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Israele, uno Stato inventato (a insaputa degli ebrei)
La guerra, che continua ininterrottamente da 66 anni in Palestina, ha conosciuto una nuova svolta con le operazioni israeliane “Guardiani dei nostri fratelli”, e poi “Roccia inamovibile” (stranamente tradotta dalla stampa occidentale con l’espressione “Margine protettivo”). Chiaramente, Tel Aviv – che aveva scelto di strumentalizzare la scomparsa di tre giovani israeliani per lanciare queste operazioni e «sradicare Hamas» al fine di sfruttare il gas naturale di Gaza, secondo il piano enunciato nel 2007 dall’attuale ministro della difesa – è stata spiazzata dalla reazione della Resistenza. Il Jihad islamico ha risposto inviando razzi di media gittata molto difficili da intercettare, che si aggiungono a quelli lanciati da Hamas. La violenza degli eventi che hanno già ucciso oltre 1.500 palestinesi e 62 israeliani (ma le cifre israeliane sono soggette a censura militare e sono probabilmente minimizzate) ha sollevato un’ondata di proteste in tutto il mondo.Oltre ai 15 membri del Consiglio di Sicurezza, riunitosi il 22 luglio, l’Onu ha dato la parola ad altri 40 Stati che intendevano esprimere il loro sdegno per il comportamento di Tel Aviv e la sua «cultura dell’impunità». La sessione, anziché durare le solite 2 ore, si è protratta per 9 ore. Simbolicamente, la Bolivia ha dichiarato Israele uno «Stato terrorista» e ha abrogato l’accordo sulla libera circolazione che lo riguardava. Ma in generale, le dichiarazioni di protesta non sono state seguite da un aiuto militare, ad eccezione di quelle dell’Iran e simbolicamente della Siria. Entrambi sostengono la popolazione palestinese attraverso il Jihad islamico, l’ala militare di Hamas (ma non la sua ala politica, membro dei Fratelli Musulmani), e tramite il Fplp-Cg.A differenza dei casi precedenti (operazioni “Piombo fuso” nel 2008 e “Colonna di nuvola” nel 2012), i due Stati che proteggono Israele presso il Consiglio (Stati Uniti e Regno Unito) hanno favorito l’elaborazione di una dichiarazione del presidente del Consiglio di Sicurezza che sottolineava gli obblighi umanitari di Israele. In realtà, al di là della questione di fondo di un conflitto che dura dal 1948, si assiste a un consenso per condannare almeno il ricorso da parte di Israele di un uso sproporzionato della forza. Tuttavia, questo consenso apparente maschera analisi assai diverse: alcuni autori interpretano il conflitto come una guerra di religione tra ebrei e musulmani; altri lo vedono al contrario come una guerra politica secondo uno schema coloniale classico. Che cosa dobbiamo pensarne?SIONISMO Che cos’è il sionismo? A metà del XVII secolo, i calvinisti britannici si riunirono intorno a Oliver Cromwell e rimisero in questione la fede e la gerarchia del regime. Dopo aver rovesciato la monarchia anglicana, il “Lord Protettore” pretese di consentire al popolo inglese di raggiungere la purezza morale necessaria ad attraversare una tribolazione di sette anni, dare il benvenuto al ritorno del Cristo e vivere in pace con lui per mille anni (il “Millennium”). Per far ciò, secondo la sua interpretazione della Bibbia, gli ebrei dovevano essere dispersi fino agli estremi confini della terra, poi raggruppati in Palestina, dove ricostruire il tempio di Salomone. Su questa base, instaurò un regime puritano, levò nel 1656 il divieto che era stato fatto agli ebrei di stabilirsi in Inghilterra e annunciò che il suo paese s’impegnava a creare in Palestina lo Stato di Israele.Poiché la setta di Cromwell fu a sua volta rovesciata alla fine della “Prima Guerra civile inglese”, i suoi sostenitori uccisi o esiliati, e poiché la monarchia anglicana fu restaurata, il sionismo (cioè il progetto della creazione di uno Stato per gli ebrei) fu abbandonato. Riapparve nel XVIII secolo con la “Seconda guerra civile inglese” (secondo il nome dei manuali di storia delle scuole secondarie nel Regno Unito) che il resto del mondo conosce come la “Guerra d’Indipendenza degli Stati Uniti” (1775-1783). Contrariamente alla credenza popolare, essa non fu intrapresa in nome degli ideali dell’Illuminismo che animarono pochi anni dopo la Rivoluzione Francese, ma fu finanziata dal re di Francia e condotta per motivi religiosi al grido di «Il nostro re è Gesù!». George Washington, Thomas Jefferson e Benjamin Franklin, per citarne alcuni, si sono presentati come i successori dei sostenitori esiliati di Oliver Cromwell. Gli Stati Uniti hanno dunque logicamente ripreso il suo progetto sionista.Nel 1868, in Inghilterra, la regina Victoria nominò primo ministro l’ebreo Benjamin Disraeli. Questi propose di concedere una parte di democrazia ai discendenti dei sostenitori di Cromwell, in modo da poter contare su tutto il popolo per estendere il potere della Corona nel mondo. Soprattutto, propose di allearsi alla diaspora ebraica per condurre una politica imperialista di cui essa sarebbe stata l’avanguardia. Nel 1878, fece iscrivere «la restaurazione di Israele» all’ordine del giorno del Congresso di Berlino sulla nuova spartizione del mondo. È su questa base sionista che il Regno Unito ristabilì i suoi buoni rapporti con le sue ex colonie, divenute nel frattempo gli Stati Uniti alla fine della “Terza guerra civile inglese” – nota negli Stati Uniti come la “guerra civile americana” e nell’Europa continentale come la “guerra di Secessione” (1861-1865) – che vide la vittoria dei successori dei sostenitori del Cromwell, gli Wasp (White Anglo-Saxon Puritans). Anche in questo caso, è del tutto sbagliato che si presenti questo conflitto come una lotta contro la schiavitù, intanto che cinque stati del nord la praticavano ancora.Fino quasi alla fine del XIX secolo, il sionismo è solo un progetto puritano anglo-sassone al quale solo un’élite ebraica aderisce. È fortemente condannato dai rabbini che interpretano la Torah come un’allegoria e non come un piano politico. Tra le conseguenze attuali di questi fatti storici, dobbiamo ammettere che se il sionismo mira alla creazione di uno Stato per gli ebrei, è anche il fondamento degli Stati Uniti. Pertanto, la questione se le decisioni politiche d’insieme siano prese a Washington o a Tel Aviv ha solo interesse relativo. È la stessa ideologia ad essere al potere in entrambi i paesi. Inoltre, poiché il sionismo ha permesso la riconciliazione tra Londra e Washington, il fatto di sfidarlo significa affrontare questa alleanza, la più potente del mondo.POPOLO EBRAICO L’adesione del popolo ebraico al sionismo anglosassone. Nella storia ufficiale attuale, è consuetudine ignorare il periodo dal XVII al XIX secolo e presentare Theodor Herzl come il fondatore del sionismo. Tuttavia, secondo le pubblicazioni interne dell’Organizzazione Sionista Mondiale, anche questo punto è falso. Il vero fondatore del sionismo contemporaneo non era ebreo, bensì cristiano dispenzionalista. Il reverendo William E. Blackstone era un predicatore americano per il quale i veri cristiani non avrebbero dovuto partecipare alle prove della fine del tempo. Basava l’insegnamento su coloro che sarebbero stati elevati al cielo durante la battaglia finale (il “rapimento della Chiesa”, in inglese “the rapture”). Nella sua visione, gli ebrei avrebbero combattuto questa battaglia e ne sarebbero usciti allo stesso tempo convertiti a Cristo e vittoriosi.È la teologia del reverendo Blackstone che è servita da base per il sostegno immancabile di Washington alla creazione di Israele. E questo, molto prima che l’Aipac (la lobby pro-Israele) venisse creata e prendesse il controllo del Congresso. In realtà, il potere della lobby non risiede tanto nel suo denaro e la sua capacità di finanziare le campagne elettorali, quanto in questa ideologia ancora presente negli Stati Uniti. La teologia del rapimento, per quanto stupida possa sembrare, è oggi molto potente negli Stati Uniti. Rappresenta un fenomeno nel mercato dei libri e nel cinema (si veda il film “Left Behind”, con Nicolas Cage, che uscirà ad ottobre). Theodor Herzl era un ammiratore del magnate dei diamanti Cecil Rhodes, teorico dell’imperialismo britannico e fondatore del Sudafrica, della Rhodesia (cui diede il suo nome) e dello Zambia (ex Rhodesia del Nord).Herzl non era israelita praticante né aveva circonciso suo figlio. Ateo come molti borghesi europei del suo tempo, si batté all’inizio per assimilare gli ebrei convertendoli al cristianesimo. Tuttavia, riprendendo la teoria di Benjamin Disraeli, giunse alla conclusione che la soluzione migliore fosse quella di farli partecipare al colonialismo britannico creando uno Stato ebraico, collocato nell’attuale Uganda o in Argentina. Seguì l’esempio di Rhodes nella maniera di acquistare terreni e di costruire l’Agenzia Ebraica. Blackstone riuscì a convincere Herzl a unire le preoccupazioni dei dispenzionalisti a quelle dei colonialisti. Era sufficiente per tutto questo considerare di stabilire Israele in Palestina e di moltiplicare i riferimenti biblici. Grazie a questa idea assai semplice, giunsero a far aderire la maggioranza degli ebrei europei al loro progetto. Oggi Herzl è sepolto in Israele (sul monte Herzl) e lo Stato ha posto nella sua bara la Bibbia annotata che Blackstone gli aveva offerto.Il sionismo non ha dunque mai avuto come obiettivo quello di «salvare il popolo ebraico dandogli una patria», bensì quello di far trionfare l’imperialismo anglosassone associandovi gli ebrei. Inoltre, non solo il sionismo non è un prodotto della cultura ebraica, ma la maggior parte dei sionisti non è mai stata ebrea, mentre la maggioranza dei sionisti ebrei non sono israeliti dal punto di vista religioso. I riferimenti biblici, onnipresenti nel discorso pubblico israeliano, rispecchiano il pensiero solo della parte credente del paese e sono destinati principalmente a convincere la popolazione statunitense.IL PATTO Il patto anglosassone per la creazione di Israele in Palestina. La decisione di creare uno Stato ebraico in Palestina è stata presa congiuntamente dai governi britannico e statunitense. È stata negoziata dal primo giudice ebreo della Corte Suprema degli Stati Uniti, Louis Brandeis, sotto gli auspici del reverendo Blackstone, e fu approvata sia dal presidente Woodrow Wilson sia dal primo ministro David Lloyd George, sulla scia degli accordi franco-britannici Sykes-Picot sulla spartizione del “Vicino Oriente”. Questo accordo fu progressivamente reso pubblico. Il futuro Segretario di Stato per le Colonie, Leo Amery, ebbe l’incarico di inquadrare gli anziani del “Corpo dei mulattieri di Sion” per creare, con i due agenti britannici Ze’ev Jabotinsky e Chaim Weizmann, la “Legione ebraica” in seno all’esercito britannico. Il ministro degli esteri Lord Balfour inviò una lettera aperta a Lord Walter Rothschild per impegnarsi a creare un «focolare nazionale ebraico» in Palestina (2 novembre 1917). Il presidente Wilson annoverò tra i suoi obiettivi di guerra ufficiali (il 12° dei 14 punti presentati al Congresso l’8 gennaio 1918) la creazione di Israele.Pertanto, la decisione di creare Israele non ha nulla a che fare con la distruzione degli ebrei d’Europa sopravvenuta due decenni più tardi, durante la Seconda Guerra Mondiale. Durante la Conferenza di pace di Parigi, l’emiro Faisal (figlio dello Sharif della Mecca e futuro re dell’Iraq britannico) firmò, in data 3 gennaio 1919, un accordo con l’Organizzazione Sionista, impegnandosi a sostenere la decisione anglosassone. La creazione dello Stato di Israele, realizzata contro la popolazione della Palestina, era quindi fatta anche con l’accordo dei monarchi arabi. Inoltre, all’epoca, lo Sharif della Mecca, Hussein bin Ali, non interpretava il Corano alla maniera di Hamas. Non pensava che «una terra musulmana non può essere governata da non-musulmani»ISRAELE La creazione giuridica dello Stato d’Israele. Nel maggio 1942, le organizzazioni sioniste tennero il loro congresso al Biltmore Hotel di New York. I partecipanti decisero di trasformare il «focolare nazionale ebraico» della Palestina in «Commonwealth ebraico» (riferendosi al Commonwealth con cui Cromwell aveva brevemente sostituito la monarchia britannica) e di autorizzare l’immigrazione di massa degli ebrei verso la Palestina. In un documento segreto, venivano precisati tre obiettivi: «(1) lo Stato ebraico avrebbe abbracciato l’intera Palestina e probabilmente la Transgiordania; (2) il trasferimento delle popolazioni arabe in Iraq; (3) la presa in mano da parte degli ebrei dei settori dello sviluppo e del controllo dell’economia in tutto il Medio Oriente». Quasi tutti i partecipanti ignoravano allora che la «soluzione finale della questione ebraica» (die Endlösung der Judenfrage) aveva appena preso inizio segretamente in Europa.In definitiva, mentre i britannici non sapevano più come soddisfare sia gli ebrei sia gli arabi, le Nazioni Unite (che a quel tempo annoveravano appena 46 Stati membri) proposero un piano per spartire la Palestina a partire dalle indicazioni che gli fornirono i britannici. Uno Stato bi-nazionale doveva essere creato, comprendente uno Stato ebraico, uno Stato arabo e una zona soggetta a un “regime internazionale speciale” per amministrare i luoghi santi (Gerusalemme e Betlemme). Questo progetto fu adottato attraverso la risoluzione 181 dell’Assemblea Generale. Senza attendere il seguito dei negoziati, il presidente dell’Agenzia Ebraica, David Ben Gurion, proclamò unilateralmente lo Stato di Israele, subito riconosciuto dagli Stati Uniti. Gli arabi del territorio israeliano furono sottoposti alla legge marziale, i loro movimenti furono limitati, i loro passaporti confiscati. I paesi arabi di recente indipendenza intervennero. Ma senza eserciti ancora costituiti, furono rapidamente sconfitti. Durante questa guerra, Israele procedette a una pulizia etnica e costrinse almeno 700.000 arabi a fuggire.L’Onu inviò un mediatore, il conte Folke Bernadotte, un diplomatico svedese che aveva salvato migliaia di ebrei durante la guerra. Constatò che i dati demografici trasmessi dalle autorità britanniche erano falsi e pretese la piena attuazione del piano di spartizione della Palestina. Al dunque, la risoluzione 181 implica il ritorno dei 700.000 arabi espulsi, la creazione di uno Stato arabo e l’internazionalizzazione di Gerusalemme. L’inviato speciale delle Nazioni Unite fu assassinato, il 17 settembre 1948, su ordine del futuro primo ministro Yitzhak Shamir. Furibonda, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la risoluzione 194, che riafferma i principi della risoluzione 181 e, inoltre, proclama il diritto inalienabile dei palestinesi a tornare alle loro case e ad essere risarciti per il danno che avevano appena subito. Tuttavia, poiché Israele aveva arrestato gli assassini di Bernadotte, e poi li processò e condannò, fu accolto in seno all’Onu con la promessa di onorare le risoluzioni. Ma erano nient’altro che bugie. Subito dopo gli assassini furono graziati e lo sparatore divenne la guardia del corpo personale del primo ministro David Ben Gurion.Fin dalla sua adesione all’Onu, Israele non ha mai smesso di violare le risoluzioni che si sono accumulate all’Assemblea Generale e al Consiglio di Sicurezza. I suoi legami organici con due membri del Consiglio che dispongono del diritto di veto lo hanno collocato di fuori del diritto internazionale. È diventato uno Stato off-shore che permette agli Stati Uniti e al Regno Unito di fingere di rispettare anche loro il diritto internazionale, mentre lo violano dietro questo pseudo-Stato. È assolutamente sbagliato ritenere che il problema posto da Israele riguardi solo il Medio Oriente. Oggi Israele agisce militarmente in tutto il mondo a copertura dell’imperialismo anglosassone. In America Latina, ci furono agenti israeliani che organizzarono la repressione durante il colpo di stato contro Hugo Chávez (2002) o il rovesciamento di Manuel Zelaya (2009). In Africa, erano ovunque presenti durante la guerra dei Grandi Laghi e hanno organizzato l’arresto di Muammar el-Gheddafi. In Asia, hanno condotto l’assalto e il massacro delle Tigri Tamil (2009), ecc. Ogni volta, Londra e Washington giurano che non c’entrano per nulla. Inoltre, Israele controlla numerose istituzioni mediatiche e finanziarie (come la Federal Reserve statunitense).IMPERIALISMO La lotta contro l’imperialismo. Fino alla dissoluzione dell’Urss, era evidente a tutti che la questione israeliana scaturisse dalla lotta contro l’imperialismo. I palestinesi erano sostenuti da tutti gli anti-imperialisti del mondo – perfino dai membri dell’Armata Rossa giapponese – che venivano a combattere al loro fianco. Oggi, la globalizzazione della società dei consumi e la perdita di valori che ne è seguita hanno fatto perdere coscienza del carattere coloniale dello Stato ebraico. Solo arabi e musulmani si sentono coinvolti. Essi mostrano empatia per la condizione dei palestinesi, ma ignorano i crimini israeliani nel resto del mondo e non reagiscono ad altri crimini imperialisti. Tuttavia, nel 1979, l’ayatollah Ruhollah Khomeini spiegò ai suoi fedeli iraniani che Israele era solo una bambola nelle mani degli imperialisti e che l’unico vero nemico era l’alleanza degli Stati Uniti e del Regno Unito. Per il fatto di affermare questa semplice verità, Khomeini fu caricaturizzato in Occidente e gli sciiti furono presentati come eretici in Oriente. Oggi l’Iran è l’unico paese al mondo ad inviare grandi quantità di armi e consiglieri per aiutare la Resistenza palestinese, mentre i regimi sionisti arabi se ne stanno a discutere amabilmente in videoconferenza con il presidente israeliano durante le riunioni del Consiglio di sicurezza del Golfo.(Thierry Meyssan, “Chi è il nemico?”, articolo apparso il 3 agosto 2014 su diversi giornali internazionali e tradotto da “Megachip”).La guerra, che continua ininterrottamente da 66 anni in Palestina, ha conosciuto una nuova svolta con le operazioni israeliane “Guardiani dei nostri fratelli”, e poi “Roccia inamovibile” (stranamente tradotta dalla stampa occidentale con l’espressione “Margine protettivo”). Chiaramente, Tel Aviv – che aveva scelto di strumentalizzare la scomparsa di tre giovani israeliani per lanciare queste operazioni e «sradicare Hamas» al fine di sfruttare il gas naturale di Gaza, secondo il piano enunciato nel 2007 dall’attuale ministro della difesa – è stata spiazzata dalla reazione della Resistenza. Il Jihad islamico ha risposto inviando razzi di media gittata molto difficili da intercettare, che si aggiungono a quelli lanciati da Hamas. La violenza degli eventi che hanno già ucciso oltre 1.500 palestinesi e 62 israeliani (ma le cifre israeliane sono soggette a censura militare e sono probabilmente minimizzate) ha sollevato un’ondata di proteste in tutto il mondo.
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L’immenso tesoro del Papa e il custode venuto da Sydney
Lingotti e monete d’oro, banconote di ogni valuta, proprietà immobiliari sterminate: ricchezza accumulata nei secoli da preti, vescovi e cardinali, fino ad assumere proporzioni bibliche. Spulciando una relazione segreta della Cosea, la dissolta Commissione referente sull’organizzazione della struttura economica del Vaticano, “L’Espresso” scopre ad esempio che «le varie istituzioni vaticane gestiscono i propri asset e quelli di terzi a un valore dichiarato di 9-10 miliardi di euro, di cui 8-9 miliardi in titoli e uno di immobiliare». Leggendo il bilancio (mai pubblicato) dell’Apsa, l’ente che amministra il patrimonio della sede apostolica, insieme ad alcune note confidenziali firmate dal neo-presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, «si capisce che parte importante del tesoro è nascosto proprio all’Apsa, che a differenza dello Ior non ha mai reso noti i suoi conti». Dopo che uno dei suoi contabili, monsignor Nunzio Scarano, è stato arrestato per riciclaggio, corruzione e truffa, Papa Bergoglio ha deciso di mettere il naso anche lì.“L’Espresso” ha trovato anche spese e ricavi di decine di enti pubblicati nel 2013: dalla Segreteria di Stato alle nunziature estere, passando per Radio Vaticana e il Governatorato. E’ evidente, scrive Emiliano Fittipaldi in un reportage ripreso da “Micromega”, che «le spese della curia (case, segretari, viaggi, sicurezza, rappresentanza) sono ancora senza controllo». A Place Vendôme, nel centro di Parigi, una società francese controllata dall’Apsa possiede alcuni tra i più prestigiosi immobili della zona. «La Sopridex Sa ha avuto inquilini famosi (come François Mitterrand) e oggi ha attività iscritte a bilancio che arrivano a 46,8 milioni di euro». Tra i dipendenti, anche «la bellezza di 16 portieri». Ma l’Apsa, continua “L’Espresso”, controlla anche 10 società svizzere, «tra cui la misteriosa Diversa Sa, l’Immobiliere Sur Collonge e l’Immobiliere Florimont». Società che, insieme alla Profima Sa, «gestiscono proprietà e terreni nella confederazione elvetica e in mezza Europa». Tutte insieme «valgono 18 milioni».«Va ricordato che storicamente il bilancio dell’Apsa sottostima, per questioni fiscali, i valori dei palazzi di sua proprietà», spiega a Fittipaldi una qualificata fonte dell’istituto che ha sede nel Palazzo Apostolico. «Inoltre quelle svizzere sono società non consolidate: in pancia potrebbero avere molto più di quanto dichiarato». La Profima è stata aperta a Losanna nel 1926 e fu utilizzata da Pio XI per nascondere all’estero parte dei “risarcimenti” che la Chiesa ottenne grazie ai Patti Lateranensi stipulati con il regime fascista, mentre la holding Diversa «è praticamente sconosciuta». Fondata a Lugano nell’agosto del 1942, mentre si combatteva da Stalingrado ad El Alamein, risulta oggi presieduta da Gilles Crettol, «un avvocato svizzero che gestisce gli interessi del Papa oltralpe: il suo nome spunta in quasi tutte le altre società elvetiche». Fino a qualche tempo fa, il referente italiano era invece Paolo Mennini, ma gli uomini di Papa Francesco hanno deciso di farlo fuori: da qualche settimana, al suo posto, nei Cda delle società svizzere è comparso Franco Dalla Sega, presidente della bazoliana Mittel e «manager di fiducia del nuovo boss delle finanze vaticane, il cardinale George Pell».Il Vaticano, ricorda “L’Espresso”, possiede società immobiliari anche in Inghilterra: la British Grolux Investments Ltd, fondata nel 1933, «gestisce oggi a Londra attività per la bellezza di 38,8 milioni di euro inclusi negozi di lusso in New Bond Street». Quanto all’Italia, «oltre allo sterminato forziere di Propaganda Fide, ribattezzata Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (ha un patrimonio stimato, al netto della crisi immobiliare, di circa 7 miliardi), l’Apsa controlla pure le società Sirea e Leonina, che a bilancio valgono oltre 16 milioni». Tra affitti a privati e locazioni commerciali, tutte le sigle che fanno capo all’Apsa hanno ricavato nel 2011 circa 23,5 milioni di euro. «Il bilancio finale dell’Apsa è impressionante», rileva Fittipaldi. «Case e appartamenti sparsi in Europa nel 2013 hanno toccato il valore complessivo di 342 milioni», mentre quello del portafoglio investimenti in euro ha superato quota 475 milioni, «cui bisogna aggiungere titoli per 137 milioni di dollari, 33 milioni di sterline e 17 milioni di franchi svizzeri».Un “tesoro” che vale complessivamente più di un miliardo, e che oggi gestiscono in tre: il super-consulente Dalla Sega e i due monsignori a capo dell’Apsa, il presidente Domenico Calcagno e il segretario Luigi Mistò. «Se gli immobili dell’Apsa valgono più di quanto riportato in bilancio, anche sull’oro ci sono molte cose che non tornano», aggiunge la fonde de “LEspresso”. Leggendo i dati riservati del 2013, scrive Fittipaldi, si scopre che l’Apsa detiene metalli preziosi per 30,8 milioni di euro, e «alcune stime interne della segreteria di Stato, da prendere con le molle, parlano di un controvalore di 140 miliardi di euro, il doppio di quanto conservato dalla Banca d’Italia». Qualcuno, però, sospetta che parte importante delle riserve auree del Vaticano sia conservata nei forzieri svizzeri e inglesi. «La stima mi sembra eccessiva – chiosa il dirigente Apsa – anche perché parte cospicua del nostro metallo giallo è stato venduto tra gli anni ‘90 e l’inzio del nuovo secolo dal cardinale venezuelano Rosalio Castillo Lara, ex presidente dell’amministrazione».Oltre all’oro dell’Apsa, il Vaticano controlla anche il patrimonio dello Ior, valutato 6 miliardi di euro. «Non stupisce che sul gruzzolo, dopo l’arrivo del nuovo pontefice, si sia scatenata una battaglia (l’ennesima) per la gestione. Francesco ha innanzitutto spazzato via gli uomini di Tarcisio Bertone che dal 2007 guidavano lo Ior e, attraverso Calcagno, la cassaforte dell’Apsa. Troppi gli scandali della decadente “lobby italiana”: a parte le scorribande di Scarano e le vicende di Bertone (i casi Carige e Lux Vide promettono sviluppi), le inchieste per riciclaggio hanno fatto saltare il direttore dello Ior Paolo Cipriani, il suo vice Massimo Tulli e il tesoriere della banca, mentre presto la prefettura degli Affari economici guidata da Giuseppe Versaldi, amico intimo di Bertone, potrebbe essere soppressa». Per ricostruire un sistema più trasparente, continua “L’Espresso”, Bergoglio ha poi chiamato dall’Australia il cardinale George Pell e lo ha nominato capo di un nuovo dicastero, la Segreteria dell’Economia. Una sorta di super-ministero che controllerà, di fatto, tutti gli enti finanziari dentro le Mura Leonine.Noto al Papa per le sue doti di economo, dopo aver gestito con buoni risultati una grande diocesi come quella di Sidney, il cardinale Pelle è soprattutto un uomo di comando. Ha subito silurato il presidente dello Ior, Ernst von Freyberg, rottamando le vecchie strutture di governance e accentrando nei suoi uffici i poteri esecutivi: la segreteria di Stato è stata ridimensionata (il successore di Bertone, Pietro Parolin, si occuperà prevalentemente di diplomazia), mentre lo Ior e l’Apsa sono stati commissariati. In Vaticano c’è chi teme ambizioni dell’australiano: «Se Parolin ha sotterrato l’ascia di guerra solo perché Francesco lo ha ammesso nel C9, il gruppo ristretto di cardinali che devono aiutarlo nella guida della Chiesa, il presidente del Governatorato Giuseppe Bertello sta tentando in tutti i modi di bloccarne l’ascesa». Tra i nuovi potenti, però, a «limitare il raggio d’azione di Pell» ci hanno priovato, «per ora senza successo», solo Oscar Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa e coordinatore del C9, e il cardinale Santos Abril y Castelló, presidente della commissione cardinalizia dello Ior.In Australia, i cattolici progressisti rimproverano al prelato di Sydney le posizioni ultra-conservatrici e le sparate pubbliche sull’Islam («religione guerresca», piena di «invocazioni alla violenza»). Inoltre, Pell fu scagionato nel 2002 dall’accusa di aver abusato di un ragazzino di 12 anni, mentre nel 2008 un’altra presunta vittima di abusi lo aveva incolpato di aver “coperto” un sacerdote pedofilo. «Lo scorso marzo, infine, il cardinale è stato chiamato a testimoniare di fronte alla Commissione nazionale d’inchiesta sugli abusi contro i minori istituita dal governo di Canberra, in merito a una causa che un altro ex chierichetto, John Ellis, aveva fatto alla Chiesa e allo stesso Pell in seguito a violenze sessuali avvenute tra il 1974 e il 1979». Pell ha chiesto scusa, continua “L’Espresso”, ma in molti sono restati sconcertati per la sua promozione decisa da Bergoglio. «Nella giungla vaticana – aggiunge Fittipaldi – il ranger venuto da Sydney non si muove da solo. Il capo segue i consigli di tre fidati consiglieri: il neo presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, il tycoon maltese Joseph Zahra (entrambi membri del Consiglio dell’Economia, l’altro neonato ufficio economico guidato da Reinhard Marx), e l’amico Danny Casay, manager che ha gestito con lui la diocesi di Sydney».Gli sconfitti, i vecchi cardinali di curia, li chiamano “la banda dei maltesi”, adombrando il pericolo di conflitti d’interessi: l’unico membro italiano chiamato a far parte del Consiglio dell’Economia, Francesco Vermiglio, ha fondato con l’amico Zahra (patron del colosso finanziario Misco Malta) la Misco Advisory Ltd, «una joint venture per invogliare i nostri connazionali a investire nell’isola, fino a pochi anni fa vero paradiso fiscale». A marzo 2014, inoltre, il figlio di de Franssu, Luis Victor, è stato assunto dalla Promontory, società Usa che da un anno sta spulciando i conti dello Ior. «Ma il numero uno dello Ior pare abbia buoni rapporti anche con alcuni giovani consulenti della McKinsey che hanno lavorato sui bilanci dell’Apsa. Tra loro c’era pure Filippo Sciorilli Borrelli. Classe 1981, è un figlio d’arte: suo padre Ivo è infatti tra gli azionisti di maggioranza di Banca Arner, l’istituto svizzero che ha tra i suoi (pochi) correntisti Silvio Berlusconi». Non c’è nessuna lobby maltese, ha ribattuto Pell, indignato. Tuttavia, ribatte “L’Espresso”, proprio i finanzieri de Franssu e Zahra – titolari di società di investimento – avevano ideato i nuovi assetti del business vaticano, secondo un modello «che rispecchia in gran parte quello annunciato da Pell», ovvero: potere assoluto della Segreteria dell’Economia, Apsa trasformata in Banca centrale e nascita di un nuovo Vatican Asset Management (Vam) per gestire titoli e obbligazioni.Nelle mire di Pell, aggiunge Fittipaldi, c’è anche un altro patrimonio della Santa Sede: i musei vaticani, tra i più visitati e redditizi al mondo: nel 2011 l’utile netto è stato di 58,7 milioni, e gli incassi (tra biglietti e merchandising) superiori a 91 milioni. Per contro, le spese 2013 della Curia romana ammontano a 77,9 milioni, e l’Apsa ha chiuso il suo bilancio in perdita di 48,4 milioni. «Se l’Obolo di San Pietro grazie alla beneficenza dei fedeli nel 2013 ha portato nelle casse 78 milioni, la mitica Radio Vaticana ha perso, secondo un report interno pubblicato nel 2013 e riferito al 2011, ben 26,6 milioni», scrive Fittipaldi. «Anche la tipografia che stampa “L’Osservatore romano” ha chiuso i conti a meno 5,5 milioni». Un salasso, a cui aggiungere il deficit delle 170 nunziature all’estero (meno 25,1 milioni) e i 5,8 milioni che servono a pagare le 110 guardie svizzere. «Chissà, infine, se la spending review minacciata da Pell peserà anche sulle messe di papa Francesco: nel 2011 l’Ufficio celebrazioni liturgiche ha speso per Ratzinger 1,1 milioni. Viste le dimensioni del tesoro di Dio, si tratta poco più di una mancia».Lingotti e monete d’oro, banconote di ogni valuta, proprietà immobiliari sterminate: ricchezza accumulata nei secoli da preti, vescovi e cardinali, fino ad assumere proporzioni bibliche. Spulciando una relazione segreta della Cosea, la dissolta Commissione referente sull’organizzazione della struttura economica del Vaticano, “L’Espresso” scopre ad esempio che «le varie istituzioni vaticane gestiscono i propri asset e quelli di terzi a un valore dichiarato di 9-10 miliardi di euro, di cui 8-9 miliardi in titoli e uno di immobiliare». Leggendo il bilancio (mai pubblicato) dell’Apsa, l’ente che amministra il patrimonio della sede apostolica, insieme ad alcune note confidenziali firmate dal neo-presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, «si capisce che parte importante del tesoro è nascosto proprio all’Apsa, che a differenza dello Ior non ha mai reso noti i suoi conti». Dopo che uno dei suoi contabili, monsignor Nunzio Scarano, è stato arrestato per riciclaggio, corruzione e truffa, Papa Bergoglio ha deciso di mettere il naso anche lì.
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Fortezza Europa: vendiamo armi e anneghiamo profughi
Siamo noi a vendere le armi ai regimi che li massacrano, facendoli fuggire sui barconi. Per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il numero di profughi, richiedenti asilo e sfollati ha superato i 50 milioni di persone. E’ il più grande esodo della storia, dopo la fuga di massa dall’Europa dominata dal nazismo. La fuga è diventata espressione del nostro mondo, scrivono Barbara Spinelli, Daniela Padoan e Guido Viale in una petizione al Parlamento Europeo in occasione del semestre italiano di presidenza dell’Ue. «È una fuga che vede l’Europa come approdo, luogo di salvezza». Sulle nostre coste affluiscono uomini, donne e bambini «che si lasciano alle spalle paesi in fiamme, dittature, genocidi, carestie, catastrofi climatiche e ambientali, guerre divenute inani e senza fine contro il terrorismo». Ma siamo noi, Occidente, i principali “esportatori” di disperazione. E tutto quello che facciamo è lasciare i disperati in mano ai trafficanti, per poi rinchiudere i superstiti nei centri di detenzione italiani, mentre il resto d’Europa lascia che la sbrighi l’Italia.«I rifugiati sono oggi il prodotto su scala industriale di quella grande guerra, immateriale e non dichiarata, che è la guerra contro i poveri, dove un confine netto separa chi ha diritto di muoversi da chi quel diritto si vede negato», e di trova di trova di fronte un’Europa trasformata in filo spinato, scrivono Spinelli, Padoan e Viale, nella petizione sottoscritta da Alexis Tsipras e Nichi Vendola e da autorevoli personalità come Stefano Rodotà, Luigi Manconi, Andrea Camilleri, Umberto Eco, Curzio Maltese, Moni Ovadia, Erri De Luca, Gad Lerner, Marco Revelli, Ermanno Rea, Sandra Bonsanti e Gustavo Zagrebelsky. Imperativo morale: garantire il diritto di fuga e fermare i “respingimenti”. Nel 2013, il numero dei migranti forzati è aumentato di ben 6 milioni, complice la carneficina siriana che in tre anni ha sfrattato due milioni e mezzo di civili. Si scappa anche dalla Repubblica Centrafricana, dal Sud Sudan, dall’Eritrea, dalla Libia gettata nel caos dalla guerra occidentale; si fugge dalla Somalia e dal Maghreb.Uomini, donne e bambini che giungono alle nostre coste «in cerca non solo della nuda vita, ma di libertà e di giustizia: di quell’inclusione nel concetto di umanità senza il quale ogni discorso sui diritti perde significato, rimanendo appannaggio di un ceto di privilegiati». Chi non muore durante il viaggio, che trasforma il Mediterraneo in un cimitero, viene accolto come un fuorilegge, subendo una «inferiorizzazione giuridica, economica e sociale», oltre alla privazione della libertà. Così, a naufragare è «quello stesso pensiero di eguaglianza e solidarietà che fonda le nostre democrazie». Sicché, «i cittadini europei non possono più assistere passivamente alla strage che giorno dopo giorno si svolge davanti ai loro occhi». Tuttavia, l’Unione Europea – che dal 2000 dichiara di voler prevenire e combattere il traffico di esseri umani – sta, di fatto, permettendo che profughi e migranti attraversino il Mediterraneo «mettendo la propria vita nelle mani di organizzazioni criminali transnazionali, perché è stato lasciato loro il monopolio del trasporto in mare».La cosa, aggiungono i firmatari della petizione, è tanto più grave in quanto il Trattato sul Funzionamento dell’Unione prevede una responsabilità diretta in materia di gestione integrata delle frontiere, gestione di tutte le fasi del processo migratorio, accoglienza delle persone e condivisione degli oneri, non solo finanziari, tra tutti i paesi membri. Tutte norme rimaste quasi lettera morta: questo «conferma l’assenza di volontà politica da parte degli Stati membri e la pusillanimità della Commissione», data anche l’incapacità di predisporre soluzioni pratiche come la creazione di corridoi umanitari. L’Ue preferisce restare «nascosta dalla retorica del Consiglio Europeo o dalla valanga di documenti, incontri e conferenze», tra agenzie europee che dovrebbero «applicare le politiche europee, e non nel fare da schermo alla loro assenza». Massima ipocrisia, i respingimenti: presentati come misure per salvare i profughi, sono esattamente la loro condanna all’annegamento. Sono gli Stati, per primi, a violare le norme su diritto d’asilo, integrazione e solidarietà: «L’ossessione della lotta contro l’immigrazione clandestina e la chiusura dei canali di accesso regolari hanno concretamente operato per accrescere, come strumento di dissuasione, il rischio patito da tutti coloro che cercano di attraversare i confini della “fortezza Europa”».Come ogni altra legge varata dall’autocrazia tecnocratica di Bruxelles che infligge le politiche di austerity, anche lo “scudo” europeo anti-immigrazione, Frontex, non è mai stato votato dai cittadini. «L’Europa che ha creduto di potersi barricare in una fortezza, ha fallito», scrivono Spinelli, Padoan e Viale, ricordando il cartello esposto a Bruxelles da un migrante: “Non siamo noi ad attraversare i confini, sono i confini ad attraversare noi”. Servono nuove leggi, da applicare prontamente per fermare la strage. Oggi ci sono soltanto «iniziative su base volontaria, approcci diplomatici poco credibili e strumenti operativi con risorse limitate, come Frontex», praticamente «fumo negli occhi». I firmatari chiedono a Bruxelles di esaminare seriamente la situazione e produrre risposte. Nel frattempo, «si tratta di prevedere d’urgenza l’apertura di percorsi autorizzati e sicuri per chi lascia il territorio di nascita, di cittadinanza o di residenza – in fuga da guerre, persecuzioni, catastrofi ambientali, climatiche o economiche». Un corridoio umanitario tra Africa e Ue, sotto tutela Onu, per scongiurare nuove tragedie. Del resto, l’Europa è già presente in Libia: perché non fa niente per contrastare il traffico di esseri umani?Spinelli, Padoan e Viale chiedono «canali di ingresso legale», in cui «un sistema di traghetti e voli charter sostituisca le carrette del mare», e in cui l’Onu e l’Ue presidino ogni snodo di partenza e di transito per «identificare, tutelare e dotare i profughi di visti provvisori», per poi «smistare gli arrivi fra i vari porti e aeroporti attrezzati per l’accoglienza, così da governare razionalmente la distribuzione sul territorio europeo dei singoli e delle famiglie», mettendo fine all’assedio degli abitanti di Lampedusa, costretti a supplire, con grande generosità, «l’abissale assenza dello Stato e dell’Unione Europea». Più in generale, «l’Italia e tutti i popoli del Sud Europa non possono più essere lasciati soli nel gravoso compito dei soccorsi in mare». Poi occorre assicurare libertà di movimento, garantire ai profughi «la libertà di scegliere dove vivere e la libertà di riannodare i propri affetti». Serve anche il “mutuo riconoscimento” delle decisioni sull’asilo: «Chiunque si trovi nello spazio europeo, indipendentemente dalla sua cittadinanza, deve poter godere del pieno esercizio di pari diritti». Per questo, i firmatari chiedono «la chiusura di tutti i centri di detenzione per migranti e profughi, comunque si chiamino, che configurano una forma di detenzione extra ordinem».Barbara Spinelli, Daniela Padoan, Guido Viale e chiedono che l’Ue si impegni a facilitare richieste e visti, «per chi fugge da situazioni di guerra o di persecuzione o di rischio per la vita», grazie a una normativa «capace di restituire dignità giuridica ai rifugiati», a cominciare dalla protezione del diritto di transito. Problema ancor più drammatico per i minori non accompagnati, quasi 6.000 in Italia negli ultimi 18 mesi: «Molti di loro sono trattenuti da mesi in strutture inadeguate, che non prevedono percorsi di formazione né di integrazione». Poi, l’istituzione dello “ius soli”, per assicurare la cittadinanza europea ai figli dei migranti nati nei nostri paesi. Obiettivo finale: una “pax mediterranea”, dopo la “guerra infinita” prodotta dall’attuale geopolitica occidentale, prima responsabile delle crisi che determinano il flusso dei rifugiati. Servono nuovi strumenti politici per governare l’esodo: «Basti pensare al fatto che se accogliessimo davvero i profughi, dando loro possibilità di avere voce e diritti, si creerebbe forse in Europa una “terza forza” in grado di rappresentare il rispettivo paese – per esempio la Siria, la Repubblica Centrafricana, l’Eritrea e tutti i paesi del Corno d’Africa – in un eventuale negoziato, più e meglio dei cosiddetti governi in esilio, che talvolta sono puri fantocci».La crisi migratoria, concludono i firmatari, mostra quanto sia urgente una politica estera europea, «attualmente impedita non solo da sterili sovranità nazionali gelosamente custodite, ma anche dalla sudditanza dell’Unione Europea alla Nato e agli Usa, che sono spesso all’origine dei conflitti che deflagrano nel mondo e soprattutto ai nostri confini». L’Europa è tutt’altro che innocente: tra i primi dieci esportatori mondiali di armi figurano Germania, Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Italia, Spagna e Svezia. «Partner di questo lucroso commercio sono in gran parte proprio i paesi dai quali le persone sono costrette a fuggire per mettersi al riparo da guerre, persecuzioni, violazioni dei diritti umani e soppressione delle libertà democratiche. Poiché i rifugiati sono il prodotto della guerra, noi, cittadini d’Europa, chiediamo che la nostra pace non sia una retorica né un privilegio di asserragliati, ma si declini in politiche solidali capaci di includere i paesi che si affacciano sul Mediterraneo e l’Africa».Siamo noi a vendere le armi ai regimi che li massacrano, facendoli fuggire sui barconi. Per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il numero di profughi, richiedenti asilo e sfollati ha superato i 50 milioni di persone. E’ il più grande esodo della storia, dopo la fuga di massa dall’Europa dominata dal nazismo. La fuga è diventata espressione del nostro mondo, scrivono Barbara Spinelli, Daniela Padoan e Guido Viale in una petizione al Parlamento Europeo in occasione del semestre italiano di presidenza dell’Ue. «È una fuga che vede l’Europa come approdo, luogo di salvezza». Sulle nostre coste affluiscono uomini, donne e bambini «che si lasciano alle spalle paesi in fiamme, dittature, genocidi, carestie, catastrofi climatiche e ambientali, guerre divenute inani e senza fine contro il terrorismo». Ma siamo noi, Occidente, i principali “esportatori” di disperazione. E tutto quello che facciamo è lasciare i disperati in mano ai trafficanti, per poi rinchiudere i superstiti nei centri di detenzione italiani, mentre il resto d’Europa lascia che la sbrighi l’Italia.
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Giannuli: il martirio di Gaza scatenerà l’inferno su Israele
Attenti a premere il grilletto su Gaza, il lager a cielo aperto nel quale stanno rinchiusi due milioni di palestinesi: il delirante progetto islamista che sta dilagando tra Iraq e Siria potrebbe esercitare una pericolosa suggestione tra le masse arabe sempre più abbandonate a se stesse, nella grande disintegrazione del Medio Oriente. E il primo a rimetterci sarebbe proprio Israele, che tra tutti gli attori della regione è quello che più ha da perdere. Lo sostiene Aldo Giannuli, secondo cui lo Stato ebraico «è ormai prigioniero della sua stessa storia e subisce una sorta di coazione a ripetere l’errore». Sin dalla sua fondazione, ha dovuto misurarsi sul piano militare per difendere la sua esistenza e, a questo fine, ha messo a punto una delle più micidiali macchine da guerra del mondo, che ha vinto quattro guerre di fila fra il 1948 ed il 1973, contro le coalizioni arabe che lo accerchiavano. Ma poi il formidabile esercito israeliano è diventato un problema: può fare stragi, ma non spegnere la guerriglia.Dal 1973, continua Giannuli nel suo blog, la macchina da guerra di Tel Aviv è diventata controproducente, dal momento che dopo la Guerra del Kippur non si è più formata alcuna coalizione araba che minacciasse credibilmente l’esistenza dello “Stato degli ebrei”. «Il confronto si è spostato sui piani della rivolta popolare, della guerra irregolare e della diplomazia, tutte cose per le quali un potente esercito serve a ben poco». Israele, invece, «è rimasto psicologicamente prigioniero del suo passato, e ha costantemente risposto alle sfide della guerra irregolare mettendola sul piano dello scontro campale». Ma i caccia e i carri armati non sono esattamente l’arma più adatta per affrontare piccoli commando. «L’idea perversa è quella di battere i guerriglieri prendendo in ostaggio i civili: bombardiamo gli obiettivi civili e la popolazione si rivolterà contro i “terroristi” che la mettono in pericolo. Mi pesa scriverlo, ma è una logica da Marzabotto ed è rivoltante vedere i figli e i nipoti delle vittime di Auschwitz adottare la logica dei loro persecutori».Per giunta, continua Giannuli, i risultati politici sono gli stessi della Wehrmacht: la popolazione riconosce sempre come nemico l’esercito occupante, non certo la resistenza. Tuttavia, «questo schema si è ripetuto troppe volte, scrivendo pagine ignobili come il massacro di Sabra e Chatila, al quale però il popolo di Israele seppe reagire con una manifestazione di massa (300.000 persone in un paese di 6 milioni di abitanti) contro il proprio esercito». Un gesto di alta civiltà, sottolinea Giannuli, di cui pochi popoli sono stati capaci. «Ma di quello spirito è restato ben poco e, dopo lo stillicidio degli attentati suicidi, Israele si è appiattito sul più livido e cieco odio verso il suo antagonista». La destra di Netanyauh? «E’ il sonno della ragione di Israele che ha imboccato un tunnel suicida», nonostante sia finito il tempo delle guerre arabo-israeliane per cancellare lo Stato ebraico dalla mappa del Medio Oriente. Si poteva approfittarne per chiudere lealmente la partita e risarcire i palestinesi della cacciata inflitta loro nel 1948. Grande occasione perduta.Terra in cambio di sicurezza: «Uno slogan sempre enunciato ma sempre tradito dai comportamenti». Così, di fronte alla rabbia palestinese per le promesse tradite, «Israele ha costantemente calato la carta della sopraffazione militare: un rimedio, oltre che odioso sul piano morale, illusorio sul piano del realismo politico». Forte della sicurezza offertagli dalle proprie forze armate, Israele crede – o meglio, si illude – che ci sia una soluzione militare al conflitto. «Questa soluzione non esiste: la guerriglia continuerà endemica, anche perché la soluzione territoriale immaginata (la miriade di “bantustan” circondati dal muro, con l’appendice di Gaza) è invivibile per qualsiasi popolazione, e i primi a non sopportarla, a parti invertite, sarebbero proprio gli israeliani». Resta una soluzione infernale: il genocidio e la deportazione in massa del popolo palestinese. «Voglio augurarmi che un simile orrore non sia preso in considerazione da nessuno – dice Giannuli – ma, nel caso qualcuno ci pensasse, bisogna che si ricordi che la comunità internazionale non lo permetterebbe mai».Ora siamo all’ennesima replica dello scenario militarista, ma questa volta è diverso dal 2006 e dal 2008: tutto il mondo arabo è squassato da rivolte che hanno polverizzato Stati e regimi politici, dalla Libia al Sudan. In Siria c’è una guerra infinita, in Iraq brucia la guerra civile, l’Afghanistan è tutt’altro che pacificato, in Egitto sono tornati al potere i militari ma non si capisce ancora per quanto, l’Arabia Saudita va verso una difficilissima successione. Soprattutto, in Iraq e Siria «si è stesa l’ombra minacciosa del Califfato». Improbabile, ovviamente, che possa nascere un’entità islamista estesa dal Marocco alla Bosnia, ma «non va sottovalutato il potere mobilitante della suggestione del califfato: se la cosa prende piede, iniziando ad apparire credibile alle masse islamiche (e ci vuol poco: basta semplicemente che duri un po’ nel tempo) va messa nel conto un’ondata di fondamentalismo da far impallidire tutte quelle precedenti messe insieme». Dopo aver demolito l’Anp, ora Israele punta a distruggere anche Hamas. Con chi parlerà, se dovesse montare la marea jihadista? «Non ci sarebbero molti interlocutori statali con cui intendersi», conclude Giannuli: un attacco finale contro Gaza «potrebbe porre le premesse di un disastro senza precedenti, soprattutto per Israele».Attenti a premere il grilletto su Gaza, il lager a cielo aperto nel quale stanno rinchiusi due milioni di palestinesi: il delirante progetto islamista che sta dilagando tra Iraq e Siria potrebbe esercitare una pericolosa suggestione tra le masse arabe sempre più abbandonate a se stesse, nella grande disintegrazione del Medio Oriente. E il primo a rimetterci sarebbe proprio Israele, che tra tutti gli attori della regione è quello che più ha da perdere. Lo sostiene Aldo Giannuli, secondo cui lo Stato ebraico «è ormai prigioniero della sua stessa storia e subisce una sorta di coazione a ripetere l’errore». Sin dalla sua fondazione, ha dovuto misurarsi sul piano militare per difendere la sua esistenza e, a questo fine, ha messo a punto una delle più micidiali macchine da guerra del mondo, che ha vinto quattro guerre di fila fra il 1948 ed il 1973, contro le coalizioni arabe che lo accerchiavano. Ma poi il formidabile esercito israeliano è diventato un problema: può fare stragi, ma non spegnere la guerriglia.
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Non credete a Obama, è pronto a usare la bomba atomica
«E’ cambiata la dottrina di guerra degli Stati Uniti: le armi nucleari americane non sono più limitate alla controffensiva, ma sono state elevate al ruolo di attacco preventivo». Lo sostiene Paul Craig Roberts, editorialista e già viceministro di Reagan, citando un recente servizio di Eric Zuesse su “Op-Ed News”: Washington sta mettendo a punto i piani per un primo attacco nucleare contro la Russia di Putin, come se non sapesse che anche un attacco atomico “limitato”, secondo in maggiori esperti, porterebbe a sconvolgimenti planetari capaci di causare la morte di non meno di 2 miliardi di persone nel mondo. Craig Roberts accusa l’America di Obama: si è tirata fuori dai trattati anti-balistici e sta sviluppando il suo “scudo anti-missile” in Europa con l’obiettivo di intercettare l’eventuale reazione russa a un attacco contro Mosca. Attacco che non avverrebbe comunque a freddo: «Washington sta demonizzando la Russia e il suo presidente con una vergognosa propaganda diffamatoria, preparando la popolazione statunitense e i suoi Stati-sudditi alla guerra contro la Russia».Secondo Roberts, la Casa Bianca si è fatta convincere dai neo-conservatori che le forze nucleari russe sono ferme e impreparate, quindi un ottimo bersaglio per un attacco. «Questa falsa opinione – scrive l’analista, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – si basa su informazioni vecchie di dieci anni», prima cioè del poderoso riarmo difensivo promosso da Putin, che ha permesso alla Russia di giocare un ruolo-chiave per impedire che la Siria diventasse la scintilla della possibile Terza Guerra Mondiale. In ogni caso, «indipendentemente dalle reali condizioni delle forze nucleari russe, dal successo del “primo attacco” di Washington e dal livello di protezione dello “shield” americano», uno studioso come Steven Starr conferma che «il carattere letale delle armi nucleari» non è arginabile: un conflitto atomico non avrebbe vincitori, perché tutti soccomberebbero nella catastrofe.Lo ribadiscono autorevoli scienziati atmosferici, in studi come quello pubblicato già nel 2008 da “Physics Today”: nonostante la riduzione degli arsenali nucleari programmata con Gorbaciov nel lontano 1986 (ridurre a circa 2.000 entro il 2012 le 70.000 testate dell’epoca) non si è ancora ridotta la minaccia che una guerra nucleare rappresenta per la vita umana sulla Terra. E’ scontata la distruzione simultanea di centinaia di milioni di persone, mentre il fumo atomico emanato dalle esplosioni nella stratosfera «causerebbe l’inverno nucleare e il collasso dell’agricoltura». Sicché, «gli esseri umani scampati alla morte e alle radiazioni morirebbero comunque di fame». Reagan e Gorbaciov l’avevano ben compreso, ma «purtroppo non c’e’ stato un degno successore tra i governi americani che seguirono», sostiene Craig Roberts. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, i 9 paesi dotati di armi nucleari ancora possiedono un totale di 16.300 testate atomiche.E il maggior pericolo viene proprio dagli Usa: «E’ ormai appurato che a Washington ci siano dei politici che pensano, erroneamente, che la guerra nucleare sia una guerra che si può vincere, e che sia un valido strumento per arrestare l’ascesa di Russia e Cina che mette a repentaglio l’egemonia americana nel mondo». Il governo degli Stati Uniti, indipendentemente dal partito in carica, è «una grossa minaccia per la vita sulla Terra», accusa Roberts. E i governi europei, «che si reputano civilizzati», in realtà «non lo sono affatto, poiché permettono a Washington di perseverare nella sua sete di egemonia». E’ quello il problema: «L’ideologia che concede all’eccezionale e indispensabile America questa supremazia è un’enorme minaccia per il mondo».Iraq e Afghanistan, Libia e Siria, Yemen e Somalia, per non parlare della Jugoslavia. «La distruzione parziale o totale di sette paesi del mondo operata dall’Occidente nel 21° secolo, con l’appoggio di altre “civiltà e mezzi d’informazione occidentali”, è la prova lampante che la leadership del mondo occidentale è completamente svuotata di coscienza morale e di compassione per il genere umano», dichiara Craig Roberts. «Ora che Washington è armata della sua falsa dottrina di “supremazia nucleare”, si prospetta un triste futuro per l’umanità». Secondo l’ex consigliere di Reagan, infatti, «Washington ha dato il via alla preparazione di una Terza Guerra Mondiale, e gli europei sembrano ben disposti a prenderne parte». A fine 2012, il danese Rasmussen a capo dell’Alleanza Atlantica aveva detto che la Nato non considerava la Russia come un nemico, ma «ora che la folle Casa Bianca insieme ai suoi folli vassalli ha dimostrato alla Russia che l’Occidente è ancora un nemico», Rasmussen ha cambiato posizione, dichiarando: «Dobbiamo accettare il fatto che la Russia ci considera suoi avversari», per aver sostenuto militarmente l’Ucraina (golpista) insieme agli altri paesi dell’Europa orientale.L’escalation è ormai avviata: per Alexander Vershbow, ex ambasciatore statunitense in Russia e attuale vicesegretario Nato, la Russia è «un nemico». Pertanto, «i contribuenti americani ed europei devono sostenere l’ammodernamento degli armamenti, non solo per Ucraina ma anche per Moldova, Georgia, Armenia e Azerbaijan». L’apparato militare americano sta riesumando la guerra fredda, scrive Roberts, proprio perché ha appena perso la cosiddetta “guerra al terrore” in Iraq e Afghanistan. «Questo probabilmente è il punto di vista delle industrie di armamenti e di qualcuno a Washington». Ma i neocon sono ancora più ambiziosi: «Non perseguono solo il profitto nel sistema della sicurezza e degli armamenti, il loro scopo è l’egemonia degli Stati Uniti nel mondo, ovvero azioni sconsiderate come la minaccia strategica che il regime di Obama, con la complicità dei vassalli europei, ha lanciato contro la Russia in Ucraina».Dall’autunno scorso, continua Roberts, il governo americano «non ha fatto che mentire sull’Ucraina, dando la colpa alla Russia per le conseguenze delle azioni di Washington e demonizzando Putin nello stesso modo in cui Washington ha demonizzato Gheddafi, Saddam Hussein, Assad, i Talebani e l’Iran». Il governo conta su formidabili complici: «La stampa “prostituita” e le capitali dei paesi europei hanno assecondato queste menzogne e questa propaganda, ripetendole senza sosta». Così, l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti della Russia è diventato apertamente negativo. «Come pensate che vedano tutto questo Russia e Cina? La Russia ha visto la Nato spingersi fino ai suoi confini, una violazione degli accordi sottoscritti da Reagan e Gorbaciov». Peggio: Mosca «ha visto gli Stati Uniti violare gli accordi del trattato “Shield” e costituire un proprio “scudo” da guerre stellari». Se poi questo “shield” funzioni o meno «è del tutto irrilevante: il suo scopo è quello di convincere i politici e l’opinione pubblica che gli americani sono al sicuro».La notizia peggiore, continua Craig Roberts, è che i russi hanno visto gli Stati Uniti cambiare il ruolo delle armi nucleari, da mezzi deterrenti a strumenti di attacco preventivo. «E ora la Russia sente ogni giorno fiumi di menzogne ripetute in Occidente e assiste al massacro di civili nell’Ucraina russa da parte del vassallo ucraino degli Stati Uniti». Civili che Washington definisce “terroristi”, e che invece vengono sterminati «con armi come il fosforo bianco». E tutto questo «senza alcuna protesta da parte dei paesi dell’Occidente». E’ cronaca, benché oscurata dai media mainstream: «Attacchi massicci di artiglieria e aerei sulle case dell’Ucraina russa si sono compiuti nel giorno del 25° anniversario di Piazza Tienanmen, mentre Washington e i suoi paesi-marionetta hanno condannato la Cina per un evento che non è mai accaduto». La farsa della presunta “strage” di Pechino è infatti stata smascherata da fonti diplomatiche Usa: il governo cinese non ha mai sparato sulla folla degli studenti, ma ha contrattato con loro l’abbandono della piazza.«Come oggi sappiamo, non c’era stato alcun massacro in piazza Tienanmen», sottolinea Craig Roberts. «Era solo un’altra bugia di Washington, come quella del Golfo del Tonchino, come le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, come l’uso di armi chimiche di Assad, come le armi nucleari iraniane». Si stupisce, l’ex viceministro di Reagan: «E’ davvero sorprendente vedere come il mondo stia vivendo una falsa realtà creata dalle bugie di Washington. Il film “Matrix” è una fedele rappresentazione della vita in Occidente: la popolazione vive in una falsa realtà creata dai suoi governanti». L’opinione pubblica è così assuefatta da non riuscire a distaccarsene, come spiega – in quel film – Morfeo, il capo dei ribelli “risvegliati”: «La maggior parte della gente non è pronta a staccare la spina», molti di loro sono «così completamente schiavi del sistema che lotteranno per proteggerlo».Confessa Craig Roberts: «Vivo quest’esperienza ogni volta che scrivo un articolo: ecco che arrivano le proteste di quelli che non sono disposti a staccare la spina, attraverso e-mail o dai quei siti che nella sezione dei commenti accusano gli scrittori di calunnia verso i loro governi-troll». Se non altro, aggiunge l’analista, ad abboccare è l’Occidente, ma non le popolazioni russe e cinesi, quelle che vedono benissimo il cappio che si sta stringendo giorno per giorno. «Come pensate che reagirà la Cina quando Washington dichiarerà che il Mar Cinese Meridionale è una zona di interesse nazionale degli Stati Uniti, e invierà il 60% della sua flotta nel Pacifico e costruirà nuove basi aeree e navali americane dalle Filippine al Vietnam?». Finora, aggiunge Roberts, russi e cinesi «si sono comportati in modo ragionevole». Sergej Lavrov, il ministro degli esteri di Putin, è estremamente chiaro: «In questa fase, vogliamo dare ai nostri partner la possibilità di calmare gli animi. Vedremo cosa succederà in seguito. Se continueranno le accuse contro la Russia e i tentativi di pressione su di noi attraverso la leva economica, allora potremo rivalutare la situazione».«Se la folle Casa Bianca, le prostitute mediatiche di Washington e i vassalli d’Europa convinceranno la Russia che la guerra è inevitabile, la guerra diventerà davvero inevitabile», avverte Craig Roberts. «E poiché non esiste possibilità alcuna che la Nato sia in grado di montare un’offensiva convenzionale contro la Russia nemmeno lontanamente vicina alle dimensioni e alla potenza delle forze d’invasione tedesche del 1941, che poi incontrarono la distruzione, la guerra non potrà che essere nucleare, e questo significa la fine per tutti. Tenetelo bene a mente, mentre Washington e i suoi canali d’informazione continuano a far rullare i tamburi di guerra». La storia è lì a dimostrare che, oltre ogni dubbio, «tutto quello che Washington e le sue prostitute mediatiche hanno detto e dicono, non sono che bugie al servizio di un fine non dichiarato». E la cosa, purtroppo, «non si risolve votando democratico invece che repubblicano». Thomas Jefferson suggerì una soluzione: «L’albero della libertà di tanto in tanto si deve bagnare con il sangue dei patrioti e dei tiranni. E’ il suo concime naturale». Per Roberts, il guaio è che oggi «a Washington ci sono pochi patrioti e molti tiranni».«E’ cambiata la dottrina di guerra degli Stati Uniti: le armi nucleari americane non sono più limitate alla controffensiva, ma sono state elevate al ruolo di attacco preventivo». Lo sostiene Paul Craig Roberts, editorialista e già viceministro di Reagan, citando un recente servizio di Eric Zuesse su “Op-Ed News”: Washington sta mettendo a punto i piani per un primo attacco nucleare contro la Russia di Putin, come se non sapesse che anche un attacco atomico “limitato”, secondo in maggiori esperti, porterebbe a sconvolgimenti planetari capaci di causare la morte di non meno di 2 miliardi di persone nel mondo. Craig Roberts accusa l’America di Obama: si è tirata fuori dai trattati anti-balistici e sta sviluppando il suo “scudo anti-missile” in Europa con l’obiettivo di intercettare l’eventuale reazione russa a un attacco contro Mosca. Attacco che non avverrebbe comunque a freddo: «Washington sta demonizzando la Russia e il suo presidente con una vergognosa propaganda diffamatoria, preparando la popolazione statunitense e i suoi Stati-sudditi alla guerra contro la Russia».
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Haaretz: studenti uccisi, Israele punisce palestinesi inermi
Il rapimento e l’omicidio dei tre studenti yeshiva della West Bank è stato interpretato dai palestinesi come un altro incidente in una routine di violenza, di cui Israele è il primo responsabile. Non c’è stata nemmeno una scintilla che somigliasse ad una opposizione o a una protesta, ma non c’è stata nemmeno una scintilla a favore del rapimento, nessuno che abbia chiesto “di più”. Migliaia di famiglie palestinesi sono rimaste per due settimane sotto il rullo del compressore militare israeliano, senza che ci fosse un solo motivo che collegasse questa gente al rapimento dei ragazzi ebrei, senza che fosse mostrata almeno quella naturale compassione che nasce a livello personale. E’ questo il motivo per cui i palestinesi fondamentalmente ritengono che gli israeliani in particolare, ed il mondo in generale, li discriminino quando si parla di violenza.La violenza dei palestinesi merita di essere condannata, e i due responsabili per questa violenza, insieme a tanti che non erano responsabili di nulla, sono stati puniti con grande severità, anche se questa severità ha assunto la natura di una rappresaglia. Al contrario, la continua violenza israeliana – messa in atto dal governo perché si tratta di violenza perpetrata da un governo straniero, dall’esercito e da privati cittadini come i coloni – non solo non viene punita, ma viene anche raccontata. Non la chiamano nemmeno “violenza”, non è qualcosa che interessa gli israeliani e certamente non risveglia in nessuno un sentimento di identificazione con le vittime. Le vittime israeliane della violenza – che sono meno di quelle palestinesi – hanno tutte un nome e una faccia, sia in Israele che nel mondo. Le molte vittime palestinesi, quando va bene, entrano nel conto delle statistiche.Questa affermazione non è solo il punto di vista espresso su un editoriale, ma è alla base della vita quotidiana dei palestinesi. La loro mancanza di compassione in casi particolari, come questo, è la risposta dei palestinesi a questa loro discriminazione. Fintanto che non erano ancora stati trovati i corpi, molti palestinesi non credevano nemmeno che il rapimento fosse mai avvenuto. Per loro, il rapimento era stata tutta una invenzione per ostacolare il governo di unità nazionale palestinese, per annullare i risultati (secondo il punto di vista palestinese) della negoziazione per liberare il soldato rapito Gilad Shalit e per danneggiare Hamas. I palestinesi hanno creduto che il rapimento avrebbe solo portato vantaggi al governo di Benjamin Netanyahu, che il rapimento fosse stato solo un artifizio diplomatico (per esempio, per giustificare il rifiuto europeo e americano e l’opposizione al governo di unità nazionale palestinese).Lo sciopero della fame dei palestinesi in detenzione amministrativa in Israele aveva cominciato a fare eco sui media, e l’omicidio (omicidio, è la parola usata dai palestinesi) di due ragazzi palestinesi a Beitunia fatto dai soldati israeliani aveva rivelato le menzogne esistenti nel resoconto israeliano sull’incidente e l’assoluto imbarazzo delle autorità israeliane. Per un po’, questo aveva fatto sì che anche l’esercito e la polizia di frontiera – sia secondo i manifestanti che secondo i giornalisti – si comportassero in modo stranamente più moderato in presenza di alcune manifestazioni. Così, invece di chiedersi «chi è il palestinese che, con questo atto, è riuscito a vanificare tutti gli ultimi successi palestinesi», si sono tutti rifugiati nelle teorie della cospirazione.Questo atteggiamento ha impedito che qualsiasi discussione pubblica portasse ad una conclusione diversa: non solo non esiste nessuna strategia palestinese unificata, ma è stato dimostrato ancora una volta che, anche all’interno di Hamas, non c’è nemmeno un coordinamento tra tattica e strategia. Il rapimento mette in pericolo il nuovo governo e va contro gli interessi del leader di Hamas e di molti rami del movimento. In questo momento c’era un immediato bisogno del governo di unità nazionale, per sopravvivere alla crisi e riuscire a pagare gli stipendi ai dipendenti di Hamas a Gaza e, a lungo termine, per sbarazzarsi del peso della cronica crisi economica creata dal blocco israeliano. Eppure, anche quelli che erano furiosi – soprattutto nel partito Fatah – contro quegli attori locali che hanno pianificato e messo in atto il rapimento, sono stati costretti a reprimere i loro sentimenti di rabbia alla luce dell’assalto israeliano lanciato contro una parte tanto grande della popolazione palestinese.Altri, tra cui gli oppositori di Hamas, stavano aspettando il momento in cui i rapitori avrebbero dettato le condizioni per la restituzione degli ostaggi (vivi). Nello sbilanciamento di potere tra palestinesi e israeliani, il rapimento è visto come uno strumento legittimo. Gli assassini dovevano aver previsto che i ragazzi rapiti restassero vivi, ma qualcosa è andato storto e questo attesta il dilettantismo e la mancanza di una preparazione adeguata. Ma un dubbio resta sempre vivo: Hamas non ripudia mai pubblicamente chiunque dei suoi membri fallisca o abbia agito di propria iniziativa. In questa atmosfera, quei palestinesi che credono che sia sbagliato uccidere dei ragazzi israeliani inermi, anche se sono coloni o se studiano negli insediamenti, non osano dirlo ad alta voce.Dopo che i palestinesi sono stati costretti ad ammettere che gli israeliani rapiti non erano dei soldati armati, ma solo ragazzi, più volte hanno voluto sottolineare che, comunque, erano dei coloni. Tra i palestinesi, l’opinione prevalente è che gli attacchi contro i coloni siano giustificati, e che dovrebbe essere fatta una distinzione tra i coloni e i cittadini israeliani che vivono al di là della Linea Verde. Un uomo, che dice che non sarebbe mai capace di uccidere personalmente un colono, ha dichiarato che l’attacco a questi coloni è stato interpretato come un segnale lanciato agli israeliani, per far capire che non dovrebbero mandare i propri figli in Cisgiordania, che in quel posto non dovrebbero sentirsi al sicuro, che dovrebbero sapere che la loro presenza significa una spoliazione per i palestinesi. E’ molto dubbio che questo possa essere stato il messaggio che avrebbero voluto mandare quelli che hanno rapito e ucciso i tre ragazzi. Quel che è certo, però, è che al momento non c’è nessun dibattito interno tra i palestinesi sul fatto se l’omicidio sia effettivamente servito per questo obiettivo.(Amira Haas, “I palestinesi reagiscono con indifferenza all’assassinio dei tre ragazzi israeliani”, editoriale pubblicato sul quotidiano israeliano “Haarez” il 2 luglio 2014, tradotto da Bosque Primario per “Come Don Chisciotte”).Il rapimento e l’omicidio dei tre studenti yeshiva della West Bank è stato interpretato dai palestinesi come un altro incidente in una routine di violenza, di cui Israele è il primo responsabile. Non c’è stata nemmeno una scintilla che somigliasse ad una opposizione o a una protesta, ma non c’è stata nemmeno una scintilla a favore del rapimento, nessuno che abbia chiesto “di più”. Migliaia di famiglie palestinesi sono rimaste per due settimane sotto il rullo del compressore militare israeliano, senza che ci fosse un solo motivo che collegasse questa gente al rapimento dei ragazzi ebrei, senza che fosse mostrata almeno quella naturale compassione che nasce a livello personale. E’ questo il motivo per cui i palestinesi fondamentalmente ritengono che gli israeliani in particolare, ed il mondo in generale, li discriminino quando si parla di violenza.
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Rettighieri, all’Expo l’uomo del cantiere Tav alla Cmc
Cmc è impegnata a Chiomonte nel maxi-appalto più contestato d’Italia, quello per il tunnel geognostico della Torino-Lione. E a Milano, dopo gli arresti per lo scandalo dell’Expo, potrebbe arrivare proprio l’ex direttore di Ltf, la società del Tav.«In attesa che l’inchiesta sull’Expo continui e abbia nuovi risvolti – scrive Fabio Tanzilli su “Valsusa Oggi” – il governo Renzi avrebbe già deciso a chi assegnare il ruolo di direttore: nientemeno che all’ex direttore di Ltf, Marco Rettighieri. Lo stesso che ha seguito, tra le varie cose, il cantiere Tav della Maddalena». Nelle carte giudiziarie del Tribunale di Milano, che descrivono in maniera dettagliata lo scandalo dell’Expo e le motivazioni «che hanno portato agli arresti eccellenti di una banda di politici, dirigenti, faccendieri e imprenditori» per la gestione irregolare degli appalti pubblici, viene citata più volte anche la famosa Cmc, attiva anche in valle di Susa. «L’aspetto interessante – aggiunge Tanzilli – riguarda soprattutto il ruolo che avrebbe Primo Greganti, fino a ieri tesserato del Pd a Torino, e il suo rapporto con la Cmc». Già nel 2013 la Cmc chiese a Greganti informazioni sul padiglione Cina. «Trent’anni fa l’avevo portata io la Cmc a Shangai», si sarebbe vantato Greganti, che – secondo gli inquirenti – avrebbe ottenuto contratti fittizi di consulenza, per giustificare le elargizioni di denaro in cambio della sua diplomazia affaristica pro-Cmc.Il nome della potente cooperativa rossa, aggiunge Tanzilli, ricorre nelle pagine dell’ordinanza del Tribunale anche per un altro episodio, la preoccupazione dei personaggi dello scandalo Expo per un problema giudiziario che ha coinvolto la Cmc a Molfetta: l’arresto del procuratore speciale della cooperativa nel cantiere pugliese, dopo che si è scoperta la truffa riguardante il “cantiere fantasma” del porto. «Nelle chiacchierate della banda dell’Expo, è in particolar modo Maltauro (l’imprenditore vicentino arrestato che sarebbe a capo del gruppo delle turbative d’asta) a definire quello della Cmc un problema pesante e serio». E qui ricompare il nome di Greganti, «che avrebbe avuto il ruolo di “soccorritore”, pronto a tranquillizzare gli animi e ad escogitare qualcosa per risolvere il problema e tutelare la Cmc». Secondo Gad Lerner, personaggi come il presidente della Cmc, Matteucci, «lasciano bene intendere chi tenga il coltelllo dalla parte del manico anche nel rapporto con i dirigenti dei partiti della sinistra». Illegalità o no, chiosa il sito “NoTav.info”, il fatto che colpisce è «l’intreccio di potere tra i soliti noti e i partiti, che – come avvoltoi – decidono le grandi opere e i grandi eventi per spolpare più denaro pubblico possibile».Marco Rettighieri, dirigente di Italferr, sostituisce Angelo Paris, responsabile dell’Expo di Milano, arrestato per la devastante tangentopoli attorno al grande evento mondiale. Notizia: Rettighieri è stato direttore di Ltf, la società della Torino-Lione, che per l’unico cantiere finora aperto – quello del tunnel geognostico di Chiomonte – ha ingaggiato proprio la Cmc di Ravenna, ora nell’occhio del ciclone per il ruolo strategico che a Milano avrebbe affidato a Primo Greganti, secondo gli inquirenti pagato con consulenze fittizie per giustificare le elargizioni di denaro in cambio del suo impegno “diplomatico” a favore della potente cooperativa rossa di Ravenna. «A una decina di giorni dall’arresto di Primo Greganti – complimenti per la tempestività – il presidente della Cmc di Ravenna in una intervista a “La Repubblica” ammette che fra la sua cooperativa e il faccendiere Primo Greganti era vigente un contratto di consulenza», osserva Gad Lerner nel suo blog.
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Pagliacci assassini, vi raccontano che il cattivo è Putin
La prima notizia è che Barack Obama scorrazza impunemente per l’Europa, senza doversela vedere con manifestazioni di protesta. Obama stringe mani di “alleati” belanti, nonostante quello che i suoi tagliagole hanno appena combinato a Kiev, a Odessa, nell’Est dell’Ucraina. L’altra notizia è che questo spettacolo non piace all’opinione pubblica europea: un sorprendende sondaggio dell’“Independent” rivela che il 90% degli inglesi stima Putin, il quale sta agendo in modo legittimo secondo l’ex cancelliere tedesco Schmidt. Lo pensano anche milioni di cittadini tedeschi: la Russia, minacciata dal golpe organizzato dagli Usa a Kiev, si è dovuta muovere tempestivamente per salvare la sua unica base navale in acque calde, sul Mar Nero, in Crimea, peraltro decisiva – meno di un anno fa – per organizzare la protezione della Siria e scongiurare l’attacco della Nato. Ma, anche in Germania, i media non stanno dalla parte dei cittadini: quelli che si attengono semplicemente ai fatti, dice Diana Johnstone, vengono definiti “Putinversteher”, cioè “persone che capiscono Putin”, individui stravaganti.«Non siamo tenuti a capire, noi dobbiamo odiare: i media esistono per questo motivo», dice la Johnstone, autrice del libro-denuncia “La crociata dei dementi” (“Fools’ Crusade: Yugoslavia, Nato, and Western Delusions”). Mentre l’Occidente si rifiuta ostinatamente di “capire” Putin, annota la saggista in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, il capo del Cremlino sembra comprendere benissimo che lui e la sua nazione «vengono sistematicamente attirati con l’inganno in una trappola mortale da un nemico che eccelle nell’arte contemporanea della “comunicazione”». In una situazione di guerra, «la comunicazione della Nato dimostra che non è importante chi fa cosa: l’unica cosa che conta è chi racconta la storia». E i media occidentali stanno recitando un copione prestabilito: Putin è il nuovo Hitler pronto all’invasione. A Odessa, dove i neonazisti anti-russi hanno organizzato un massacro raccapricciante, «i media occidentali non hanno notato atrocità, non hanno sentito di alcuna violenza, non hanno riferito di crimine alcuno. Hanno solamente condannato una “tragedia” che era appena accaduta in un qualche modo imprecisato».Odessa, aggiunge la Johnstone, è la dimostrazione che, qualunque cosa accada, la classe politica della Nato – militari, leader politici e media – punta sulla “sua” storia e si attene ad essa: «I nazionalisti che hanno preso il potere a Kiev sono i “buoni”, mentre le persone che vengono assaltate a Odessa e nell’est dell’Ucraina sono “filo-russi” e, di conseguenza, i “cattivi”». E dire che non ci va molto a “capire” Putin, a patto che si sappia distinguere tra verità e palesi menzogne. Come quelle che racconta il ministro degli esteri inglese William Hague, secondo cui la Russia sta «cercando di orchestrare conflitti e provocazioni» nel sud e nell’est dell’Ucraina, come se Putin fosse improvvisamente impazzito, felice di avere una guerra civile sulla porta di casa e, di conseguenza, i missili della Nato piazzati a 400 chilometri da Mosca. «Putin può solo desiderare di trovare una soluzione pacifica al caos ucraino», scrive la Johnstone, perché sa che il golpe di Kiev è stato una trappola ispirata da strateghi americani come Zbigniew Brzezinski, il cui sogno è la caduta di Putin e il potenziale smembramento della Russia.Per questo, Putin ha aperto un nuovo canale diplomatico con lo svizzero Didier Burkhalter, presidente dell’Ocse, e ha appena allontanato l’esercito russo dal confine ucraino, temendo una provocazione “false flag”, un falso sconfinamento organizzato tra Washington e Kiev per poi attribuirne a Mosca la responsabilità. Il ritiro delle truppe ha spaventato i russofoni, che temono di essere abbandonatio dal Cremlino sotto la pressione dell’Occidente, ma Putin si è anche speso con energia perché fossero evitati i referendum dell’est dell’Ucraina. Molto serio, peraltro, l’allarme sulla possibile violazione dei confini: i russi hanno appreso che l’Sbu, il servizio segreto ucraino, aveva segretamente inviato 200 uniformi russi e i documenti (falsi) di 70 ufficiali russi a Donetsk, una delle capitali della protesta, per mettere in scena un falso attacco contro le pattuglie di frontiera ucraine. Il piano, sostiene l’agenzia di stampa russa “Ria Nòvosti”, sarebbe stato quello di «simulare un attacco contro truppe di frontiera ucraine e filmarlo per i media». Al che, «una dozzina di combattenti dall’ultra-destra nazionalista avrebbero dovuto attraversare il confine e rapire un soldato russo, al fine di presentarlo come “prova” dell’incursione militare russa. L’operazione era prevista per l’8 o il 9 maggio».Spostando le truppe russe più lontano dal confine, aggiunge la Johnstone, Putin potrebbe sperare di rendere l’operazione “false flag” meno plausibile, e magari scongiurarla. Ma non c’è da stare tranquilli, perché «l’intera operazione ucraina, almeno in parte diretta da Victoria Nuland del Dipartimento di Stato Usa, è stata caratterizzata da operazioni “false flag”, tra cui quelle maggiormente note tramite i cecchini che hanno improvvisamente propagato i massacri e il terrore in piazza Maidan a Kiev, distruggendo di fatto l’accordo di transizione sponsorizzato a livello internazionale. I ribelli “filo-occidentali” hanno accusato il presidente Yanukovich di aver inviato gli assassini, e costretto il resto del Parlamento a dare il potere di governo al protetto della signora Nuland, Arseniy Yatsenyuk. Tuttavia, sono uscite fuori un gran numero di prove a dimostrare che i misteriosi cecchini erano mercenari filo-occidentali: prove fotografiche, seguite dalla dichiarazione telefonica di conferma del ministro degli esteri dell’Estonia, e infine dal canale televisivo tedesco “Ard”, il cui documentario del programma “Monitor” ha concluso che i cecchini provenivano dai gruppi di estrema destra anti-russi coinvolti nella rivolta di Maidan».Tutte le prove conosciute portano a un un’operazione “false flag” da parte dei fascisti inquadrati dagli americani a addestrati in Polonia, eppure i media e i politici occidentali continuano ad addossare tutte le colpe alla Russia. «Qualunque cosa faccia, Putin deve rendersi conto che sarà volutamente “frainteso” e rappresentato in maniera distorta». La verità, conclude Diana Johnstone, è che «sopra le teste del popolo americano, dei tedeschi, dei francesi e degli altri europei, un accordo privato per rianimare la guerra fredda è certamente stato raggiunto tra gli “oligarchi” occidentali, al fine di garantire all’Occidente un “nemico” abbastanza serio da salvare il complesso militare-industriale e unire la comunità transatlantica contro il resto del mondo». Naturalmente, gli oligarchi non stanno con le mani in mano neppure sul fronte degli affari: Hunter Biden, figlio del vicepresidente americano Joe Biden, ha appena avuto in dono il business del gas ucraino. Se non altro, settori sempre più vasti dell’opinione pubblica “vedono” quello che i media negano: è l’America cerca di trascinare in guerra la Russia. E se il mondo non precipiterà nella catastrofe, dovrà ringraziare innanzitutto Putin.…..Barack Obama, Europa, Kiev, Odessa, Ucraina, opinione pubblica, sondaggi, The Independent, Gran Bretagna, Vladimir Putin, Germania, Helmut Schmidt, Russia, golpe, Usa, Kiev, flotta, Mar Nero, Crimea, Siria, Nato, media, mainstream, disinformazione, cittadini, Diana Johnstone, odio, denuncia, crociate, Jugoslavia, Occidente, Come Don Chisciotte, Cremlino, inganno, trappola, comunicazione, guerra, Adolf Hitler, invasione, neonazisti, neonazismo, massacro, orrore, atrocità, violenza, crimini, tragedia, politica, militari, leader, nazionalismo, potere, verità, menzogne, William Hague, provocazioni, guerra civile, missili, Mosca, caos, Zbigniew Brzezinski, diplomazia, Svizzera, Didier Burkhalter, Ocse, esercito, false flag, referendum, allarme, violazioni, frontiere, Sbu, servizi segreti, intelligence, Donetsk, Ria Nòvosti, destra, Victoria Nuland, Dipartimento di Stato, cecchini, terrore, piazza Maidan, Viktor Yanukovich, Parlamento, Arseniy Yatsenyuk, mercenari, Estonia, televisione, Ard, documentario, Monitor, Polonia, popolo, Francia, guerra fredda, oligarchi, affari, Hunter Biden, Joe Biden, business, gas, catastrofe,La prima notizia è che Barack Obama scorrazza impunemente per l’Europa, senza doversela vedere con manifestazioni di protesta. Obama stringe mani di “alleati” belanti, nonostante quello che i suoi tagliagole hanno appena combinato a Kiev, a Odessa, nell’Est dell’Ucraina. L’altra notizia è che questo spettacolo non piace all’opinione pubblica europea: un sorprendende sondaggio dell’“Independent” rivela che il 90% degli inglesi stima Putin, il quale sta agendo in modo legittimo secondo l’ex cancelliere tedesco Schmidt. Lo pensano anche milioni di cittadini tedeschi: la Russia, minacciata dal golpe organizzato dagli Usa a Kiev, si è dovuta muovere tempestivamente per salvare la sua unica base navale in acque calde, sul Mar Nero, in Crimea, peraltro decisiva – meno di un anno fa – per organizzare la protezione della Siria e scongiurare l’attacco della Nato. Ma, anche in Germania, i media non stanno dalla parte dei cittadini: quelli che si attengono semplicemente ai fatti, dice Diana Johnstone, vengono definiti “Putinversteher”, cioè “persone che capiscono Putin”, individui stravaganti.
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Blondet: imbecilli, applaudono l’uomo della guerra
«Italiani, siete seriamente candidati al premio Darwin. Quando una intera nazione è nel vostro stato, si piega a simili governanti, accetta l’euro (lo accettate ancora in maggioranza), stima Draghi il Rettiliano, considera Napolitano un buon vecchio nonno e si aspetta protezione da Washington e aiuti da Berlino, non appende in piazza Loreto i suoi padroni folli, è logico che finisca come i dinosauri». E’ l’invettiva con cui Maurizio Blondet, su “Effedieffe”, conclude il suo grido di allarme sui drammatici sviluppi della crisi con Mosca: Obama ci sta letterarmente trascinando verso una possibile Terza Guerra Mondiale. Lo dimostra la preoccupante escalation politico-diplomatica contro Mosca, con risvolti militari su cui il mainstream tace: con l’Ue, «nuova prigione dei popoli», l’Ucraina ha appena firmato un dossier di assistenza militare in caso di guerra, mentre ci sono anche militari italiani nel team americano che sta sorvolando, ogni settimana, lo spazio aereo russo. E tutti – tranne Berlusconi – applaudono Obama.«Quelli che decidono a vostro nome sia da Roma, sia soprattutto da Bruxelles, hanno scelto per voi», scrive Blondet, in un post ripreso da “Megachip”. Escludere Mosca dal G8 e accodarsi a Obama, che si permette di minacciare la Russia «in difesa del governicchio ucraino, frutto delle eversioni americane, ovviamente anch’esso non eletto dagli ucraini». Esplicito, l’inquilino della Casa Bianca: «Agiremo in loro difesa qualunque cosa accada: questa è la Nato». Secondo Obama, «ci sono momenti in cui l’azione militare può essere giustificata». Possibile casus belli, dopo l’Ucraina, la “difesa” dei paesi baltici: Lituania, Estonia e Lettonia hanno una popolazione paragonabile a quella di una media provincia italiana, eppure «a Bruxelles contano più di Italia e Spagna», inoltre «fanno i galletti e sfidano Mosca, si armano spendendo il 4% del loro ridicolo bilancio per gli armamenti, perché si sanno coperti dall’America». E Washington, dice Blondet, li addita ad esempio: «Voi europei grossi e molli spendete troppo poco in armi, l’1, il 2% del Pil, scrive il “Wall Street Journal”, dovete armarvi di più, spendere più dalla Lockheed».Accusa Blondet: «Ebbene: i vostri politici vi hanno impegnato a difendere i baltici. Hanno detto sì ad Obama, senza nemmeno rimproverargli le manovre eversive americane a Kiev, ampiamente provate». In pratica, i nostri politici hanno «firmato di nuovo il patto di difesa reciproca della Nato», struttura «che avremmo dovuto sciogliere già dal ‘90, quando si sciolse il Patto di Varsavia». Sicché ora, «se uno dei galletti baltici fa qualche provocazione, noi dovremo partecipare alla guerra contro la Russia, e intanto subire le conseguenze economiche dell’embargo decretato anche da noi, per ordine di Washington». Pericolosa, aggiunge Blondet, la pratica dei sorvoli dello spazio aereo russo, avviati dopo la conquista di Kiev da parte delle milizie di piazza Maidan. Gli Usa «hanno cominciato a sorvolare coi loro aerei lo spazio russo, obbligando anche noi a fare altrettanto». Lo fanno «in base al trattato internazionale Cieli Aperti, “Open Skies”, firmato a Vienna per aumentare la fiducia reciproca nel campo della minaccia nucleare».Il trattato obbliga i paesi firmatari ad aprire il loro spazio aereo a regolari ispezioni. «In buona fede, Putin ha firmato questo trattato nel 2001. La Cina invece no, e guardacaso nessuno la minaccia». Da giorni, «il sorvolo è diventato una vera passione per Washington».Blondet riferisce che il 3 marzo il sorvolo ha visto ispettori francesi a fianco degli americani, mentre l’11 marzo con gli statunitensi «si sono levati ispettori italiani», imitati il 17 marzo da “ispettori” ucraini («non si sa a che titolo») e il 24 marzo di nuovo da ispettori francesi. Un sorvolo a settimana: «Immaginate solo se Putin pretendesse di fare altrettanto nello spazio aereo americano, in questo momento di estrema tensione: tutti i nostri media, all’unisono con i loro padroni americani, strillerebbero: “Provocazione! Aggressione! Espansionismo paleo-sovietico!”». La cosa preoccupante? «E’ quel che ha detto Obama, piombato in Europa a darci ordini. Ha detto di non essere preoccupato dall’aggressione Russa come minaccia per gli Stati Uniti; ha aggiunto però che quello che lo preoccupa è “un fungo atomico sopra Manhattan”. Sapendo che a Manhattan hanno avuto lo stomaco di far saltare quei due grattacieli (l’11 Settembre, e vi siete bevuti la storia ufficiale) per giustificare l’invasione di Afghanistan ed Iraq nonché l’introduzione della tortura nel diritto di guerra statunitense e il non-riconoscimento dei nemici come combattenti legittimi».Blondet riferisce che, nel frattempo, all’Aia si è svolto uno strano vertice sulla sicurezza nucleare. Secondo il ministro degli esteri canadese, John Baird, «al momento attuale la minaccia di terrorismo nucleare resta una delle più gravi per la sicurezza mondiale». Da qui il rafforzamento del partenariato con Israele – presente Yuval Steinitz, ministro dell’intelligence di Tel Aviv – per aiutare «gli Stati del Medio Oriente e altrove a perseguire i pericolosi criminali che conducono attività nucleari illecite». Chi pensava alla solita trama paranoide sionista contro l’Iran, dice Blondet, ora dovrà ricredersi, di fronte alla sconcertante uscita di Obama, che dice di temere «un fungo atomico sopra Manhattan». Siamo sicuri che l’Ucraina abbia consegnato, a suo tempo, tutte le testate che aveva in custodia dall’Armata Rossa? La stessa Yulia Tymoshenko ha appena dichiarato di voler sterminare, con l’atomica, gli 8-10 milioni di russi che vivono nell’Est dell’Ucraina.Escalation nucleare? «Se accade, italioti, ci siete in mezzo», scrive Blondet. «Vi hanno messo in mezzo i mascalzoni di Bruxelles, vi ci ha messo quel tizio danese che si chiama Ander Fogh Rasmussen, vi ha messo in mezzo il governo Napolitano – pardon, volevo dire il governo Renzi». E per cosa? «Per salvare “la democrazia” in Ucraina», un paese che vuole “venire in Europa” e intanto – a parte le atomiche della Tymoshenko – ha già proibito la lingua russa e spento le televisioni che trasmettevano in russo. E sui nostri media mainstream, naturalmente, notte fonda: si evita di dire che l’Ucraina ha firmato solo il 2% del trattato di pre-adesione all’Ue, cioè la parte che riguarda «un piano per una politica estera e di sicurezza congiunta», e che dopo le elezioni del 25 maggio si trasformerà in «un insieme di condizioni di riforma militare che equivalgono “ad un accordo con la Nato preliminare all’integrazione”».Regista dell’operazione, Herman Van Rompuy. «E i nostri politici non hanno eccepito. Anzi, hanno detto: “Sì, escludiamo la Russia dal G8”». Tutti, tranne uno: Berlusconi. «Credo sia avventato e controproducente aver escluso la Russia dal vertice di ieri all’Aia», ha detto il Cavaliere. «Questo contrasta con il lungo lavoro fatto da noi, dal governo italiano: siamo stati noi a trasformare il G7 in G8 a Genova con Putin». Peccato però che Berlusconi non sia più in Parlamento e sia prossimo agli arresti domiciliari, conclude Blondet. Il leader di Forza Italia – l’unico fuori dal coro anti-russo – non ha più alcuna prospettiva di governare in futuro, e dopo tutti i disastri del passato recente – ora appare troppo indebolito per impostare una politica anti-Ue e contraria alle pericolose forzature di Obama. «L’elettorato di centrodestra è nella mani dell’harem, della mignottocrazia, delle concubine». In altre parole, siamo rovinati: se Berlusconi sembra «un decrepito imperatore cinese», tutti gli altri applaudono entusiasti alla guerra che verrà.«Italiani, siete seriamente candidati al premio Darwin. Quando una intera nazione è nel vostro stato, si piega a simili governanti, accetta l’euro (lo accettate ancora in maggioranza), stima Draghi il Rettiliano, considera Napolitano un buon vecchio nonno e si aspetta protezione da Washington e aiuti da Berlino, non appende in piazza Loreto i suoi padroni folli, è logico che finisca come i dinosauri». E’ l’invettiva con cui Maurizio Blondet, su “Effedieffe”, conclude il suo grido di allarme sui drammatici sviluppi della crisi con Mosca: Obama ci sta letterarmente trascinando verso una possibile Terza Guerra Mondiale. Lo dimostra la preoccupante escalation politico-diplomatica contro Mosca, con risvolti militari su cui il mainstream tace: con l’Ue, «nuova prigione dei popoli», l’Ucraina ha appena firmato un dossier di assistenza militare in caso di guerra, mentre ci sono anche militari italiani nel team americano che sta sorvolando, ogni settimana, lo spazio aereo russo. E tutti – tranne Berlusconi – applaudono Obama.
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Schmidt: capisco Putin, l’Occidente scherza col fuoco
«Nelle due guerre mondiali la Russia era con l’Occidente e la Germania era dalla parte sbagliata, oggi lo dimentichiamo». L’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt avverte l’Europa: la politica di Obama è pericolosa, sulla Crimea è «comprensibile» la posizione di Putin. «Al Consiglio di sicurezza dell’Onu, mi asterrei come hanno fatto i cinesi», dice Schmidt, intervistato da Matthias Nass per “Die Zeit” e “Reoubblica”. La situazione potrebbe precipitare, se l’Occidente continuasse il suo “assedio” nei confronti della Russia. Specie nella contesa sull’Ucraina, che non è mai neppure esistita, veramente, come Stato nazionale. Dall’anziano statista tedesco un monito esplicito: «Si discute molto sulle cause della Prima Guerra Mondiale, che nessuno voleva, eppure scoppiò. La maggior parte delle guerre non sono pianificate. Lo furono solo alcune: l’attacco di Napoleone alla Russia, o la Seconda Guerra Mondiale, pianificata da Hitler. Una Terza Guerra Mondiale è molto inverosimile, ma non è totalmente impensabile».La situazione è pericolosam spiega Schmidt, perché «il nervosismo dell’Occidente crea nervosismo anche in Russia». Poco saggio, secondo l’ex cancelliere, utilizzare solo il metro del diritto internazionale, magari per giudicare “una violazione” l’annessione della Crimea, peraltro attuata a furor di popolo. «Il diritto internazionale è molto importante, ma è stato violato molte volte. Per esempio l’ingerenza nella guerra civile in Libia: l’Occidente ha ben ecceduto il mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu». Attenzione: «Lo sviluppo storico della Crimea è più importante del diritto internazionale». Tanto più che, fino ai primi anni ‘90, «l’Occidente non ha dubitato che Crimea e Ucraina fossero parti della Russia». Kiev è capitale di uno Stato indipendente ma non nazionale: «E’ molto discusso, tra gli storici, se esista una nazione ucraina». Quella di Putin, quindi, sarebbe una “violazione” molto anomala, perché commessa «contro uno Stato che, provvisoriamente, attraverso la rivoluzione di Majdan, non esisteva e non era capace di funzionare».A chi teme che Mosca ora potrebbe mettere un’ipoteca anche sull’Ucraina orientale popolata da russi e russofoni, Schmidt risponde che «sarebbe un errore, da parte dell’Occidente, comportarsi pensando che un simile sviluppo sia l’inevitabile prossimo passo russo». Uno scontro militare è possibile? «È pensabile. Non è né necessario, né inevitabile. Al momento il pericolo è piccolo, ma non è nullo». Le sanzioni antui-Cremlino? «Sono una stupidaggine. Specialmente il divieto di viaggio in Occidente per alte personalità della leadership russa. E sanzioni economiche colpirebbero l’Occidente come i russi». Idem per le forniture energetiche: l’Europa dovrebbe divenire indipendente dall’energia russa, come vorrebbero gli Usa? «È possibile», ma «non sarebbe saggio», perché «anche alla fine del XXI secolo la Russia resterà il vicino molto importante che fu dai tempi di Pietro il Grande». Quindi: cautela diplomatica, o si scherza col fuoco. E’ possibile che Putin si senta «erede di Pietro, dei Romanov e di Lenin», ma certo «non è un megalomane», dice Schmidt al giornalista di “Die Zeit”. «Si metta nei suoi panni: probabilmente sulla Crimea avrebbe reagito come lui».«Nelle due guerre mondiali la Russia era con l’Occidente e la Germania era dalla parte sbagliata, oggi lo dimentichiamo». L’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt avverte l’Europa: la politica di Obama è pericolosa, sulla Crimea è «comprensibile» la posizione di Putin. «Al Consiglio di sicurezza dell’Onu, mi asterrei come hanno fatto i cinesi», dice Schmidt, intervistato da Matthias Nass per “Die Zeit” e “Repubblica”. La situazione potrebbe precipitare, se l’Occidente continuasse il suo “assedio” nei confronti della Russia. Specie nella contesa sull’Ucraina, che non è mai neppure esistita, veramente, come Stato nazionale. Dall’anziano statista tedesco un monito esplicito: «Si discute molto sulle cause della Prima Guerra Mondiale, che nessuno voleva, eppure scoppiò. La maggior parte delle guerre non sono pianificate. Lo furono solo alcune: l’attacco di Napoleone alla Russia, o la Seconda Guerra Mondiale, pianificata da Hitler. Una Terza Guerra Mondiale è molto inverosimile, ma non è totalmente impensabile».
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Voto inutile, D’Andrea: la truffa delle europee 2014
Vi hanno raccontato che queste elezioni europee saranno decisive per il futuro del continente prostrato dall’austerity? Sperare di cambiare le cose con il voto di maggio è una pia illusione, sostiene Stefano D’Andrea, perché chi esibisce propositi bellicosi contro Bruxelles in realtà non ha un vero programma, e perché – soprattutto – il Parlamento Europeo non conta niente. Boicottare le elezioni? Non occorrono appelli: l’astensionismo è in crescita costante. Se non altro, scrive D’Andrea su “Appello al popolo”, rinunciare alle urne può contribuire a delegittimare ulteriormente l’Unione Europea, in attesa che si “estingua” da sola, nell’unico modo possibile: cioè l’uscita unilaterale di uno dei paesi-cardine, come la Francia di Marine Le Pen o l’Inghilterra, che ha già messo in agenda un referendum per scegliere se restare o meno nell’istituzione comunitaria.Se appare ormai evidente l’insostenibilità economica e democratica dei trattati-capestro europei, da Maastricht al Fiscal Compact, il blogger ricorda che «sono gli Stati dell’Unione che possono modificare i trattati, non i cittadini attraverso i loro rappresentanti eletti in Parlamento», che ha poteri paragonabili a quelli del collegio sindacale di un’azienda, non certo dell’assemblea degli azionisti. Per l’approvazione del bilancio annuale dell’Ue, Strasburgo «non ha effettivi poteri, perché la richiesta unanimità dei membri del Consiglio impone di trovare l’accordo a livello intergovernativo». Idem per la funzione legislativa: «La regola è che “un atto legislativo dell’Unione può essere adottato solo su proposta della Commissione, salvo che i Trattati non dispongano diversamente”. Quindi il Parlamento “legifera” ma ha una limitata iniziativa: in linea di principio legifera su impulso della Commissione. E comunque quando legifera, lo fa per per attuare i trattati».Quanto alle procedure di “revisione ordinaria”, oltre che dal Parlamento Europeo, un progetto di modifica «può essere presentato da qualsiasi Stato membro, dalla Commissione e dal Consiglio», il cui potere è invece vincolante: «Il Consiglio Europeo, a maggioranza semplice, decide se è opportuno procedere alle modifiche proposte: può quindi decidere che non sia opportuno. Basta dunque che la maggioranza degli Stati, ossia dei governi, sia contraria alla modifica proposta, che la procedura di revisione nemmeno inizia». E dato che l’Unione Europea è una organizzazione internazionale fondata sui trattati, «le modifiche dei trattati implicano sempre l’unanimità nel Consiglio europeo», ovvero «il consenso di tutti i governi o capi di Stato». Brutte notizie, dunque, per i “sovranisti”, cioè «coloro che intendono riconquistare la sovranità», per ridefinire su basi eque e democratiche la partnership tra Stati europei. Dunque: «Un partito che avesse una posizione politica chiaramente sovranista che si presenta a fare alle elezioni del Parlamento Europeo?».Sulle barricate contro Bruxelles c’è ad esempio la Lega Nord, ostile essenzialmente all’euro. Tesi: «Si può “recedere da alcuni articoli dei trattati” e segnatamente dalle norme che riguardano l’unione monetaria e assumere, secondo la propria volontà, la posizione che oggi hanno l’Inghilterra e la Danimarca, ovvero mutare la posizione dell’Italia da Stato con l’euro a Stato con deroga». Secondo D’Andrea, «se mai l’Italia assumesse unilateralmente questa decisione di rottura dell’ordine giuridico europeo, il rischio di conflitti diplomatici, commerciali e giurisdizionali sarebbe molto maggiore che non in caso di recesso dai trattati». In ogni caso, aggiunge il blogger, i partiti che sostengono questa posizione «non hanno alcuna ragione per candidarsi alle elezioni europee (salvo voler consolidare il potere, eleggere deputati e prendere rimborsi). In che modo, infatti, entrando nel Parlamento Europeo, la Lega agevolerebbe la realizzazione dell’obiettivo politico che essa dichiara di perseguire, il quale implica una decisione del governo nazionale? I deputati europei non potrebbero apportare alcun contributo all’obiettivo prefissato».Poi ci sono il Movimento 5 Stelle e la “Lista Tsipras”, che intendono candidarsi a Strasburgo per “modificare” i trattati. «Questi due gruppi politici non intendono né recedere dall’Unione Europea, né recedere dal solo euro, bensì modificare i trattati», a cominciare dal Fiscal Compact. Attenzione: anche nel caso (improbabile) in cui il Parlamento Europeo dovesse votare a maggioranza la richiesta di abolizione del “patto fiscale”, quel voto potrebbe essere «vanificato e mortificato dal Consiglio Europeo a maggioranza semplice, nonché modificato (nel contenuto del progetto) dalla Convenzione nella raccomandazione e stravolto discrezionalmente dalla Conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri». L’assemblea degli eurodeputati – l’unica struttura democratica dell’Ue, eletta dai cittadini – non ha il potere di modificare i trattati. «Che senso ha, dunque, che un partito o movimento che è critico nei confronti dei trattati europei e voglia modificarli si candidi al Parlamento Europeo? Questo partito prende in giro gli elettori o è diretto da incompetenti. Eleggere parlamentari europei non serve assolutamente a nulla per raggiungere l’obiettivo dichiarato».«I trattati europei – conclude D’Andrea – saranno modificati soltanto quando la Francia, l’Italia, l’Inghilterra, la Germania o forse la Spagna recederanno e recedendo costringeranno le controparti ad addivenire a modifiche sostanziali dei trattati, sempre che lo Stato recedente desideri la modifica dei trattati». Rispetto all’Ue, gli Stati «cooperano come il lavoratore subordinato al datore di lavoro», perché a Bruxelles «la cooperazione è l’ideologia per ingannare gli ingenui». Quindi, non si scappa: chi vuol veramente modificare i trattati europei deve prima «conquistare il potere all’interno dello Stato nazionale». Meglio boicottare le elezioni, se poi i parlamentari europei saranno chiamati sostanzialmente ad attuare quei trattati. «L’unica vera ragione per la quale M5S, Lega e lista Tsipras si candidano alle elezioni europee è di ottenere visibilità, posti da deputato, finanziamenti e successo da spendere sul piano politico nazionale». Chi tifa per l’astensionismo ha di che sperare: nel 2009 votò solo il 43% dei cittadini europei, in Italia il 65%. Il vero successo dei sovranisti e di coloro che intendono modificare i trattati europei, dice D’Andrea, sarebbe abbassare ulteriormente l’affluenza italiana, al di sotto del 50%.Vi hanno raccontato che queste elezioni europee saranno decisive per il futuro del continente prostrato dall’austerity? Sperare di cambiare le cose con il voto di maggio è una pia illusione, sostiene Stefano D’Andrea, perché chi esibisce propositi bellicosi contro Bruxelles in realtà non ha un vero programma, e perché – soprattutto – il Parlamento Europeo non conta niente. Boicottare le elezioni? Non occorrono appelli: l’astensionismo è in crescita costante. Se non altro, scrive D’Andrea su “Appello al popolo”, rinunciare alle urne può contribuire a delegittimare ulteriormente l’Unione Europea, in attesa che si “estingua” da sola, nell’unico modo possibile: cioè l’uscita unilaterale di uno dei paesi-cardine, come la Francia di Marine Le Pen o l’Inghilterra, che ha già messo in agenda un referendum per scegliere se restare o meno nell’istituzione comunitaria.
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Generazione decrescente: la crisi e la formica utopista
Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.Certo, l’attuale modello di sviluppo ha avvelenato la Terra e prodotto solitudine e depressione. E ora che s’è inceppato, abbandona al suo destino la prima “generazione decrescente” della storia occidentale moderna, quella che sa di non poter avere quello che ebbero tutte le generazioni precedenti: la legittima speranza di crescere ancora. Il che però non significa, di per sé, precipitare nell’abisso: ci si può attrezzare per vivere meglio, comunque, a prescindere dall’ecatombe del Pil. E’ la tesi di Andrea Bertaglio, classe 1979, espressa nella sua ultima dolente ricognizione editoriale presentata da Maurizio Pallante, di cui è stretto collaboratore. Il libro si affaccia con angoscia sul panorama desolante dei coetanei, traditi dalle false promesse dello sviluppo illimitato e condannati all’esilio o al call center, in precaria alternativa alla disoccupazione perenne, mentre intorno si sfasciano, giorno per giorno, tutte le certezze del sistema Italia. Sta franando, il nostro paese, che pure militava nel G7 – settima potenza industriale del mondo – e che l’Eurozona dell’austerity ha letteralmente declassato, stroncato, ridotto a mendicare clemenza dai potenti signori di Bruxelles, che peraltro nessuno ha mai eletto.Tutto questo accade, sostengono ormai molti analisti, perché l’élite mondiale non tollera di dover “dividere la torta” con ormai 7 miliardi di esseri umani e le loro inevitabili aspirazioni di consumo. Cibo e terre, acqua, energia, tecnologia, merci. Il risveglio dell’ex terzo mondo, oggi guidato dai Brics, dopo la caduta dell’Urss ha fatto esplodere il business della globalizzazione selvaggia, le delocalizzazioni, il lavoro schiavistico. L’industria? Sempre meno conveniente, per gli antichi “padroni”: meglio la pura speculazione finanziaria. A una condizione, essenziale: sbaraccare l’ostacolo della politica democratica, il welfare, la sovranità degli Stati, le leggi a tutela del cittadino, i diritti del lavoro. Per teorici intransigenti come Paolo Barnard – che cita economisti come il francese Alain Parguez, già insider all’Eliseo – basta dare un’occhiata alle biografie dei padri fondatori dell’Unione Europea (l’autoritario Mitterrand, “monarchico” come il suo guru Jacques Attali, e il primo presidente della Commissione Europea, Jacques Delors, definito “uomo dell’Opus Dei”) per capire che razza di progetto – a vocazione feudale – sia quello dell’Ue, di cui l’euro rappresenza il braccio armato, con un unico grande obiettivo: radere al suolo la sovranità finanziaria degli Stati membri, e quindi la loro residua capacità di proteggere le rispettive comunità nazionali.Il tracollo è ovvio, perfettamente voluto. Se privatizzi la moneta crolla tutto, a cascata: credito, spesa pubblica, settore privato dell’economia, occupazione, risparmi delle famiglie. “Masters of the Universe”, li chiama Noam Chomsky. Sono l’élite planetaria, erede dell’oligarchia occidentale che per due secoli, e in particolare nella seconda metà del ‘900, ha subito come un affronto la nascita della democrazia moderna, l’avvento dello Stato come erogatore di benessere materiale per i propri cittadini, grazie alla libera creazione di moneta. Oggi? Si stanno semplicemente riprendendo tutto, abolendo di fatto la democrazia. E lo fanno in un mondo sovrappopolato e minacciato da più crisi, concomitanti e tutte potenzialmente letali: energia, clima, economia, acqua, cibo, ambiente. Per Giulietto Chiesa, autore del saggio “Invece della Catastrofe” che parte dalle drammatiche profezie del Club di Roma sui raggiunti limiti dello sviluppo del capitalismo coloniale e mercantile, ci sono tutte le condizioni geopolitiche per temere l’avvento di una Terza Guerra Mondiale.Dopo l’11 Settembre la storia s’è rimessa a correre: Iraq e Afghanistan, Libia e Siria, ora Ucraina. Evidente il tentativo degli Usa di coinvolgere l’Europa in una drammatica sfida con la Russia. Obiettivo: fermare l’avanzata della Cina, sfruttando l’unico vero vantaggio di cui gli Stati Uniti ancora dispongono, cioè la supremazia tecnologico-militare. Il guaio, avverte uno storico medievista come Franco Cardini, è che ormai a decidere non sono più i governi eletti dal Parlamento, perché tutte le maggiori istituzioni nazionali e soprattutto internazionali – politiche, diplomatiche, economiche, finanziarie – sono capillarmente infiltrate dalle lobby dell’élite, che tende a militarizzare il mondo impiegando missili-fantasma, droni-killer, milizie private, eserciti mercenari. Si preparano soluzioni sbrigative, repressioni, abolizioni di diritti sociali. Un incubo, che aiuta a comprendere lo scenario nel quale sono paracadutati i trentenni di oggi, a cui anche in Germania viene spiegato che i mini-job da 500 euro al mese sono un lusso, dati i tempi che corrono. C’è una guerra in corso, appunto. Ma ancora si stenta a riconoscerla.Di recente, in un incontro coi ragazzi torinesi del Movimento per la Decrescita Felice, un intellettuale ultra-indipendente come Guido Ceronetti ha ammesso la propria nostalgia per il socialismo, cioè un sistema in cui lo Stato garantisca pari opportunità per tutti. Lo Stato è il grande assente dei nostri giorni: privandolo della sua sovranità fisiologica, i trattati-capestro di Bruxelles lo costringono a trasformarsi in spietato esattore, non avendo più altra fonte finanziaria che quella fiscale. Un libero pensatore come Alex Langer, profeta europeo dell’ambientalismo politico, si battè già negli anni ‘80 per il grande cambiamento oggi invocato dagli ecologisti: sapeva benissimo che solo il governo, investendo denaro sovrano attraverso la spesa pubblica e quindi il debito, può imprimere una forte eccelerazione a qualsiasi politica di ricoversione sostenibile dell’economia. Bertaglio lo cita in un passaggio del suo libro: «La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile». E’ esattamente il crinale – innanzitutto culturale – su cui si impegnano i promotori della decrescita intelligente, da Pallante a Latouche.E’ anche il cuore dell’indagine che Andrea Bertaglio conduce con voce disarmata, partendo dalla propria esperienza personale, a confronto con quella di suo padre e, prima ancora, di suo nonno. E’ crollato un mondo, il loro. E questo di oggi, popolato di giovani spaesati e costretti a farsi mantenere dai genitori, rinunciando all’idea di metter su casa, è qualcosa che – per la prima volta – fa davvero paura. Quella della decrescita (s’intende: decrescita del Pil, degli sprechi, dei veleni) è una sorta di bussola: se lavori come un pazzo e spendi tutto quello che guadagni, finisci col non sapere neppure più cosa stai facendo, e perché. A cosa serve il lavoro che attualmente – quando c’è – ci dà da vivere? Riconversione: di certo, un lavoro socialmente utile fa vivere meglio, anche se magari fa calare il Pil perché comporta meno consumi, meno spostamenti, meno spese. E’ la filosofia della filiera corta, dei territori sostenibili, del “meno e meglio”. La strada imboccata da Roberto, che ha mollato il lavoro d’ufficio a Cagliari e si è messo a fare l’orticoltore in un paesino della provincia. O quella – spettacolare – dei ragazzi di Pescomaggiore, l’ecovillaggio fatto di case di paglia.I pionieri dell’economia sostenibile sembrano scansare il dilemma politico dei rapporti di forza, quelli cioè che – attraverso le elezioni – possono far vincere un’idea, trasformandola in azione pubblica regolarmente finanziata. Si diffida, purtroppo (ma comprensibilmente) delle organizzazioni politiche, preferendo l’azione diretta, promossa dal basso. Come quella del Comitato Rifiuti Zero che, ricorda Bertaglio, ha imposto «la vittoria del popolo valdostano contro l’affarismo», che voleva il solito inceneritore. Leader del comitato di lotta, il giovane medico Jean-Luis Aillon, dirigente Mdf. Un ragazzo di 29 anni, che ha scelto di lavorare meno – come guardia medica – per avere più tempo per l’orto e la produzione di formaggi destinati all’autoconsumo. «Se lavorassi soltanto per diventare ricco e famoso, sarei presto molto depresso».L’ennesimo ingenuo utopista? «La selezione naturale ha prescelto l’istinto utopista», risponde il dottor Aillon. «Sperare in un mondo migliore, mettere in crisi il reale, lottare per i propri sogni, è qualcosa che è stato iscritto nel nostro parimonio genetico. Perché favorisce la sopravvivenza della specie». Utopia, maneggiare con cura: quello che può apparire debolezza, è esattamente il suo contrario. Nel libro di Bertaglio, Jean-Luis ricorre a una parabola: «Se paragoniamo il nostro cinquantenne medio, disilluso e senza speranze, e una specie di formiche utopista, che sogna e si batte per un mondo diverso, possiamo vedere che quest’ultima è molto più forte e sopravvive». Inutile negarlo: «Noi abbiamo dentro questo patrimonio genetico, che la cultura odierna cerca di spegnere. L’ingenuo, semmai, è chi non lo riconosce». Farà in tempo, la “formica utopista”, a fermare i carri armati neoliberisti di Harvard, quelli che suggeriscono all’euro-totalitarismo la dottrina dell’austerity espansiva che uccide come mosche i bambini di Atene e avvicina alla Grecia anche il nostro paese?(Il libro: Andrea Bertaglio, “Generazione decrescente”, riflessione autobiografica sul mondo che è – e che potrebbe essere, con prefazione di Maurizio Pallante, Edizioni Età dell’Acquario, 103 pagine, 14 euro).Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.