Archivio del Tag ‘diritti’
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Bifarini: dove sono finiti i miliardi di dollari di aiuti all’Africa?
Ingenti prestiti da parte delle organizzazioni finanziarie internazionali, consistenti sgravi del debito statale, fondi raccolti da iniziative private, che hanno mobilitato tutti, dai singoli cittadini occidentali attraverso forme organizzate di beneficenza alle star dello spettacolo, che si sono spese per i diritti dei più deboli attraverso concerti ed esibizioni. Fiumi di miliardi di dollari che non sembrano aver intaccato per nulla il problema del sottosviluppo e della povertà endemica del Terzo Mondo. Anzi. E’ stato riscontrato che, dalla metà degli anni Novanta, circa 60 paesi in via di sviluppo siano diventati più poveri in termini di reddito pro-capite rispetto a 15 anni prima. Entro il 2030 i due terzi dei poveri di tutto il mondo proveranno dall’Africa. L’Africa dunque è sempre più povera, ma di una povertà nuova rispetto a quella del passato coloniale. Il continente africano annovera infatti i paesi con i più alti livelli di disuguaglianza al mondo, in cui il divario tra una ristretta élite dedita al lusso e il resto della popolazione che vive in uno stato di miseria è abissale. Dunque, cosa non ha funzionato? Dove sono finiti i fiumi di miliardi di dollari?La risposta in realtà è alquanto intuitiva: hanno seguito la stessa corrente che trascina la ricchezza collettiva su scala mondiale. Sono finiti in conti offshore, hanno arricchito a dismisura élite locali consenzienti e complici dei grandi speculatori internazionali e soprattutto hanno arricchito loro, i Signori del debito. Dopo essere finita nella spirale micidiale dei prestiti per il pagamento del debito e degli interessi maturati su di esso a seguito della crisi del debito del 1982 che ha coinvolto i paesi del Terzo Mondo, l’Africa post coloniale ha definitivamente perso ogni possibilità di sviluppo. Si stima che per ogni dollaro preso a prestito da banche e organizzazioni finanziarie internazionali ne abbia restituiti 13! Un Piano Marshall al contrario, che ha dirottato i soldi stanziati per il Terzo Mondo verso i finanziatori del debito del Primo Mondo. La stessa depredazione da parte della finanza attraverso l’arma del debito che sta oggi asfissiando il nostro paese (in 20 anni abbiamo pagato ben 1700 miliardi di euro di soli interessi!).Il passaggio dal colonialismo imperialista al post-colonialismo del debito è stato brutale per il Continente Nero e ha soffocato quei timidi tentativi di sviluppo economico nazionale avviati attraverso la politica di sostituzione delle importazioni. Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale sono intervenuti attraverso i cosiddetti “programmi di aggiustamento strutturale” (Pas): in cambio di prestiti e assistenza hanno imposto il controllo economico, monetario e politico dell’Africa. Contravvenendo a ogni logica e a ogni esempio di percorso di sviluppo economico nazionale, hanno imposto l’apertura incondizionata alle liberalizzazioni e al libero scambio a paesi che non avevano ancora avviato la creazione di un tessuto industriale e produttivo su base locale. Il modello coercitivamente introdotto ha previsto l’utilizzo dei prestiti per incentivare le esportazioni, senza nessun investimento nello sviluppo tecnologico e del capitale umano, al fine di ottemperare gli oneri del debito.Sono state abolite tutte le forme di protezionismo necessarie a tutelare l’economia locale e sfruttare le potenzialità di sviluppo industriale nazionale. Così in Ghana nel 2002 sono state abolite le tariffe sull’importazione di prodotti alimentari, con una conseguente impennata di importazioni di prodotti alimentari dall’Unione Europea, come i famosi scarti di pollo congelati che costano un terzo di quelli prodotti localmente. Nello Zambia l’abolizione dei dazi sulle importazioni dei capi di abbigliamento ha soffocato una piccola rete di ditte locali a favore delle importazioni dei capi di abbigliamento usati dall’Occidente. I programmi del Fondo Monetario hanno inoltre imposto tagli alla spesa sanitaria e all’istruzione, i cui livelli erano già molto carenti, e la privatizzazione di servizi pubblici essenziali – come la fornitura idrica- in gran parte dei paesi. Sebbene le due istituzioni di Bretton Woods (Fmi e Bm) abbiano spesso imputato la causa dell’evidente fallimento dei propri “piani di aggiustamento strutturale” al fenomeno radicato della corruzione dei governanti africani, il loro coinvolgimento è ineludibile.Così, nonostante fosse risaputa l’indole cleptomane di Mobutu nello Zaire, che rubò oltre la metà degli aiuti economici ricevuti dal paese, essi continuarono a concedergli prestiti. Non a caso i programmi di privatizzazione del Fondo Monetario sono altresì conosciuti come “programmi di tangentizzazione”. Gran parte di questi fondi sono finiti nelle offshore, dove gran parte dei trilioni di denaro sporco che ogni anno vengono versati provengano dal Terzo Mondo. In questo immenso flusso di denaro «è stato stimato che almeno metà dei fondi presi in prestito dai principali debitori siano tornati indietro dalla porta di servizio, di solito nello stesso anno – se non nello stesso mese – in cui arrivano prestiti» (James S. Henry, “Where the money went”). Non dobbiamo dunque stupirci se la povertà e sottosviluppo dell’Africa sono peggiorati e se al flusso di denaro fanno seguito gli attuali flussi migratori di esseri umani. Il colonialismo mondiale del debito prevede anche questo.(Ilaria Bifarini, “Dove sono finiti i miliardi di dollari degli aiuti all’Africa?”, dal blog della Bifarini del 13 luglio 2018. L’economista Bifarini, che si autodefinisce “bocconiana redenta”, è autrice di saggi sulla catastrofe del neoliberismo e del recentissimo lavoro “I coloni dell’austerity”, ovvero “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”).Ingenti prestiti da parte delle organizzazioni finanziarie internazionali, consistenti sgravi del debito statale, fondi raccolti da iniziative private, che hanno mobilitato tutti, dai singoli cittadini occidentali attraverso forme organizzate di beneficenza alle star dello spettacolo, che si sono spese per i diritti dei più deboli attraverso concerti ed esibizioni. Fiumi di miliardi di dollari che non sembrano aver intaccato per nulla il problema del sottosviluppo e della povertà endemica del Terzo Mondo. Anzi. E’ stato riscontrato che, dalla metà degli anni Novanta, circa 60 paesi in via di sviluppo siano diventati più poveri in termini di reddito pro-capite rispetto a 15 anni prima. Entro il 2030 i due terzi dei poveri di tutto il mondo proveranno dall’Africa. L’Africa dunque è sempre più povera, ma di una povertà nuova rispetto a quella del passato coloniale. Il continente africano annovera infatti i paesi con i più alti livelli di disuguaglianza al mondo, in cui il divario tra una ristretta élite dedita al lusso e il resto della popolazione che vive in uno stato di miseria è abissale. Dunque, cosa non ha funzionato? Dove sono finiti i fiumi di miliardi di dollari?
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Magaldi: ma non ha vinto Macron, e il mondo sta rinascendo
Neppure la vittoria ai mondiali di calcio salverà il povero Macron? «Non scherziamo: nella finale di Mosca non ha vinto Macron, ma la Francia del 14 luglio: per questo ho festeggiato, cantando la Marsigliese». Gioele Magaldi, ovvero: l’ottimismo della volontà, persino in salsa calcistica. “The times they are a-changing”, cantava Bob Dylan. Era il 1964 e alla Casa Bianca sedeva Lyndon Johnson, fautore della Great Society di ispirazione kennediana, aperta alle minoranze e improntata all’estensione dei diritti. Poi è scesa la grande notte del neoliberismo, che ha deturpato il “nuovo mondo” che sarebbe potuto fiorire dopo il crollo dell’Urss, fino a proporre gli orrori di Bush e la nuova guerra fredda di Obama contro Putin. Ma ora le cose – di nuovo – stanno per cambiare, a quanto pare, su tutti i fronti: basta vedere il feeling che avvicina, a Helsinki, il presidente russo (fresco di Mondiali) e il collega americano Trump, reduce dalla storica pace con la Corea del Nord. Gran maestro del Grande Oriente Democratico nonché presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” che mette in piazza le malefatte dell’oligarchia supermassonica reazionaria, il progressista Magaldi esulta per il trionfo dei “bleus” allo stadio di Mosca, nonostante gli italiani tifassero Croazia. E spiega: «A Parigi come a Washington c’è un humus, un’ideologia che ha dato al mondo democrazia, diritti e libertà, incluso il diritto alla felicità. Sono valori che trasformeranno il pianeta, rendendolo migliore e più giusto».“The times they are a-changing”, sostiene Magaldi nella sua narrazione a puntate, ogni lunedì ai microfoni di “Colors Radio”. Trump e Putin? Appunto: come ampiamente previsto dal presidente del Movimento Roosevelt, l’istrionico Maverick della Casa Bianca sta facendo piazza pulita degli antichi pregiudizi su cui si è fondato il “partito della guerra”, più mercenario che patriottico. Lo Zar del Cremlino? «Non privo di una sua grandezza», riconobbe Magaldi, quando Putin rifiutò di espellere diplomatici americani dopo la cacciata dei funzionari dell’ambasciata russa disposta da Obama. Tutto sta davvero cambiando, giorno per giorno: e infatti ad essere “en marche”, oggi, non è la Francia imbrigliata da Macron, ma l’Italia di Conte: «Il nostro paese – dice Magaldi – potrà tornare a rivestire il suo storico ruolo di “ponte”, con la Russia ma anche con l’Africa e il Medio Oriente: è tempo infatti che vengano archiviate le storiche clausole segrete, connesse a Yalta e ad altri trattati del dopoguerra, che limitavano la nostra libertà d’azione – trattati comunque aggirati, a suo tempo, dalla politica mediterranea dei Mattei e dei Moro».Lo ricorda Giovanni Fasanella in “Colonia Italia”: le superpotenze ci “affidarono” al controllo britannico, a limitare la nostra sovranità. Ora basta, però: «E’ è venuto il tempo di dare all’Italia piena indipendenza e autonomia politica, consentendole di recitare un ruolo di “cerniera di pace” e prima promotrice di un Piano Marshall per l’Africa», dice Magaldi, che – insieme a Patrizia Scanu, neo-segretaria del Movimento Roosevelt – ne riparlerà in autunno a Milano, in un evento dedicato anche all’eredità politica del leader sovranista africano Thomas Sankara. Grande la confusione, intanto, sotto le stelle: restano le sanzioni contro Mosca innescate dalla crisi ucraina, mentre l’Europa «non si capisce cosa voglia e non esiste come soggetto geopolitico». Iperboli: «Trump accusato in casa di “intelligenza col nemico russo” poi rimprovera la Merkel di eccessiva familiarità e connivenza con alcuni interessi russi». E non mancano intrecci personali: «Il “fratello” Putin e la “sorella” Merkel – ricorda Magaldi – furono iniziati già molti anni fa nella stessa Ur-Lodge», la Golden Eurasia. Massoni, appunto: il problema, insiste Magaldi, non è il grembiulino che indossano, ma l’orientamento politico che promuovono.L’ipocrita massonofobia di Di Maio, estesa alla Lega nel “contratto” di governo? I vertici “gialloverdi”, dice Magaldi, temono che i loro elettori (non informati sulla storia patria) scambino la massoneria per un’associazione a delinquere. Magaldi punta il dito contro Elio Lannutti, esponente 5 Stelle, «in passato protagonista di battaglie meritorie». Ora vorrebbe una legge che vietasse ai massoni l’accesso alle cariche statali, sbarrando loro le porte di polizia e magistratura: «Siamo alla follia liberticida, queste cose le hanno fatte i regimi comunisti e fascisti», protesta Magaldi. E attenzione: il tema massoneria (compresa l’avversione ai “grembiulini”) va maneggiato con cura: «Nel 1800 negli Usa sorse un Anti-Masonic Party fondato però da massoni: spesso le campagne antimassoniche, nella storia, sono state progettate da massoni di altro segno, per colpire circuiti massonici opposti ai loro». Non è il caso dell’Italia, dove secondo Magaldi si sconta una semplice ignoranza della materia: si confonde la libera muratoria democratica degli eredi di Garibaldi, Mazzini e Cavour con la P2 di Gelli, braccio operativo della superloggia sovranazionale “Three Eyes”, di natura pericolosamente oligarchica e spesso eversiva. In massoneria, ricorda Magaldi, non possono entrare pregiudicati né possono restarvi soggetti che non rispettino la Costituzione e le leggi. «Aiuteremo gli amici “gialloverdi” a chiarirsi le idee, ma se il pregiudizio antimassonico perdurerà – avverte il gran maestro – faremo i nomi dei massoni progressisti, leghisti e penstastellati, che siedono nel governo Conte e nelle altre istituzioni».Comunque, a parte gli ultimi «untori del culturame antimassonico», nella narrazione magaldiana – massonico-progressista, avversa al lungo dominio della supermassoneria neo-aristocratica – all’indomani dei Mondiali di calcio (e del vertice di Helsinki) c’è posto solo per un cauto ma tenace ottimismo nella riscossa democratica di un mondo globalizzato in modo autoritario. Lo si può vedere, sostiene il presidente del Movimento Roosevelt, a partire dalla cruciale trincea italiana. Al netto delle pretattiche, dice Magaldi, vedrete che arriveranno cambiamenti sostanziali: «E’ vero, in molti sono allarmati perché il ministro Tria insiste troppo sul contenimento del debito pubblico, sul rigore dei conti e sulla rassicurazione dei mercati. Ma si tratta di non fare il gioco degli strumentalizzatori, che a suo tempo hanno infierito su Savona per cercare di impedire la nascita del governo “gialloverde”. Quando però arriveranno misure importanti – pronostica Magaldi – allora sarà chiaro quale paradigma economico si adotterà, rispetto all’Europa e alle voci di spesa. Il povero Tria? E’ stato chiamato per un ruolo in copione che è quello del rassicuratore, ma poi le decisioni non saranno nel senso della continuità. Tant’è che proprio alcune esternazioni di Savona fanno capire qual è la vera sceneggiatura», con un’Italia non più prona ai diktat di Bruxelles.Idem sul capitolo vaccini: non brilla per chiarezza, Giulia Grillo, che infatti non ha sconfessato la legge Lorenzin. «E’ però un passo avanti notevolissimo l’aver eliminato l’odiosa costrizione in stile Gestapo che privava i bambini non vaccinati del diritto all’istruzione». Insomma, si respira un’altra aria, pur in un terreno minato da troppi dogmi – che non la scienza non dovrebbero aver nulla a che fare. Può anche funzionare il concetto dell’immunità di gregge (più vaccinati, meno possibilità di contrarre malattie) ma occorrerebbe un’indagine scientifica molto seria su quanti e quali vaccini vadano somministrati, e se l’eccesso di vaccini non produca effetti controproducenti, come nel caso dei vaccini militari cui il Movimento Roosevelt ha dedicato un convegno a Torino con il vicepresidente della commissione difesa. Non possono mancare libertà e confronto critico, aggiunge Magaldi: «Bisogna denunciare ad alta voce, anzitutto sul piano metodologico, che in Italia – durante il clima plumbeo del governo Gentiloni – chiunque della comunuità scientifica osasse discutere l’idea che andassero propinati 12 vaccini veniva escluso, ghettizzato, calunniato e demonizzato (e parlo di medici anche di grande spessore). Chi osava contrapporsi a quel clima veniva emarginato, se non sanzionato. Sono cose da paese del quarto mondo».Libertà scientifica: chi sostiene la bontà dell’attuale sistema vaccinale, insiste Magaldi, abbia il coraggio e l’onestà di confrontarsi con chi è scettico. «E c’è un problema di mancata sperimentazione: di troppi vaccini non si conoscono gli effetti. Sono tanti gli interrogativi, e solo nell’orizzonte del dubbio (in cui dovrebbe essere connaturata la scienza) il problema si può risolvere». Invece, scontiamo «l’indottrinamento disdicevole da parte di divulgatori come Piero Angela, secondo cui la scienza non è democratica e ha sempre ragione». Per Magaldi, sono «vistosi casi di insipienza storica e ignoranza profonda sulla genesi del metodo scientifico, fondato proprio sul dubbio: la scienza moderna, da cui nasce la nostra tecnologia, è fondata sulla messa in discussione del principio di autorità – che appartiene invece al mondo pre-moderno». Una cosa è vera solo perché lo dicono i detentori di quel sapere? Concezione antica: «Nella comunità scientifica moderna ci devono essere posizioni dissonanti: nessuna ipotesi può essere vera a prescindere». Il nostro paese, aggiunge Magaldi, «è ostaggio anche di cattivi divulgatori di un’idea della scienza che è inconsistente e contraria ai principi della contemporaneità». Ma attenzione: neppure questo “muro” dogmatico resisterà per sempre. Verrà il giorno in cui avremo finalmente «un confronto pacato», che riconosca il ruolo storico di alcuni vaccini per la nostra salute ma, al tempo stesso, valuti – seriamente – l’opportunità e la sicurezza di altri vaccini, nient’affatto scontate.«L’affermazione della democrazia – ricorda Magaldi – è coeva dell’affermazione della scienza moderna: è essenziale la libertà nel valutare le opzioni terapeutiche». Vale per tutto: se si applica il “filtro” della democrazia anche al contesto scientifico, finiscono per crollare miti e verità di fede. Lo stesso principio funziona ovunque si guardi, persino nella polveriera del Medio Oriente: «Credo che verrà il tempo per una pacifica soluzione del conflitto israelo-palestinese», auspica Magaldi, osservando la scena con lucidità: «In fondo l’estremismo di Hamas e quello di Netanyahu si sostengono a vicenda, sono due facce della stessa medaglia: si reggono sull’ostilità reciproca e quindi hanno bisogno l’uno dell’altro. Non a caso ad essere assassinato fu Yitzhak Rabin, il massone progressista che voleva davvero la pace e quindi uno Stato palestinese». Se la ride, Magaldi, pendando agli amici che il 15 luglio davanti al televisore hanno trepidato per la Croazia per avversione nei confronti di Macron. Il capo dell’Eliseo? «Si è reso odioso: è un cicisbeo politico, continuatore delle politiche di Hollande e rappresentante di questo establishment puzzolente dell’attuale Disunione Europea. Con rara ipocrisia e faccia di bronzo ha detto parole inammissibili nei confronti del governo italiano e dell’Italia, nel corso di questa crisi sui migranti». Ma Macron non è la Francia, così come Bush non era l’America: «Guardiamo con amore a questi paesi – chiosa Magaldi – perché tantissimi francesi (come tantissimi statunitensi) insieme a noi cittadini del mondo – italiani, europei, cinesi, giapponesi – dovranno costruire un pianeta più equo, che abbia come faro la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: diritti non solo civili ma, finalmente, anche economici e sociali».Neppure la vittoria ai mondiali di calcio salverà il povero Macron? «Non scherziamo: nella finale di Mosca non ha vinto Macron, ma la Francia del 14 luglio: per questo ho festeggiato, cantando la Marsigliese». Gioele Magaldi, ovvero: l’ottimismo della volontà, persino in salsa calcistica. “The times they are a-changing”, cantava Bob Dylan. Era il 1964 e alla Casa Bianca sedeva Lyndon Johnson, fautore della Great Society di ispirazione kennediana, aperta alle minoranze e improntata all’estensione dei diritti. Poi è scesa la grande notte del neoliberismo, che ha deturpato il “nuovo mondo” che sarebbe potuto fiorire dopo il crollo dell’Urss, fino a proporre gli orrori di Bush e la nuova guerra fredda di Obama contro Putin. Ma ora le cose – di nuovo – stanno per cambiare, a quanto pare, su tutti i fronti: basta vedere il feeling che avvicina, a Helsinki, il presidente russo (fresco di Mondiali) e il collega americano Trump, reduce dalla storica pace con la Corea del Nord. Gran maestro del Grande Oriente Democratico nonché presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” che mette in piazza le malefatte dell’oligarchia supermassonica reazionaria, il progressista Magaldi esulta per il trionfo dei “bleus” allo stadio moscovita, nonostante gli italiani tifassero Croazia. E spiega: «A Parigi come a Washington c’è un humus, un’ideologia che ha dato al mondo democrazia, diritti e libertà, incluso il diritto alla felicità. Sono valori che trasformeranno il pianeta, rendendolo migliore e più giusto».
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Belano contro Salvini e tacciono sul martirio degli italiani
La parola “intellettuale” deriva dal latino intus-legere, e in quanto tale dovrebbe essere riferita ad un individuo in grado di “leggere dentro” e di non accontentarsi della sola parte emersa di una informazione. L’intellettuale, stando al senso etimologico, dovrebbe essere dunque l’opposto del superficiale – colui che approfondisce, appunto. Invece, gli intellettuali con cui abbiamo a che fare sui media tradizionali e sui social, in linea di massima tendono ad aggregarsi come una classe sociale qualunque. Esistono dunque gli operai, i lavoratori autonomi, gli imprenditori, i colletti bianchi e… gli intellettuali. Sono divenuti una professione, e come tale autoreferenziali e inclini a salvaguardare i propri interessi di casta. Manca solo che ne venga istituito l’ordine professionale e il quadro si completa. Ecco allora che gli intellettuali di oggi si smarcano completamente dalla funzione tradizionalmente loro attribuita di dotti perennemente curiosi che esercitano il dubbio, per abbracciare l’appartenenza ad una élite culturale. Caso emblematico, quello della rivista “Rolling Stone” che ha appena lanciato un manifesto contro il ministro dell’interno Salvini, in cui compaiono le adesioni di oltre 50 artisti e personaggi del mondo dello spettacolo.Il messaggio, prontamente copiaincollato sui social da tutti i “Napalm51” del web, ha come sfondo una copertina arcobaleno con scritto: “Noi non stiamo con Salvini. Da adesso chi tace è complice”. E’ del tutto evidente che il politico di punta oggi in Italia, il leader della Lega, possa portarci alla rovina e che le sue politiche possano legittimamente essere considerate sbagliate. Quello che però dovrebbe destare non poca preoccupazione è il format che sta dietro (e davanti) alla protesta: un format visto mille volte e che, francamente, ha stufato anche i santi. La bandiera arcobaleno ancora una volta diventa un brand per tutte le stagioni e rinuncia a selezionare davvero opinioni e analisi: ci mettiamo dentro i pacifisti (bandiere esposte sui balconi ai tempi della guerra in Iraq), ci mettiamo dentro partiti politici (la sinistra radicale o pseudotale), ci mettiamo dentro anche i gay. Ora, a questo varipinto calderone si aggiunge anche l’individuazione dell’uomo nero, un nemico, che, come tutta la storia della propaganda insegna, è il modo migliore per raggiungere obiettivi identitari. Per dirla senza tanti giri i parole: con questa operazione, rivolta contro un singolo uomo, si prova a riunificare la sinistra, ma identificandola con la categoria degli intellettuali. Non con i lavoratori, non con gli operai, non con la classe media, non con gli impiegati, ma con i maître à penser.Quante volte abbiamo visto in moto questo meccanismo? Come fenomeno sarebbe anche divertente da analizzare, visto che le prime aggregazioni degli intellettuali italiani sotto l’ombrellone multicolore arcobaleno proponevano temi alquanto “salviniani”. Li ricordate i no-global di inizio millenio? Per non parlare delle battaglie degli artisti come Jovanotti contro il debito pubblico dei paesi in via di sviluppo. “Cancella il debito”, urlava il Jova a squarciagola dal palco, per poi scordarsi sbadatamente di tutto quanto predicato fino ad ora contro il debito, quando a soffrire dell’inganno finanziario sul debito sono i suoi connazionali. La serie degli appelli ai “valori” è così diventata sempre più lunga. Si tratta però di riferimenti – come i diritti umani o i diritti civili – che non potrebbero nemmeno essere concettualmente compresi se per paradosso non esistesse, a renderli credibili, ciò che essi stessi aspramente criticano, e cioè gli Stati ed i confini. Il vero guaio non sta nel legittimo e sacrosanto dissenso, ma nel fatto che, così formulati, portano l’intellettuale alla definitiva abdicazione al suo ruolo.In un’indimenticabile intervista, il filosofo torinese Costanzo Preve riassumeva il problema degli intellettuali superficiali con questo duro giudizio: «Mentre ai tempi di Hegel e Schopenhauer, ma anche ai tempi di Adorno, gli intellettuali erano generalmente più intelligenti delle persone comuni, oggi ci troviamo in una situazione nuova: gli intellettuali sono nella stragrande maggioranza più stupidi delle persone comuni. E’ una novità degli ultimi 50 anni e lo vediamo quando vengono interpellati nei talk show televisivi, perchè dicono una quantità di stupidaggini molto maggiore di quelle che si sentono pronunciare dai tassisti, dai baristi o dalle casalinghe al mercato. Adorno, Marcuse e Sartre, ad esempio, si possono contestare, io ad esempio non sono d’accordo con loro – concludeva Preve – ma senza dubbio dicevano cose intelligenti, che fanno riflettere. Oggi questo non accade più e dobbiamo aspettarci solo scemenze». La constatazione di Preve, che risale al 2011, è oggi più attuale che mai. Resta da chiedersi: perchè accade ciò? Secondo Preve questa situazione è da ascrivere alla sudditanza di filosofia, letteratura, arte, ecc. all’economia, la scienza triste che si è presa tutti gli spazi del sapere. A questo dato di fatto, aggiungerei però anche la modalità di selezione della classe dirigente, in Italia determinata da circoli ristretti e salotti, impenetrabili a tutti coloro i quali non si lasciano omologare. Nell’ultimo demenziale appello ad una civiltà nemmeno pensabile senza lo Stato di diritto e la sovranità questi circoli chiusi sono tornati a belare.(Massimo Bordin, “Gli intellettuali di oggi sono stupidi”, dal blog “Micidial” del 6 luglio 2018).La parola “intellettuale” deriva dal latino intus-legere, e in quanto tale dovrebbe essere riferita ad un individuo in grado di “leggere dentro” e di non accontentarsi della sola parte emersa di una informazione. L’intellettuale, stando al senso etimologico, dovrebbe essere dunque l’opposto del superficiale – colui che approfondisce, appunto. Invece, gli intellettuali con cui abbiamo a che fare sui media tradizionali e sui social, in linea di massima tendono ad aggregarsi come una classe sociale qualunque. Esistono dunque gli operai, i lavoratori autonomi, gli imprenditori, i colletti bianchi e… gli intellettuali. Sono divenuti una professione, e come tale autoreferenziali e inclini a salvaguardare i propri interessi di casta. Manca solo che ne venga istituito l’ordine professionale e il quadro si completa. Ecco allora che gli intellettuali di oggi si smarcano completamente dalla funzione tradizionalmente loro attribuita di dotti perennemente curiosi che esercitano il dubbio, per abbracciare l’appartenenza ad una élite culturale. Caso emblematico, quello della rivista “Rolling Stone” che ha appena lanciato un manifesto contro il ministro dell’interno Salvini, in cui compaiono le adesioni di oltre 50 artisti e personaggi del mondo dello spettacolo.
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Vitalizi e pensioni d’oro: trappole, per poi tosare gli italiani
L’attacco a vitalizi parlamentari e “pensioni d’oro” è solo la premessa della rapina del secolo in funzione schiettamente antipopolare: il vero obiettivo è ridurre tutte le pensioni. Lo sostiene Aldo Giannuli, che considera ingiusta (e finanziariamente irrilevante) la campagna scatenata da Roberto Fico contro i vitalizi, e pericolosa la battaglia – sempre dei 5 Stelle – contro le pensioni più ricche. «E’ del tutto comprensibile la tentazione di molti di approvare la norma contro i vitalizi dei parlamentari», premette il politologo, nel suo blog. «Sappiamo tutti che, sul piano economico, la manovra (con i pretesi 40 milioni di risparmio) è semplicemente ininfluente, ma il vero effetto è quello di punire la classe politica strappandole un privilegio deciso in altri tempi». Quei vitalizi, ricorda Giannuli, stabilivano un trattamento ingiustamente preferenziale verso i politici, le cui indennità non erano tassabili ma erano pensionabili. Poi le cose sono cambiate un po’ alla volta, ma molti degli attuali vitalizi nacquero sotto la stella del privilegio di casta. «Questo è vero, come è vero che la classe politica merita d’essere bastonata per il mono indecente con cui ha gestito la cosa pubblica». E questo spiega la simpatia che la misura riscuote presso il grande pubblico, così come la riscuote anche l’altra manovra in preparazione: quella sulle “pensioni d’oro”, cioè dai 5.000 euro in su. «Ma si tratta di due polpette avvelenate, che dobbiamo rimandare indietro».Sono ormai diversi anni, scrive Giannuli, che alcuni economisti – ovviamente di fede neoliberista – sostengono che, per riequilibrare i bilanci dello Stato, occorra fare tagli in particolare alla spesa pensionistica. Dicono anche che, per fare ciò, non basti ridurre la retribuzione di chi andrà in pensione, ma occorra ridurre l’importo di chi è già in pensione.«In particolare, c’è chi sostiene che si debba ricalcolare sulla base del metodo contributivo le pensioni di quelli che hanno una pensione calcolata sulla base del vecchio sistema retributivo. In soldoni: ridurre le pensioni di un buon 15% (altro che superare la Fornero!). Ma sulla strada di questo simpatico progettino – aggiunge Giannuli – c’è un fastidioso principio giuridico che si chiama “diritti acquisiti” (lo stesso contro cui andò a schiantarsi Renzi con la sentenza della Corte Costituzionale del gennaio 2015, relatrice Silvana Sciarra)». D’altro canto, prosegue l’analista, «in un paese giuridicamente civile, questo è un principio inderogabile: ve lo immaginate uno Stato che prima concede una amnistia penale o un condono fiscale tombale e poi ci ripensa?». Inoltre, aggiunge, le pensioni “d’oro” sono tali perché vengono da retribuzioni molto alte, su cui sono state operate trattenute proporzionali che oggi producono quel reddito di quiescenza.«Forse quelle retribuzioni erano ingiustamente alte, ma ora non ci si può fare nulla», conclude Giannuli: «La pensione è salario differito, che prosegue sulla base del trattamento concordato quando l’interessato era in servizio, e non è oggi rinegoziabile». Peraltro questo accanimento «sarebbe oggi perdente» anche a voler forzare questo principio fondamentale di diritto con una forte campagna d’opinione, «perché provocherebbe la rivolta di buona parte dei pensionati e metterebbe in allarme anche altre categorie». Se però «aizziamo la gente contro la classe politica (con la questione dei vitalizi)», allora «la cosa diventa molto più fattibile», dunque pericolosa: perché poi, «una volta fatto saltare per loro il principio dei diritti acquisiti, questo non esisterà più per gli altri e si passerà al secondo tempo: le “pensioni d’oro”». Stesso schema: aizzando l’opinione pubblica contri i “ricchi” (che però sarebbero risarciti abbondantemente dalla Flat Tax), si finirebbe col dire che anche una pensione da 4.000 euro, in tempi di sacrifici, è una pensione “d’oro”, e poi una di 3.000, e così via. Passo finale: «Portare tutti a regime contributivo», tosando la totalità delle pensioni italiane (e calpestando – a partire dalla guerra ai vitalizi – il principio giuridico dei diritti acquisiti).L’attacco a vitalizi parlamentari e “pensioni d’oro” è solo la premessa della rapina del secolo in funzione schiettamente antipopolare: il vero obiettivo è ridurre tutte le pensioni. Lo sostiene Aldo Giannuli, che considera ingiusta (e finanziariamente irrilevante) la campagna scatenata da Roberto Fico contro i vitalizi, e pericolosa la battaglia – sempre dei 5 Stelle – contro le pensioni più ricche. «E’ del tutto comprensibile la tentazione di molti di approvare la norma contro i vitalizi dei parlamentari», premette il politologo, nel suo blog. «Sappiamo tutti che, sul piano economico, la manovra (con i pretesi 40 milioni di risparmio) è semplicemente ininfluente, ma il vero effetto è quello di punire la classe politica strappandole un privilegio deciso in altri tempi». Quei vitalizi, ricorda Giannuli, stabilivano un trattamento ingiustamente preferenziale verso i politici, le cui indennità non erano tassabili ma erano pensionabili. Poi le cose sono cambiate un po’ alla volta, ma molti degli attuali vitalizi nacquero sotto la stella del privilegio di casta. «Questo è vero, come è vero che la classe politica merita d’essere bastonata per il mono indecente con cui ha gestito la cosa pubblica». E questo spiega la simpatia che la misura riscuote presso il grande pubblico, così come la riscuote anche l’altra manovra in preparazione: quella sulle “pensioni d’oro”, cioè dai 5.000 euro in su. «Ma si tratta di due polpette avvelenate, che dobbiamo rimandare indietro».
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Veneziani: addio sinistra, lobby di potere senza più popolo
Lo psicodramma collettivo sulla fine della sinistra continua imperterrito da settimane, mesi o meglio ancora anni, ma c’è qualcosa di esagerato – scrive Marcello Veneziani – nel piangere e denunciare il collasso del Pd: non successe la stessa cosa quando sparì il partito-paese, la Dc, dopo mezzo secolo ininterrotto di potere. Ma la tragedia della sinistra, scrive Veneziani sul “Tempo”, tocca direttamente le fabbriche dell’opinione pubblica, gli influencer – dalla Rai all’Istat, dai giornali agli intellettuali – perché alla fine i due mondi coincidono. A volte sembra di vedere due tragedie umanitarie trasmesse in contemporanea: i barconi dei migranti che arrivano, e i politici morenti – sindaci, ministri – che sloggiano. E sorgono problemi di approdo per i migranti «in quanto non ci sono più i demosinistri e i cattoumanitari al potere». In tanti, aggiunge Veneziani, «hanno dato consigli alla sinistra per riprendersi il potere smettendo di essere sinistra». Un consiglio «doppiamente assurdo, perché sottintende una considerazione inaccettabile: che la sinistra può rinunciare alle sue idee ma non al potere a cui per diritto divino è destinata». Meglio rassegnarsi a constatarne il decesso, o comunque «il male incurabile, il declino irreversibile».«Se evaporò in poco tempo la Dc, riducendosi a pochi reduci – aggiunge Veneziani – non vedo perché non possa sparire la sinistra e se ne debba fare una malattia. Tanto più che il declino è mondiale, come ben si vede, e a furor di popolo». Lo stesso Veneziani trova «grottesca» quella che definisce «la sfilata dei maestrini che hanno rimproverato alla sinistra di essersi allontanata dalla realtà, dal popolo, dai suoi disagi e dal suo sentire». E lo dicono mentre, dappertutto, proprio loro, cioè «i maestrini, i loro giornaloni, le loro Tv, continuano a somministrare al paese la stessa pappa che ha portato al disastro la sinistra: pro-migranti, prima loro poi gli italiani, pro-Rom e pro-gay come se fossero temi di priorità epocale, antifascisti e antirazzisti». Protesta Veneziani: «Ma non avete capito che la sinistra è crollata proprio perché si è identificata col messaggio ossessivo che i suoi mass media, i suoi agenti, funzionari, ideologi propinano ogni giorno, disertando la realtà e i suoi disagi?».A questo punto, continua Veneziani, è inutile arrovellarsi su chi sarà il miracoloso resuscitatore della sinistra: sfilano in tanti, da Zingaretti a Calenda, «che è entrato tre mesi fa nel Pd e ora vuole già seppellirlo per collocarlo all’incrocio pigliatutto», senza contare «il coro delle prefiche piangenti della sinistra perduta o della cattosinistra, appena usciti disfatti dalle esperienze di governo». Chiosa Veneziani: «Sullo sfondo dal sarcofago di D’Alema si sentono risate sataniche». Scherzi a parte, sostiene il politologo, la sinistra che verrà non sarà più radical chic o proveniente dalla Ditta, come Bersani chiamava la filiera dell’ex Pci. «Il prossimo leader della sinistra, come il suo popolo del resto, sarà un Papa straniero», scrive Veneziani, tra il serio e il faceto. «Sarà negro. Sarà venuto dai barconi o avrà trovato nei barconi il suo elettorato maggiore e la sua base militante. Sarà pop, e non snob. Che saranno poi i milioni di migranti che la sinistra, il Papa, i mattarelli umanitari, avranno agevolato a far entrare nel paese e in Europa. Riprenderà, come è giusto, la bandiera del proletariato e farà la concorrenza ai grillini pauperisti».Ragiona Veneziani: «Non ha senso, per la marea di migranti, avere tutori che parlano in loro nome pur vivendo da agiatissimi borghesi, lontani dai sobborghi e dagli spazi pubblici affollati dai migranti. Lo faranno direttamente loro». Seriamente: «Finché dominerà il populismo, la sinistra continuerà ad essere quella che è stata, un centro di potere mediatico, culturale, bioetico, giudiziario; una fabbrica di influenze, codici e sentenze, una lobby trasversale che raggruppa al suo interno tante altre lobby che fanno setta, business o potere sui temi sensibili». Sempre secondo Veneziani, la cosiddetta sinistra smetterà pure di essere un partito, «perché è un’oligarchia capace di orientare le opinioni ma non di prevalere nel voto». E aggiunge: Fino a che ci saranno democrazia, sovranità e libertà, «la sinistra sarà minoritaria, perché avvertita non dalla parte del suo popolo ma fuori, sopra e contro di esso». Renzi? Gli è stata attribuita «una disfatta molto più grande e molto più radicale di lui». Come già Veltroni, ora si darà alla Tv, dimostrandosi essenzialmente un animatore, più che un politico. «Sono piccoli esempi vistosi di un processo più grande: la sinistra proletaria e sudata la faranno i neri, magari islamici; la sinistra da passeggio e da salotto sarà nei poteri che non passano dal consenso popolare».Lo psicodramma collettivo sulla fine della sinistra continua imperterrito da settimane, mesi o meglio ancora anni, ma c’è qualcosa di esagerato – scrive Marcello Veneziani – nel piangere e denunciare il collasso del Pd: non successe la stessa cosa quando sparì il partito-paese, la Dc, dopo mezzo secolo ininterrotto di potere. Ma la tragedia della sinistra, scrive Veneziani sul “Tempo”, tocca direttamente le fabbriche dell’opinione pubblica, gli influencer – dalla Rai all’Istat, dai giornali agli intellettuali – perché alla fine i due mondi coincidono. A volte sembra di vedere due tragedie umanitarie trasmesse in contemporanea: i barconi dei migranti che arrivano, e i politici morenti – sindaci, ministri – che sloggiano. E sorgono problemi di approdo per i migranti «in quanto non ci sono più i demosinistri e i cattoumanitari al potere». In tanti, aggiunge Veneziani, «hanno dato consigli alla sinistra per riprendersi il potere smettendo di essere sinistra». Un consiglio «doppiamente assurdo, perché sottintende una considerazione inaccettabile: che la sinistra può rinunciare alle sue idee ma non al potere a cui per diritto divino è destinata». Meglio rassegnarsi a constatarne il decesso, o comunque «il male incurabile, il declino irreversibile».
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Il Pd è finito perché ha scelto la finanza archiviando Keynes
L’ultima assemblea nazionale del Pd consegna alla storia della sinistra italiana una fotografia drammatica e al tempo stesso quasi patetica, dopo il ko del 4 marzo e poi quello delle amministrative. Quello che addirittura lascia esterrefatti, scrive Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, è che il partito è privo di qualsiasi strategia: ci si trova di fronte all’ennesimo ed effimero rinvio del nulla, del vuoto pneumatico. C’è il fantasma di Renzi, il Re degli Sconfitti, che arriva a contestare tutti, da Gentiloni a Martina, preoccupato solo di galleggiare ancora tra le macerie di un partito dal quale non si salva nessuno. Da Rold segnala la retromarcia di Bersani, che definisce «uomo di sinistra, magari anche di modeste ma oneste visioni politiche», che ha invitato i dirigenti Pd a fare un passo indietro per tornare ad ascoltare la società italiana. E poi c’è il lamento del leghista Giancarlo Giorgetti, navigato sottosegretario alla presidenza del Consiglio: è preoccupato, Giorgetti, che il governo gialloverde non abbia una vera opposizione, cosa che rende ancora più desolante la già fragile democrazia italiana. Velo pietoso sugli scenari da “fronte antipopulista” evocando Macron, cioè il politico francese che odia l’Italia. La realtà della sinistra italiana sarebbe lampante, dice Da Rold, se solo il Pd si decidesse a vederla: il centrosinistra è tale solo di nome, perché di fatto ha svolto una politica neoliberista, tipica della destra antisociale.Tra i tanti peccati che ha da scontare, scrive Da Rold, l’ex sinistra italiana «deve fare i conti con l’accettazione quasi acritica del “pensiero unico” neoliberista, scambiato per modernità». Nei dettagli, deve scontare il via libera alla nuova funzione della banca dopo l’abbandono del Glass-Steagall Act voluto da Roosevelt per separare nettamente il credito produttivo dalla finanza speculativa. L’ex sinistra, aggiunge l’analista, «non può dimenticarsi della concezione di un capitalismo basato su un’impresa responsabile, che cura innovazione, investimenti e occupazione». Tantomeno la sinistra poi dimenticarsi «del welfare, dei diritti dei lavoratori conquistati in anni di lotte sindacali», all’epoca in cui si puntava alla piena occupazione. «Il capitalismo che ha conosciuto e con cui si è confrontata la sinistra europea, dopo l’ultimo conflitto mondiale, era il capitalismo già corretto da Keynes, dal welfare di Lord Beveridge, dalla lezione della grande crisi del 1929 risolta da Roosevelt», scrive Da Rold. «E’ vero che la sinistra italiana, unica in Occidente, straparlava di Lenin più ancora che di Marx e conosceva poco Keynes. Ma nella sostanza, il boom e il benessere vennero proprio dalle dottrine e dalle pratiche keynesiane».Quello che è avvenuto negli ultimi anni era impensabile solo trent’anni fa, aggiunge Da Rold sul “Sussidiario”. «Mentre la sinistra socialdemocratica europea si ingolfava in sperimentazioni di sempre maggiore apertura neoliberista, la sinistra italiana abbandonava addirittura di colpo il marxismo post-classico per abbracciare il neoliberismo in versione monetarista. Un delirio». E non capiva, il centrosinistra, che «anche se Keynes avrebbe potuto essere superato e aggiornato, era lui il vero bersaglio della nuova destra rampante, non Lenin o Marx». Parole al vento: il risultato sono state «privatizzazioni forzate e, in molti casi, demenziali». Tutto questo, senza contare «le tappe forzate della globalizzazione, la crisi del 2007, l’assetto istituzionale italiano che non è mai stato aggiornato, con le procure interventiste nel campo politico che si muovono come feudi indipendenti e spesso in aperta opposizione all’esecutivo». Che cosa ha fatto, di fronte a tutto questo, la sedicente sinistra? «E’ stata a guardare, passivamente, godendo di una rendita di egemonia spesso usurpata».Poi, nel momento in cui questa egemonia si è frantumata, «la sinistra non si è neppure scomposta a ricercare le cause di una crisi storica, a rivedere e correggere alcune concezioni, a cercare di comprendere le nuove ragioni di un potenziale e molto ampio popolo di sinistra, che si è moltiplicato per l’aumento delle povertà, delle diseguaglianze sociali e della disoccupazione». La sedicente sinistra italiana «si è fermata a crogiolarsi nella subordinazione al potere dettata dalla grande finanza internazionale e da alcuni poteri istituzionali del paese», accusa Da Rold. Lo spettacolo dell’ultima assemblea Pd? Penoso. «E’ proprio impossibile che si possa avviare, anche con ritardo, una autocritica collettiva, non distruttiva, affrontando i nuovi problemi sociali, nazionali e internazionali? Si è ancora in grado di fare un congresso a tesi, come si è sempre fatto?». Se non si ripensa al passato, non si guarda al presente e non si pensa il futuro – conclude Da Rold – si è destinati a restare al palo. «E’ questa l’impressione che oggi comunica il Partito Democratico. E sembra che resti poco tempo per rimediare».L’ultima assemblea nazionale del Pd consegna alla storia della sinistra italiana una fotografia drammatica e al tempo stesso quasi patetica, dopo il ko del 4 marzo e poi quello delle amministrative. Quello che addirittura lascia esterrefatti, scrive Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, è che il partito è privo di qualsiasi strategia: ci si trova di fronte all’ennesimo ed effimero rinvio del nulla, del vuoto pneumatico. C’è il fantasma di Renzi, il Re degli Sconfitti, che arriva a contestare tutti, da Gentiloni a Martina, preoccupato solo di galleggiare ancora tra le macerie di un partito dal quale non si salva nessuno. Da Rold segnala la retromarcia di Bersani, che definisce «uomo di sinistra, magari anche di modeste ma oneste visioni politiche», che ha invitato i dirigenti Pd a fare un passo indietro per tornare ad ascoltare la società italiana. E poi c’è il lamento del leghista Giancarlo Giorgetti, navigato sottosegretario alla presidenza del Consiglio: è preoccupato, Giorgetti, che il governo gialloverde non abbia una vera opposizione, cosa che rende ancora più desolante la già fragile democrazia italiana. Velo pietoso sugli scenari da “fronte antipopulista” evocando Macron, cioè il politico francese che odia l’Italia. La realtà della sinistra italiana sarebbe lampante, dice Da Rold, se solo il Pd si decidesse a vederla: il centrosinistra è tale solo di nome, perché di fatto ha svolto una politica neoliberista, tipica della destra antisociale.
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Carpeoro: fermare la Lega, giudici brutali e intellettuali servi
Ora la campagna mediatica contro Salvini coinvolge anche il mondo dello spettacolo, con il discusso appello su “Rolling Stone”? Il problema di fondo è che la cultura italiana è fatta di meretricio intellettuale. Uno firma e fa i girotondi perché “fa bello”, giova alla carriera e giova all’immagine aggregarsi nel politicamente corretto. I cosiddetti artisti e intellettuali italiani hanno voglia di omologazione, hanno voglia di essere branco. Ed è esattamente il contrario di quello che dovrebbe essere un intellettuale o un artista. Io lo trovo l’esempio della gregarietà del mondo culturale, intellettuale e artistico italiano. Questo è un paese di moralisti, non è un paese di morale. La maggior parte di quelli che fanno la morale agli altri, se vai a guardare a casa loro, scopri che fanno di peggio. A livello nazionale è partita la guerra contro Salvini. Non che la Lega non debba risarcire la somma che è stata stabilita (in primo grado). A ingenerare sospetto è la fretta. Una sentenza di primo grado che condanna un partito a rifondere 49 milioni di euro mi desta un po’ di perplessità per la cifra. Mi sembra un po’ alla carlona il fatto che tutti i rimborsi elettorali debbano essere sostituiti, e mi sembra di ricordare che il merito di quel provvedimento fosse di gran lunga inferiore a queste cifre. Il problema è che è stata resa esecutiva la decisione di primo grado, e che – cosa che non fanno quasi mai – i magistrati hanno deciso di dare a queste esecuzioni delle modalità piuttosto brutali.Che succede, se ad un partito sequestri tutti i conti bancari e anche i rimborsi correnti? Se gli esponenti precedenti della Lega hanno mal disposto dei rimborsi, ciò non significa automaticamente che l’intero partito debba essere ritenuto responsabile. Probabilmente lo stesso partito è una parte lesa nei confronti di costoro. Quindi a me sembra che una vicenda affrontata con questa brutalità e con questa fretta, molto sospetta, voglia mettere in ginocchio il partito della Lega. Da parte mia, non ho alcuna simpatia, per la Lega: se avesse perso le elezioni non ne sarei stato rattristato. Ma il problema è che le ha vinte, e questo oggi sembra quasi una colpa. Come si è visto, il provvedimento giudiziario è stato deciso a pochissima distanza dalla vittoria della Lega, nonostante questa decisione (di primo grado) fosse esecutiva da tempo. Con molto zelo, invece, la magistratura ha deciso di realizzare un esecuzione a tempi di record. Ricordo che la Lega non difese le ragioni del diritto durante Tangentopoli, quando Craxi fu condannato a tempo di record, in un’Italia in cui i processi duravano vent’anni. Questo è dunque un film già visto, che oggi vede la Lega passare da carnefice a vittima. Io non gioisco quando il carnefice diventa vittima, perché per me le vittime sono tutte uguali. E’ il meccanismo che mi preoccupa, il meccanismo per cui uno possa diventare vittima.E’ un meccanismo che interessa tutti, ed è interesse della comunità che un individuo non diventi vittima, qualunque sia l’individuo, perché ognuno deve pagare le sue colpe. Perché eseguire così brutalmente il sequestro dei conti correnti della Lega, immobilizzando l’intero partito? Giustamente Salvini si lamenta, nonostante la tradizione del suo partito non lo legittimi, politicamente. Fa bene Salvini a disegnare uno scenario antidemocratico: si blocca la vita di un partito, che teoricamente dopodomani deve chiudere, perché questo sequestro incombente riguarda tutti i soldi in ingresso – che la Lega non potrà più usare per finanziare la sua legittima attività politica. Questo a me non sembra una cosa saggia, da parte della giustizia. Mi sarebbe semvrato saggio aspettare il terzo grado di giudizio e comunque concordare, dopo il terzo grado, delle forme di rientro economiche per questo partito. In Italia, misure simili sono stati garantite a cani e porci, e invece questi pretendono 49 milioni sull’unghia, dalla Lega, dopo il primo grado di giudizio. Capisco che probabilmente gli scopi sono diversi da quelli della giustizia. Ed è un problema che si ripete, come se la giustizia fosse la foglia di fico dietro cui nascondersi: è ora di riconoscere che in Italia la giustizia è uno strumento, una variabile che incide profondamente sulla politica e sulla vita democratica, e questo a me non piace.Attenzione: far sparire soldi sequestrati dalla magistratura configura un reato, ma presuppone l’accertamento del reato. Se io veramente li ho fatti sparire, quei soldi, tu – magistrato – hai modo di accertarlo, identificando anche i responsabili. Per certi aspetti hai anche la possibilità di scoprire dove sono finiti quei soldi, perché 49 milioni di euro non spariscono con la bacchetta magica. Se veramente sono spariti, sono scomparsi quasi in un’unica soluzione, perché il periodo sospetto è limitato a un tempo ristretto di attività criminosa. In effetti la procura di Genova ha aperto un’inchiesta. Siccome sul conto corrente della Lega non ci sono soldi, sarebbe giusto che – se questa inchiesta portasse alla conclusione che l’attuale dirigenza della Lega ha predisposto un piano criminoso per farli sparire – la giustizia fosse spietata, in questo senso. Il problema però è che tu non puoi darla per scontata, questa teoria, avendo solo aperto un’inchiesta. La giustizia non è fatta solo di leggi, è fatta anche di buon senso. Quindi, prima di immobilizzare un partito che prende milioni di voti, tu devi avere certezze – altrimenti può darsi, effettivamente, che in quel partito i soldi li abbiano fatti sparire i malversatori o che tu abbia sbagliato i conti, paralizzando – solo per i tuoi sospetti – un partito che prende milioni di voti.C’è un evidente problema politico: certi magistrati fanno politica perché sanno che se assumono certe posizioni fanno carriera, col clima che c’è nel Csm, nella Corte Costituzionale e presso tutte le cariche istituzionali. Vorrei che ci fosse meno politica, nella magistratura, altrimenti lo Stato dovrebbe dire: “Sui magistrati non indagano magistrati”. La cosiddetta autogestione e indipendenza delle toghe diventa un valore minore, se i magistrati non sono effettivamente indipendenti, se non sono “terzi”. Perché mi dovrei fidare dell’indipendenza della magistratura come valore teorico se questa non si traduce anche in esercizio pratico? Io credo che se lo Stato “facesse lo Stato” il sistema attuale potrebbe funzionare bene, con qualche piccola modifica. Ma lo Stato fa davvero lo Stato? Noi abbiamo un presidente della Repubblica che ha inciso fortemente (e io sostengo che non poteva farlo) sulla stessa composizione del governo. Abbiamo una situazione in cui lo Stato non fa lo Stato. E perché dovremmo ritenere che la magistratura non abbia ripercussioni da tutto questo? Tant’è vero che Salvini non ha chiesto un colloquio col vicepresidente del Csm, tradizionale vertice operativo dell’organo. Prima di certe iniziative intraprese da Cossiga, il presidente della Repubblica era solo una figura onorifica e simbolica, in qualità di presidente del Csm. Era il vicepresidente a rappresentare il vertice.Ora invece Salvini (giustamente, dal suo punto di vista) ha chiesto un colloquio direttamente al presidente della Repubblica, e non al vicepresidente del Consiglio Superiore. La verità è che abbiamo creato una Costituzione materiale che è diversa dalla Costituzione scritta, che è fatta di stereotipi, di cose che non sono scritte, di forzature fatte passare dando per scontato che quello costruito dai costituenti forse un sistema perfetto e non modificabile, come se i costituenti avessero detto “noi siamo Dio e facciamo le dodici tavole”. Ma i principi “perfetti” per una certa epoca possono rivelarsi imperfetti un’altra epoca. Così oggi rischia di essere bloccato, per via giudiziaria, un partito votato da milioni di italiani. Né mi stupiscono le voci su una possibile resurrezione di Renzi, in un nuovo partito “finanziato da Soros” con la Bonino, Tabacci, la Lorenzin. Gli italiani potrebbero “bersi” la nuova, ipotetica “verginità” di Renzi? E’ possibile, perché gli elettori si accontentano della “verginità” formale, non badano a quella sostanziale. E’ una mentalità italiana che è all’origine anche del successo degli attuali partiti: Lega e 5 Stelle hanno avuto successo facendo agli altri quello che adesso viene fatto a loro. Il successo degli attuali partiti ha le stesse radici, purtroppo, dell’insuccesso degli altri.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” durante la diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, su YouTube, il 7 luglio 2018).Ora la campagna mediatica contro Salvini coinvolge anche il mondo dello spettacolo, con il discusso appello su “Rolling Stone”? Il problema di fondo è che la cultura italiana è fatta di meretricio intellettuale. Uno firma e fa i girotondi perché “fa bello”, giova alla carriera e giova all’immagine aggregarsi nel politicamente corretto. I cosiddetti artisti e intellettuali italiani hanno voglia di omologazione, hanno voglia di essere branco. Ed è esattamente il contrario di quello che dovrebbe essere un intellettuale o un artista. Io lo trovo l’esempio della gregarietà del mondo culturale, intellettuale e artistico italiano. Questo è un paese di moralisti, non è un paese di morale. La maggior parte di quelli che fanno la morale agli altri, se vai a guardare a casa loro, scopri che fanno di peggio. A livello nazionale è partita la guerra contro Salvini. Non che la Lega non debba risarcire la somma che è stata stabilita (in primo grado). A ingenerare sospetto è la fretta. Una sentenza di primo grado che condanna un partito a rifondere 49 milioni di euro mi desta un po’ di perplessità per la cifra. Mi sembra un po’ alla carlona il fatto che tutti i rimborsi elettorali debbano essere sostituiti, e mi sembra di ricordare che il merito di quel provvedimento fosse di gran lunga inferiore a queste cifre. Il problema è che è stata resa esecutiva la decisione di primo grado, e che – cosa che non fanno quasi mai – i magistrati hanno deciso di dare a queste esecuzioni delle modalità piuttosto brutali.
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Odiare Salvini e gli italiani, colpevoli di aver vinto le elezioni
Cieca e sorda, la rabbia dei “cespugli” dell’establishment contro Matteo Salvini, dipinto come l’Uomo Nero – l’orco malvagio, l’archetipo del male che specula sulle paure quotidiane (e sulla pelle dei più deboli) per fare il pieno di voti. Si mobilita qualche romanziere sulla scia dell’improbabile Saviano, massimo totem della banalità nazionale, e si reclutano attori e registi per la crociata contro il Perfido Leghista. Si arruolano per la causa le voci più giovani e meno note, spesso desolatamente anonime, della non memorabile scena musicale italiana. La parola d’ordine è una sola: No. La cosmetica: no al razzismo e al nazionalismo, nel paese meno discriminatorio e meno sciovinista del pianeta. No alla xenofobia, in un’Italia che vanta il record europeo di associazioni solidaristiche a tutela dei migranti. E per buon peso si aggiunge il classico No al fascismo, ove per fascismo non si intende quello reale e odierno, tecnocratico e spietato, minaccioso e tragicamente oppressivo. Non lo vedono nemmeno, i crociati anti-leghisti, il vero fascismo dell’oligarchia eurocratica (contro cui si batte proprio l’orrido Salvini). Il fascismo a cui alludono è il fantasma di quello storico, appeso per i piedi a Piazzale Loreto, morto e sepolto 73 anni fa.Lo stile populista della ruvida narrativa salviniana è una vera manna, per tanti semi-intellettuali a corto di idee, letteralmente muti – per anni – di fronte alla catastrofe sociale, economica e politica che ha travolto il paese. Meno male che Silvio c’è, cantava l’inarrivabile Berlusconi in versione clownesca. Meno male che Salvini c’è, potrebbero concludere oggi le retrovie culturali della ex sinistra di potere. Prontissime, a inscenare il loro chiasso anche squadristico contro il Mostro del Nord. Ma assolutamente silenti, ieri, di fronte allo spettacolo delle anime morte di un Parlamento che si piegò al “dittatore” Mario Monti e alla sua arma di distruzione di massa, l’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio. Meno male che Salvini c’è: se non ci fosse, come farebbero a “esistere”, mediaticamente, i tanti vedovi dell’inglorioso centrosinistra asservito al supremo potere dell’élite finanziaria privatizzatrice che si auto-proclama europeista? Lega e 5 Stelle promettono di voler smontare proprio l’apparato repressivo montiano, cominciando dalla legge Fornero? Non importa: quello che conta è insultare il fascista, razzista e xenofobo Salvini, cioè il politico che vorrebbe cancellare le tasse generate dall’euro-rigore, le maxi-imposte che hanno azzerato interi settori dell’economia italiana.Che ne sanno, i nuovi crociati, del Fiscal Compact? Ne hanno mai sentito parlare? Non leggono, non studiano, non si documentano? Dove hanno vissuto, tutto questo tempo? Dov’erano, mentre l’Italia affondava tra i vacui schiamazzi di Renzi e il grazioso silenzio-assenso di Enrico Letta e Paolo Gentiloni, tutti aggrappati alle loro poltrone euro-friendly? Era il 1994 quando l’allora sinistra, incarnata dalla “gioiosa macchina da guerra” del tragicomico Achille Occhetto, reagì con lo stesso sprezzante furore contro il più che discutibile tycoon di Arcore. Tutto si poteva contestare, a Berlusconi, tranne la sua legittimità di vincitore: ed è esattamente quello che oggi si cerca di negare all’insopportabile Salvini. Come si permette, l’ex buzzurro padano, di vincere le elezioni e poi di volare nei sondaggi? Si chiama, appunto, democrazia. Ed ecco il dramma, la sciagura, l’affronto culturale, l’emergenza civile. Tu non hai diritto di stare al governo, si dice a Salvini. Gli italiani ti hanno votato democraticamente? Non importa. A livello politico, nella sostanza, le conclusioni di Saviano & soci (che bello, se Salvini sparisse dalla scena) sono le stesse dei supermassoni reazionari Oettinger, Merkel e Macron, cioè dei peggiori nemici dell’Italia.Nel ‘94 la sinistra giurò odio eterno al nemico di Arcore (che infatti dopo 25 anni è ancora sulla scena), senza riuscire a vedere la vera natura dell’operato del finto amico Prodi, insieme ai suoi colleghi Amato e D’Alema, Ciampi, Padoa Schioppa, Visco, Draghi. Hanno servito poteri che avevano una sola idea in testa: azzoppare l’Italia, privatizzarla e comprarsela. Ci sono riusciti, senza mai incontrare difficoltà, fino appunto al 4 marzo 2018. Per la prima volta, un governo – quello guidato da Conte – ha alle spalle la maggioranza schiacciante degli italiani. E’ questo che non accettano, gli sconfitti, non tollerando il verdetto legittimo della democrazia. E’ in corso una guerra, fatta soprattutto di parole, che i grandi poteri e i loro media mainstream rovesciano addosso, ogni giorno, ai nuovi governanti, cui non si perdona di avere vinto le elezioni. E non si perdona loro di averle vinte proprio raccontando che era ora di cambiare tutto – paradigma, universo comunicativo, lettura del mondo – dopo 25 anni di realtà virtuale, artificiosa e manipolata, interamente falsa.La cosiddetta sinistra – che ha rinnegato se stessa, tradendo i suoi ignari elettori – ora schiuma di rabbia di fronte alla marea sovranista cavalcata da Salvini, contro cui scatena i suoi Saviano e le sue Gruber, i suoi attori e cantanti. Ci servono, i migranti, dice il presidente dell’Inps, per sorreggere il sistema pensionistico nazionale (sabotato dal centrosinistra, non da Berlusconi, e poi massacrato dalla Fornero, non da Salvini). Ci servono maledettamente, tutti quei migranti – dice il lunare D’Alema – perché da vent’anni, chissà come mai, gli italiani rinunciano a metter su famiglia. Il caos è immenso: i mass media di regime si ostinano a rifiutarsi di raccontare la realtà del declino italiano imposto in modo fraudolento negli ulimi decenni, ma oltre il 60% del paese sostiene apertamente il nuovo governo e un altro 10-15% ne osserva senza pregiudizi l’operato. E’ una sparuta minoranza – armata fino ai denti – a sparare disperatamente contro gli uomini del possibile cambiamento, inevitabilmente drastico. E non è un caso, forse, che in questa Italia narcotizzata così a lungo dalla melassa ipocrita del politically correct non si ricordi una sola canzone, un solo film, un solo romanzo capace di incarnare lo spirito del tempo. C’è da augurarsi che il futuro si porti via la mediocrità di tanto ambiguo perbenismo, di cui nessuno – francamente – potrà avere nostalgia.Cieca e sorda, la rabbia dei “cespugli” dell’establishment contro Matteo Salvini, dipinto come l’Uomo Nero – l’orco malvagio, l’archetipo del male che specula sulle paure quotidiane (e sulla pelle dei più deboli) per fare il pieno di voti. Si mobilita qualche romanziere sulla scia dell’improbabile Saviano, massimo totem della banalità nazionale, e si reclutano attori e registi per la crociata contro il Perfido Leghista. Si arruolano per la causa le voci più giovani e meno note, spesso desolatamente anonime, della non memorabile scena musicale italiana. La parola d’ordine è una sola: No. La cosmetica: no al razzismo e al nazionalismo, nel paese meno discriminatorio e meno sciovinista del pianeta. No alla xenofobia, in un’Italia che vanta il record europeo di associazioni solidaristiche a tutela dei migranti. E per buon peso si aggiunge il classico No al fascismo, ove per fascismo non si intende quello reale e odierno, tecnocratico e spietato, minaccioso e tragicamente oppressivo. Non lo vedono nemmeno, i crociati anti-leghisti, il vero fascismo dell’oligarchia eurocratica (contro cui si batte proprio l’orrido Salvini). Il fascismo a cui alludono è il fantasma di quello storico, appeso per i piedi a Piazzale Loreto, morto e sepolto 73 anni fa.
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Sos Disruption: entro 15 anni sparirà un mestiere su due
Il lavoro di oggi? Sparirà. E quello di domani sarà diverso, gestito in tandem con le macchine. Sta cambiando tutto alla velocità della luce, ma nessuno ce lo sta dicendo: né la politica, né i media, né tantomeno la scuola. Lo afferma Paolo Barnard, il reporter che – per primo, nel saggio “Il più grande crimine” – ricostruì la genesi dell’Ue e dell’Eurozona in termini di criminalità politica da parte dell’élite finanziaria neo-feudale, orientata al “genocidio economico” nel quale si dibatte l’Europa, Italia in primis. Riletto oggi, alla luce della rivoluzione copernicana già in atto nel mondo del lavoro, persino un abominio “golpista” come l’imposizione dell’euro fa quasi sorridere. Motivo: il futuro ci sta venendo addosso con una rapidità inimmaginabile. Più della metà dei mestieri attualmente svolti in Occidente diverranno obsoleti perché antieconomici: al posto di operai, funzionari e ingegneri ci saranno robot evolutissimi, macchine auto-apprendenti forgiate dal Machine Learning garantito da computer “quantistici”. Si chiama Tecnological Disruption, e secondo Barnard è un cambiamento «così potente da trasformare in breve tempo la vita umana sul pianeta Terra». Precedenti nella storia: «La scoperta del fuoco e quella dell’agricoltura, la matematica, la stampa, le macchine a vapore, l’elettricità».Le nuove tecnologie digitali potenziate dall’Artificial Intelligence stanno cambiando davvero tutto: sarà la fine del mondo, così come l’abbiamo conosciuto. E nessuno, a quanto pare, se ne sta accorgendo. Parlano i numeri, già drammatici secondo tutte le proiezioni ufficiali: a livello globale, da 1 a 2 miliardi di lavoratori perderanno il posto entro il 2030, la maggioranza in Occidente. A farne le spese saranno impiegati contabili e amministrativi, aziende manifatturiere e manodopera produttiva, insieme a costruzioni ed estrazioni minerarie, ma anche avvocatura e giudici, lavori di installazione e manutenzione, operatori di gru e trattoristi, meccanici e riparatori. Spariranno posti di lavoro nelle arti e nel design, nell’intrattenimento, nello sport e nei media, insieme a molte mansioni nel settore turistico. In compenso, dalla rivoluzione tecnologica usciranno rafforzati business e finanza, manager, informatica e matematica, architettura e ingegneria, ma anche rappresentanti, camerieri, specialisti in istruzione e formazione, pensatori creativi e manager per la Disruption – nonché farmacisti, infermieri e operatori socio-sanitari.«Entro il 2030 si stima che fino a 375 milioni di posti di lavoro, globalmente, dovranno essere “reskilled”, cioè riqualificati», scrive Barnard nel suo blog. Ad esempio: nel settore manifatturiero, dicono gli esperti, cadranno mansioni nelle mani dell’Artificial Intelligence e della robotica, ma il lavoratore potrà essere re-impiegato in fasi diverse del lavoro, aumentando la produttività: gli servirà però un “reskilling”. Alibaba, colosso cinese dell’e-commerce, ha calcolato che i suoi robot da magazzino risparmiano a ogni magazziniere almeno 50.000 mosse fisiche al giorno, riducendone molto lo stress fisico ma soprattutto liberandogli tempo per aumentarne la produttività ma senza prolungare l’orario di lavoro. Naturalmente, scrive Barnard, Alibaba i suoi dipendenti li ha “reskilled”. Quindi, «l’impresa del “reskilling” di milioni di italiani non è un optional, è l’aria da respirare, e ogni singolo analista al mondo oggi lo dice chiaro: i governi giocano qui il ruolo principale con un intervento generoso nei bilanci». Ma una nazione con vincoli di budget «al limite del sadismo sociale», per citare l’economista Giulio Sapelli, come diavolo farà a riqualificare sul lavoro due o tre milioni di persone?Oltretutto, il “reskilling” è ormai un ordine di scuderia a tappe forzate: «Lasciar languire nella terra di nessuno i lavoratori in transito significa perderli per strada, con danni economici enormi». Si domanda Barnard: «Come farà l’Italia, soffocata nei bilanci dall’Eurozona, quando tutti gli esperti mondiali invocano chiaramente interventi di governo?». Già ora la Disruption, nelle parole di 20.000 imprenditori europei di tutti i settori, «sta imponendo un aumento vertiginoso nella richiesta di alcune professioni, che si prestano per assorbire sia una quota di futuri licenziati (“reskilled”), che i giovani post-laurea». La rivoluzione in arrivo, dice Barnard, avrà bisogno di nuovissime figure professionali, come i rappresentanti di ultima generazione: «Occorrono disperatamente venditori che siano formati prima di tutto a spiegare quei prodotti, poi a venderli a privati e governi, ma anche per raggiungere nuove fasce di clienti». Poi gli analisti dei dati: «Non occorre un dottorato per questa mansione, ma di certo un buon “reskilling” anche in assenza di laurea». Le aziende, aggiunge Barnard, oggi sanno che Big Data è la scoperta “nucleare” del commercio di prodotti e servizi: bisogna quindi «saper analizzare e trarre conclusioni intelligenti dall’immane massa di dati che la Disruption mette a disposizione».«Il successo si gioca qui, nel terzo millennio: la richiesta di analisti dei dati è destinata a esplodere fra pochissimi anni». Per i laureati brillanti «c’è già ora spazio per ricoprire un ruolo dirigente richiestissimo nei maggiori settori di commercio e servizi, cioè il Manager della Disruption: è colui che si specializza nel guidare l’azienda (piccola, media, grande) ma anche il settore pubblico, nella tempesta di cambiamenti che l’era digitale porta ogni minuto». In generale, proprio grazie alla Disruption, entro il 2030 sono previste globalmente 130 milioni di nuove assunzioni in sanità generale e assistenza agli anziani, nonché 50 milioni nelle tecnologie e altri 20 milioni nel settore energetico. Le professioni del tutto nuove che si prevede nascano grazie alla Disruption, spiega Barnard, sono «gli specialisti intra-umani, cioè intelligenza emotiva, capacità di persuasione, gestori delle emozioni umane nel sociale, e i creatori di motivazione; i pensatori creativi in ogni settore, sia scientifico che industriale che amministrativo, poiché essere super-specializzati ma ottuse ‘scatole di dati’ non innova nulla in azienda». E ancora: serviranno «gli ottimizzatori delle energie rinnovabili e gli operatori nella lotta al cambiamento climatico».Ogni singolo esperto in “occupazione & Disruption”, aggiunge Barnard, “grida” sempre la medesima cosa, che la Consultancy McKinsey & Co. ha espresso nel dicembre 2017 con una frase lapidaria: «La moltiplicazione dei lavori potrebbe più che compensare le perdite a causa dell’automazione. Ma nulla accadrà per magia – richiederà che i governi e il business sappiano creare le opportunità». E qui esplode il problema-Italia: chi si farà carico della formazione permanente imposta dalla Disruption, dati gli attuali limiti drammatici imposti alla spesa pubblica? La scuola, scrive Barnard, deve avere una conoscenza avanzatissima della Disruption in continuo aggiornamento, perché è molto probabile che una parte delle competenze insegnate oggi saranno obsolete per il mondo del lavoro nel giro di 5-8 anni, in media. Con un ritardo di questo genere, nelle scuole e università, cosa farà l’Italia? Ha qualche idea in proposito, il governo gialloverde? Il Miur, ministero dell’istruzione, università e ricerca, ammette di essere in emergenza: i dati Ocse dicono che ogni quindicenne italiano usa il computer in classe molto al di sotto della media europea (molto meno dei greci, e quasi un terzo del tempo di un australiano).Sempre per l’Ocse, i docenti italiani sono in assoluto i meno preparati, in Europa, all’era digitale. Ancora: nel Digital Economy Index, l’Italia languisce al 25mo posto su 28 paesi, ha lacune dappertutto. E nella velocità di connessione alla Rete è in fondo alla classifica europea con un umiliante 9.2 Mbps, davanti solo a Grecia e Cipro. Nelle aule si soffre moltissimo, di questo:«Il processo di diffusione della scuola digitale negli ultimi anni è stato piuttosto lento», confessa il Miur, che denuncia «azioni spesso non incisive e non complessive». Aggiunge Barnard: «Sapere è lavoro, ma un buon lavoro – oggi, nella Disruption – significa sapere molto. E con una situazione del genere c’è da mettersi le mani nei capelli». Nessuna area italiana è inclusa tra gli “Innovator leaders” europei. Solo il Piemonte figura tra gli “Strong innovators”, mentre il resto della penisola è in terza posizione, tra i “Moderate innovators”, mentre la Sardegna è relegata tra i “Modest innovators” come Croazia, l’Estremadura, l’Est Europa più povero e arretrato. Una mappa impetosa: «L’Italia non solo sprofonda nell’economia tradizionale (a causa soprattutto dell’Eurozona), ma colpevolmente i suoi governi degli ultimi 15 anni l’hanno tenuta fuori dalla realtà, cioè dalla Disruption, e infatti siamo “gialli”, cioè quasi ultimi nell’innovazione, e dunque fra gli ultimi nelle prospettive di lavoro dei nostri figli».Generalmente, aggiunge Barnard, un paese moderno ospita oltre 900 mestieri. E dato che «una buona parte delle nuove tecnologie della Disruption stanno sbocciando in queste ore o sbocceranno appena domani», è impossibile essere precisi. Ma una cosa è più che evidente: a dettare legge sarà la tecnologia dell’intelligenza artificiale di Machine Learning, «perfetta per sostituire i lavori ripetitivi d’ufficio, per far funzionare la logistica aziendale, per far “pensare” i robot nelle industrie, ma anche per sostituirsi all’umano in compiti complessi all’interno di molti mestieri sofisticati». Giusto per dare al pubblico un’idea del grado di penetrazione del Machine Learning, cioè del fatto che davvero saranno pochissimi i lavori di domani che non avranno almeno in qualche segmento un’intelligenza artificiale a sostituire qualcosa o qualcuno, la Mit Initiative sull’economia digitale «afferma che il mestiere in assoluto più “blidato” contro la Disruption è il… massaggiatore». All’altro estremo, invece, figurano «le mansioni che sembrano davvero destinate a essere falcidiate», ovvero «gli impiegati, i contabili, gli amministrativi in generale».Se è scontato che fra i “colletti blu” (diplomati, ma senza laurea) tanto dovrà cambiare, «molti genitori e studenti ancora non comprendono purtroppo cosa accadrà alle professioni dei “colletti bianchi”, degli specializzati, che siano medici, avvocati, commercialisti, o persino ingegneri informatici (esempio estremo, ma anche fra loro cadranno teste con l’Artrificial Intelligence)». Parla da solo il caso americano: nei primi 15 anni di digitalizzazione dell’economia Usa, ricorda Barnard, le disparità di redditi fra “colletti blu” (licenza liceale) e “colletti bianchi” (lauree) schizzò in alto, perché i secondi – grazie alla formazione digitale universitaria – poterono approfittare dei nuovi lavori ben pagati, gli altri no e subirono in pieno l’impatto devastante del crash bancario del 2008. Addirittura, il fenomeno ha raggiunto un tale livello di gravità che fra i “colletti blu” in America c’è un’epidemia di suicidi per disperazione, descritti in uno studio del 2014 firmato da Anne Case insieme ad Angus Deaton, Premio Nobel per l’Economia. «Vero è che gli Stati Uniti sono un incubo d’abbandono sociale dei deboli, dove il welfare quasi non esiste», ammette Barnard. In compenso, l’Europa si sta auto-sabotando con i tagli sanguinosi al suo welfare.«I criminosi limiti di spesa pubblica che l’Ue impone agli Stati membri – dice Barnard – escludono in via categorica che i vari schemi di Reddito di Cittadinanza abbiano un potere di fuoco sufficiente a evitare al nostro paese un’apartheid fra inclusi ed esclusi nella Disruption». In altre parole: «Finché Eurozona sarà – insiste il giornalista, rivolto ai lettori – il realismo mi costringe a dirvi che l’unica arma che rimane ai vostri figli per difendersi dal destino denunciato da Angus Deaton e Anne Case è una formazione solidissima ai nuovi lavori della Disruption (che non sono solo tecnologia)». Dunque il messaggio per genitori e ragazzi è chiarissimo: «La seconda ondata di digitalizzazione in corso oggi con la Disruption porta soprattutto con sé il pericolo di un enorme divario nei redditi, oltre a una sostanziale dose di lavori perduti». Per mettere al riparo i nostri figli, e i giovani già oggi al lavoro, secondo Barnard c’è una sola arma concreta: per i giovanissimi una formazione scolastica e universitaria più aggiornata possibile, che li presenti al mondo del lavoro come appetibili, e per i già impiegati l’impegno di Stato e aziende nella riqualificazione “a vita”. Il rischio fatale, per l’Italia del lavoro, è di rimanere tragicamente indietro: «Significherebbe un prossimo secolo di arretratezza e bassa economia per tutti i nostri giovani e per i loro figli». Nel 2016 il World Economic Forum lo disse senza mezzi termini: «Chi non si prepara affronterà costi sociali ed economici enormi».Attenzione: qualcosa di analogo a quanto sta per accadere (e di cui nessuno parla) è già avvenuto, nella storia. Per dare un’idea della dimensione planetaria del problema, Barnard cita lo scozzese James Watt: «Nel 1775 diede vita alla più dirompente Disruption della storia con l’invenzione della macchina a vapore». Fece morire di colpo i vecchi mestieri, ma al tempo stesso fece esplodere lo sviluppo sociale umano, il che significa benessere e quindi possibilità democratiche. Per 9.700 anni filati, scrive Barnard, le condizioni di vita del popolo comune «rimasero sostanzialmente identiche, a un livello abominevole, spesso peggio degli animali selvatici». Poi arrivò la Disruption di Watt – e delle scienze post-Galileo con l’elettromagnetismo di Faraday e di Maxwell – e in Occidente tutto cambiò di colpo, perché cambiò il lavoro, aumentarono i redditi e con essi la rivendicazione dei diritti. «E’ vero che la Disruption di allora si portò dietro una buona dose di lacrime e sangue prima di darci la modernità del benessere, che tuttavia furono nulla in confronto a 9.700 anni di standard di vita abietti oltre l’immaginabile. Ma l’altra faccia, gloriosa, di quell’esplosione tecnologica fu di fornire alle lotte sociali mezzi tecnologici di diffusione, e quindi di successo, impensabili prima, fino appunto alla moderna civiltà».Oggi, sottolinea Barnard, la Disruption delle nuove tecnologie digitali potenziate dall’Artificial Intelligence «sta scatenando un’altra storica impennata dell’umanità, che è però di molto superiore a quella di Watt per l’enorme potere tecnologico odierno. E di nuovo, tutto si gioca su come cambierà il lavoro: non chissà quando, ma entro il 2030». Demis Hassabis, Ceo di Google DeepMind (azienda che sta al centro della galassia “Ai”), ha detto: «Il nostro goal è di conquistare l’intelligenza, poi di usarla per risolvere tutti gli altri problemi». Macchine intelligenti, al posto di esseri umani. Ed enorme disparità tra chi resterà al passo e chi sarà tagliato fuori. Lo confermano gli studi delle maggiori “Consultancies” del mondo: Pwc Uk, Deloitte, McKinsey, Accenture. Tutti d’accordo, insieme agli accademici: almeno nella prima fase, la Disruption fondata sull’intelligenza artificiale (robotica, nuove tecnologie), falcerà milioni di posti di lavoro. Ma la stessa Disruption, spiega Barnard, offre possibilità di recupero nella riqualificazione, nell’aumento di richiesta per certe professioni e nel fatto che nasceranno lavori che oggi non esistono.Tutto dipende da due fattori decisivi: la velocità dei governi nel legiferare misure per cavalcare la Disruption, favorendo la nascita dei nuovi lavori, e l’intelligenza dei datori di lavoro «nel capire che l’epoca dell’egoismo del profitto è morta, gli porterà solo fallimenti certi». Il futuro digitale «impone intelligenza», il che significa «coordinamento fra aziende, e fra di esse e lo Stato». Di fatto, avverte Barnard, con la Disruption «oggi saltano le politiche di creazione di lavoro, in Occidente, che i nostri padri e noi abbiamo conosciuto finora». Problema: «I contemporanei di un fenomeno epocale di cambiamento faticano sempre a svegliarsi di fronte al nuovo, e questo si traduce in drammi». Per dire: «Quanti italiani oggi leggono i giornali al mattino cercando ansiosamente notizie sulle politiche del lavoro del ministro Di Maio per la Disruption? Nessuno. Eppure la leadership mondiale non ha più dubbi sul fatto che essa ribalterà, come mai prima nella storia, proprio l’occupazione di numeri impressionanti nel globo». Certo, i politici «hanno il vincolo del breve mandato e l’ossessione cieca del voto-subito entro il mandato, per cui non s’impegneranno mai in politiche e dibattiti che all’italiano medio sembrano fantascienza». Idem per i media: «Sanno che la Disruption è una news che oggi si può vendere agli italiani solo al 300esimo posto dopo la casta, la corruzione, il politici-ladri, gli immigrati, le polemiche Tv, e trattano il tema principalmente come folklore da futuristi. Risultato: non un singolo organo di stampa italiano sta davvero informando su come sarà stravolta l’economia, la politica e la fabbrica sociale di ogni paese moderno per mano della Disruption».E così si compie un circolo vizioso devastante per l’Italia, destinata ad arrancare come fanalino di coda «mentre Francia, Germania, Svezia, Svizzera, Gran Bretagna, Russia, Cina, Sud-Est Asiatico e ovviamente gli Usa si saranno già spartiti l’immensa torta del lavoro e del Pil da Disruption». Risultato: «I giovani italiani nel precariato, in preda alla disoccupazione e ancora disperatamente dipendenti da quel rivolo che gli rimane del risparmio di nonni e genitori degli anni 70’-90’», prigionieri di un paese sempre più confinato tra i “Pigs” con Portogallo, Grecia e Spagna – non più Piigs, annota Barnard, «perché invece l’Irlanda sta capendo e cavalcando la Disruption, è ha già preso il volo da quell’acronimo infame». Ma non è destino degli dèi che debba davvero andare così, aggiunge il giornalista: a sta a noi capire la Disruption per sapere come inciderà sul Pil e sull’occupazione. Ma non c’è tempo da perdere: «La velocità di sviluppo delle nuove tecnologie per il lavoro è talmente forsennata che è già stato calcolato che diversi “skills” – così si chiamano le competenze centrali per la Disruption – che vengono insegnati agli studenti oggi, tempo che gli studenti si presenteranno ai colloqui di lavoro in aziende saranno già obsoleti».In parole semplici: «Mentre tu studi intensamente un’applicazione di Machine Learning per l’edilizia, Machine Learning ne ha scovata una migliore, tu ti presenti al colloquio di lavoro e il datore se ne fa poco, di te». Scrive il Mit di Boston: le tecnologie cambiano i modelli di business e molto spesso questi si traducono in uno sconvolgimento simultaneo del set di “skills” che le aziende richiedono, e questo già oggi crea difficoltà nell’assumere personale. Velocità: «Sarà un problema enorme proprio sul mercato del lavoro dei giovani, e altrettanto enorme per eventuali programmi di apprendistato, che rischiano di diventare degli autogoal con sprechi di finanziamenti enormi», osserva Barnard. Attenzione, però: le stesse tecnologie di Big Data possono dare al governo «un inimmaginabile potere di efficiente governanace». La stessa “cloud” potrà essere usata da tutto il sistema produttivo italiano di beni e servizi in un dialogo diretto, in tempo reale, col ministero dell’istruzione. Pubblico e privato potrebbero scambiarsi informazioni istantanee su «come sta cambiando la natura degli “skills” dentro le aziende, gli ospedali e le varie istituzioni». Lo stesso Miur, come sollecitano gli esperti internazionali, «dovrà avere l’elasticità e la prontezza di riflessi di trasmettere immediatamente a scuola e università il messaggio dei datori di lavoro», per armonizzare domanda e offerta in base ai nuovi parametri in costante evoluzione.Fantascienza? Non ci sono alternative, par di capire. «Questo è il tipo di ambizioso progetto che un paese oggi deve essere in grado d’intraprendere se davvero è serio sulla difesa del lavoro», sostiene Barnard, auspucando «un salto innovativo, in linea con gli attori vincenti nella Disruption». Scrive McKinsey Global: «I governi devono totalmente riconsiderare i modelli scolastici odierni. La questione è urgente, e devono mostrare una leadership di grande coraggio nel riscrivere i curricula. E’ un’elasticità che da decenni il mondo del lavoro attende». Oggi, infatti, il “reskilling” è sulla bocca di tutti gli operatori economici. Per Barnard, a salvare il sistema-Italia sarà un “reskilling” (o “upskilling”) dei lavoratori, da condurre a vita, per ogni settore del Pil italiano. «Dovrà essere intelligente, il che significa innanzi tutto che va fatto in partnership con il settore privato dell’Italia, il quale deve saper dimostrare una “vision” ben oltre la sua tradizionale e provinciale parcellizzazione». Soprattutto, le tecnologie di Big Data «dovranno essere usate da governo e datori di lavoro per “better forecasting data and planning metrics”, cioè saper prevedere le svolte e pianificare con largo anticipo la richiesta dei talenti, su cui poi appunto lanciare in tutto il paese programmi di “reskilling” (o di “upskilling”) con chirurgica precisione».Dunque, secondo Barnard, l’Italia è alla storica sfida dell’occupazione nell’era della Disruption. «Il potere globale di quest’ultima è senza limiti, ma gli Stati possono governarla per tutelare l’impiego nella colossale tempesta dei cambiamenti». In questo sforzo, aggiunge, il governo deve comprendere un aspetto cruciale che distingue le tecnologie della Disruption: si dividono infatti in due rami, quelle di tipo Enabling e quelle di tipo Replacing. «La Disruption porterà sia una richiesta di lavori già esistenti riformulati in nuove versioni, che nuove professioni che oggi non esistono». In questo caso, nella versione Enabling, aprirà vasti bacini di posti di lavoro ma, al tempo stesso, spazzerà via schiere di mestieri perché le macchine “pensanti” li rimpiazzeranno (Replacing, appunto). Ne consegue una scelta politica di orizzonte: «E’ totalmente futile ed economicamente distruttivo continuare a spendere sia fondi pubblici che fondi privati (delle famiglie) per formare giovani, o per incoraggiare lavori, destinati alla categoria dove le tecnologie saranno di tipo Replacing, poiché significa destinare esseri umani a un suicidio lavorativo certo».Per Barnard, l’Italia dovrà quindi «investire massicciamente nell’adozione del maggior numero di tecnologie Enabling per ovvi motivi di creazione di lavoro», ma dovrà anche «essere scaltra nell’incoraggiare quelle che si adattano meglio alla struttura sociale, alla conformazione territoriale e produttiva del nostro paese». Un esempio concreto? «Siamo uno dei popoli più longevi del mondo, perciò la cura extra-ospedaliera dei nostri anziani arricchita dalle nuove tecnologie Enabling del settore è garanzia di creazione d’innumerevoli mansioni a ogni livello di complessità (settore del Personal Care). Sono mansioni che saranno utili a nuovi impieghi sia per i cittadini meno “skilled” che per gli specialisti. La medesima strategia va applicata alla nostra struttura architettonica, geografica, energetica, sempre per generare ampio impiego». Al problema della Disruption, in questi mesi, Barnard ha dedicato il massimo impegno, lavorando in solitudine, convinto che l’umanità sia ormai di fronte «al più dirompente cambiamento occupazionale dal 1775 a oggi», dai tempi della macchina a vapore. «Continuo a ripeterlo: le soluzioni a problemi sistemici devono essere sistemiche, il resto sono truffe vendute da politici cinici a un pubblico stupido, i cui figli poi piangeranno per generazioni».Il lavoro di oggi? Sparirà. E quello di domani sarà diverso, gestito in tandem con le macchine. Sta cambiando tutto alla velocità della luce, ma nessuno ce lo sta dicendo: né la politica, né i media, né tantomeno la scuola. Lo afferma Paolo Barnard, il reporter che – per primo, nel saggio “Il più grande crimine” – ricostruì la genesi dell’Ue e dell’Eurozona in termini di criminalità politica da parte dell’élite finanziaria neo-feudale, orientata al “genocidio economico” nel quale si dibatte l’Europa, Italia in primis. Riletto oggi, alla luce della rivoluzione copernicana già in atto nel mondo del lavoro, persino un abominio “golpista” come l’imposizione dell’euro fa quasi sorridere. Motivo: il futuro ci sta venendo addosso con una rapidità inimmaginabile. Più della metà dei mestieri attualmente svolti in Occidente diverranno obsoleti perché antieconomici: al posto di operai, funzionari e ingegneri ci saranno robot evolutissimi, macchine auto-apprendenti forgiate dal Machine Learning garantito da computer “quantistici”. Si chiama Tecnological Disruption, e secondo Barnard è un cambiamento «così potente da trasformare in breve tempo la vita umana sul pianeta Terra». Precedenti nella storia: «La scoperta del fuoco e quella dell’agricoltura, la matematica, la stampa, le macchine a vapore, l’elettricità».
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Niente bavaglio al web, Strasburgo boccia il piano Oettinger
Sventato, per il momento, il temutissimo “bavaglio” al web. L’aveva predisposto la commissione giuridica del Parlamento Europeo su input della Commissione Ue, in particolare del commissario Günther Oettinger, l’uomo che – all’indomani delle elezioni del 4 marzo – disse che sarebbero stati “i mercati” a insegnare a gli italiani come votare. In pratica: con il pretesto della revisione (necessaria) della tutela del copyright, ferma al 2001, l’Unione Europea avrebbe, di fatto, proibito la libera circolazione di contenuti, idee e immagini su Internet, mettendo a tacere blog e social. Ma il passaggio democratico cercato dalla Commissione – la validazione (peraltro non vincolante) del Parlamento Europeo – ha dato esito negativo: 318 i voti contrari e 278 i favorevoli, più 31 astenuti. Merito anche della tambureggiante opposizione scatenatasi proprio via web, a partire dall’allarme lanciato in Italia da Claudio Messora su “ByoBlu”: quasi un milione le firme raccolte in pochi giorni dalla petizione online su “Change.org”. «Oggi è un giorno importante, il segno tangibile che finalmente qualcosa sta cambiando anche a livello di Parlamento Europeo», afferma Luigi Di Maio il 5 luglio, a poche ore dal voto di Strasburgo.La seduta plenaria dell’Europarlamento, scrive il vicepremier grillino sul “Blog delle Stelle”, ha rigettato il mandato sul copyright al relatore Axel Voss, smontando l’impianto della direttiva-bavaglio. La proposta della Commissione Europea ritorna dunque al mittente, rimanendo lettera morta. Per Di Maio il segnale è chiaro: «Nessuno si deve permettere di silenziare la Rete e distruggere le incredibili potenzialità che offre in termini di libertà d’espressione e sviluppo economico». La direttiva avrebbe infatti costretto a ricorrere a speciali iter autorizzativi – anche a pagamento – per la semplice possibilità di inserire un link: procedura che avrebbe segnato in Europa la fine del web così come lo conosciamo, fondato sulla libera condivisione dei contenuti in tempo reale, attraverso la rete dei social media. «In ogni caso, anche qualora il testo fosse passato al vaglio di Strasburgo – avverte Di Maio – ci saremmo battuti in sede di Consiglio; a livello nazionale saremmo invece stati disposti a non recepirla». Lo disse subito, il leader dei 5 Stelle: se l’Ue dovesse malauguratamente adottare quella norma-vergogna, l’Italia eviterebbe di applicarla.«Voglio ringraziare tutti i nostri rappresentanti a Bruxelles e anche gli altri europarlamentari che hanno deciso di seguirci in questa battaglia per la libertà d’informazione», aggiunge lo stesso Di Maio. «Ora si apre una nuova battaglia: nella prossima plenaria si terrà infatti un dibattito politico e la possibilità di presentare emendamenti». Di Maio si dice sicuro che gli articoli più pericolosi della direttiva – l’11 e il 13 – verranno definitivamente rimossi. «Questa direttiva – spiega – riportava infatti due concetti inaccettabili: il primo prevedeva un diritto per i grandi editori di autorizzare o bloccare l’utilizzo digitale delle loro pubblicazioni introducendo anche una nuova remunerazione, la cosiddetta “link tax”, mentre il secondo imponeva alle società che danno accesso a grandi quantità di dati di adottare misure per controllare ex ante tutti i contenuti caricati dagli utenti». Assicura Di Maio: «Questo governo vigilerà affinché la libertà di Internet venga salvaguardata, senza scendere ad alcun compromesso e rifiutando ogni bavaglio».Sventato, per il momento, il temutissimo “bavaglio” al web. L’aveva predisposto la commissione giuridica del Parlamento Europeo su input della Commissione Ue, in particolare del commissario Günther Oettinger, l’uomo che – all’indomani delle elezioni del 4 marzo – disse che sarebbero stati “i mercati” a insegnare a gli italiani come votare. In pratica: con il pretesto della revisione (necessaria) della tutela del copyright, ferma al 2001, l’Unione Europea avrebbe, di fatto, proibito la libera circolazione di contenuti, idee e immagini su Internet, mettendo a tacere blog e social. Ma il passaggio democratico cercato dalla Commissione – la validazione (peraltro non vincolante) del Parlamento Europeo – ha dato esito negativo: 318 i voti contrari e 278 i favorevoli, più 31 astenuti. Merito anche della tambureggiante opposizione scatenatasi proprio via web, a partire dall’allarme lanciato in Italia da Claudio Messora su “ByoBlu”: quasi un milione le firme raccolte in pochi giorni dalla petizione online su “Change.org”. «Oggi è un giorno importante, il segno tangibile che finalmente qualcosa sta cambiando anche a livello di Parlamento Europeo», afferma Luigi Di Maio il 5 luglio, a poche ore dal voto di Strasburgo.
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Magaldi: massoni e democrazia, resa dei conti rivoluzionaria
«E speriamo che passi, all’Europarlamento, l’infame bavaglio del web promosso dal massone contro-iniziato Günther Oettinger: più forte sarà l’indignazione popolare contro questa oligarchia usurpatrice e più rovinoso e rapido sarà il suo crollo, dopo che tutti avranno finalmente aperto gli occhi». Parola del massone progressista Gioele Magaldi, pubblico smascheratore dell’élite neo-aristocratica cripto-massonica, subdola e occulta, che ha sequestrato la democrazia in Europa. «Se il Parlamento Europeo si macchierà di un simile misfatto avremo l’occasione, forse, per accelerare il processo di abbattimento di coloro che hanno fatto scempio del sogno europeo», dichiara Magaldi a “Colors Radio”, puntando l’indice contro le date, mai casuali, degli eventi-chiave dell’attualità europea. La “norma vergogna” contro la libertà delle Rete è attesa in aula per il 4 luglio, ricorrenza storica del celebre 1776, quando – con la dichiarazione d’indipendenza – le colonie americane si ribellarono al dispotismo della corona britannica. «Se venisse promulgata questa norma tutto sarebbe denudato e chiaro, l’attentato alla libertà di espressione sarebbe evidente e palese: con l’espediente della tutela del copyright, i provider potrebbero censurare preventivamente i contenuti web».Tanto peggio, tanto meglio: «L’eventuale approvazione di una norma così liberticida sarebbe l’inizio di una rivoluzione, contro questa infame gestione dell’Ue in senso antidemocratico». Autore del bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata”, che illumina i retroscena del potere svelando il ruolo di 36 Ur-Lodges sovranazionali nelle grandi decisioni sul futuro del pianeta, Magaldi ha offerto al pubblico un’inedita rilettura dell’evo contemporaneo: proprio attraverso le idee, gli uomini e le storiche decisioni delle superlogge, è possibile fare piena luce sui troppi lati fino a ieri oscuri di fenomeni altrimenti incomprensibili, dai tentati golpe del dopoguerra fino alle stragi di mafia, inclusa la morte di morte di Falcone e quella di Paolo Borsellino, per la quale ora la magistratura parla di clamorosi depistaggi. «Ne parlerò nel prossimo volume della serie “Massoni”, intitolato “Globalizzazione e massoneria”, in uscita tra meno di un anno», annuncia Magaldi, che spiega: «Sicuramente, certi segmenti contro-iniziatici della massoneria hanno gestito gli eventi criminosi che hanno insanguinato l’Italia e che oggi, in modo scontato, ci viene detto che hanno visto anche apparati dello Stato lavorare contro l’accertamento della verità, per il suo depistaggio e la sua manipolazione. Nel volume verrà spiegato chiaramente chi ha fatto cosa, e perché, con le stragi del ‘92 e gli attentati del ‘93».L’ex dirigente della polizia Arnaldo La Barbera? «Luci e ombre: è piena la storia di personaggi che magari hanno fatto opere luminose e poi sono stati lambiti o costretti a cooperare con quelle che potremmo definire “tenebre”». Ma attenzione, avverte Magaldi: oggi sta letteralmente cambiando il mondo, perché la massoneria progressista internazionale – che dormiva – si sta letteralmente svegliando. Sul banco degli imputati, Magaldi mette in primo luogo i massoni che definisce contro-iniziati, ovvero: soggetti che hanno ricevuto un’iniziazione al sapere esoterico, che hanno poi utilizzato contro gli obiettivi di progresso dell’umanità ai quali si era votata storicamente la massoneria illuministica del ‘700. «Mi auguro che costoro vadano dritti verso la loro autodistruzione», dichiara Magaldi, fiducioso nel fatto che la storia sarebbe a una svolta: «In tanti tornanti del globo, i nodi stanno finalmente venendo al pettine». La narrativa a cui Magaldi ha ormai abituato il suo pubblico ha il pregio della coerenza: uomini come Kissinger, Breziznki e Rockefeller hanno plasmato il secondo ‘900 in senso neo-aristocratico, sdoganando il più feroce neoliberismo per liquidare la democrazia, svuotandola, fino a dare vita a una visione neo-feudale della società, diretta in modo esclusivo – e spesso occulto – da oligarchie privatizzatrici che si pretendono “illuminate”.Lo si è visto, dice Magaldi, anche con il tentativo di Sergio Mattarella di ostacolare il governo Conte con lo strano veto su Paolo Savona all’economia. Un “niet” sostanzialmente imposto da Mario Draghi per il tramite del suo “confratello” Ignazio Visco, governatore di Bankitalia. La visione magaldiana propone un elenco sterminato di cripto-massoni di segno reazionario, a cominciare da Napolitano e Monti, ispiratori della linea dell’euro-rigore proseguita da Letta, Renzi e Gentiloni, ora costata l’agonia elettorale del Pd. Tutto si tiene, sottolinea Magaldi: non è un caso che oggi la grande finanza Usa abbia “smontato” il fantasma dello spread per proteggere il governo Conte, né è casuale la tempistica con cui Trump – alla vigilia del G7, con l’Italia gialloverde osservata speciale – abbia fatto calare, sulla Germania della Merkel, la spada di Damocle dei dazi sull’acciaio. Trump, osserva Magaldi, è accreditato come conservatore, ma ha frequentato a lungo i democratici. E’ certamente un “cavallo pazzo”, capace comunque di cantare fuori dal coro: «In modo anche spregiudicato – dice Magaldi, ai microfoni di David Gramiccioli – la massoneria progressista lo ha appoggiato proprio perché rompesse gli schemi: e infatti sta rompendo le uova nel paniere di questa globalizzazione, a tanti livelli», anche appoggiando in modo evidente lo stesso governo Conte, individuato come leva fondamentale per abbattere l’ordoliberismo franco-tedesco che ha ridotto l’Europa a un “malato” in crisi perenne.«Gli aspetti apparentemente caotici di questa globalizzazione – spiega Magaldi – erano parte di un disegno: una globalizzazione post-democratica, lontana dal diffondere diritti sociali ed economici, oltre che civili». Di fronte a questo, «dopo tanti anni di egemonia di circuiti massonici neo-aristocratici, antidemocratici e post-democratici, c’è un contrattacco piuttosto gagliardo da parte di forze massoniche democratico-progressiste». La tesi di Magaldi è nota: di massoneria, in Italia, si parla solo in termini negativi per sanzionare (giustamente) gli abusi di piccole logge locali, mentre il mainstream – ipocrita e reticente – evita sempre di menzionare l’unica massoneria che conta, quella sovranazionale. Anche per questo, probabilmente, giornali e televisioni non riescono a “vedere” l’azione prospettica di Trump: «Naturalmente non è un campione di progressismo, ma è un prezioso elemento di rottura: da lui si potrà partire per la ricostruzione di un mondo più democratico, eliminando tutti i finti progressisti dell’Occidente, a cominciare da quelli di casa nostra, giustamente sconfitti dalla Lega di Salvini e dai 5 Stelle».Smontare l’ipocrisia finto-progressista: in questo, Trump e Salvini “funzionano” nello stesso modo. E non è un caso che siano bersagliati da «pretestuose campagne di odio, basate sulla disinformazione sistematica». Il governo gialloverde? «La massoneria progressista lo appoggia e si aspetta molto dall’esecutivo Conte, peraltro affollato di massoni progressisti», nonostante il divieto di facciata opposto ai “grembiulini” da Di Maio, «che prima delle elezioni aveva bussato ai circuiti massonici neo-aristocratici». Se non altro, vista l’identità di chi lo appoggia – in Italia e altrove – Magaldi si augura che Di Maio, nel caso, si rivolga in futuro a “circoli” di segno opposto, «quando avesse maturato una preparazione esoterica che oggi non ha». Quanto all’altro famoso “bussante”, Matteo Renzi, Magaldi lo definisce «un prodotto massonico, nella misura in cui ha rappresentato una continuità rispetto al “golpe bianco”, massonico, che ha insediato Mario Monti a Palazzo Chigi nel 2011». La verità è che da Monti a Letta, da Renzi a Gentiloni «non è cambiato nulla, nella gestione della politica e dell’economia italiana». Renzi? Messo alla porta dai massoni reazionari ai quali si era rivolto, «ha fatto “l’utile idiota” al servizio di una sceneggiatura che lui non aveva scritto, ma che ha interpretato, per poi uscirsene con la coda tra le gambe dopo aver fatto il suo compitino».Perché è stato scartato, l’ex leader del Pd, dal sancta sanctorum della destra finanziaria mondiale? «Per la sua impreparazione esoterica, per la sua enorme inaffidabilità e anche per la facile previsione che non sarebbe durato a lungo, un personaggio “transeunte” come lui». Ai dominus della supermassoneria neo-aristocratica, dice Magaldi, «è bastato dare uno sguardo ai suoi astri, che descrivono in fondo la panoramica della sua anima e del suo destino tendenziale (che l’iniziato, conoscendolo, può anche modificare)». Non è certo questione di fede: il fatto è che «in quegli ambienti si dà molta importanza all’astrologia, tant’è vero che gli stessi grandi manager delle maggiori multinazionali vengono scelti anche sulla base dei loro oroscopi, così come alcuni frontman della politica». Renzi? «La sua era solo spocchia, priva di un impegno reale sul piano esoterico». E gli aspiranti successori dell’ex rottamatore? «Rischiano di restare prigionieri dello stesso equivoco, se non avranno il coraggio di una rigenerazione sincera e non gattopardesca», sostiene Magaldi: «Devono prima ammettere, fino in fondo, di essere stati solo dei finti progressisti: per tutta la Seconda Repubblica hanno dimenticato i diritti sociali, abbandonando il popolo che aveva risposto fiducia in loro».«E speriamo che passi, all’Europarlamento, l’infame bavaglio del web promosso dal massone contro-iniziato Günther Oettinger: più forte sarà l’indignazione popolare contro questa oligarchia usurpatrice e più rovinoso e rapido sarà il suo crollo, dopo che tutti avranno finalmente aperto gli occhi». Parola del massone progressista Gioele Magaldi, pubblico smascheratore dell’élite neo-aristocratica cripto-massonica, subdola e occulta, che ha sequestrato la democrazia in Europa. «Se il Parlamento Europeo si macchierà di un simile misfatto avremo l’occasione, forse, per accelerare il processo di abbattimento di coloro che hanno fatto scempio del sogno europeo», dichiara Magaldi a “Colors Radio”, puntando l’indice contro le date, mai casuali, degli eventi-chiave dell’attualità europea. La “norma vergogna” contro la libertà delle Rete è attesa in aula per il 4 luglio, ricorrenza storica del celebre 1776, quando – con la dichiarazione d’indipendenza – le colonie americane si ribellarono al dispotismo della corona britannica. «Se venisse promulgata questa norma tutto sarebbe denudato e chiaro, l’attentato alla libertà di espressione sarebbe evidente e palese: con l’espediente della tutela del copyright, i provider potrebbero censurare preventivamente i contenuti web».
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Di Maio: niente bavaglio al web, l’Italia si opporrà all’Ue
Sono contento che dopo anni di battaglie oggi ci sia un consenso pressoché unanime nell’affermare che lo sviluppo di Internet, della banda larga, l’accesso alla Rete per tutti e la velocità con cui i cittadini possono operare sul web, sia diventata una cosa scontata. Direi uno dei diritti inalienabili dei cittadini. Tuttavia, ancora oggi e lo voglio dire in questa occasione, la Rete sta correndo un grave pericolo. E il pericolo arriva direttamente dall’Europa e si chiama riforma del copyright. La scorsa settimana è passata una linea che maturava dopo almeno due anni di contrattazioni. Una linea controversa, proposta inizialmente dalla Commissione Europea, che riporta due articoli che potrebbero mettere il bavaglio alla Rete così come noi oggi la conosciamo. Il primo prevede un diritto per gli editori, i grandi editori di giornali, di autorizzare o bloccare l’utilizzo digitale delle loro pubblicazioni introducendo anche una nuova remunerazione per l’editore, la cosiddetta link tax. In poche parole quando noi condividiamo un articolo ed escono quelle tre o quattro righe al di sotto del link, ecco quelle tre o quattro righe verrebbero tassate. Dicono pure che sia un modo per migliorare la qualità dell’informazione.L’Europa dovrebbe puntare sulla cultura e sull’istruzione, per fare in modo che i suoi cittadini capiscano cos’è una fake news; invece preferisce inondare di nuove tasse perfino le tre righe che escono quando condividiamo un articolo o un’informazione in generale. Il secondo articolo è perfino più pericoloso del primo, perché impone alle società che danno accesso a grandi quantità di dati di adottare misure per controllare ex ante tutti i contenuti caricati dagli utenti. Praticamente, qualunque cosa venga caricata che abbia anche solo una parvenza di ledere il diritto d’autore, e con questo mi riferisco a qualsiasi immagine per esempio, e sottolineo qualsiasi, potrebbe essere bloccata da una piattaforma privata. Praticamente deleghiamo a delle multinazionali – e neanche loro credo lo vogliano – che spesso nemmeno sono europee, il potere di decidere cosa debba essere o meno pubblicato. Cosa è giusto o sbagliato. Cosa i cittadini devono sapere e cosa non devono sapere. Se non è un bavaglio questo ditemi voi cos’è un bavaglio. E pensiamo anche alle piccole e medie imprese di questo settore, che non avranno mai la potenza economica per affidarsi ad un algoritmo che decide cosa è giusto e cosa è sbagliato.Quindi mentre si parla di dati statistici che ci vedono occupare la 25a posizione nella classifica dei 28 Stati membri dell’Unione Europea in merito ai progressi del settore digitale. Mentre il quadro sull’utilizzo delle tecnologie Ict da parte di cittadini e imprese mostra un impiego sempre più diffuso ed evoluto di queste tecnologie nelle attività economiche e nella vita quotidiana, l’Unione Europea ha preparato un bavaglio per limitare la libertà d’espressione dei cittadini. È inaccettabile. E come governo ci opporremo. Faremo tutto quello che è in nostro potere per contrastare la direttiva al Parlamento Europeo e, qualora dovesse passare così com’è, dovremo fare una seria riflessione a livello nazionale sulla possibilità o meno di recepirla. Perché Internet dev’essere mantenuto libero, indipendente, al servizio dei cittadini. Nessuno può permettersi di fare azioni di censura preventiva, nemmeno se quel qualcuno si chiama Commissione Europea. Questo provvedimento, contro il buon senso, ci riporterebbe indietro di vent’anni e consentirebbe di concentrare il potere nelle mani di poche persone, di poche piattaforme e di poche multinazionali.Questa direttiva è la plastica dimostrazione che qualcosa in quei palazzi, e mi riferisco al Parlamento Europeo in questo caso, c’è qualcosa che non funziona. E questo qualcosa è una città intera di lobbisti che si muovono all’interno delle istituzioni comunitarie senza l’obbligo di dire cosa fanno, chi rappresentano, con chi parlano, quanto guadagnano e da chi sono pagati. Intendo una città intera di lobbisti che influenza il processo decisionale non a caso, perché stiamo parlando di almeno 30mila lobbisti che ogni giorno entrano in quei palazzi. Non hanno l’obbligo di dichiarare qual è il loro mestiere e possono facoltativamente iscriversi ad un “registro di trasparenza”. Viene sollecitata sin dal 2008 la creazione di un registro obbligatorio per i rappresentanti d’interessi specifici attivi nelle istituzioni dell’Ue, sottolineando come solo uno strumento simile assicurerebbe il pieno rispetto da parte di quest’ultimi del loro codice di condotta. Stranamente non se n’è mai fatto nulla. Il governo italiano non può accettare passivamente un provvedimento studiato e preparato a tavolino dalle lobby dei grandi editori multimiliardari che spostano e occultano il diritto all’informazione. Non è bastato lo scandalo di Cambridge Analityca per fare capire a questi signori che il potere non deve essere accentrato nelle mai di pochi, ma condiviso con i cittadini.(Luigi Di Maio, estratto del post “Salviamo la Rete dal bavaglio europeo: #NoLinkTax”, pubblicato sul “Blog delle Stelle” il 29 giugno 2018).Sono contento che dopo anni di battaglie oggi ci sia un consenso pressoché unanime nell’affermare che lo sviluppo di Internet, della banda larga, l’accesso alla Rete per tutti e la velocità con cui i cittadini possono operare sul web, sia diventata una cosa scontata. Direi uno dei diritti inalienabili dei cittadini. Tuttavia, ancora oggi e lo voglio dire in questa occasione, la Rete sta correndo un grave pericolo. E il pericolo arriva direttamente dall’Europa e si chiama riforma del copyright. La scorsa settimana è passata una linea che maturava dopo almeno due anni di contrattazioni. Una linea controversa, proposta inizialmente dalla Commissione Europea, che riporta due articoli che potrebbero mettere il bavaglio alla Rete così come noi oggi la conosciamo. Il primo prevede un diritto per gli editori, i grandi editori di giornali, di autorizzare o bloccare l’utilizzo digitale delle loro pubblicazioni introducendo anche una nuova remunerazione per l’editore, la cosiddetta link tax. In poche parole quando noi condividiamo un articolo ed escono quelle tre o quattro righe al di sotto del link, ecco quelle tre o quattro righe verrebbero tassate. Dicono pure che sia un modo per migliorare la qualità dell’informazione.