Archivio del Tag ‘diritti’
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Lafontaine: Italia, basta subire. Serve una sinistra No-Euro
La sconfitta del governo greco guidato da Syriza davanti all’Eurogruppo ha portato la sinistra europea a domandarsi quali possibilità abbia un governo guidato da un partito di sinistra, o un governo in cui un partito di sinistra sia coinvolto come partner di minoranza, di portare avanti una politica di miglioramento della condizione sociale di lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, e delle piccole e medie imprese, nel quadro dell’Unione europea e dei trattati europei. La risposta è chiara e brutale: non esistono possibilità per una politica tesa al miglioramento della condizione sociale della popolazione, fintanto che la Bce, al di fuori di ogni controllo democratico, è in grado di paralizzare il sistema bancario di un paese soggetto ai trattati europei. Non esistono possibilità di mettere in atto politiche di sinistra se un governo cui la sinistra partecipi non dispone degli strumenti tradizionali di controllo macroeconomico, come la politica dei tassi di interesse, la politica dei cambi e una politica di bilancio indipendenti.Per migliorare la competitività relativa del proprio paese sotto l’ombrello dell’euro, restano al singolo paese sottoposto alle condizioni dei trattati europei solo la politica salariale, la politica sociale e le politiche del mercato del lavoro. Se l’economia più forte, quella tedesca, pratica il dumping salariale dentro un’unione monetaria, gli altri paesi membri non hanno altra scelta che applicare tagli salariali, tagli sociali e smantellare i diritti dei lavoratori, così come vuole l’ideologia neoliberista. Se poi l’economia dominante gode di tassi di interesse reali più bassi e dei vantaggi di una moneta sottovalutata, i suoi vicini europei non hanno praticamente alcuna possibilità. L’industria degli altri paesi perderà sempre più quote sul mercato europeo e non europeo. Mentre l’industria tedesca produce oggi tanto quanto produceva prima della crisi finanziaria, secondo i dati Eurostat, la Francia ha perso circa il 15% della sua produzione industriale, l’Italia il 30%, la Spagna il 35% e la Grecia il 40%.La destra europea si è rafforzata anche perché mette in discussione l’euro e i trattati europei, e perché nei paesi membri cresce la consapevolezza che i trattati europei e il sistema monetario europeo soffrano di alcuni difetti costitutivi. Come dimostra l’esempio tedesco, la destra europea non si preoccupa della compressione dei salari, dello smantellamento dei diritti dei lavoratori e delle politiche di austerità più severe. La destra vuole tornare allo Stato nazionale, offrendo però soluzioni economiche che rappresentano una variante nazionalistica delle politiche neoliberiste e che porterebbero agli stessi risultati: aumento della disoccupazione, aumento del lavoro precario e declino della classe media. La sinistra europea non ha trovato alcuna risposta a questa sfida, come dimostra soprattutto l’esempio greco. Attendere la formazione di una maggioranza di sinistra in tutti i 19 Stati membri è un po’ come aspettare Godot, un autoinganno politico, soprattutto perché i partiti socialdemocratici e socialisti d’Europa hanno preso a modello la politica neoliberista.Un partito di sinistra deve porre come condizione alla sua partecipazione al governo la fine delle politiche di austerità. Tuttavia ciò è possibile solo se in Europa prende forma una costituzione monetaria che conservi la coesione europea, ma che riapra ai singoli paesi la possibilità di un ritorno a un sistema monetario europeo (Sme) migliorato, che consenta nuovamente di ricorrere alla rivalutazione e alla svalutazione. Tale sistema restituirebbe ai singoli paesi un ampio controllo sulle rispettive banche centrali e offrirebbe loro i margini di manovra necessari per conseguire una crescita costante e l’aumento dell’occupazione attraverso maggiori investimenti pubblici e a politiche capaci di aumentare la crescita e i posti di lavoro, così come per contrastare, tramite la svalutazione, l’ingiusto dumping salariale operato dalla Germania o da un altro Stato membro.Questo sistema ha funzionato per molti anni e ha impedito l’emergere di gravi squilibri economici, come ne esistono attualmente nell’Unione europea. Rivolgendomi ai sindacati italiani, tengo a sottolineare che lo Sme non è mai stato perfetto, dominato com’era dalla Bundesbank. Ma nel sistema euro la perdita del potere d’acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori attraverso salari più bassi (svalutazione interna) è maggiore. A me, osservatore tedesco, risulta molto difficile capire perché l’Italia ufficiale assista più o meno passivamente alla perdita del 30% delle quote di mercato delle sue industrie. Silvio Berlusconi e Beppe Grillo hanno messo sì in discussione il sistema euro, ma ciò non ha impedito all’Eurogruppo di imporre il modello delle politiche neoliberiste alla politica italiana. Oggi la sinistra italiana è necessaria come non mai.La perdita di quote di mercato, l’aumento della disoccupazione e del lavoro precario, con la conseguente compressione dei salari, possono rientrare nei miopi interessi delle imprese italiane, ma la sinistra italiana non può più stare a guardare questo processo di de-industrializzazione. Lo sviluppo in Grecia e in Spagna, in Germania e in Francia, dimostra come la frammentazione della sinistra possa essere superata non solo con un processo di unificazione tra i partiti di sinistra esistenti ma soprattutto con l’incontro di tante energie innovative fuori dal circuito politico tradizionale. Solo una sinistra sufficientemente forte nei rispettivi Stati nazionali potrà cambiare la politica europea. La sinistra europea ha bisogno ora di una sinistra forte in Italia.(Oskar Lafontaine, “Lettera alla sinistra italiana”, ripresa da “Contropiano” il 14 ottobre 2015. Già ministro delle finanze della Germania, Lafontaine è stato presidente dell’Spd, il partito socialdemocratico tedesco, e poi fondatore della Linke, il partito della sinistra).La sconfitta del governo greco guidato da Syriza davanti all’Eurogruppo ha portato la sinistra europea a domandarsi quali possibilità abbia un governo guidato da un partito di sinistra, o un governo in cui un partito di sinistra sia coinvolto come partner di minoranza, di portare avanti una politica di miglioramento della condizione sociale di lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, e delle piccole e medie imprese, nel quadro dell’Unione europea e dei trattati europei. La risposta è chiara e brutale: non esistono possibilità per una politica tesa al miglioramento della condizione sociale della popolazione, fintanto che la Bce, al di fuori di ogni controllo democratico, è in grado di paralizzare il sistema bancario di un paese soggetto ai trattati europei. Non esistono possibilità di mettere in atto politiche di sinistra se un governo cui la sinistra partecipi non dispone degli strumenti tradizionali di controllo macroeconomico, come la politica dei tassi di interesse, la politica dei cambi e una politica di bilancio indipendenti.
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Svetlana Alexievic, Premio Nobel alla Banalità Letteraria
I conflitti tra gli agenti strategici sono una caratteristica fondamentale delle società umane. Sono gli esiti di questi scontri a determinare i differenziali di potere tra i gruppi che si disputano il dominio nelle organizzazioni umane, all’interno di ogni sfera societaria. Da tali scontri nascono le stratificazioni in verticale dei ruoli e delle funzioni degli individui e dei raggruppamenti collettivi (la scala dei rapporti di forza interni tra drappelli che si contendono la supremazia nazionale, anche attraverso la sottomissione dei settori più deboli e numerosi come quelli detti popolari) e le segmentazioni in orizzontale (la scala dei rapporti di forza esterni tra formazioni che gareggiano per il primato globale o per uno più localizzato). Ovviamente, una lotta di potere in una nazione dominante o con una sensibile proiezione regionale (come gli Usa o la Russia), benché scaturente in un contesto apparentemente limitato, produce degli scossoni su pezzi importanti della scacchiera planetaria, dove si allungano le sue influenze.Se tali diatribe scoppiano in un contesto periferico gli effetti generati SONO sono più contenuti, anche se non inessenziali per gli equilibri internazionali. Spesso il peso specifico di uno Stato dipende, oltre che dalla sua forza intrinseca, anche dalla posizione che si trova ad occupare nell’orizzonte storico degli eventi, cioè della fase geopolitica in corso. Se un paese è in grado di approfittare di questa rendita posizionale può anche modificare i suoi destini ma deve avere una classe dirigente all’altezza del compito. Dunque, questa legge ferrea del conflitto strategico tra gruppi decisori, quasi sempre coperto alla vista da istituzioni dissimulanti la partecipazione pubblica o il coinvolgimento della società civile, opera ovunque e con gli stessi mezzi (sotterfugi, inganni, complotti, screditamenti, ammazzamenti ecc. ecc.) per l’unico fine del comando sugli apparati decisionali, politici ed economici (con predilezione per quelli deputati all’ordine e alla “coercizione”).Tuttavia, esiste una grande narrazione, molto in voga nell’area democratica occidentale, che fa coincidere l’impiego di tali mezzi spregiudicati e violenti esclusivamente con le usanze di luoghi ameni e barbarici, dove emergono dittatori senza scrupoli e tiranni assetati di sangue. Forse, in alcuni di questi territori si va un po’ più per le spicce, in mancanza di sistemi non così perfezionati di nascondimento e mistificazione della realtà profonda del potere, ma i combattimenti per l’egemonia condividono la medesima “natura”, da Washinton a Mosca, da Parigi a Pechino. Con uno sguardo analitico serio si può andare oltre l’epidermide sociale, dove regnano schede elettorali e diritti umanitari, e accedere all’intimità del potere dove trame e strategie la fanno da padrone. Al mondo libero piace far credere il contrario, affinché la pagliuzza negli occhi del nemico attiri l’attenzione più della trave nei suoi. Oggi, per esempio, è stato conferito il Nobel per la letteratura ad una donzella bielorussa che ha conquistato popolarità raccontando simili favole per deficienti. Costei ha descritto la Russia come l’impero del male e Putin come un sanguinario. Tanto è bastato ai giudici svedesi per premiarla. Hannah Arendt, che un Nobel lo avrebbe meritato, purtroppo non aveva capito nulla. Non è il male ad essere banale, è il banale ad essere un male. Eccone un’altra prova provata.(Gianni Petrosillo, “Premio Nobel alla Banalità Letteraria”, dal blog “Vox Populi” dell’8 ottobre 2015).I conflitti tra gli agenti strategici sono una caratteristica fondamentale delle società umane. Sono gli esiti di questi scontri a determinare i differenziali di potere tra i gruppi che si disputano il dominio nelle organizzazioni umane, all’interno di ogni sfera societaria. Da tali scontri nascono le stratificazioni in verticale dei ruoli e delle funzioni degli individui e dei raggruppamenti collettivi (la scala dei rapporti di forza interni tra drappelli che si contendono la supremazia nazionale, anche attraverso la sottomissione dei settori più deboli e numerosi come quelli detti popolari) e le segmentazioni in orizzontale (la scala dei rapporti di forza esterni tra formazioni che gareggiano per il primato globale o per uno più localizzato). Ovviamente, una lotta di potere in una nazione dominante o con una sensibile proiezione regionale (come gli Usa o la Russia), benché scaturente in un contesto apparentemente limitato, produce degli scossoni su pezzi importanti della scacchiera planetaria, dove si allungano le sue influenze.
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Torna la lotta di classe, contro il regime che taglia il lavoro
La Confindustria ha deciso di non rinnovare più i contratti nazionali, nonostante la moderazione delle piattaforme già varate da Cgil, Cisl e Uil, con richieste salariali medie di 30 euro lordi all’anno e con la piena disponibilità a venire incontro a tante richieste delle imprese. A sua volta il governo ha prestato un doppio soccorso agli industriali, come imprenditore con il blocco dei contratti pubblici, e come legislatore con l’annuncio della legge sul salario minimo. Quest’ultima in realtà dovrebbe essere definita come legge per rendere minimo il salario, visto che la cifra ipotizzata, 6 euro lordi all’ora, è poco più della metà della retribuzione minima prevista dai contratti nazionali. Grazie alla nuova legge e al Jobs Act, una impresa potrebbe licenziare i suoi dipendenti pagati 12 euro e poi assumere gli stessi o altri lavoratori al salario minimo di legge. Naturalmente il minimo salario non dovrebbe essere applicato indistintamente a tutti, anche il manager più feroce sa che ci sono lavori e attività che non possono essere gestiti con paghe così basse. Qui viene in soccorso il modello di relazioni sociali proposto con grande risalto dal “Corriere della Sera”.Questo giornale, da quando Marchionne e la famiglia Agnelli ne hanno rafforzato il controllo, è diventato l’organo ufficiale di propaganda del nuovo regime padronale. Così qualche giorno fa il quotidiano milanese ha lanciato il modello sociale aziendalistico, che non è certo una novità nella storia del capitalismo imprenditoriale. Una volta non solo il salario, ma anche la casa, il cibo, le cure sanitarie, la pensione, la scuola dei figli, le vacanze, persino i funerali erano aziendali. Una volta non solo la Fiat, ma tanti padri padroni affermavano così il loro dominio sul lavoro. I conti Marzotto a Valdagno avevano costruito un sistema per cui si era dipendenti aziendali dalla nascita alla tomba. Ora la distruzione dello stato sociale, la disoccupazione e la precarietà, il Jobs Act e la cancellazione del contratto nazionale creano le condizioni per il ritorno a questo aziendalismo medioevale.La svolta da noi l’ha operata Sergio Marchionne, quando nell’estate del 2010 impose ai lavoratori di Pomigliano l’aut aut: o uscire dal contratto nazionale o uscire per sempre dalla fabbrica. Solo la Fiom ed i sindacati di base respinsero il ricatto, che alla fine però ebbe successo. L’allora segretario del Pd Bersani dichiarò che il modello Pomigliano si sarebbe potuto accettare se fosse rimasto una eccezione, ma naturalmente divenne la regola. Allora, Cgil, Cisl e Uil cercarono di ritrovare spazio con lo scambio praticato da trenta anni: l’arretramento dei lavoratori per il riconoscimento del proprio ruolo. Il 10 gennaio 2013 i sindacati confederali e la Confindustria sottoscrissero con grande enfasi una intesa che avrebbe dovuto rilanciare le relazioni industriali. I sindacati accettavano di generalizzare il modello Marchionne in ogni azienda, in cambio della promessa del rinnovo dei contratti nazionali. Oggi quell’accordo registra un totale fallimento e chi lo ha sottoscritto viene descritto come irragionevole da Squinzi. Chi si fa pecora il lupo se lo mangia, dice un proverbio siciliano.La distruzione del contratto nazionale non è solo un interesse del grande padronato italiano, è un obiettivo di fondo delle cosiddette riforme del lavoro volute dalla finanza internazionale, in Europa dalla Troika. Nel nuovo memorandum imposto alla Grecia la soppressione della contrattazione collettiva è uno dei punti cardine. La sempre da ricordare lettera di Draghi e Trichet al governo italiano, nell’agosto 2011 chiedeva sulla contrattazione le stesse cose che oggi pretendono Squinzi, Renzi e il “Corriere della Sera”. Abbattere i salari e i diritti e alzare i profitti, questa è la lotta di classe dall’alto che da tempo viene condotta contro il lavoro e che ogni sistema di potere pratica come può. La vera novità oggi sono i segnali di ripresa della lotta di classe dal basso, le ribellioni che cominciano a sorgere nel mondo del lavoro. Alla Chrysler gli operai hanno respinto in massa il contratto accettato dai loro sindacati e si preparano a scioperare. In Germania i macchinisti hanno tenuto bloccato per una settimana il trasporto ferroviario del paese. Lo stesso hanno fatto i conducenti della metropolitana di Londra. I dipendenti di Air France sono stati sui mass media, e hanno riscosso simpatia in tutto il mondo, per il brutto quarto d’ora che hanno fatto passare ai manager che li vogliono licenziare.Anche da noi ci sono simili segnali. Da tempo i lavoratori della logistica, in gran parte immigrati, organizzati dal Sicobas, fanno scioperi durissimi che spesso producono risultati. Ma ora anche il lavoro più tradizionale ha ricominciato a farsi sentire. Secondo il garante degli scioperi, le agitazioni nella scuola sono più che raddoppiate e così quelle in altri settori dei servizi. Solo pochi giorni fa i trasporti a Roma sono stati bloccati da uno sciopero che ha visto una partecipazione altissima, ben superiore alle forze della Usb che sola lo aveva proclamato. Dopo anni di rassegnazione, nel mondo del lavoro c’è chi comincia ad alzare la testa e quando lo fa esprime subito tutta la rabbia accumulata per le ingiustizie subite. È per questo che si vuole colpire il diritto stesso a scioperare. Non ci sono ancora in campo mobilitazioni sociali della portata di quelle dei decenni passati. Ma i segnali di lotta di classe dal basso sono già allarmanti per chi vuole continuare a condurla indisturbato dall’alto.La reazione contro la ripresa degli scioperi è in tutti gli Stati europei. La magistratura tedesca ha fermato lo sciopero nella Lufthansa. Il governo spagnolo ha varato leggi anti-manifestazioni. Il governo Cameron sta varando una legge sul diritto di sciopero così restrittiva, che un parlamentare che pure la sostiene l’ha comparata a quelle di un regime fascista. In Italia il solito “Corriere della Sera” ha sponsorizzato la proposta di limitazione dello sciopero di alcuni parlamentari renziani, che ricalca quella britannica. L’austerità impone il taglio dei salari e la distruzione dei diritti, l’attacco al diritto di sciopero deve prevenire la ribellione dei lavoratori, mentre i sindacati vanno ridotti all’impotenza e additati al disprezzo dell’opinione pubblica. Tutto si tiene e tutto si fa nel nome di una ripresa che, così come viene promessa, non ci sarà mai.La linea trentennale di Cgil, Cisl e Uil esce distrutta da questa nuova fase dei conflitti sociali. Il modello concertativo è diventato oramai pura gestione dell’impotenza e i proclami televisivi a cui non segue nulla non lo rafforzano di certo. L’alternativa alla resa è una sola, ci vuole un modello sindacale che faccia propria la lezione delle mobilitazioni radicali del lavoro e che, così come fa il sistema delle imprese, sostenga e promuova la lotta di classe. Il fallimento di Cgil, Cisl e Uil apre la via ad un nuovo sindacalismo conflittuale a cui sempre più si rivolgeranno i lavoratori che si ribellano. E un giorno la Confindustria rimpiangerà l’arroganza attuale.(Giorgio Cremaschi, “Il ritorno alla lotta di classe”, da “Micromega” dell’8 ottobre 2015).La Confindustria ha deciso di non rinnovare più i contratti nazionali, nonostante la moderazione delle piattaforme già varate da Cgil, Cisl e Uil, con richieste salariali medie di 30 euro lordi all’anno e con la piena disponibilità a venire incontro a tante richieste delle imprese. A sua volta il governo ha prestato un doppio soccorso agli industriali, come imprenditore con il blocco dei contratti pubblici, e come legislatore con l’annuncio della legge sul salario minimo. Quest’ultima in realtà dovrebbe essere definita come legge per rendere minimo il salario, visto che la cifra ipotizzata, 6 euro lordi all’ora, è poco più della metà della retribuzione minima prevista dai contratti nazionali. Grazie alla nuova legge e al Jobs Act, una impresa potrebbe licenziare i suoi dipendenti pagati 12 euro e poi assumere gli stessi o altri lavoratori al salario minimo di legge. Naturalmente il minimo salario non dovrebbe essere applicato indistintamente a tutti, anche il manager più feroce sa che ci sono lavori e attività che non possono essere gestiti con paghe così basse. Qui viene in soccorso il modello di relazioni sociali proposto con grande risalto dal “Corriere della Sera”.
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Porcelli costituzionali, rottamano quel che resta dell’Italia
Pino Cabras li chiama “porcelli costituzionali”, l’ex ministro socialista Rino Formica li avrebbe battezzati “nani e ballerine”: sono gli yesman che mettono mano alle ultime regole rimaste, per liberarsene e lasciare campo libero ai super-padroni del grande business. Molti difensori della Costituzione parlano ancora come trent’anni fa, quando ancora c’erano Craxi e Andreotti, o come in anni più recenti, quelli dei girotondi contro il berlusconismo “eversivo”. Peccato che oggi l’Unione Europea – coi suoi diktat sui bilanci nazionali deprivati del potere di spesa pubblica grazie alla tagliola della moneta unica non più sovrana – scavalchi ampiamente le prerogative della Costituzione, sempre più lettera morta, piegata alla nuova sovranità “straniera” di Bruxelles. Certo, quel che resta della Carta fa ancora paura: fu Jamie Dimon (Jp Morgan) a spiegare che andava rottamata perché troppo garantista, troppo democratica, troppo attenta ai diritti del lavoro. E dunque le ultime picconate spettano a Renzi: «Ecco lo spettacolo assurdo: sono stati eletti con una legge incostituzionale, il Porcellum, e quindi non possono pensare nemmeno alla lontana di rappresentare correttamente il corpo elettorale, né sono legittimati a manomettere la Costituzione. Eppure fanno proprio questo».I renziani «fanno strame della Costituzione muovendosi dentro un orizzonte ristretto, in stanze chiuse e delegittimate, con discussioni e compromessi bizantini», scrive Cabras su “Megachip”. «E ci tocca sentire Maria Elena Boschi mentre dice che il popolo aspetta da 70 anni la riforma della Costituzione (che ha 67 anni)». Al di là dell’anacronismo ignorante, «è la prova definitiva che queste personalità non hanno rispetto alcuno verso una Costituzione che fu scritta usando parole semplici ma con una discussione sottostante molto complessa», un vero e proprio «capolavoro di ponderatissima ingegneria istituzionale». Anni luce, un altro millennio: «Per fare la Costituzione vigente fu eletta in modo proporzionale un’Assemblea Costituente, non un Parlamento di nominati. Al lavoro della Costituente si affiancava una grandiosa opera di alfabetizzazione costituzionale, partita prima dell’elezione dell’assemblea: oltre che esserci un ministero apposito (retto da Pietro Nenni), ogni giorno c’erano trasmissioni radiofoniche grazie alle quali si educavano e si informavano con grande correttezza milioni di cittadini». Sembra di sognare: «I partiti e altre formazioni sociali appassionavano più gente possibile alla scrittura del progetto di Costituzione».Era il personale politico uscito dalle rovine della guerra nazifascista: «Si trattava di personalità di ben altra dirittura e rappresentatività rispetto ai quattro scalzacani che oggi scrivono le “schiforme” in aggiunta all’obbrobrio della legge elettorale Italicum (il Porcellum al cubo)». I deputati della Costituente? Studiavano a fondo gli argomenti: «Giorgio La Pira ebbe l’illuminazione di far tradurre in italiano tutte le Costituzioni del mondo. A tutti i costituenti fu così distribuito un manuale utilissimo: quando prendevano in esame un qualunque tema di rilievo costituzionale, la loro visuale era autenticamente mondiale. Oggi abbiamo Verdini e Serracchiani (quella che ritiene che il presidente del Senato, “essendo stato eletto nel Pd, debba accettarne le indicazioni”) e altri irresponsabili che vogliono sottomettere ogni organo alla maggioranza di governo, come ricorda Gustavo Zagrebelsky». Lo spettacolo degradato della periferia consente comunque di illuminare lo scenario principale, europeo: la rimozione di qualunque residua sovranità nazionale, “pericolosa” perché elettiva e dunque democratica. Decisivo, in questo, il ruolo del centrosinistra europeista e tecnocratico, dagli anni ‘90.Niente di strano, dunque, se oggi «la principale forza che vuole rovesciare la Costituzione è proprio il Pd». E attenzione: «Non solo la maggioranza renziana, ma pure la sua minoranza (gente che si metterebbe a negoziare anche se volessero reintrodurre lo schiavismo)». Aggiunge Cabras: «Sono gli stessi che sin dall’inizio di questa pessima legislatura stavano avallando un processo di revisione costituzionale piduista, quello dei “Saggi” di Napolitano, poi fallito». Se fossimo in una situazione normale, cioè ancora paragonabile a quella del dopoguerra, basata su leggi orientate all’interesse pubblico, a tutela della comunità nazionale dei cittadini, si ragionerebbe così: «La Carta può esser cambiata – ricorda Cabras – ma con prudenza estrema, con studio e cercando largo consenso, non con le urgenze dettate dall’orizzonte di potere che si sta organizzando intorno a Renzi, il primo ministro meno eletto del mondo». Invece siamo “sudditi” di Eurolandia, i bilanci vengono stabiliti lontano dai confini nazionali, e persino quel che resta della sovranità formale – la Costituzione, appunto – viene rottamata in modo sbrigativo, come fosse spazzatura della storia.(Pino Cabras, “I porcelli costituzionali”, da “Megachip” del 26 settembre 2015).Pino Cabras li chiama “porcelli costituzionali”, l’ex ministro socialista Rino Formica li avrebbe battezzati “nani e ballerine”: sono gli yesman che mettono mano alle ultime regole rimaste, per liberarsene e lasciare campo libero ai super-padroni del grande business. Molti difensori della Costituzione parlano ancora come trent’anni fa, quando ancora c’erano Craxi e Andreotti, o come in anni più recenti, quelli dei girotondi contro il berlusconismo “eversivo”. Peccato che oggi l’Unione Europea – coi suoi diktat sui bilanci nazionali deprivati del potere di spesa pubblica grazie alla tagliola della moneta unica non più sovrana – scavalchi ampiamente le prerogative della Costituzione, sempre più lettera morta, piegata alla nuova sovranità “straniera” di Bruxelles. Certo, quel che resta della Carta fa ancora paura: fu Jamie Dimon (Jp Morgan) a spiegare che andava rottamata perché troppo garantista, troppo democratica, troppo attenta ai diritti del lavoro. E dunque le ultime picconate spettano a Renzi: «Ecco lo spettacolo assurdo: sono stati eletti con una legge incostituzionale, il Porcellum, e quindi non possono pensare nemmeno alla lontana di rappresentare correttamente il corpo elettorale, né sono legittimati a manomettere la Costituzione. Eppure fanno proprio questo».
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Sanità da medioevo, solo per ricchi: l’infame modello Renzi
Che cosa rende una visita, un esame clinico, inutile? Il fatto che il paziente non abbia nulla. Che cosa lo rende particolarmente inutile? Il fatto che questo esame sia stato prescritto solo in via precauzionale, magari proprio solo per escludere il rischio malattia e tranquillizzare il paziente. Questi esami inutili, se passa il provvedimento legislativo annunciato dal governo, non si potranno più fare, pena sanzioni contro il medico che li prescrive. Quindi saranno utili solo gli esami clinici che riscontrino effettive patologie, magari irrecuperabili. Ci rendiamo conto della mostruosità di questa misura, naturalmente giustificata con la necessità del rigore nei conti dello Stato? Naturalmente i soliti pifferai liberisti spiegheranno che si tratta di eliminare sprechi, definendo standard validi per tutti, senza danni per nessuno. Mi pare che abbiano annunciato come esempio che gli esami sul colesterolo dovrebbero farsi ogni cinque anni. Immaginiamo una persona che improvvisamente abbia sintomi di malanni che il medico giudichi dovuti a cause di scompensi nel metabolismo, da sottoporre ad analisi. Se il paziente ha oltrepassato i tempi standard dall’ultimo controllo il medico potrà fare la prescrizione, se invece così non è dovrà aspettare. Oppure rischiare di finire sotto procedura di controllo e sanzione.Si dice che in questo modo si risparmieranno 13 miliardi che potranno essere spesi meglio. Tutti i tagli alla spesa pubblica son giustificati così da sempre, e da sempre sappiamo che questo non è vero. La sostanza è che si ridurrà la prevenzione sulle malattie, solo i ricchi potranno continuare a permettersela mentre i poveri si ammaleranno e moriranno prima. Ma forse questo è proprio ciò che si vuole. Il sistema pensionistico dalla riforma Dini si fonda sull’aspettativa di vita. Più questa statisticamente sale, più si deve andare in pensione ad età elevate. Per questo le tabelle già prevedono la pensione a 70 anni di età nei prossimi decenni. Immaginiamo allora che i tagli alla sanità blocchino o addirittura abbassino questa aspettativa di vita. Sarebbe un doppio guadagno per le casse dello Stato, da un lato risparmi sulla spesa sanitaria, dall’altro su quella pensionistica perché pur andando in pensione più tardi si morirebbe prima. Tempo fa una giornalista televisiva parlando del sistema pensionistico si lasciò scappare che i costi crescevano perché “purtroppo” si viveva più a lungo. Ecco, con quel purtroppo la giornalista era in perfetta sintonia con le intenzioni dei governanti liberisti.I medici sono giustamente in rivolta contro questa legge, perché verrebbero sottoposti ad uno standard di regole e comportamenti di modello aziendalistico. È evidente infatti anche in questa “riforma” il modello Marchionne, il nume ispiratore a cui Renzi vorrebbe fare un monumento. Come nella scuola con i presidi caporali, anche nella sanità ci saranno strutture e poteri burocratici che avranno il compito di decidere sui comportamenti. Il modello aziendale fondato sul profitto è quello che da tempo si sta imponendo nei servizi pubblici, in questo modo trasformando le persone ed i loro diritti costituzionali in oggetti di mercato. Ancora più infame è poi la partita di scambio che viene offerta ai medici per compensarli della distruzione della loro libertà. Il governo intende impedire le cause dei cittadini per malasanità. Così come ha fatto con il decreto Ilva, che ha garantito impunità ai manager che inquinano nell’esercizio delle loro funzioni, il governo offre la stessa protezione ai medici. I pazienti saranno meno immuni da malattie gravi, ma i medici verranno immunizzati dalle cause dei pazienti.L’Italia è il paese di Cesare Beccaria, che alla cultura medioevale contrappose quella illuminista delle pene: meglio un colpevole libero che un innocente in prigione. Con lo stato sociale questo principio di civiltà si era esteso ai diritti sociali. Meglio spendere 13 miliardi in visite anche per chi non ne ha bisogno, che negare le cure a chi invece ne necessita. Ora con le politiche di austerità il governo abbandona i principi illuministi per tornare a quelli medioevali, meglio che un malato muoia prima piuttosto che spendere dei soldi in più. L’autorità pubblica ha così potere di vita e di morte e il principio che la ispira è quello del mercato, rispetto alla cui suprema autorità, come nel Medio Evo, le persone normali non hanno più diritti personali indisponibili. Quella dell’austerità è prima di tutto una cultura di morte.(Giorgio Cremaschi, “La sanità modello Marchionne”, da “Micromega” del 24 settembre 2015).Che cosa rende una visita, un esame clinico, inutile? Il fatto che il paziente non abbia nulla. Che cosa lo rende particolarmente inutile? Il fatto che questo esame sia stato prescritto solo in via precauzionale, magari proprio solo per escludere il rischio malattia e tranquillizzare il paziente. Questi esami inutili, se passa il provvedimento legislativo annunciato dal governo, non si potranno più fare, pena sanzioni contro il medico che li prescrive. Quindi saranno utili solo gli esami clinici che riscontrino effettive patologie, magari irrecuperabili. Ci rendiamo conto della mostruosità di questa misura, naturalmente giustificata con la necessità del rigore nei conti dello Stato? Naturalmente i soliti pifferai liberisti spiegheranno che si tratta di eliminare sprechi, definendo standard validi per tutti, senza danni per nessuno. Mi pare che abbiano annunciato come esempio che gli esami sul colesterolo dovrebbero farsi ogni cinque anni. Immaginiamo una persona che improvvisamente abbia sintomi di malanni che il medico giudichi dovuti a cause di scompensi nel metabolismo, da sottoporre ad analisi. Se il paziente ha oltrepassato i tempi standard dall’ultimo controllo il medico potrà fare la prescrizione, se invece così non è dovrà aspettare. Oppure rischiare di finire sotto procedura di controllo e sanzione.
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Cinismo e paura nel “profughismo” della Fortezza Europa
«Una delle novità di questa estate segnata dalle migrazioni è stata il dispiegarsi di una nuova ideologia dell’accoglienza selettiva: il profughismo». Secondo questa rappresentazione, scrive “InfoAut”, i flussi migratori andrebbero classificati dietro criteri di legittimità che distinguano i migranti “bellici” o “politici” da quelli meramente economici, assicurando soltanto ai primi timbri e firme necessari per restare. Un’impostazione «del tutto in linea con la storia recente delle politiche migratorie, fondate sul principio secondo cui viaggiare costituisce un’attività da sottoporre a prescrizioni selettive, con particolare riguardo alla funzionalità dei migranti nei processi di estrazione del valore». Ma la categoria giuridica di profugo, o rifugiato politico, «non nasce con la retorica di queste settimane», anche se proprio adesso diventa centrale nel discorso politico. Le istituzioni europee? Hanno sempre cercato di ignorare i migranti “non economici”, perché «individui scomodi da amministrare», donne e uomini la cui “accoglienza” era «imposta dal diritto internazionale anche là dove non sussistesse l’accesso a una borsa di studio o l’invito per un posto di lavoro».Meglio quindi «distinguere il presunto viaggiatore disciplinato da quello allo sbando, potenzialmente foriero di problemi per l’ordine pubblico». I flussi degli ultimi mesi, osserva “InfoAut”, hanno reso necessaria una nuova impostazione, di cui il governo tedesco ha tentato di promuoversi capofila. «Le migrazioni odierne sono il prodotto degli sconvolgimenti politici del Nord Africa e dell’Asia occidentale. Pesano le guerre civili in Libia e in Siria: la prima per aver da tempo aperto falle nella gestione draconiana dei flussi subsahariani che Gheddafi aveva, a suo tempo, concordato con Berlusconi; la seconda per aver condotto milioni di persone dalle regioni siriane verso paesi a loro volta instabili come l’Iraq, il Libano o la Turchia, e aver quindi prodotto il desiderio di proseguire il viaggio verso paesi più ricchi – quelli dell’Europa settentrionale». I numeri dei migranti sono notevolmente aumentati, insieme alla loro determinazione a passare le frontiere, «anche a costo della resistenza all’identificazione e alle violenze delle polizie». I capitali europei hanno sempre «bisogno di mano d’opera a basso costo», ma al tempo stesso non possono rinunciare «a trarre beneficio dall’astio (preesistente o indotto) di gran parte delle popolazioni provate dall’austerity verso le masse dei nuovi arriva(n)ti».Secondo “InfoAut”, il rinato interesse per la categoria del “profugo” «è il nuovo criterio per amministrare l’esclusione là dove il ricorso alle ordinarie procedure non appare possibile». Certo, il governo Merkel, per conto dell’imprenditoria tedesca (ma in contrasto con talune tensioni della Germania profonda), guarda sempre con interesse all’ingresso dei migranti siriani attualmente in viaggio dalla Turchia: «Appartenenti spesso a ceti istruiti, provenienti da un paese dove il sistema educativo è piuttosto avanzato, non di rado importatori di una forza lavoro specializzata o di tendenza cognitiva (al contrario di migranti in gran parte orientati a occupazioni generiche provenienti da altri paesi) essi sembrano rappresentare una merce umana potenzialmente fruttifera per le aziende tedesche». Ma un simile piano di assorbimento selettivo rende necessaria un’efficiente burocrazia dell’immigrazione: per questo i paesi di frontiera, come l’Italia e la Grecia, «sono in queste ore spronati a istituire con celerità e rigore centri d’identificazione, classificazione e deportazione (gli “hotspots”) che permettano un ingresso ordinato verso i confini settentrionali (presupposto necessario per l’ingresso dispiegato alla fase fattuale della “solidarietà” tedesca)».Non è tutto. Notoriamente, la Siria rappresenta un obiettivo militare per gli Stati Uniti e la Francia, come a suo tempo la Libia, che fu gettata nel caos dai bombardamenti (anche italiani) del 2011. «Incentrare l’attenzione sulla tragedia umanitaria siriana può anche avere, per le potenze europee, un tornaconto propagandistico-militare, preparando le proprie popolazioni all’evenienza di un intervento armato», avverte sempre “InfoAut”, anche perché il fattore politico-militare è prepotentemente all’opera in tutta la fase attuale: «La svolta nord-irachena del 2014 ha aperto una fase di instabilità che ha liberato, secondo linee-forza contrastanti, energie e spazi per numerose contraddizioni sopite, latenti o pregresse nell’Asia occidentale: dalla crisi dei regimi arabi e dei governi-fantoccio all’eredità politico-militare delle resistenze afghana e irachena, fino all’approfondirsi della contrapposizione sunnita-sciita e alle irrisolte questioni kurda, libanese, palestinese». Ciò che accade, dunque, «non è che uno degli effetti collaterali di questo multiforme incendio, e i migranti odierni, come quelli di tutti i tempi, portano con sé questo bagaglio di tensione politica e sociale».Non a caso, continua il newsmagazine, assistiamo a dinamiche migratorie che, da Ventimiglia a Calais, passando per Gevgelija e Rozske, assumono i caratteri di vere e proprie ribellioni. «Sarebbe allora miope ignorare le contraddizioni che muovono lungo il pianeta assieme agli esseri umani, così come quelle che abitano gli esseri umani che si aggirano per il pianeta». Del resto, «l’universo migrante non è uno spazio evanescente ed etereo», ma un mondo materiale lacerato, frastagliato, stratificato. «Possiamo dimenticare i barconi giunti in Sicilia con libici, siriani e maghrebini autorizzati a respirare, e bengalesi e pakistani assassinati nella stiva, assieme a subsahariani schiacciati a morire sul fondo del fondo, sotto a poppa, in una terribile gerarchizzazione razziale dell’accesso alla speranza o alla morte degli esseri umani?». E’ proprio «questa procedura di selezione, filtraggio e gerarchizzazione – tanto nella forma selvaggia del mercato illegale, quanto in quella giuridica del mercato istituzionale – che dobbiamo, oggi, rifiutare con estrema chiarezza».Il richiamo diffuso a una solidarietà caratterizzata dalla retorica “profughista” può allora, in questo momento, assumere un significato pericoloso e ambiguo, conclude “InfoAut”. «Occorre smontare l’idea secondo cui le condizioni economiche non costituiscono un fondamento legittimo per la decisione di partire, considerato non soltanto che il benessere e il malessere economico delle diverse aree geografiche e classi sociali sono interconnessi, ma anche che le dinamiche di guerra e persecuzione politica hanno origini economiche di volta in volta individuabili». Così, «la critica delle politiche di morte e subordinazione portate avanti nel Mediterraneo» non può appiattire le nozioni di libertà, oppressione o guerra secondo una rappresentazione del diritto internazionale «parziale, storicamente situata e politicamente insufficiente». Se i benefici del diritto acquisito vanno sempre rivendicati, «là dove conquiste storiche affiorano nelle sedimentazioni giuridiche in seguito alle lotte e agli sconvolgimenti passati», bisogna «costruire la contrapposizione viva per il cambiamento, dentro gli sconvolgimenti odierni». Attenzione: una contrapposizione che si nutra di una solidarietà «diversa da quella (ipocrita) delle istituzioni», preoccupate solo di «amministrare, gestire e controllare nuove e temibili contraddizioni sociali».«Una delle novità di questa estate segnata dalle migrazioni è stata il dispiegarsi di una nuova ideologia dell’accoglienza selettiva: il profughismo». Secondo questa rappresentazione, scrive “InfoAut”, i flussi migratori andrebbero classificati dietro criteri di legittimità che distinguano i migranti “bellici” o “politici” da quelli meramente economici, assicurando soltanto ai primi timbri e firme necessari per restare. Un’impostazione «del tutto in linea con la storia recente delle politiche migratorie, fondate sul principio secondo cui viaggiare costituisce un’attività da sottoporre a prescrizioni selettive, con particolare riguardo alla funzionalità dei migranti nei processi di estrazione del valore». Ma la categoria giuridica di profugo, o rifugiato politico, «non nasce con la retorica di queste settimane», anche se proprio adesso diventa centrale nel discorso politico. Le istituzioni europee? Hanno sempre cercato di ignorare i migranti “non economici”, perché «individui scomodi da amministrare», donne e uomini la cui “accoglienza” era «imposta dal diritto internazionale anche là dove non sussistesse l’accesso a una borsa di studio o l’invito per un posto di lavoro».
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Cremaschi: dopo 44 anni lascio la Cgil, ha tradito i lavoratori
La ragioni per le quali ho restituito dopo 44 anni la tessera della Cgil sono semplici e brutali. Oramai mi sento totalmente estraneo a ciò che realmente è questa organizzazione e non sono in grado minimamente di fare sì che essa cambi. La mia è quindi la presa d’atto di una sconfitta personale: ci ho provato per tanto tempo e credo con rigore e coerenza personale, non ci sono riuscito. Anzi la Cgil è sempre più distante da come avrei voluto che fosse. Non parlo tanto dei proclami e delle dichiarazioni ufficiali, ma della pratica reale, della vita quotidiana che per ogni organizzazione, in particolare per un sindacato, è l’essenza. Non è questo il sindacato che vorrei e di cui credo ci sia bisogno, e soprattutto non vedo in esso la volontà di diventarlo. Naturalmente mi si può giustamente rispondere: chi ti credi di essere? Certo la mia è la storia di un militante come ce ne sono stati tanti, che ha speso tanto nell’organizzazione ma che non può pretendere di essere al centro del mondo. Giusto, tuttavia credo che la mia fuoriuscita possa almeno essere registrata come un pezzetto della più vasta e diffusa crisi sindacale di cui tanto si parla, e che come tale possa essere collocata e spiegata.Nei primissimi anni ‘70 del secolo scorso a Bologna come lavoratore studente ho preso con orgoglio la mia prima tessera Cgil. Poi sono stato chiamato a Brescia per cominciare a lavorare a tempo pieno nella Fiom. Nella quale sono rimasto fino al 2012. Ho visto cambiare il mondo, ma se tornassi indietro con la consapevolezza di oggi rifarei tutte le scelte di fondo. Scherzando penso che io ed il mondo siamo pari, io non sono riuscito a cambiarlo come volevo, ma pure lui non ce l’ha fatta con me. Quando ho cominciato a fare il “sindacalista” a tempo pieno questa parola suscitava rispetto. Io la maneggiavo con un po’ di timore. Il sindacalista era una persona giusta e disinteressata che raddrizzava i torti, era il difensore del popolo. Oggi se dici che sei un sindacalista ti vedi una strana espressione intorno, molto simile a quella che viene rivolta ai politici di professione. Sindacalista, eh? Allora sai farti gli affari tuoi…Questo discredito del sindacato è sicuramente alimentato da una disegno del potere economico e delle sue propaggini politiche ed intellettuali. Ma è anche frutto della burocratizzazione e istituzionalizzazione delle grandi organizzazioni sindacali. Paradossalmente oggi è proprio il sindacalismo moderato della concertazione, che ho contrastato per quanto ho potuto, ad essere messo sotto accusa. Negli anni ‘80 e ‘90 è stata la mutazione genetica del sindacato più forte d’Europa, la sua scelta di accettare tutti i vincoli e le compatibilità del mercato e del profitto, che ha permesso al potere economico di riorganizzarsi e riprendere a comandare. In cambio le grandi organizzazioni sindacali hanno chiesto compensazioni per se stesse. Questo è stato il grande scambio politico che ha accompagnato trent’anni di politiche liberiste contro il lavoro. I grandi sindacati accettavano la riduzione dei diritti e del salario dei propri rappresentati e in cambio venivano riconosciuti ed istituzionalizzati. Partecipavano ai fondi pensione, a quelli sanitari, agli enti bilaterali, firmavano contratti che costruivano relazioni burocratiche con le imprese, stavano ai tavoli dei governi che tagliavano lo stato sociale, insomma crescevano mentre i lavoratori tornavano indietro su tutto.Quando il mondo del lavoro è precipitato nella precarietà e nella disoccupazione, quando si è indebolito a sufficienza, il potere economico reso più famelico dalla crisi, ha deciso che poteva fare a meno dello scambio della concertazione. Ha dato il via Marchionne e tutti gli altri lo hanno seguito. Quelle concessioni sul ruolo e sul potere della burocrazia, che le stesse imprese ed il potere politico elargivano volentieri in cambio della “responsabilità” sindacale, son state messe sotto accusa. Coloro che più si sono avvantaggiati dei “privilegi” sindacali ora sono i primi a lanciare lo scandalo su di essi. I vecchi compagni da cui ho imparato l’abc del sindacalista mi dicevano: se al padrone dai una mano poi si prende il braccio e tutto il resto. Ma nel mondo moderno certe massime sono considerate anticaglie, e quindi i gruppi dirigenti dei grandi sindacati son rimasti sconvolti e travolti dalla irriconoscenza di un potere a cui avevano fatto così ampie concessioni. Hanno così finito per fare propria la più grande delle falsificazioni sul loro operare. I sindacati hanno difeso troppo gli occupati e abbandonato i giovani ed i precari, questo è passato nei mass media. Mentre al contrario non si sono trasmessi diritti alle nuove generazioni proprio perché si è rinunciato a difendere coloro che quei diritti tutelavano ancora.I grandi sindacati han subito la catastrofe del precariato non perché troppo rigidi, ma perché troppo subalterni e disponibili verso le controparti. Questa è la realtà rovesciata rispetto all’immagine politica ufficiale, realtà che qualsiasi lavoratrice o lavoratore conosce perfettamente sulla base della proprie amare esperienze. La condizione del lavoro in Italia oggi è intollerabile e dev’essere vissuta come un atto di accusa da ogni sindacalista che creda ancora nella propria funzione. Non è solo lo perdita di salari e diritti, il peggioramento delle condizioni di lavoro, lo sfruttamento brutale che riemerge dal passato di decenni. Sono la paura e la rassegnazione diffuse, il rancore, la rottura di solidarietà elementari, che mettono sotto accusa tutto l’operato sindacale di questi anni. Di Vittorio rivendicò alla Cgil il merito di aver insegnato al bracciante che non ci si toglie il cappello quando passa il padrone. Di chi è la colpa se ora chi lavora deve piegarsi e sottomettersi come e peggio che nell’800? È chiaro che la colpa è del potere economico e di quello politico ad esso corrivo, oggi ben rappresentato da quella figura trasformista e reazionaria che è Matteo Renzi. È chiaro che c’è tutto un sistema culturale e mediatico che educa il lavoro alla rassegnazione e alla subordinazione all’impresa. Ma poi ci son le responsabilità da questo lato del campo, quelle di chi non organizza la contestazione e la resistenza.Lascio la Cgil perché non vedo nei gruppi dirigenti alcuna volontà di cogliere il disastro in cui è precipitato il mondo del lavoro e le responsabilità sindacali in esso. Vedo una polemica di facciata contro le politiche di austerità e del grande padronato, a cui corrispondono la speranza e l’offerta del ritorno alla vecchia concertazione. E se le dichiarazioni ufficiali, come sempre accade, fanno fuoco e fiamme sui mass media, la pratica reale è di aggiustamento e piccolo cabotaggio, nell’infinita ricerca del minor danno. Il corpo burocratico della Cgil è più rassegnato dei lavoratori posti di fronte ai ricatti del mercato e delle imprese, come può comunicare coraggio se non ne possiede? Certo ci sono tante compagne e compagni che non si arrendono, che fanno il loro dovere, che rischiano, ma la struttura portante dell’organizzazione va da un’altra parte, è dominata dalla paura di perdere il residuo ruolo istituzionale e quando ci sono occasioni di rovesciare i giochi, volge lo sguardo da un’altra parte.Quando la Fiom nel 2011 si è opposta a Marchionne, quando Monti ha portato la pensione alla soglia dei 70 anni, quando si è tardivamente ripristinato lo sciopero generale contro il governo, in tutti quei momenti si è vista una forza disposta a non arrendersi. Quei momenti non sono lontani, eppure sembrano distare già decenni perché subito dopo di essi i gruppi dirigenti son tornati al tran tran quotidiano. E temo che lo stesso accada ora nel mondo della scuola ove un grande movimento di lotta non sta ricevendo un adeguato sostegno a continuare. Non si può ripartire se l’obiettivo è sempre solo quello di trovare un accordo che permetta all’organizzazione di sopravvivere. Così alla fine si firma sempre lo stesso accordo in condizioni sempre peggiori. In fondo è una resa continua. Il 10 gennaio 2014 Cgil, Cisl e Uil hanno firmato con la Confindustria un’intesa che scambia il riconoscimento del sindacato con la rinuncia alla lotta quotidiana nei luoghi di lavoro. Una volta che la maggioranza dei sindacati firma un contratto la minoranza deve obbedire e non può neppure scioperare. Se non accetti questa regola non puoi presentarti alle elezioni dei delegati.Se negli anni ‘50 del secolo scorso la Cgil, in minoranza nelle grandi fabbriche, avesse accettato un sistema simile, non avremmo avuto l’autunno caldo e lo Statuto dei Lavoratori. Che non a caso oggi il governo cancella, sicuro che le grida sindacali non siano vera opposizione. Il movimento operaio nella sua storia ha incontrato spesso dure sconfitte, ma le ha superate solo quando le ha riconosciute come tali e quando ha cambiato la linea politica, la pratica e, a volte, i gruppi dirigenti. Invece nulla oggi viene davvero rimesso in discussione. La Cgil ha sempre avuto una dialettica interna. Tra linee politiche, tra esperienze, tra luoghi di lavoro, territori e centro, tra categorie e confederazione. Dagli anni ‘90 il confronto tra maggioranza e minoranze si è intrecciato con quello tra la Fiom e la confederazione. In questi confronti e conflitti si aprivano spazi di esperienze ed iniziative controcorrente.Oggi tutto questo non c’è più. Una normalizzazione profonda percorre tutta l’organizzazione e l’ultimo congresso le ha conferito sanzione formale. Non facciamoci ingannare dalle polemiche televisive e dalle imboscate di qualche voto segreto. Fanno parte di scontri di potere tra cordate di gruppi dirigenti, mentre tutte le decisioni più importanti son state assunte all’unanimità, salvo il voto contrario della piccola minoranza di cui ho fatto parte e di cui non si è mai tenuto alcun conto. Una piccola minoranza che al congresso ha raggiunto successi insperati là dove c’erano le persone in carne ed ossa, ma che nulla ha potuto contro i tanti risultati bulgari per partecipazione e consenso verso i vertici, costruiti a tavolino. Con l’ultimo congresso la struttura dirigente della Cgil ha deciso di ingannare se stessa. La partecipazione bassissima degli iscritti è stata innalzata artificialmente per mascherare una buona salute che non c’è. Ed il resto è venuto di conseguenza. A differenza che nel passato non ci son più problemi nella vita interna della Cgil, tutto è pacificato a parte i puri conflitti di potere. Ma forse anche per questo la Cgil non ha mai contato così poco nella vita sociale e politica del paese.A questo punto non bastano rinnovamenti di facciata, sono necessarie rotture di fondo con la storia e la pratica degli ultimi trenta anni. Bisogna rompere con un sistema Europa che è infame con i migranti mentre si genuflette di fronte all’euro. I diritti del lavoro sono incompatibili con una moneta unica i cui vincoli, come ha ricordato il ministro delle finanze tedesco, sono tutt’uno con le politiche di austerità. Bisogna rompere con il Pd ed il suo sistema di potere se non se ne vuol venire assorbiti e travolti. Bisogna rompere con le relazioni subalterne con le imprese e ripartire dalla condizione concreta dei lavoratori. Queste rotture non sono facili, ma sono indispensabili per ripartire e sono impossibili nella Cgil di oggi. Certo, fuori dalla Cgil non c’è una alternativa di massa pronta. Ci sono lotte, movimenti, sindacati conflittuali generosi e onesti, ma spesso distanti se non in contrasto tra loro. Ma questa situazione frantumata per me non giustifica il permanere in un’organizzazione che sento indisponibile anche solo a ragionare su queste rotture.So bene che la svolta positiva per il mondo del lavoro ci sarà quando tutte le organizzazioni sindacali, anche le più moderate, saranno percorse da un vento nuovo. Ho vissuto da giovane quei momenti. Ma ho anche imparato che nell’Italia di oggi questo cambiamento sarà possibile solo se promosso da una spinta organizzata esterna a Cgil, Cisl e Uil. A costruirla voglio dedicare il mio impegno. Per questo lascio la Cgil da militante del movimento operaio così come ci sono entrato. Saluto con grande affetto le compagne e compagni di tante lotte che non condividono questo mio giudizio finale. Siccome li conosco e stimo, so che ci ritroveremo in tanti percorsi comuni. Saluto anche tutte e tutti gli altri compagni, perché ho fatto mio l’insegnamento di Engels di avere avversari, ma mai nemici personali. Grazie soprattutto a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori che hanno insegnato a me, intellettuale piccolo borghese come si diceva una volta, cosa sono le durezze e le grandezze della classe operaia. Spero di poter apprendere ancora.(Giorgio Cremaschi, “Perché lascio la Cgil”, dall’“Huffington Post” del 15 settembre 2015).La ragioni per le quali ho restituito dopo 44 anni la tessera della Cgil sono semplici e brutali. Oramai mi sento totalmente estraneo a ciò che realmente è questa organizzazione e non sono in grado minimamente di fare sì che essa cambi. La mia è quindi la presa d’atto di una sconfitta personale: ci ho provato per tanto tempo e credo con rigore e coerenza personale, non ci sono riuscito. Anzi la Cgil è sempre più distante da come avrei voluto che fosse. Non parlo tanto dei proclami e delle dichiarazioni ufficiali, ma della pratica reale, della vita quotidiana che per ogni organizzazione, in particolare per un sindacato, è l’essenza. Non è questo il sindacato che vorrei e di cui credo ci sia bisogno, e soprattutto non vedo in esso la volontà di diventarlo. Naturalmente mi si può giustamente rispondere: chi ti credi di essere? Certo la mia è la storia di un militante come ce ne sono stati tanti, che ha speso tanto nell’organizzazione ma che non può pretendere di essere al centro del mondo. Giusto, tuttavia credo che la mia fuoriuscita possa almeno essere registrata come un pezzetto della più vasta e diffusa crisi sindacale di cui tanto si parla, e che come tale possa essere collocata e spiegata.
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Loro affogano nel Mediterraneo, l’Europa nell’ipocrisia
Le foto dei due bambini siriani morti annegati, Aylan, due anni, Ghalib, 5 anni, non solo hanno fatto il giro del mondo: sono state come un pugno nello stomaco per milioni di europei, e di occidentali. Una vignetta campeggia sulla prima pagina di un importante quotidiano italiano. Riporta l’esclamazione di un altro bambino siriano, in questo caso vivo: “Se fate finire la guerra, ce ne torniamo a casa nostra”. Beata innocenza, risponde l’adulto. In questa frase cè una tale enorme quantità di verità che solo i selvaggi bianchi e ben nutriti possono ignorare. Se sono qui, a invadere l’ex tranquilla Europa, questi poveri disgraziati non hanno colpa. In moltissimi casi, sicuramente la maggioranza, non ne avevano l’intenzione. Fuggono – e fuggiranno – dalle tremende conseguenze della violenza che subiscono. E di questa violenza l’Occidente e l’Europa sono stati i principali promotori. Ma questa immane tragedia che è in corso sta cambiando il volto stesso dell’Europa, frantuma le sue illusioni e la sua prosopopea.L’Europa si sta dividendo sotto i nostri occhi. E la linea di demarcazione, guarda caso, ci dice molte cose che molti leader europei avrebbero preferito non vedere squadernate così brutalmente. È la linea che fu della “cortina di ferro”. Due pezzi di Europa che sono stati rattoppati in fretta e furia, per mostrare un volto unificato di fronte alla “minaccia russa”. Il rattoppo si è rotto. L’Europa centrale e orientale non ne vuole sapere di condividere fardelli che dovrebbero essere comuni e invece non lo sono. L’Europa del sud è sotto una pressione che non può reggere da sola. Gli uni e gli altri non hanno strategie, non hanno capito cos’è successo e, dunque, non hanno le ricette per affrontarlo. Adesso, con grave ritardo, la Germania, cerca di far valere almeno la ragione, più dell’umanità, ormai perduta. L’accordo tra Merkel e Hollande (quest’ultimo dai riflessi pachidermici) dice che l’accoglienza non può essere rifiutata e che l’onere dev’essere proporzionalmente sopportato da tutti. E si delineano punizioni e multe per quei paesi che non rispetteranno le decisioni comuni.Finalmente è arrivato l’idraulico europeo che turerà i buchi? Non penso che ci riuscirà. Perché questa Europa è piena di spazzatura ideologica, che ottunde le menti dei suoi leader e dei suoi sudditi. Non c’è spazio per i diritti e i valori umani (che avrebbero dovuto essere gli elementi distintivi della costruzione europea) là dove impera l’egoismo e l’interesse dei più ricchi e dei più forti. Lo si è visto e lo si vede con la Grecia, verso la quale ogni idea di solidarietà è stata sacrificata sull’altare dei profitti bancari. Ma, se non c’è solidarietà tra europei, come potrebbe esserci con e verso questi “invasori” sconosciuti che arrivano a migliaia senza nemmeno bussare alla porta? Certo c’è l’insipienza, la mancanza di lungimiranza, la vera e propria stupidità dei leaders europei. Ma c’è anche la totale impreparazione dei popoli europei a fronteggiare un collasso che nessuno aveva previsto.Nessuno aveva detto loro che, per esempio, il libero flusso dei capitali, deciso trent’anni fa dai governi già al servizio della finanza, avrebbe comportato, alla lunga, questo disastro. Alla lunga, perché il denaro viaggia alla velocità della luce, ma gli uomini sono poi costretti a inseguirlo, con la loro carne, il loro sangue, la loro vita. Ci mettono solo un po’ più di tempo. Ecco, quel tempo è arrivato. Nessuno aveva detto loro che distruggendo uno Stato, la Libia, si sarebbe creata un’onda di fuga. Nessuno aveva informato la gente che finanziando i fanatici attorno alla Siria, si sarebbe aperta una voragine, da cui sarebbero usciti milioni di profughi. Adesso che fare? Se non si vuole affogare nell’ipocrisia, mentre loro affogano in mare, bisogna invertire tutte le rotte. Le prime dovrebbero essere quelle delle navi della Nato che, a fine settembre, cominceranno la più grande esercitazione militare del dopoguerra. Diretta contro la Russia. Si spenderanno, per niente, sei o sette miliardi di euro, forse molto di più. Ma quanti sanno che è stata la Nato a sostenere gran parte delle due guerre che hanno insanguinato la riva sud del Mediterraneo? Chi dirà la verità ai popoli europei, che camminano verso il nulla guardando dalla parte sbagliata?(Giulietto Chiesa, “Un’Europa che affoga nell’iprocrisia”, da “Sputnik News” del 4 settembre 2015).Le foto dei due bambini siriani morti annegati, Aylan, due anni, Ghalib, 5 anni, non solo hanno fatto il giro del mondo: sono state come un pugno nello stomaco per milioni di europei, e di occidentali. Una vignetta campeggia sulla prima pagina di un importante quotidiano italiano. Riporta l’esclamazione di un altro bambino siriano, in questo caso vivo: “Se fate finire la guerra, ce ne torniamo a casa nostra”. Beata innocenza, risponde l’adulto. In questa frase cè una tale enorme quantità di verità che solo i selvaggi bianchi e ben nutriti possono ignorare. Se sono qui, a invadere l’ex tranquilla Europa, questi poveri disgraziati non hanno colpa. In moltissimi casi, sicuramente la maggioranza, non ne avevano l’intenzione. Fuggono – e fuggiranno – dalle tremende conseguenze della violenza che subiscono. E di questa violenza l’Occidente e l’Europa sono stati i principali promotori. Ma questa immane tragedia che è in corso sta cambiando il volto stesso dell’Europa, frantuma le sue illusioni e la sua prosopopea.
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Renzi mente indisturbato, sa di parlare a una platea di idioti
Renzi sta dicendo: “Il Pil aumenta quest’anno: per la prima volta dopo molti anni, l’Italia è ripartita grazie alle mie riforme. Questo mi legittima ad andare avanti riformando la Costituzione per concentrare i poteri dello Stato, anche quelli di garanzia, nelle mani del primo ministro” (e per fare in modo che il Parlamento sia composto interamente da nominati dei segretari di partito). Però solo un pubblico di cretini può interpretare come ripartenza strutturale, come una manifestazione di ritrovata vitalità, anziché come un rimbalzo (il cosiddetto salto del gatto morto), un misero aumento dello 0,5% dopo molti anni di recessione – uno 0,5% che lascia l’Italia ultima in Europa e nell’Ocse. Ultima, con una disoccupazione giovanile dirompente, un continuo scivolamento del Meridione verso condizioni africane, e una crescente fuga all’estero di capitali e cervelli.Uno 0,5 % dovuto al fatto che adesso si conteggiano nel Pil anche i redditi da prostituzione, narcotraffico e altri crimini. Senza questa aggiunta, avremmo un calo del Pil, un -0,3% circa! Quindi il declino non si è invertito, né arrestato. Se inoltre si considera che in questo periodo abbiamo goduto di uno straordinario insieme di fattori esterni, indipendenti dalle riforme di Renzi, fattori estremamente favorevoli per la crescita economica (ossia il fortissimo risparmio sul petrolio, la svalutazione dell’euro, tassi e spread molto favorevoli, il quantitative easing, la compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori, il deprezzamento delle materie prime), e che ne abbiamo tratto solo uno 0,5%, allora è evidente che quel mezzo punto percentuale, in questo contesto, è indice non di ripresa, ma di peggioramento strutturale e di conferma della non funzionalità del sistema-paese.Risponda Renzi: che cosa succederebbe al Pil italiano qualora quei fattori esterni, o anche solo uno di essi, venisse meno? O se non conteggiasse nel Pil le marchette delle battone e i lucri degli spacciatori? E’ evidente che, quando proclama che con le sue riforme ha fatto ripartire il paese, Renzi calcola di rivolgersi a una base elettorale composta da idioti. Esattamente come quando promette un taglio sostanziale della pressione fiscale mentre è vincolato a clausole di salvaguardia per 60 miliardi pronte a scattare l’anno prossimo sull’Iva e su altre imposte.(Marco Della Luna, “Renzi parla agli idioti”, dal blog di Della Luna del 1° settembre 2015).Renzi sta dicendo: “Il Pil aumenta quest’anno: per la prima volta dopo molti anni, l’Italia è ripartita grazie alle mie riforme. Questo mi legittima ad andare avanti riformando la Costituzione per concentrare i poteri dello Stato, anche quelli di garanzia, nelle mani del primo ministro” (e per fare in modo che il Parlamento sia composto interamente da nominati dei segretari di partito). Però solo un pubblico di cretini può interpretare come ripartenza strutturale, come una manifestazione di ritrovata vitalità, anziché come un rimbalzo (il cosiddetto salto del gatto morto), un misero aumento dello 0,5% dopo molti anni di recessione – uno 0,5% che lascia l’Italia ultima in Europa e nell’Ocse. Ultima, con una disoccupazione giovanile dirompente, un continuo scivolamento del Meridione verso condizioni africane, e una crescente fuga all’estero di capitali e cervelli.
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Errore fatale, trattare i migranti come i Goti di Alarico
Nel clima da fine impero in cui siamo immersi fioriscono i paragoni tra l’ondata migratoria attuale e le invasioni barbariche del V secolo. Scrive ad esempio l’antropologa Amalia Signorelli: «Vorrei suggerire all’onorevole Matteo Salvini e a tutti coloro che condividono le sue idee una passeggiata lungo le Mura Aureliane, la possente fortificazione con cui l’imperatore Aureliano (215 – 275 d.C.) circondò Roma, capitale dell’Impero, per metterla al riparo dalle invasioni dei barbari. Si resta affascinati dal diametro della cinta muraria (Roma all’epoca sfiorava il milione di abitanti), dallo spessore delle mura, dalla frequenza delle torri di avvistamento, dall’eccellente protezione dei camminamenti. Un’opera di ingegneria militare ancora oggi esemplare. Che, come tutti sappiamo, non fermò le invasioni barbariche. Se mai, per un paio di secoli, ne ritardò il compimento. Quei barbari non erano bande di briganti dedite al saccheggio, erano popolazioni che si muovevano dall’Est verso Ovest con donne e bambini e che tendevano a stabilirsi nei paesi conquistati». E poi la proposta: «Il rifugiato riceva dallo Stato italiano una cifra giornaliera per il proprio mantenimento e, in segno di gratitudine, si offra volontario per lavori socialmente utili».Questa è l’impostazione politically correct di Amalia Signorelli. Commenta una lettrice: «E purtroppo l’autrice dell’articolo ha ragione, ha dannatamente ragione: i muri non bastano, non basteranno a fermare questa invasione barbarica che produrrà soltanto distruzione, come d’altronde tutte le invasioni. Non è più un fenomeno di immigrazione, è un’incontenibile invasione. Ha ragione l’autrice a paragonarla con quanto successe durante le guerre gotiche. Ma l’autrice omette colpevolmente di ricordare gli episodi di atroce crudeltà. Roma in cinquant’anni passò da un milione di abitanti a trentamila. Fu una carneficina e fu il crollo di una civiltà. Siamo arrivati, purtroppo, a una scelta: o noi o loro». Questa opinione è sostanzialmente condivisa da oltre il 90% dei lettori che commentano. Perciò parliamone apertamente e senza moralismi, o magari utilizzando la storia come metafora. Che vuol dire: “O noi o loro”? Dovremmo sterminarli, riportarli da dove vengono, o cosa?Lo so che il genocidio (non è già in corso?) è un reato, e l’apologia di reato non si può fare; e chi lo commette si autodistrugge. Ma proviamo a ridurre il divario fra opinione pubblica e establishment. I Goti e i loro successori non volevano abbattere l’impero romano, anzi: ma solo inserirsi in un’area sicura (dagli attacchi degli Unni) e ricca. Sounds familiar? Però ne provocarono il crollo. Il declino del reddito pro-capite durò circa mille anni. O più: i contadini del V secolo abitavano case pavimentate e con le tegole sul tetto; in Veneto cento anni fa molti contadini vivevano in abitazioni di paglia. Come gestirono la pressione migratoria nel V secolo? In modi diversi a Oriente e a Occidente. A Costantinopoli, in un caldo giorno di luglio dell’anno 400, fu pogrom. La folla inferocita trucidò tutti i Goti presenti in città: uomini, donne, bambini. Il governo di Arcadio completò la pulizia etnica, anche in Anatolia. La città festeggiò (3 gennaio 401)! I Visigoti di Alarico, invitti da 25 anni, vista la brutta aria, lasciarono la Tracia per l’Italia. E dei Goti in Oriente non si sentì più parlare. Problema risolto.In Occidente, in un caldo giorno di agosto del 405, Stilicone sconfisse un’orda di Goti che (dopo aver messo a ferro e fuoco l’Italia del Nord) assediava Firenze. Fece prigionieri forse 30.000 guerrieri: li risparmiò. Ne inserì 12.000 nell’esercito romano, alloggiando (in servitù) le rispettive donne e bambini presso famiglie padane; tutti gli altri li vendette schiavi. Ma nel 408 Stilicone cadde, e in Padania fu subito pogrom: la folla trucidò le donne e i bambini dei Goti. Allora i padri-mariti disertarono l’esercito romano (gli schiavi abbandonarono i padroni) e si unirono ad Alarico, portando l’esercito visigoto a circa 30.000 soldati. Fino ad allora battuto e ricacciato in Pannonia, Alarico così rinforzato riuscì ad espugnare Roma (410).Morale della favola. O li facciamo fuori tutti, ma proprio tutti, e in un colpo solo, come a Bisanzio. Ma ce la sentiamo di diventare dei genocidi? Oppure è meglio che li trattiamo bene. Perché anche in Oriente, nel 376, quando tutto cominciò, i forse 100.000 Goti che si presentarono alla frontiera sul Danubio chiesero ‘asilo politico’ all’imperatore, aspettarono due mesi la risposta di là dal fiume, entrarono disarmati, e non crearono problemi. Fino a quando – raccontano le fonti romane, non gote – traditi, umiliati, e affamati si ribellarono. E furono 25 anni di saccheggi. Tre strade. Il genocidio. La ri-emigrazione verso altri lidi (Cina? Antartide? I paesi di origine?). L’integrazione: attribuire loro dei diritti e rispettarli. Oppure il caos e la fine della civiltà. Quale preferite?Ps: il padre di Stilicone era Vandalo. E Stilicone fu l’ultimo baluardo di Roma! L’integrazione porta anche benefici. I romani avevano controlli sugli ingressi alle frontiere molto efficaci; e politiche dell’immigrazione molto restrittive (oggi Obama dice: fate di più contro i trafficanti di uomini). Il più bel libro che ho letto sull’argomento è di un italiano (Alessandro Barbero, “Barbari: Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano”, Laterza). I migranti di oggi non sono come quelli del V secolo. Nella società agraria latifondista romana un Goto che arrivava da solo non aveva nessuna possibilità di migliorare la sua condizione economica: poteva fare solo lo schiavo o il servo della gleba. La produzione agricola essendo più o meno data, l’impero non traeva benefici economici dall’immigrazione (a parte l’esercito).Perciò per i migranti al di là delle frontiere l’unico modo per partecipare al benessere romano era organizzare spedizioni armate di massa e costringere con la forza (e i saccheggi) lo Stato romano a venire a patti, a concedere terre e diritti di stanziamento (Alarico fino al 410 non chiese altro). Ma in tal modo i migranti del V secolo impoverirono l’impero, anche fiscalmente (i barbari non pagavano tasse), fino allo stremo. Oggi l’industria e i servizi cambiano la situazione: gli immigrati aumentano la capacità produttiva del paese ospite (perciò si presentano da soli, disarmati, pronti a creare valore e pagare le tasse). Il problema è nostro: organizzarci, investire su di loro per renderli produttivi. E prima ancora, farla finita con la crisi di domanda che non consente neanche a molti europei potenzialmente produttivi (disoccupati) di lavorare.(PierGiorgio Gawronski, “I migranti di oggi non sono come i Goti del V secolo”, da “Il Fatto Quotidiano” del 30 agosto 2015).Nel clima da fine impero in cui siamo immersi fioriscono i paragoni tra l’ondata migratoria attuale e le invasioni barbariche del V secolo. Scrive ad esempio l’antropologa Amalia Signorelli: «Vorrei suggerire all’onorevole Matteo Salvini e a tutti coloro che condividono le sue idee una passeggiata lungo le Mura Aureliane, la possente fortificazione con cui l’imperatore Aureliano (215 – 275 d.C.) circondò Roma, capitale dell’Impero, per metterla al riparo dalle invasioni dei barbari. Si resta affascinati dal diametro della cinta muraria (Roma all’epoca sfiorava il milione di abitanti), dallo spessore delle mura, dalla frequenza delle torri di avvistamento, dall’eccellente protezione dei camminamenti. Un’opera di ingegneria militare ancora oggi esemplare. Che, come tutti sappiamo, non fermò le invasioni barbariche. Se mai, per un paio di secoli, ne ritardò il compimento. Quei barbari non erano bande di briganti dedite al saccheggio, erano popolazioni che si muovevano dall’Est verso Ovest con donne e bambini e che tendevano a stabilirsi nei paesi conquistati». E poi la proposta: «Il rifugiato riceva dallo Stato italiano una cifra giornaliera per il proprio mantenimento e, in segno di gratitudine, si offra volontario per lavori socialmente utili».
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Il bimbo siriano? Ucciso da noi democratici, non dai razzisti
Quando il governo italiano tentennava nel 2011 sulla guerra alla Libia, il presidente Giorgio Napolitano, in uno dei suoi più vibranti moniti, ricordava a noi democratici che l’Italia era legata ad alleanze internazionali che imponevano di tenere fede a certi impegni: fare la guerra. I razzisti si espressero contro. Quando l’Unione Europea ha varato le sanzioni contro Siria e Russia, noi democratici italiani abbiamo applaudito. I razzisti erano contrari. Quando nel 1999 noi democratici italiani abbiamo bombardato Belgrado i razzisti erano contro. Noi democratici europei ed italiani abbiamo dato il nostro decisivo contributo per annichilire e gettare nel caos Stati-cerniera nel Mediterraneo, in Medio Oriente, in Europa orientale.Non i razzisti. Noi democratici abbiamo creato un sistema di accoglienza basato sulla corruzione e sullo sfruttamento dei migranti: li chiamiamo “risorse” perché è grazie a loro che possiamo tenere in vita ricche mangiatoie su cui lucrare più che con lo spaccio di droga (cit.). Noi democratici pappiamo sulla disperazione dei popoli più dei razzisti.Noi democratici siamo favorevoli alla libera concorrenza e alla competizione fra lavoratori, per questo vogliamo far venire tanti disperati dall’Africa così da poter gridare insieme a loro: più diritti per tutti! È stato instaurato un perverso circolo vizioso di guerra, sfruttamento, corruzione, guerra tra poveri che si nutre di ipocrisia e doppia morale, falsa pietà e carità untuosa. Questo perverso circolo vizioso va spezzato. Il campo di battaglia più prossimo è la difesa dei nostri territori. I democratici dovrebbero unirsi ai razzisti e impedire gli insediamenti della disperazione, dovrebbero essere con i loro corpi zeppe nell’ingranaggio, dovrebbero protestare non contro i “negri” (ed impedire ai razzisti di farlo) ma contro un sistema marcio, un modello di sviluppo che tritura i popoli e li mette uno contro l’altro. E non dovrebbero vergognarsi di dire ai migranti che devono starsene o tornare a casa: i migranti conquisteranno e difenderanno i loro diritti in Africa, Asia, America, non in Europa.Il che non toglie che occorrano corridoi umanitari da garantire a chi è in pericolo diretto, sottraendoli a chi li usa come bombe demografiche, come invece fa con cinismo e spietatezza il campione del triplogiochismo della Nato, Erdoğan. Ma noi democratici non lo faremo, non ci uniremo ai razzisti in questa lotta di civiltà. Preferiamo condannarli e non mescolarci con loro, perché possiamo esserne contaminati. Preferiamo disprezzarli e inorridire per la loro furente rabbia popolana invece che comprendere le ingiustizie che hanno generato tale rabbia. Preferiamo uccidere Thomas Sankara e poi dimenticarcene. Preferiamo coltivare vizi privati e sbandierare pubbliche virtù. Preferiamo indignarci, noi democratici, e continuare a contare i morti.(Simone Santini, “Il bambino siriano è stato ucciso dai democratici non dai razzisti”, da “Megachip” del 4 settembre 2014).Quando il governo italiano tentennava nel 2011 sulla guerra alla Libia, il presidente Giorgio Napolitano, in uno dei suoi più vibranti moniti, ricordava a noi democratici che l’Italia era legata ad alleanze internazionali che imponevano di tenere fede a certi impegni: fare la guerra. I razzisti si espressero contro. Quando l’Unione Europea ha varato le sanzioni contro Siria e Russia, noi democratici italiani abbiamo applaudito. I razzisti erano contrari. Quando nel 1999 noi democratici italiani abbiamo bombardato Belgrado i razzisti erano contro. Noi democratici europei ed italiani abbiamo dato il nostro decisivo contributo per annichilire e gettare nel caos Stati-cerniera nel Mediterraneo, in Medio Oriente, in Europa orientale. Non i razzisti. Noi democratici abbiamo creato un sistema di accoglienza basato sulla corruzione e sullo sfruttamento dei migranti: li chiamiamo “risorse” perché è grazie a loro che possiamo tenere in vita ricche mangiatoie su cui lucrare più che con lo spaccio di droga (cit.). Noi democratici pappiamo sulla disperazione dei popoli più dei razzisti.
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Paghiamo il pizzo al Pentagono, purché non faccia più guerre
Non c’è voluto molto per la Lobby di Israele a mettere in ginocchio il presidente Obama per il suo divieto di costruire nuovi insediamenti illegali israeliani nei territori palestinesi occupati. Obama ha scoperto che un semplice presidente americano è impotente quando viene affrontato dalla Lobby di Israele, e che agli Stati Uniti semplicemente non viene permesso di avere una politica in Medio Oriente diversa da quella di Israele. Obama ha anche scoperto che non può cambiare niente, sempre che ne avesse mai avuto l’intenzione. Nell’agenda della lobby militare e della difesa c’è la guerra e uno stato di polizia interno, e un semplice presidente americano non può farci niente. Il presidente Obama può ordinare che vengano chiuse le camere della tortura di Guantanamo, e che i sequestri di persona e le torture vengano fermati, ma nessuno esegue i suoi ordini. In pratica, Obama è irrilevante. Può promettere che porterà a casa le truppe, e la lobby militare dice: “No, invece li manderai in Afghanistan, e nel frattempo inizierai una guerra in Pakistan e costringerai l’Iran in una posizione che ci darà un pretesto per fare una guerra anche lì. Le guerre sono troppo lucrose per noi perchè tu possa fermarle”. E il piccolo presidente dirà: “Sissignore!”.Obama può promettere l’assistenza sanitaria a 50 milioni di americani che non ce l’hanno, ma non può sconfiggere il veto della lobby della guerra e della lobby delle assicurazioni. La lobby della guerra dice che i profitti di guerra sono più importanti dell’assistenza sanitaria e che il paese non si può permettere sia la “guerra al terrore” che la “medicina socializzata”. La lobby delle assicurazioni dice che l’assistenza sanitaria deve venir data dalle assicurazioni sanitarie private; altrimenti non possiamo permettercela. Le lobby della guerra e delle assicurazioni hanno sventolato le loro agende con i contributi versati in campagna elettorale e molto velocemente hanno convinto il Congresso e la Casa Bianca che lo scopo reale del progetto di legge sull’assistenza sanitaria è di salvare soldi tagliando i benefici a “Medicare” e “Medicaid”, e quindi «mettere gli “entitlements” [diritti acquisiti] sotto controllo». “Entitlements” è una parola usata dalla destra per denigrare le poche cose che, in un lontano passato, il governo faceva per i suoi cittadini. La “Social Security” e “Medicare”, ad esempio, vengono denigrati come “entitlements”.La destra continua senza sosta a parlare della “Social Security” e di “Medicare” come se fossero regali dati a persone incapaci che rifiutano di prendersi cura di se stesse, quando in realtà i cittadini vengono di gran lunga sovratassati con un’imposta del 15% nelle loro paghe per avere in cambio dei magri benefici. Infatti per decenni ormai il governo federale ha finanziato le sue guerre e i budget militari con le entrate in surplus raccolte dalla tassa sul lavoro della “Social Security”. Sostenere, come fa la destra, che non possiamo permetterci l’unica cosa nell’intero budget che ha in modo consistente prodotto delle entrate in eccesso sta ad indicare che lo scopo reale è di portare il cittadino medio ad uno stato di indigenza. I veri “entitlements” non vengono mai menzionati. Il budget della “difesa” è un entitlement per il complesso militare e della difesa, sul quale il presidente Eisenhower ci mise in guardia 50 anni fa. Una persona dev’essere folle per credere che gli Stati Uniti, “l’unica superpotenza del mondo”, protetta da oceani ad Est e a Ovest e da Stati-fantoccio a Nord e a Sud, abbia bisogno di un budget della “difesa” superiore all’intera spesa militare del resto mondo messo insieme.Il budget militare è nient’altro che un “entitlement” per il complesso militare e della sicurezza. Per nascondere questo fatto, l’entitlement viene mascherato come una protezione contro i “nemici” e fatto passare attraverso il Pentagono. Io dico, eliminiamo l’intermediario e distribuiamo semplicemente una percentuale del budget federale al complesso militare e della sicurezza. In questo modo non avremo bisogno di inventare scuse per invadere altri paesi e andare a fare la guerra con il solo scopo di dare al complesso militare e della difesa il suo “entitlement”. Sarebbe molto più economico dargli i soldi direttamente, e salverebbe anche un sacco di vite umane e sofferenze in patria e all’estero. L’invasione statunitense dell’Iraq non aveva proprio niente a che fare con gli interessi nazionali americani. Aveva a che fare con i profitti sugli armamenti e con l’eliminazione di un ostacolo all’espansione territoriale israeliana. Il costo della guerra, oltre i 3 trilioni di dollari, è stato di 4.000 americani morti, oltre 30.000 feriti e mutilati, decine di migliaia di matrimoni americani distrutti e carriere perdute, un milione di iracheni morti, quattro milioni di iracheni profughi e un paese ridotto in macerie. Tutto questo è stato fatto per i profitti del complesso militare e della sicurezza e anche affinchè la paranoide Israele, armata con 200 bombe nucleari, potesse sentirsi “sicura”.La mia proposta renderebbe il complesso militare e della difesa ancora più ricco, dato che le compagnie riceverebbero i soldi senza aver bisogno di costruire le armi. Piuttosto, tutti i soldi potrebbero venir usati per bonus multimilionari e dividendi distribuiti agli azionisti. Nessuno, in patria o all’estero, dovrebbe venir ucciso, e il contribuente sarebbe ben più felice. Non c’è alcun interesse nazionale americano nella guerra in Afghanistan. Come rivelato dall’ex ambasciatore britannico Craig Murray, lo scopo della guerra è di proteggere gli interessi della Unocal per un oleodotto che passa attraverso l’Afghanistan. Il costo della guerra è di gran lunga superiore all’investimento dell’Unocal nell’oleodotto. L’ovvia soluzione è di comprare l’Unocal e dare l’oleodotto agli afghani come parziale risarcimento per la distruzione che abbiamo inflitto a quel paese e alla sua popolazione, e di portare le truppe a casa.Il motivo per cui le mie ragionevoli soluzioni non verranno attuate è che le lobby pensano che i loro “entitlements” non potrebbero sopravvivere se diventassero evidenti a tutti. Loro pensano che se il popolo americano sapesse che le guerre stanno venendo combattute per arricchire le industrie degli armamenti e del petrolio, la gente fermerebbe le guerre. In realtà, il popolo americano non ha diritto di opinione su ciò che il “suo” governo fa. I sondaggi mostrano che metà o più della metà del popolo americano non sostiene le guerre in Iraq e Afghanistan e non sostiene l’escalation del presidente Obama per quanto riguarda la guerra in Afghanistan. Nonostante ciò, le occupazioni e le guerre continuano. La Russia di Putin ha già paragonato gli Usa alla Germania nazista, e il premier cinese ha paragonato gli Usa a un debitore irresponsabile e immorale. Gli inglesi stanno indagando sul loro capo criminale, l’ex primo ministro Tony Blair, e l’inganno che mise in piedi contro il suo stesso consiglio dei ministri per fornire una scusa a Bush per la sua invasione illegale dell’Iraq.Agli investigatori inglesi è stata negata l’abilità di presentare accuse penali, ma la questione della guerra basata interamente su una macchinazione di bugie e inganni sta venendo ben diffusa. Riecheggierà per tutto il pianeta, e il mondo vedrà che non esiste un’indagine simile negli Usa, il paese da dove ebbe origine la Guerra Falsa. Nel frattempo, le banche d’investimento Usa, che hanno distrutto la stabilità finanziaria di molti governi, incluso quello degli Usa, continuano a controllare, come hanno sempre fatto fin dall’amministrazione Clinton, la politica economica e finanziaria degli Usa. Il mondo ha sofferto in modo terribile per i gangsters di Wall Street, e adesso guarda all’America con occhio critico. I sondaggi nel mondo mostrano che gli Usa e il suo capo-fantoccio vengono visti come le due più grandi minacce per la pace. Washington e Israele superano nella lista dei più pericolosi il regime pazzoide della Nord Corea. Quando il dollaro sarà sovra-inflazionato da una Washington incapace di pagare i suoi conti, il mondo sarà spinto dall’avidità e cercherà di salvarci per salvare i suoi investimenti, oppure dirà “grazie a Dio, che liberazione”.(Paul Craig Robers, estratti da “Il fantoccio Obama”, intervento pubblicato da “Information Clearing House” e ripreso dal blog “Vox Populi” il 25 agosto 2015. Eminente economista e politologo, Craig Roberts fu tra i più stretti collaboratori di Ronald Reagan).Non c’è voluto molto per la Lobby di Israele a mettere in ginocchio il presidente Obama per il suo divieto di costruire nuovi insediamenti illegali israeliani nei territori palestinesi occupati. Obama ha scoperto che un semplice presidente americano è impotente quando viene affrontato dalla Lobby di Israele, e che agli Stati Uniti semplicemente non viene permesso di avere una politica in Medio Oriente diversa da quella di Israele. Obama ha anche scoperto che non può cambiare niente, sempre che ne avesse mai avuto l’intenzione. Nell’agenda della lobby militare e della difesa c’è la guerra e uno stato di polizia interno, e un semplice presidente americano non può farci niente. Il presidente Obama può ordinare che vengano chiuse le camere della tortura di Guantanamo, e che i sequestri di persona e le torture vengano fermati, ma nessuno esegue i suoi ordini. In pratica, Obama è irrilevante. Può promettere che porterà a casa le truppe, e la lobby militare dice: “No, invece li manderai in Afghanistan, e nel frattempo inizierai una guerra in Pakistan e costringerai l’Iran in una posizione che ci darà un pretesto per fare una guerra anche lì. Le guerre sono troppo lucrose per noi perchè tu possa fermarle”. E il piccolo presidente dirà: “Sissignore!”.