato che alla teoria non corrisponda la realtà: secondo un recente studio della stessa Commissione Ue, nei paesi come l’Italia «le politiche di deflazione salariale hanno generato il solo effetto di accrescere i margini di profitto, con risultati pressoché insignificanti sull’andamento delle partite correnti». In sostanza, «non vi è alcun automatismo che garantisce che un incremento di esportazioni si traduca in un aumento dell’occupazione interna».Il punto è se la riduzione dei salari implichi la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto (il rapporto fra salario e produttività del lavoro), dal momento che la competitività può aumentare solo a condizione che, a fronte di una riduzione dei salari, la produttività cresca o almeno rimanga costante, a parità di tasso di cambio. Ma, quantomeno nel caso italiano, le cose non stanno così. «Da almeno un decennio – scrive Davanzati – l’economia italiana sperimenta, contestualmente, una rilevante contrazione della quota dei salari sul Pil e un’altrettanto rilevante riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro». L’ultimo rapporto Eurostat certifica che, nell’ultimo trimestre del 2013, il costo del lavoro in Italia è ulteriormente aumentato (1,1%), a fronte del fatto che la dinamica delle retribuzioni si è mantenuta al di sotto della media europea (+1,4% in Italia, +1,6% nell’Ue). La dinamica dei salari e quella della produttività sono strettamente connesse, sia per ragioni che attengono all’assetto tecnico con il quale le imprese operano, sia per ragioni che riguardano le reazioni dei lavoratori alla variazione dei salari.La riduzione dei salari «pone le imprese nella condizione di competere comprimendo i costi e, per questa via, disincentiva l’introduzione di innovazioni, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività». Se calano i salari crollano i consumi, a danno delle imprese che operano sul mercato interno. Inoltre, la contrazione dei profitti monetari riduce le fonti di autofinanziamento delle imprese e, soprattutto in un contesto di restrizione del credito, le pone nelle condizioni di non poter investire, dunque crescere. Infine, le imprese italiane presenti sui mercati internazionali sono quasi esclusivamente aziende di grandi dimensioni: «Il che evidenzia il fatto che politiche che non favoriscono la crescita dimensionale delle imprese sono destinate a controbilanciare il possibile (e incerto) effetto di aumento delle esportazioni derivante dalla moderazione salariale».Inoltre, «la riduzione dei salari e la compressione dei diritti dei lavoratori tende ad associarsi a una bassa dinamica della produttività del lavoro». L’esperienza italiana «mostra che quanto più si è reso flessibile il mercato del lavoro, tanto più si è registrato un rallentamento del tasso di crescita della produttività», che ha cominciato a calare in modo rilevante con l’approvazione del “pacchetto Treu” e della “legge Biagi”. Le cause: scarsi investimenti e assenza di innovazioni, ma anche «un effetto di ‘scoraggiamento’», a sua volta generato «dalla bassa gratificazione derivante dal lavorare in condizioni precarie e con sottoutilizzazione del capitale umano, e dalla bassa probabilità di trovare impiego in caso di licenziamento». In questo senso, «le politiche di deregolamentazione del contratto di lavoro (e la connessa maggiore libertà di licenziamento), combinate con il peggioramento delle condizioni di lavoro e la scarsa valorizzazione delle competenze, hanno contribuito a ridurre l’impegno lavorativo e, per conseguenza, la produttività».E attenzione: il fenomeno ha carattere irreversibile, «dal momento che la riduzione dei salari deteriora la qualità della forza lavoro in un orizzonte di lungo periodo». Se si manomette il sistema-lavoro puntando al ribasso, è carto che si avranno risultati negativi per molto tempo, perché saltano gli equilibri consolidati attraverso decenni di sviluppo. «Più bassi salari oggi implicano, infatti, minori possibilità di spese per istruzione, sanità, riduzione del tasso di natalità (e conseguente invecchiamento della popolazione), con effetti di segno negativo sulla produttività futura». In altri termini, conclude Davanzati, «l’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori, mentre può risultare conveniente per la singola impresa e nel breve periodo, risulta controproducente per la collettività delle imprese, e controproducente nel lungo periodo: non solo per le imprese, ma anche e soprattutto per le prospettive di crescita dell’economia italiana».Jobs Act per rilanciare economia e occupazione? Errore: «La definitiva abolizione dell’articolo 18 è destinata a intensificare la recessione», secondo Guglielmo Forges Davanzati. «L’ulteriore indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori, riducendo i salari, accentua il circolo vizioso: dalla compressione della domanda interna alla caduta dell’occupazione e del tasso di crescita della produttività del lavoro». Lo dimostra l’evidenza empirica, che «smentisce la convinzione secondo la quale la moderazione salariale favorisce l’aumento delle esportazioni e, per questa via, l’aumento dell’occupazione». Avvertiva Achille Loria nel lontanissimo 1899: «Quanto più la depressione procede e con essa si accentua il disagio dei capitalisti, tanto più veemente si fa la reazione di questi contro gli operai, la resistenza alle loro pretese, la riduzione violenta dei salari». Come volevasi dimostrare: «Non è l’articolo18 dello Statuto dei Lavoratori a frenare la crescita economica in Italia e a tenere alto il tasso di disoccupazione».
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De Luna: un deserto senza politica a sinistra di Matteo
Il conflitto tra il governo e la Cgil spalanca intere praterie a sinistra del Pd. E’ la conseguenza della scelta di Renzi di puntare sul partito pigliatutto, spostandosi verso il centro, inglobando gli uomini di Alfano ed esercitando una fortissima attrazione verso Forza Italia. Di fatto, il partito a vocazione maggioritaria tende a svuotare di senso il bipolarismo su cui si è fondata la Seconda Repubblica, dilatando gli spazi del “grande centro”, ma favorendo anche una radicalizzazione delle ali estreme del sistema politico. A destra questo è puntualmente avvenuto con il ritorno in campo della Lega; un sussulto difficile da prevedere dopo gli scandali che avevano segnato il tramonto di Bossi. Il partito di Matteo Salvini sembra in grado di intercettare i consensi dei transfughi del centrodestra berlusconiano (e di una composita galassia di ex fascisti) rilanciando l’immagine conflittuale della Lega degli esordi (quando legò le sue fortune alla lotta contro i meridionali, contro il fisco, contro il centralismo statale) nel contesto di una crisi economica che, rispetto agli anni ‘80 del tumultuoso successo del movimento di Bossi, ha accentuato in maniera dirompente le tensioni e lo scontro sociale.A sinistra non è successo niente di tutto questo. Nel 1994 Rifondazione Comunista rappresentava circa il 10% dell’elettorato. Da allora in poi, mentre gli uomini dell’ex Pci intraprendevano la loro lunga marcia verso il centro, scandita dalle sigle Pds, Ds, Pd, quel 10% è andato sgretolandosi fino a configurarsi oggi come una costellazione di piccoli partiti rinchiusi nel ghetto di un’opposizione impotente. E’ il prezzo pagato a una sorta di coazione a ripetere che ha sempre portato a raccogliere le bandiere lasciate cadere dagli altri senza mai trovarne di diverse e spesso mutuando dagli altri le derive personalistiche, la frammentazione in correnti, un modo narcisistico e autoriferito di far politica. Per anni è sembrato che il problema fosse quello di trovare una leadership autorevole. Le esperienze in questo senso, da Bertinotti a Vendola, sono sempre naufragate; il loro tentativo non è andato oltre la soglia di una “narrazione” seduttiva, ma incapace di incidere sulla realtà.C’è stata poi la stagione disastrosa dei leader chiesti in prestito alla magistratura: il flirt con Di Pietro, l’abbraccio a De Magistris, gli entusiasmi per Ingroia. Ora tocca a Landini, alla Fiom e al sindacato con un trasporto che ricorda quello per Cofferati e per i tre milioni di manifestanti che affollarono Piazza San Giovanni. Ma ha un senso guardare alla magistratura e al sindacato come ad ambiti in cui si forma oggi una leadership politica? Il sindacato degli anni ‘70 fu quello che allargò la sua sfera di intervento dalla tutela del salario alla contrattazione complessiva di tutte le condizioni del lavoro, estendendo il suo raggio d’azione fino a interagire con il governo sulla scuola, la sanità, i trasporti, la casa. In quegli stessi anni la magistratura, finalmente, spezzò la continuità che aveva legato i suoi apparati ai codici del fascismo, aprendosi all’applicazione della Costituzione e ampliando gli spazi della nostra democrazia.Quel sindacato fu sconfitto nel 1985, con il referendum sulla scala mobile, perdendo da allora in poi rappresentanza e rappresentatività; e la magistratura in questi anni è stata chiamata ad esercitare un ruolo di supplenza nei confronti di una classe politica inadeguata, fino ad assumere un ruolo improprio, con uno straripamento che ha funzionato come un vero e proprio boomerang per la sua credibilità. In questa coazione a ripetere è come se la fine del Novecento abbia provocato un lutto mai elaborato. Il Pd ha semplicemente rimosso quel passato. L’altra sinistra in quel passato è rimasta invischiata, limitandosi a contemplare attonita le macerie dei pilastri (Stato, Partito, Lavoro, tutti con la maiuscola) su cui si era fondata la sua tradizione novecentesca e incapace di trovare alternative alla dissoluzione di quella forma partito. Così, in attesa che si sviluppino le potenzialità intraviste nell’esperienza della lista Tsipras, si prospetta l’eventualità del vecchio gioco delle scissioni e delle fusioni, in un orizzonte che oggi guarda a Civati, domani a Bersani e poi ancora, forse, a D’Alema. Non un presagio rassicurante per il futuro.(Giovanni De Luna, “Un deserto a sinistra di Matteo”, da “La Stampa” del 25 ottobre 2014).Il conflitto tra il governo e la Cgil spalanca intere praterie a sinistra del Pd. E’ la conseguenza della scelta di Renzi di puntare sul partito pigliatutto, spostandosi verso il centro, inglobando gli uomini di Alfano ed esercitando una fortissima attrazione verso Forza Italia. Di fatto, il partito a vocazione maggioritaria tende a svuotare di senso il bipolarismo su cui si è fondata la Seconda Repubblica, dilatando gli spazi del “grande centro”, ma favorendo anche una radicalizzazione delle ali estreme del sistema politico. A destra questo è puntualmente avvenuto con il ritorno in campo della Lega; un sussulto difficile da prevedere dopo gli scandali che avevano segnato il tramonto di Bossi. Il partito di Matteo Salvini sembra in grado di intercettare i consensi dei transfughi del centrodestra berlusconiano (e di una composita galassia di ex fascisti) rilanciando l’immagine conflittuale della Lega degli esordi (quando legò le sue fortune alla lotta contro i meridionali, contro il fisco, contro il centralismo statale) nel contesto di una crisi economica che, rispetto agli anni ‘80 del tumultuoso successo del movimento di Bossi, ha accentuato in maniera dirompente le tensioni e lo scontro sociale.