Archivio del Tag ‘diktat’
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Reddito e Flat Tax: Di Maio e Salvini devono imporsi all’Ue
«La mancanza di copertura che la Lega ha presentato sulla Flat Tax – avvertono ambienti di Bankitalia – non è dissimile dalla mancanza di coperture del reddito di cittadinanza dei 5 Stelle». Vista l’aria che tira, i vincitori delle elezioni riusciranno a dribblare i sommi sacerdoti dell’austerity, già all’opera da Bruxelles a Roma? Ce la faranno, Lega e 5 Stelle, a mettersi d’accordo «agendo, una volta tanto, nell’interesse dell’Italia e non dell’Unione Europea?». L’appello è rivolto a tutti – grillini e leghisti in primis – ma anche ai perdenti: cioè «la “famiglia” Soros-De Benedetti-Bonino», alias «Pd and friends», cioè «la “cosa grassa” di D’Alema», nonché «la “famiglia” Berlusconi-Lupi-Fitto», anch’essa ormai giunta all’irrilevanza. Da Vincenzo Bellisario una proposta secca, anzi due: accordo tra Salvini e Di Maio su un unico punto (cambiare la legge elettorale, mettendo il vincitore in condizioni di governare) o accordarsi per modificare i trattati europei. Obiettivo: rendere finanziabili misure come il reddito di cittadinanza e la Flat Tax. «Basta una settimana, per trovare una soluzione». Unico scenario da evitare: la palude, nella quale si sta lentamente inabissando il risultato delle urne, con gravi rischi innanzitutto per le due formazioni uscite vincitrici dal test elettorale. Il 55% degli elettori ha votato Di Maio, Salvini e Meloni per dire “no” al rigore. Esiste un modo per tradurre in pratica il mandato ricevuto, ma bisogna agire subito.Sul blog del Movimento Roosevelt, Bellisario avverte i grillini: «Avete proposto per circa 12 anni un reddito di cittadinanza, un reddito per tutti: non potete tirarvi indietro, o farlo a metà, perché la “gente normale” vi ha votato solo per quello». Dovrebbe essere il primo pensiero, per un movimento che si è dipinto “alternativo” e oggi rischia di farsi ingabbiare nei “giochetti” per la presidenza delle Camere. Il rischio? Deludere gli elettori, e quindi fare la fine della Bonino, sostenuta da George Soros, o del Pd sorretto da Carlo De Benedetti. E’ lo stesso Salvini a proporre uno spiraglio: basterebbe una settimana per votare un emendamento al Rosatellum, che introduca un premio di maggioranza per chi arriva primo. Obiettivo: tornare al voto di corsa, per offrire al paese un risultato più chiaro (e un governo coerente con il voto). Oppure, Piano-B: un accordo fondato su appena 4 punti, due indicati da Di Maio e due dalla Lega, per rendere attuabili le proposte lanciate durante la campagna elettorale. Come? Nel solo modo possibile: mettendo mano alla complessa procedura che consente la revisione dei trattati europei a partire da quello di Maastricht, che obbliga lo Stato a contenere la spesa pubblica entro il 3% del Pil. L’Ue boccerebbe il ricorso? «E allora bisogna essere pronti a togliere il disturbo: ciao, Bruxelles».Negli ultimi 26 anni, dopo Tangentopoli, l’Unione Europea ha avuto il coltello dalla parte del manico: ha imposto e ottenuto tutto quello che voleva. Come affermare le proprie ragioni in sede comunitaria? «Semplicemente – scrive Bellisario – trattiamo quelli dell’Ue come loro hanno trattato noi negli ultimi 26 anni. Ma se “se la tirano troppo”, nel giro di poche ore possiamo salutarli a colpi di decreti, avendo una maggioranza assoluta decisa a impugnare il famoso coltello dalla parte del manico». Altre soluzioni, semplicemente, non esistono: a lungo andare, la Lega appassirebbe all’ombra del Muro di Bruxelles, non potendo attuare le proprie proposte di salvataggio dell’economia basate sul taglio verticale delle tasse. Peggio ancora il Movimento 5 Stelle, che ha quasi il 33% dei voti ed è esposto da più tempo alle aspettative degli elettori, accese dal reddito di cittadinanza: guai, se non lo si potesse applicare integralmente, e in tempi rapidissimi. L’esasperazione sociale è al limite. Lo stesso Grillo, nel suo blog, scrive: «Si deve garantire a tutti lo stesso livello di partenza: un reddito, per diritto di nascita. Soltanto così la società metterà al centro l’uomo e non il mercato». Non ci provi, il Movimento 5 Stelle, a tirarsi indietro proprio adesso. Finirebbe in barzelletta: “Mamma, ho perso il reddito!”.«La mancanza di copertura che la Lega ha presentato sulla Flat Tax – avvertono ambienti di Bankitalia – non è dissimile dalla mancanza di coperture del reddito di cittadinanza dei 5 Stelle». Vista l’aria che tira, i vincitori delle elezioni riusciranno a dribblare i sommi sacerdoti dell’austerity, già all’opera da Bruxelles a Roma? Ce la faranno, Lega e 5 Stelle, a mettersi d’accordo «agendo, una volta tanto, nell’interesse dell’Italia e non dell’Unione Europea?». L’appello è rivolto a tutti – grillini e leghisti in primis – ma anche ai perdenti: cioè «la “famiglia” Soros-De Benedetti-Bonino», alias «Pd and friends», cioè «la “cosa grassa” di D’Alema», nonché «la “famiglia” Berlusconi-Lupi-Fitto», anch’essa ormai giunta all’irrilevanza. Da Vincenzo Bellisario una proposta secca, anzi due: accordo tra Salvini e Di Maio su un unico punto (cambiare la legge elettorale, mettendo il vincitore in condizioni di governare) o accordarsi per aggirare dichiaratamente i trattati europei. Obiettivo: rendere finanziabili misure come il reddito di cittadinanza e la Flat Tax. «Basta una settimana, per trovare una soluzione». Unico scenario da evitare: la palude, nella quale si sta lentamente inabissando il risultato delle urne, con gravi rischi innanzitutto per le due formazioni uscite vincitrici dal test elettorale. Il 55% degli elettori ha votato Di Maio, Salvini e Meloni per dire “no” al rigore. Esiste un modo per tradurre in pratica il mandato ricevuto, ma bisogna agire subito.
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Winkler: l’Italia è scassata, senza difese contro il rigore Ue
L’Italia è scassata: qualcuno ha idea di come funzionasse, davvero, quando le cose andavano infinitamente meglio di oggi? Se lo domanda l’avvocato Pierluigi Winkler: «Le migliori menti si esercitano in analisi sulla crisi economica e sociale che sembra non aver fine», premette. «Ma tutti, in un impulso irrefrenabile di rimozione, imputano le responsabilità del declino a varie cause, tutte fuorivianti e perfette per non affrontare mai i veri nodi», scrive, sul blog del Movimento Roosevelt. Si evocano «populismi, sovranismi, qualunquismi, finanche rigurgiti razzisti». Buio pesto: «Chi per miopia, chi per mera convenienza, chi per paura della perdita di un mondo che fu e che vede sfuggirgli», nessuno riesce a far luce sulla decandenza del Belpaese. Winkler invoca il ritorno in vita di una parola nobile, dimenticata e abusata: riformismo. Letteralmente: «Corrente politica e di pensiero che la storia ci ha trasferito densa di speranze tese al miglioramento graduale della società con particolare riguardo della classe lavoratrice». Nel ‘900, il riformismo è stato incarnato da socialisti come Turati e Treves, Giacomo Matteotti, Geatano Salvemini, Carlo Rosselli. La cifra del riformismo: coniugare il welfare e l’economia di mercato, in armoniosa sintesi. Da noi si è andato estinguendo anche l’imperfetto welfare italico, gestito in modo clientelare da un paese che comunque macinava chilometri grazie alla sua ecomomia mista, pibblico-privata.E’ scolpito nel marmo il risultato storico del riformismo: «Notevole sviluppo, sotto il profilo economico e sociale». Ma le parole possono cambiare verso, se vengono corrotte: ieri il riformismo era sinonino di progresso generale e benessere diffuso, mentre oggi – in mano all’Ue – suona come una campana a morto per società con sempre meno diritti. «Laddove una volta per riformismo si intendeva tutto ciò che gradualmente portava al miglioramento della condizione umana – scrive Winkler – oggi invece la parola, spesso usata in Europa, evoca subito cambiamenti sì, ma in peggio». E in particolare: «Tagli di bilancio, rigidità, sacrifici, col portato inevitabile di disoccupazione, impoverimento, bassi salari e precariato diffuso». Nella sostanza, un futuro senza sviluppo: «Diventa sempre più impervio coniugare welfare, sviluppo e benessere». Problema capitale: «Al centro del sistema politico non c’è più l’uomo ma il bilancio, il freddo dato contabile, che ha portato l’intero continente europeo ad “impiccarsi” alle politiche restrittive che non stanno dando i frutti sperati e che nel nostro paese hanno portato e porteranno nel tunnel di una grave crisi di cui non si vedrà l’uscita. E’ entrato in crisi l’intero sistema istituzionale ed economico».La crisi del sistema bancario ne è un fulgido esempio, osserva Winkler: «Falliscono banche e si stigmatizza l’attività della banca centrale, istituzione da sempre considerata garanzia di serietà e competenza per la tutela di tutti». Le sinistre, in Europa e ancor più in Italia, versano in grave crisi di identità. Se a questo si aggiunge l’effetto della globalizzazione sull’intero pianeta, «non vi è chi non veda che la situazione diviene esplosiva e può tendere al catastrofico». Allora, conclude Winkler, «diventa facile e fuorviante nascondersi dietro slogan ad effetto: il populismo, il sovranismo e altre pretestuosità del genere». Infatti «è lapalissiano dire che le persone non possono che sentirsi prima cittadini del proprio paese, poi cittadini europei e poi, forse, cittadini del mondo. E’ palese il disorientamento generale, specialmente tra i giovani». In virtù della crisi, non trovano più lavoro: quando c’è, è solo un impiego precario e sottopagato. Colpa dell’Europa, si dice, o magari «dello straniero che viene in cerca di fortuna e fugge da luoghi impossibili». Sempre incolpevoli, noi? Non si considera mai, dice Winkler, che vi è la netta carenza di una politica che tuteli il cittadino e attui misure adeguate. Netta carenza politica, appunto: è sparita la sinistra, quella che aveva attutito gli urti e cercato di tenere in equilibrio la società, evitando che gli ultimi fossero abbandonati a se stessi (fino a rifugiarsi, oggi, nell’esasperazione del “populismo”).Generalmente, nella storia recente, l’armonizzazione sociale non è stata svolta «dalle forze politiche di riferimento dell’oligarchia finanziaria o industriale», ma proprio «da quelle forze di sinistra riformista che volevano coniugare sviluppo ed equilibrio economico, meriti e bisogni, concorrenza e competenza, socialità e individualità, nella sostanza libertà e giustizia sociale». Prendiamone atto, insiste Winkler: «Il sistema politico-economico costruito dai nostri padri fondatori è in stato comatoso, allo stato attuale non regge più». Si è rotto qualcosa di importante: il motore sociale, che era coeso. «Il grande accordo tra industria, partiti, sindacati, sistema cooperativo e Chiesa ha garantito sviluppo economico e conseguente benessere», con politiche di spesa «a volte eccessive», che però «il sistema ha retto per molti anni». Mano pubblica nell’economia: lo Stato «assisteva la grande impresa con leggi ad hoc che producevano investimenti», e in più il governo «assisteva il sistema cooperativo con benefici fiscali tutt’ora esistenti». Piccole e medie imprese, dal canto loro, praticavano «massiccia evasione, per lo più tollerata». Inoltre, da Roma cadevano «contributi a pioggia per lo sviluppo del Mezzogiorno», con risvolti deteriori: «Si praticava un clientelismo sfrenato, con assunzioni nel pubblico oltre il consentito, sia nelle aziende a partecipazione pubblica che negli enti». Di fatto, comunque, «non vi era settore che non avesse qualche beneficio, il tutto in una sorta di consociativismo politico-economico diffuso e generale. Tutto si teneva».Poi nel ’92, con la fine della cosiddetta Prima Repubblica, «espressione esclusivamente giornalistica», sotto i colpi di Mani Pulite si estinguevano vecchi i partiti (salvo uno, il Pci, che cambiava nome diventando Pds) ma «non veniva meno quel sistema, né sul piano morale né sul piano dei precedenti assetti economici». Ovvero: «Il sistema di assistenza diffusa rimaneva intatto», divenendo aperto malcostume, che poi «si implementava in maniera esponenziale: ai ladri di partito si sostituivano i ladri e basta, che crescevano a dismisura». Per Winkler, l’unico cambiamento vero e sostanziale di quegli anni «è stata la dismissione dell’Iri con la privatizzazione di imprese a partecipazione pubblica di ottimo livello». Secondo l’analista, «non è stato un cambiamento di sistema politico-economico, ma solo una gattopardesca trasformazione, tanto che se si guardano i dati il debito pubblico dal ’92 ad oggi, esso è superiore a quello formatosi dal ’46 al ’92». Altro che Seconda Repubblica: solo un’evolzuione della Prima. «Con la successiva introduzione della moneta unica e l’applicazione di rigide politiche di bilancio imposte dall’Europa – aggiunge Winkler – la visione di quel sistema, mai estintosi, diviene chiara, trasparente, senza possibilità di equivoci: il re è nudo».Siamo alle forche caudine dell’Unione Europea: «L’Europa del bilancio, alle quale si è sovrapposta la globalizzazione, mette in grave crisi più di tutti il sistema Italia, che non ha avuto mai una vera e propria economia di mercato». Il welfare italiano, poi, «si reggeva non tanto sullo sviluppo prodotto, ma soprattutto sull’espansione del debito, senza limiti di sorta». L’economia? «Era ed è per lo più assistita». E quel poco di economia che non fruisce di assistenze, specialmente nei settori della piccola e media impresa, «è talmente gravata da oneri burocratici, sociali e fiscali che le è sempre più difficile rimanere sul mercato». Le piccole imprese sono numerose e concorrono in modo rilevante al Pil, ma «non possono fuggire all’estero come le grandi», e quindi «subiscono la concorrenza spesso sleale di piccole attività straniere operanti senza controlli negli stessi settori, con manodopera impiegata spesso in nero e in condizioni di sfruttamento e con più vantaggiose regole amministrative e fiscali». A questo, prosegue Winkler, va poi aggiunto un fenomeno tutto italiano: «Gli investimenti di un enorme flusso di denaro proveniente dai proventi delle organizzazioni criminali». Decine di miliardi di euro, «che costituiscono parte significativa del Pil nazionale».Alcuni, per nascondere alla gente i veri problemi, la “buttano in caciara” agitando lo spettro del razzismo, che in realtà contagia esigue minoranze. Il problema non è la presunta xenofobia, ma il tenore di vita: «Coloro che si vedono andare in pensione alla soglia dei 70 anni, che vedono aumentare i costi sanitari e che sono costretti a sostenere i figli che rischiano di essere precari a vita (mal pagati, se non sfruttati), mal digeriscono coloro i quali, ancora più disperati, si affacciano dall’estero ad un mercato del lavoro privo di ogni regola». Non è razzismo, ma disperazione: tristemente, è solo guera tra poveri. Una situazione che non piove dal cielo, ma ha precise responsabilità: «Le politiche di rigidità causano il sottosviluppo e soprattutto sono causa della cosa più odiosa dell’umanità: la lotta tra gli emarginati». E lo scontro tra i meno abbienti «prescinde totalmente dal colore della pelle». Così, «la forbice sociale si allarga sempre più, e ancor più la forbice generazionale». A conti fatti: escluse le quasi tremila medie imprese che fatturano da 50 milioni di euro a due miliardi, e a parte «il fiume di denaro illecito e poco altro», il resto dell’economia nazionale è per lo più assistito, «a meno che non si voglia considerare la grande impresa indenne da sostegni statali».Secondo Winkler, si è cercato di spacciare politicamente il precariato per flessibilità, «ma questa esiste solo dove c’è una dinamica di mercato, che nel nostro paese non è mai esistita». In Italia, «tutto è controllato con un complesso di procedure amministrative degne dei migliori paesi illiberali». Tradotto: «L’onesto imprenditore viene dissuaso dall’intraprendere nuove attività. Viene invece favorito, attraverso il mancato controllo, lo sfruttamento dei lavoratori, che nei casi di immigrati è a volte vera e propria schiavitù», In più, «viene tollerata ogni forma di illegalità nell’ambito commerciale e nei servizi privati». Troppa burocrazia, da snellire usando la scure. E troppe mega-cooperative, «che nei fatti sono grandi imprese che operano nei settori finanziari, bancari, assicurativi e della grande distribuzione», con assurdi vantaggi fiscali rispetto alle imprese che operano come società di capitale negli stessi settori. «Riportiamo il cooperativismo all’iniziale vocazione, quando lo scopo era favorire il lavoro degli associati e la loro sicurezza», scrive Winkler. E poi, occorre «separare le banche di raccolta da quelle di affari, affinché il risparmiatore sappia che si fa del suo denaro, se ci si gioca “a dadi” con i derivati o se lo si impiega per crediti a famiglie e attività produttive».E ancora: regolare il commercio semplificando le procedure e ristabilendo una leale concorrenza. Vigilanza e controlli devono stroncare «il caporalato, lo sfruttamento e la schiavitù (vedi in agricoltura)». E poi: «Equiparare le pensioni sociali al costo per lo Stato del migrante». La lista è lunga: rendere umani i tempi della giustizia, proteggere i giovani lavoratori limitando i contratti a termine, costringere la pubblica amministrazione a risarcire i danni causati dalle sue lentezze burosauriche. E’ pacifico: «Chi investe deve poter programmare le proprie attività». Giovani imprenditori: hanno diritto a un «sereno avviamento», con sgravi fiscali per i primi cinque anni. Tocca a noi, dice Winkler: il paese deve saper «prendere la strada delle vere riforme che possano rendere veramente dinamica e flessibile la nostra economia». Se invece «saprà solo attuare politiche restrittive imposte dall’Europa», allora addio Italia: «Non ci sarà speranza per il futuro, se non per una opulenta oligarchia senz’anima», quella che domina la scena da almeno 25 anni – da noi come a Bruxelles – dopo aver trasformato la parola “riforme” in un incubo per tutti.L’Italia è scassata: qualcuno ha idea di come funzionasse, davvero, quando le cose andavano infinitamente meglio di oggi? Se lo domanda l’avvocato Pierluigi Winkler: «Le migliori menti si esercitano in analisi sulla crisi economica e sociale che sembra non aver fine», premette. «Ma tutti, in un impulso irrefrenabile di rimozione, imputano le responsabilità del declino a varie cause, tutte fuorivianti e perfette per non affrontare mai i veri nodi», scrive, sul blog del Movimento Roosevelt. Si evocano «populismi, sovranismi, qualunquismi, finanche rigurgiti razzisti». Buio pesto: «Chi per miopia, chi per mera convenienza, chi per paura della perdita di un mondo che fu e che vede sfuggirgli», nessuno riesce a far luce sulla decandenza del Belpaese. Winkler invoca il ritorno in vita di una parola nobile, dimenticata e abusata: riformismo. Letteralmente: «Corrente politica e di pensiero che la storia ci ha trasferito densa di speranze tese al miglioramento graduale della società con particolare riguardo della classe lavoratrice». Nel ‘900, il riformismo è stato incarnato da socialisti come Turati e Treves, Giacomo Matteotti, Geatano Salvemini, Carlo Rosselli. La cifra del riformismo: coniugare il welfare e l’economia di mercato, in armoniosa sintesi. Da noi si è andato estinguendo anche l’imperfetto welfare italico, gestito in modo clientelare da un paese che comunque macinava chilometri grazie alla sua economia mista, pubblico-privata.
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Europa privatizzata: non teme la sinistra, ma la democrazia
Non è possibile rimuovere il dato che il “popolo” «ritenga ormai la sinistra parte del problema e non della soluzione». Su “Contropiano”, che si definisce “giornale comunista online” e si è schierato con “Potere al Popolo”, Sergio Cararo ammette: il cosiddetto “popolo della sinistra”, «ormai residuo, residuale e limitato» (vedasi il pessimo risultato di “Liberi e Uguali”) «non è più sufficiente né credibile neanche per una dignitosa testimonianza istituzionale». Lo stesso “Potere al Popolo” «non è riuscito ad esprimersi fuori dal perimetro e dal linguaggio del popolo della sinistra». Per Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, la parola “sinistra” non è di per sé sinonimo di progressismo, come non lo è l’ideologia comunista, «che di fatto finisce sempre per affidare il potere a un’oligarchia (di burocrati, in questo caso)». Magaldi si definisce liberale e socialista: storicamente, il liberalismo ha rappresentato la rottura del monopolio politico dell’élite economica, e il socialismo ha offerto il know-how per mettere in pratica una giustizia sociale che non lasci indietro nessuno. Il dramma, in questa Italia – dice Magaldi a “Colors Radio” – è che abbiamo cestinato le ideologie utili, per tenerci solo quella, ipocrita e subdola, del neoliberismo disonesto, devastatore e privatizzatore, in nome del quale la super-casta finanziaria ha occupato militarmente le istituzioni, nazionali ed europee.«La statistica degli ultimi anni ci suggerisce che i mercati oggi sono sempre meno spaventati se un paese dell’area euro affronta un momento più o meno lungo di “non-governo”», scrive il “Sole 24 Ore” in un passo citato da Cararo su “Contropiano”. «È la prova che oggi i governi nazionali dell’area euro contano sempre meno», aggiunge il quotidiano di Confindustria. «Le regole dei trattati sovranazionali, sottoscritte attraverso cessioni parziali di sovranità, depotenziano – che piaccia o no – le iniziative “fuori dagli schemi” a livello nazionale». Per Cararo sono «parole pesanti come piombo, ma veritiere», che infatti «delineano uno scenario con cui fare inevitabilmente i conti». Sulla realtà dell’Italia post-elettorale, aggiunge Cararo, «incombono ipoteche già in scadenza come la manovra finanziaria aggiuntiva che l’Italia dovrà fare a primavera sulla base dei diktat dell’Unione Europea, poi c’è il Fiscal Compact da approvare entro l’anno, e poi ci sono i “mercati finanziari” che fino ad ora non sembrano molto preoccupati della instabilità politica in Italia, come non lo sono stati di quella post-elettorale in Belgio, Spagna, Germania». E questo, «nonostante siano stati sconfitti due partiti “di sistema” come Pd e Forza Italia e abbiano vinto due partiti percepiti – fino ad ora – come “antisistema e populisti”», vale a dire Movimento 5 Stelle e Lega.Se hanno vinto grillini e leghisti, dice Cararo, è per via della «composizione sociale “spuria” delle classi subalterne nel nostro paese», strati sociali che «avevano bisogno di un nemico sulla base del quale darsi – in negativo – una identità». Il “nemico” della Lega sono i migranti, quello dei 5 Stelle la “casta” dei partiti corrotti. Alle urne c’era un’Italia esasperata, «ma la “sinistra” non le ha offerto nulla di alternativo». Il cosiddetto antifascismo di oggi, tornato in auge come bandiera da sventolate contro CasaPound, per Cararo «va declinato nella sua attualità». Ovvero: «Il nesso tra le politiche antipopolari connaturate all’Unione Europea e la società del rancore che vota per vendetta, era la contraddizione che andava colta e agita a tutto campo». E se l’Europa del rigore produce l’Italia del rancore, quella è la faglia lungo la quale – per Magaldi – occorre predisporre una risposta democratica ampia e popolare, che potrebbe chiamarsi Pdp, Partito Democratico Progressista. «Partito, innanzitutto, fatto di militanti e dirigenti democraticamente selezionati: perché di quello c’è bisogno, non di cartelli elettorali velleitari che si squagliano come neve al sole dopo aver raccolto lo zero-virgola, alle urne». Progressista, in quanto «liberale e socialista come Olof Palme, il premier svedese assassinato nel 1986 anche per intimidire la socialdemocrazia europea».Al leader svedese, costruttore del miglior welfare europeo (nonché di una formula economica basata sulla partecipazione azionaria degli operai nelle aziende aiutate dallo Stato) il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno, in primavera, a Milano. «Con Palme, probabilmente, questa Disunione Europea non sarebbe mai nata», sostiene Magaldi, che nel bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) ha messo a nudo la natura supermassonica del vero potere, che all’inizio degli anni ‘80 – con il patto “United Freemansons for Globalization” – ha imposto questa mondializzazione brutale e senza diritti. Primo step, all’epoca: liquidare la sinistra socialista. Con il piombo, come nel caso di Palme, o con la comparsa dei post-socialisti come Clinton e Blair, pronti a smantellare diritti (precariato, flessibilità) e procurare profitti stellari all’élite finanziaria, tra deregulation per i capitali e turbo-privatizzazioni a favore degli “amici”. Magaldi non è catastrofista: riconosce ai 5 Stelle e alla Lega di aver sostenuto istanze democratiche sacrosante. Il problema? La mancanza di una sintesi, puntualmente palesata dalla paralisi post-voto. «Lasciamo perdere la parola “sinistra”», propone Magaldi, «e rispolveriamo ideologie utili: quella liberale, democratica, e quella socialista». Unica possibilità: «Costruire insieme una via d’uscita largamente popolare, condivisa, per trovare la forza di smontare le regole truccate di quest’Europa “matrigna” e privatizzata».Non è possibile rimuovere il dato che il “popolo” «ritenga ormai la sinistra parte del problema e non della soluzione». Su “Contropiano”, che si definisce “giornale comunista online” e si è schierato con “Potere al Popolo”, Sergio Cararo ammette: il cosiddetto “popolo della sinistra”, «ormai residuo, residuale e limitato» (vedasi il pessimo risultato di “Liberi e Uguali”) «non è più sufficiente né credibile neanche per una dignitosa testimonianza istituzionale». Lo stesso “Potere al Popolo” «non è riuscito ad esprimersi fuori dal perimetro e dal linguaggio del popolo della sinistra». Per Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, la parola “sinistra” non è di per sé sinonimo di progressismo, come non lo è l’ideologia comunista, «che di fatto finisce sempre per affidare il potere a un’oligarchia (di burocrati, in questo caso)». Magaldi si definisce liberale e socialista: storicamente, il liberalismo ha rappresentato la rottura del monopolio politico dell’élite economica, e il socialismo ha offerto il know-how per mettere in pratica una giustizia sociale che non lasci indietro nessuno. Il dramma, in questa Italia – dice Magaldi a “Colors Radio” – è che abbiamo cestinato le ideologie utili, per tenerci solo quella, ipocrita e subdola, del neoliberismo disonesto, devastatore e privatizzatore, in nome del quale la super-casta finanziaria ha occupato militarmente le istituzioni, nazionali ed europee.
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Vietato volare, l’Ue presenta già il conto a Salvini e Di Maio
Reddito di cittadinanza e meno tasse per tutti? Di Maio e Salvini provano a mettersi a correre: entrambi sostengono che il Def, il Documento di economia e finanza che andrà varato entro un mese, sarà l’occasione per lanciare urbi et orbi il loro messaggio. «In realtà, è dubbio che lo possano fare e le loro affermazioni ancora una volta sembrano più da campagna elettorale permanente», avverte Stefano Cingolani sul “Sussidiario”: non solo il Def viene ancora preparato da Padoan, ma conterrà proiezioni al buio: «Nessuno può sapere oggi chi governerà e come verrà impostata in autunno la legge di bilancio». Difficile che 5 Stelle o Lega esprimano un ministro dell’economia nelle prossime settimane, o abbiano il mandato di trattare con Padoan la futura finanziaria. E intanto l’Ue imbriglia gli italiani: il primo obiettivo del 2019, ricorda Cingolani, sarà trovare le risorse per evitare un aumento dell’Iva, delle accise, delle imposte dirette, cioè le clausole di salvaguardia imposte da Bruxelles per i paesi che non rispettano la regola di riduzione del debito. «Secondo le stime, si va da un minimo di 12 fino a ben oltre i 20 miliardi di euro; un amaro boccone da far digerire agli elettori speranzosi di pagare meno e ottenere di più dal prossimo governo».Le scadenze europee sono molteplici e tutte ravvicinate, annota Cingolani: di qui al Consiglio Europeo di giugno c’è il completamento dell’Unione Bancaria istituendo la garanzia depositi, poi il futuro Fondo Monetario Europeo, la riforma della Convenzione di Dublino sugli immigrati, il bilancio pluriennale dopo il 2020 che porta con sé i fondi strutturali che il Sud ha utilizzato solo per il 4%. «Nei prossimi 18 mesi, il nuovo governo dovrà mercanteggiare le seguenti nomine: presidente della Bce dopo l’uscita di Mario Draghi nell’autunno 2019, due terzi del consiglio esecutivo della Bce (ci sarà un rappresentante italiano, e chi?); il presidente della Commissione Ue; il presidente del Consiglio Europeo e, dulcis in fundo, il commissario italiano dopo l’uscita di Federica Mogherini». Domanda: «Che cosa potrà ottenere un paese che non crede più nell’euro, rifiuta il bail-in, i parametri di Maastricht e la responsabilità di bilancio o che vuole respingere gli immigrati non solo verso l’Africa, ma verso il nord e l’est dell’Europa?».Secondo Cingolani, né Di Maio né Salvini sono in grado di colmare il fossato tra Roma e Bruxelles: «La loro linea è sempre stata accusare l’austerità per i mali italiani, sfuggendo alla verifica dei fatti: dal 2013 al 2017 il saldo primario tra entrate e spese pubbliche corretto per gli effetti del ciclo economico in Spagna è passato dall’1,2% del Pil a meno 0,6%, quello dell’Italia dal 4,3% a sotto il 2%. La politica fiscale, dunque, è stata relativamente espansiva, ma nello stesso periodo la Spagna è cresciuta complessivamente dell’11,2%, l’Italia del 3,5%. Su queste basi sarà difficile trovare una solidarietà latina». E’ vero che l’Ue ha concesso a Renzi più flessibilità, e anche adesso sembra disposta a dare all’Italia un margine di tempo, visto che la Germania ha impiegato cinque mesi prima di formare una nuova grande coalizione. «Tuttavia la situazione politica italiana è molto più simile a quella spagnola». In più, il rischio di nuove elezioni (anch’esse inconcludenti, se resta la staessa legge elettorale) è molto forte. E Mario Draghi ha già acceso i riflettori sui rischi di una prolungata instabilità politica.«Sarà davvero difficile, insomma, incidere subito sulla qualità della vita degli italiani, come promette Di Maio con evidente immaginazione». Il Def rischia di essere un appuntamento impossibile per saggiare la nuova politica economica, «anche perché dovrà tener conto della stretta, sia pur prudente e progressiva, della politica monetaria, già annunciata da Draghi». Oggi, continua Cingolani, non è possibile sapere quanto costerà il debito pubblico alla fine di quest’anno e soprattutto nel prossimo, perché non conosciamo di quanto saliranno i tassi d’interesse. «Dal 2012, quando Draghi ha impresso la svolta espansiva, il servizio del debito è sceso da 83 a 60 miliardi di euro l’anno, una cifra che è comunque superiore a quanto si è speso per la scuola. In 20 anni sono stati pagati per interessi 1.700 miliardi di euro (cifra superiore all’intero prodotto lordo annuo); 760 miliardi negli ultimi dieci anni in cui i tassi sono scesi. Quasi un euro su venti di ricchezza annua prodotta serve a pagare i creditori italiani o esteri, riducendo le risorse pubbliche per consumi e investimenti». Più il tempo passa, aggiunge Cingolani, più crescono le aspettative (e con esse le eventuali delusioni). Facile profezia: «L’onda che prima ha spazzato gli equilibri della Seconda Repubblica è destinata a spostarsi dalla politica all’economia, alle imprese, alle banche, ai manager pubblici e privati, ai patron, verso quel 10% che possiede metà della ricchezza».Non è un caso che tanti esponenti del mondo industriale e finanziario si siano lanciati sui carri dei vincitori (sul Carroccio soprattutto al Nord e sul carro dei 5 Stelle nel Mezzogiorno). «Dovremo attenderci un innalzamento della conflittualità sociale, non governata dai sindacati confederali», ormai indeboliti. Sono centinaia le vertenze industriali già aperte al ministero dello sviluppo, e altre ne arriveranno. «Ma le promesse talvolta mirabolanti distribuite a man bassa durante la campagna elettorale hanno suscitato attese che in qualche modo andranno soddisfatte, almeno in parte. Non si può cavalcare la frustrazione dei precari senza poi trovare nuovi posti di lavoro. Il M5S li vuole pagati da tutti i contribuenti, la Lega spera nella ricaduta del taglio fiscale, solo che lo Stato non ha mezzi sufficienti e le imprese possono espandersi (segnali chiari già ci sono nel Nord-Est) solo quando avranno recuperato produttività, altrimenti la riduzione delle tasse si trasformerà in aumento dei risparmi, ma non in investimenti espansivi creatori di occupazione». Se poi quest’anno passerà tra manovre politiche includenti, «rinviando tutto alla primavera 2019, magari con un “election day” insieme con le elezioni europee, lo tsunami dello scontento continuerà a crescere». L’incertezza economica e il malcontento sociale daranno a Salvini e Di Maio il tempo di cui hanno bisogno, per dare la spallata decisiva?Reddito di cittadinanza e meno tasse per tutti? Di Maio e Salvini provano a mettersi a correre: entrambi sostengono che il Def, il Documento di economia e finanza che andrà varato entro un mese, sarà l’occasione per lanciare urbi et orbi il loro messaggio. «In realtà, è dubbio che lo possano fare e le loro affermazioni ancora una volta sembrano più da campagna elettorale permanente», avverte Stefano Cingolani sul “Sussidiario”: non solo il Def viene ancora preparato da Padoan, ma conterrà proiezioni al buio: «Nessuno può sapere oggi chi governerà e come verrà impostata in autunno la legge di bilancio». Difficile che 5 Stelle o Lega esprimano un ministro dell’economia nelle prossime settimane, o abbiano il mandato di trattare con Padoan la futura finanziaria. E intanto l’Ue imbriglia gli italiani: il primo obiettivo del 2019, ricorda Cingolani, sarà trovare le risorse per evitare un aumento dell’Iva, delle accise, delle imposte dirette, cioè le clausole di salvaguardia imposte da Bruxelles per i paesi che non rispettano la regola di riduzione del debito. «Secondo le stime, si va da un minimo di 12 fino a ben oltre i 20 miliardi di euro; un amaro boccone da far digerire agli elettori speranzosi di pagare meno e ottenere di più dal prossimo governo».
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Verso il “governicchio di scopo” che non cambierà niente
«Hanno imparato a fatica che devono fare politica, ora impareranno a fatica che devono trovare alleati». Per il politologo bolognese Gianfranco Pasquino, i 5 Stelle dovranno rassegnarsi alla soluzione per la quale lavorerebbe Mattarella: un “governo di scopo” destinato a durare al massino un anno e mezzo, giusto il tempo di licenziare il Def e tamponare la disoccupazione, ma senza toccare la legge Fornero né altre misure su cui si fonda il rigore imposto dall’Unione Europea. Ai vincitori l’onere del governo, avverte il Pd, con Maurizio Martina nei panni di ventriloquo di Renzi: stare alla finestra, sperando in una futura rivincita dopo aver fatto deragliare i vincitori relativi del 4 marzo, grillini e Lega. «E’ così», ammette Pasquino: il Pd «non produce la soluzione, ma impedisce di trovarne una: e Mattarella lo sa». Dal Quirinale, due appelli alla “responsabilità”. «Verrà anche il terzo appello, poi ci saranno le consultazioni: e su quella base Mattarella cercherà di individuare una soluzione praticabile». Grande coalizione? No, troppo indigesta e con aritmetica risicatissima: Renzi e Berlusconi, insieme, non avrebbero i numeri. Un asse tra Pd e M5S per tagliare fuori la Lega? «Ormai Salvini ha superato Berlusconi sia come seggi, sia come statura politica. Secondo me l’ex Cavaliere è fuori gioco definitivamente», dice Pasquino a Federico Ferraù, che l’ha intervistato per “Il Sussidiario”. Unica possibilità: un governo “istituzionale”, con i 5 Stelle come baricentro.E il centrodestra? Il cartello si romperà? «Meloni e Salvini parlano la stessa lingua su controllo dell’immigrazione e sovranismo, più e meglio di quanto abbiano in comune con Berlusconi». Ma se il Cavaliere vuole sopravvivere politicamente, aggiunge Pasquino, deve stare con loro. Finora il Movimento 5 Stelle ha “recitato” da solo: è stato il suo punto di forza. Ora però si trova a dover fare politica, a stringere accordi. Ci riuscirà? Secondo Pasquino sì, «però non possono limitarsi a dire “facciamo delle cose insieme”, devono fare loro stessi delle offerte, dire quali punti sono trattabili e quali irrinunciabili. Stanno diventando possibilisti. Bene: è una delle regole cruciali delle democrazie parlamentari, dove i governi sono governi di coalizione e si fanno in Parlamento». Possibile un governo M5S-Lega? No: avrebbe troppo pochi seggi, e quindi «sarebbe troppo esposto al dissenso o al veto di pochi leghisti o pentastellati». Pasquino vede un “governo di scopo”, ovvero: «Si trova un accordo di programma su alcuni punti rilevanti, si cerca una squadra di governo sufficientemente preparata e su questa base si prova di trovare una maggioranza in Parlamento. Io credo che si possa fare».Piano-B: «Un governo di minoranza, basato sulla non-sfiducia dell’aula. In questo caso – sostiene Pasquino – l’esecutivo non potrebbe però essere fatto solo da ministri a 5 Stelle e dovrebbe essere guidato da una personalità di rilievo; qualcuno più importante di Di Maio, che dovrebbe fare un passo di lato». Nel programma ci sarebbe anche la legge elettorale, per rimediare all’orrido Rosatellum? «No, altrimenti non se ne esce più». Aggiune Pasquino, sarcastico: «I nuovi eletti si tranquillizzino, non si torna a votare in tempi brevi. Ci sono cose importanti da fare e cose da non fare». Tra le prime, affrontare il Def e le misure contro la disoccupazione. E comunque: meglio evitare di toccare l’oscena legge Fornero, «altrimenti si apre il vaso di Pandora». In pratica, un governo con le mani legate. Potrebbe prevalere la tentazione di tornare alle urne? La Lega punterebbe a conquistare altri elettori di Forza Italia, mentre i 5 Stelle finirebbero di spolpare il Pd. Pasquino però è scettico: «La Lega può pensare così, ma M5S deve fare attenzione, perché gli elettori lo hanno votato per mandarlo al governo. Se la prima cosa che fa è accettare lo scioglimento del Parlamento, il 32,8% se lo scorda. Insomma, non agiterei l’arma delle urne: anche per rispetto degli elettori». Meglio il “governicchio”, dunque? Pasquino non lo chiama così. Mattarella, dice, «vuole un governo sufficientemente autorevole, che duri per un po’ di tempo, il tempo classico dei governi italiani, 15-16 mesi, ma che sia serio». Serio: cioè ancora una volta sottomesso all’Ue, senza poter contestare la camicia di forza dell’austerity?«Hanno imparato a fatica che devono fare politica, ora impareranno a fatica che devono trovare alleati». Per il politologo bolognese Gianfranco Pasquino, i 5 Stelle dovranno rassegnarsi alla soluzione per la quale lavorerebbe Mattarella: un “governo di scopo” destinato a durare al massino un anno e mezzo, giusto il tempo di licenziare il Def e tamponare la disoccupazione, ma senza toccare la legge Fornero né altre misure su cui si fonda il rigore imposto dall’Unione Europea. Ai vincitori l’onere del governo, avverte il Pd, con Maurizio Martina nei panni di ventriloquo di Renzi: stare alla finestra, sperando in una futura rivincita dopo aver fatto deragliare i vincitori relativi del 4 marzo, grillini e Lega. «E’ così», ammette Pasquino: il Pd «non produce la soluzione, ma impedisce di trovarne una: e Mattarella lo sa». Dal Quirinale, due appelli alla “responsabilità”. «Verrà anche il terzo appello, poi ci saranno le consultazioni: e su quella base Mattarella cercherà di individuare una soluzione praticabile». Grande coalizione? No, troppo indigesta e con aritmetica risicatissima: Renzi e Berlusconi, insieme, non avrebbero i numeri. Un asse tra Pd e M5S per tagliare fuori la Lega? «Ormai Salvini ha superato Berlusconi sia come seggi, sia come statura politica. Secondo me l’ex Cavaliere è fuori gioco definitivamente», dice Pasquino a Federico Ferraù, che l’ha intervistato per “Il Sussidiario”. Unica possibilità: un governo “istituzionale”, con i 5 Stelle come baricentro.
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Carpeoro: avremo la solita merda, perché votiamo con odio
Nessuno si faccia illusioni: alla fine delle procedure istituzionali di rito, lente e macchinose, al governo ci sarà il solito schifo, fatto di politici “dimezzati” e proni ai diktat dell’élite finanziaria. Detto in francese: «Avremo la solita merda». Motivo? «Abbiamo votato come sempre: contro qualcuno, anziché per qualcosa. Ha vinto l’odio, ancora una volta. Inevitabile, quindi, che il risultato finale sia il nulla, il vuoto assoluto». Gianfranco Carpeoro non ha dubbi: nascerà comunque un governo, perché la “sovragestione” dei poteri forti teme un unico scenario, quello di nuove elezioni. Quale governo? Dipende dalla formula che alla fine prevarrà, dopo aver in ogni caso rottamato Matteo Renzi: l’ex premier «verrà “garrotato” lentamente, in modo che si tolga di mezzo e cessi di ostacolare l’unica soluzione percorribile, cioè quella di un esecutivo sostenuto dal Movimento 5 Stelle e dal Pd», opportunamente de-renzizzato. La sortita di Emiliano, che tifa per la convergenza verso i grillini? «Una candidatura personale, nel caso nel Pd prevalga la tentazione di un’alleanza aperta coi pentastellati». La discesa in campo di Calenda? Solo una variazione sul tema: «Sarebbe lo scivolo perfetto per riproporre la candidatura di Gentiloni, come capo di un “governo del presidente”, in ogni caso sempre sostenuto dai 5 Stelle e dal Pd senza più Renzi», ridotto al ruolo di semplice senatore e di fatto isolato, anche se a capo di una nutrita pattuglia di parlamentari a lui fedeli.
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Caldarola: perché i poteri forti tifano Di Maio e non Salvini
Il potere oggi punta sui 5 Stelle, perché il movimento fondato da Grillo «è terra di conquista di poteri forti, anche internazionali», a differenza della Lega di Salvini, finora respinto dai circoli di Bruxelles: «Il diniego che viene a Salvini dai poteri che contano nasce innanzitutto per evitare un suo asse con altre formazioni di destra europee, e dal fatto che si sa che il capo della Lega farebbe più o meno ciò che dice». Lo afferma Peppino Caldarola, già direttore de “L’Unità”, intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”. Gioco più facile, secondo Caldarola, con Di Maio e soci: «Una volta arrivato nella stanza dei bottoni, il M5S può schiacciarne diversi. Chi arriverà per primo a dare il suggerimento giusto – che loro cercheranno – potrà influenzarli». Napolitano, Scalfari, il “Corriere”? «Uomini come Napolitano e Scalfari ritengono che il M5S sia una pagina bianca su cui si possa scrivere in libertà, ma è solo un’illusione». Il vero grande dubbio sui 5 Stelle, riassume Ferraù, è che nessuno sa chi prende davvero le decisioni che contano. Puoi appoggiare i grillini in Parlamento e venirti poi a trovare di fronte a una scelta diversa, senza sapere chi l’ha imposta: Grillo, Casaleggio, Di Maio o qualcun altro. La verità, sospetta Caldarola, è che la chiave sia lontana da Roma: i veri “influencer”, capaci di pesare sul vertice pentastellato, siedono nel grande potere finanziario atlantico.E’ questa l’angolazione da cui Caldarola guarda alla parita post-elettorale in corso, a cominciare dallo psicodramma in casa Pd: «Devo riconoscere che il no di Renzi al patto con i 5 Stelle è stato un passaggio molto limpido», premette Caldarola. Il Pd continuerà a esistere? «Difficile dirlo. Un partito che ha meno voti degli altri può essere determinante solo se ha un leader forte e conosciuto, come è stato per Bettino Craxi». Anche se si è costruito una truppa di parlamentari fedeli, «che diminuirà strada facendo», oggi Renzi «è tragicamente azzoppato». Al massimo, il Pd può favorire uno dei due vincitori parziali, Lega o M5S, oppure non farlo (e in questo caso ogni verifica parlamentare andrà a sbattere contro il diniego del Pd). «Nel frattempo però il Partito Democratico può sempre scoppiare, perché le sue contraddizioni sono troppo grandi». C’è un dato su cui, nel Pd, secondo Caldarola nessuno sta riflettendo: «Il marchio si è logorato. Si è identificato non solo con Renzi, ma con tutte le esperienze di governo recenti, da Letta a Monti, che sono state giudicate negative dall’elettorato». Un grande equivoco: un partito teoricamente erede della sinistra, che ha avallato le peggiori politiche neoliberali imposte da Bruxelles. Rimpiazzare Renzi? «Non basta un nuovo leader, occorre ripensare il soggetto e il progetto politico.Si fa avanti l’ex ministro Carlo Calenda: «Ha delle qualità, ma non l’appeal elettorale necessario». Il vicesegretario Maurizio Martina? «Non credo che sia così ambizioso da proporre se stesso». Per Caldarola è più probabile il ritorno al fondatore, Walter Veltroni. «Un’altra strada è che l’assemblea trovi un personaggio capace di garantire più o meno tutte le aree», aggiunge Carladola, ricordando che Renzi controlla un gruppo di parlamentari, ma sa che finirà all’opposizione e gli conviene evitare la mischia. «Potrebbe anche venirgli in mente di fondare un partito, magari in vista del voto anticipato, presentandosi come il campione del no a M5S e a Salvini. Così facendo potrebbe acchiappare voti di centro, ex Pd ed ex Forza Italia». Andrea Orlando ha detto che il 90% dei dirigenti del partito non vuole andare col Movimento 5 Stelle: «E’ vero, la ferita è troppo fresca. Un Pd che facesse l’accordo coi 5 Stelle non si salverebbe», sostiene Caldarola: «Farebbe la fine dei partiti di sinistra eredi del Pci che si sono alleati alla “Rete” di Leoluca Orlando: il Dna populista di quest’ultimo li ha sciolti e assimilati. In ogni caso il Pd sarebbe fuori dalla decisione politica». Oggi, non a caso, i grandi poteri puntano invece sui 5 Stelle: «Tutti i fautori della “governabilità” ad ogni costo, che oggi è riconoscibile nel leitmotiv di politici, industriali, banche e grande stampa, dicono: “Perché non devono tentare? Davvero siamo disposti a lasciare il paese senza governo?”». Se Di Maio resterà in pole position, certo non sarà solo.Il potere oggi punta sui 5 Stelle, perché il movimento fondato da Grillo «è terra di conquista di poteri forti, anche internazionali», a differenza della Lega di Salvini, finora respinto dai circoli di Bruxelles: «Il diniego che viene a Salvini dai poteri che contano nasce innanzitutto per evitare un suo asse con altre formazioni di destra europee, e dal fatto che si sa che il capo della Lega farebbe più o meno ciò che dice». Lo afferma Peppino Caldarola, già direttore de “L’Unità”, intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”. Gioco più facile, secondo Caldarola, con Di Maio e soci: «Una volta arrivato nella stanza dei bottoni, il M5S può schiacciarne diversi. Chi arriverà per primo a dare il suggerimento giusto – che loro cercheranno – potrà influenzarli». Napolitano, Scalfari, il “Corriere”? «Uomini come Napolitano e Scalfari ritengono che il M5S sia una pagina bianca su cui si possa scrivere in libertà, ma è solo un’illusione». Il vero grande dubbio sui 5 Stelle, riassume Ferraù, è che nessuno sa chi prende davvero le decisioni che contano. Puoi appoggiare i grillini in Parlamento e venirti poi a trovare di fronte a una scelta diversa, senza sapere chi l’ha imposta: Grillo, Casaleggio, Di Maio o qualcun altro. La verità, sospetta Caldarola, è che la chiave sia lontana da Roma: i veri “influencer”, capaci di pesare sul vertice pentastellato, siedono nel grande potere finanziario atlantico.
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Il potere vota Di Maio. Scalfari: è il nuovo leader, a sinistra
Per Marco Travaglio, a dare spettacolo è il noto sport nazionale: correre in soccorso dei vincitori. Sempre che i soccorritori, in questo caso, non siano i terminali italiani degli azionisti-ombra dei 5 Stelle, tranquillizzati in anticipo da Luigi Di Maio nei santuari del sommo potere, da Londra a Washington, prima ancora di presentare una lista iper-rassicurante di possibili ministri tecnici, a partire dal neoliberista Fioramonti, il cui curriculum contempla nomi come Rothschild, Rockefeller e Soros. «I poteri forti si riposizionano», titola il “Fatto Quotidiano”. O meglio: forse rendono palese ciò che prima era nascosto, e cioè che il successo firmato Di Maio fosse, fin dall’inizio, il loro Piano-B. Ovvero: non l’imbarazzante avanzata di una forza “antisistema”, ma il prevedibile boom di un’ala “populista” del sistema stesso, adatta a drenare il dissenso sociale di un’Italia in crisi. Da Marchionne a Confindustria, la convergenza su Di Maio si è fatta aperta e spettacolare, quasi quanto quella di Eugenio Scalfari, decano del “quarto potere” italico. Per il fondatore di “Repubblica”, che pochi mesi fa ai 5 Stelle avrebbe preferito persino l’odiato Berlusconi, oggi di Di Maio non è solo il legittimo capo del prossimo ipotetico governo, ma addirittura il leader del nuovo, grande partito unico della sinistra italiana, destinato a inglobare e assorbire lo stesso moribondo Pd. Questione di parole: sostituendo “sinistra” con “potere”, il cerchio si chiude.
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Magaldi: a casa, con Renzi, tutti i dirigenti dell’ipocrita Pd
E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale: «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».Le elezioni? Tutto come previsto: il grande sconfitto è Renzi, che ha solo finto di alzare la voce con l’Ue. L’altro perdente annunciato è Berlusconi, «quindi esce sconfitto quell’auspucio, caldeggiato anche da ambienti sovranazionali, che è stato uno dei moventi di questa legge elettorale». Sipario sul “Renzusconi”, cioè sulle larghe intese «convergenti verso questa melassa centrista infeconda che ha caratterizzato anche le passate legislature, da Monti in poi: esecutivi che hanno fatto tutti lo stesso mestiere, a quanto pare inviso agli italiani, che questa volta hanno dato una bella bastonata a questa prospettiva». Così Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio” il giorno dopo il voto. Una tornata ricca di conferme: «Come immaginato, nessuno ha vinto davvero: grandi exploit da Salvini e dai 5 Stelle, ma nessuno di loro ha i numeri per governare da solo». Terza previsione azzeccata: «Nulla sarà più come prima», ma siamo piombati in una palude: «E le paludi sono feconde, come il concime». Mattarella darà la precedenza al centrodestra, la coalizione meglio piazzata, o ai 5 Stelle primo partito? Un’alleanza tra grillini e Pd de-renzizzato «sarebbe un abbraccio singolare, dopo che il Pd ha demonizzato i 5 Stelle come fossero gli Unni». Eppure, «questa alleanza potrebbe vedere il favore di Mattarella, ed è quella verso cui si è mosso Di Maio». Per contro, escludere i 5 Stelle, cioè i più votati in assoluto, «sarebbe una beffa: impensabile, ai tempi della Prima Repubblica».Per Magaldi «cambieranno molte cose di giorno in giorno: ciò che oggi appare improbabile potrebbe mutare prospettiva, oltre questo scenario così ostico». Emergeranno soluzioni «difficili da concepire con gli schemi di prima del voto». Alla fine, «sulle difficoltà politiche prevarranno le possibilità numeriche». Molto dipenderà dal presidente della Repubblica: nel 2013, Napolitano dette a Bersani solo un incarico esplorativo ufficioso. «Constatando l’eccezionalità della situazione», aggiunge Magaldi, «anziché lasciare tutto all’interno nel Palazzo», il Quirinale potrebbe passare la palla al Parlamento, «per vedere chi ci sta, sulla base di un programma, a formare un governo». Certo, la “palude” è infida. Ma almeno, il voto ha stabilito una tendenza: ha reso chiaro «quello che gli italiani non vogliono». Ovvero: «C’è il desiderio di affrancarsi da un corso politico: direi che l’ingloriosa storia della Seconda Repubblica finisce qui». C’è da rivalutare semmai la tanto vilipesa Prima Repubblica, «in cui un paese in ginocchio dopo la guerra, dopo la sconfitta della barbarie nazifascista, in pochi decenni era diventato una grande potenza industriale». Ma c’era un paradigma vigente – la spesa pubblica strategica, chiave del successo storico del “made in Italy”: paradigma abbattuto dal ‘92 in poi. «E questi signori, che sono venuti a raccontarci le “magnifiche sorti e progressive” che con la Seconda Repubblica si sarebbero avverate in Italia e in Europa, oggi escono di scena», sintetizza Magaldi. «Compaiono altri attori, dalle prospettive incerte».Un voto “utile”, comunque, a ramazzare via gli orpelli polverosi. Come “Liberi e Uguali”, che Magaldi definisce «una follia pianificata». E spiega: «Solo l’immaginazione malsana e l’assenza di senso della realtà e lungimiranza di Bersani e D’Alema, Civati e Speranza, poteva immaginare che Grasso potesse essere il portavoce carismatico e ricco di appeal per un elettorato di sinistra critico verso il Pd». Se in Grasso e Bersani prevale l’ipocrisia, nel dirsi “di sinistra” sottoscrivendo il protocollo dell’euro-austerity, in Emma Bonino versione 2018 ha invece stravinto il delirio: «Sconcertante, la Bonino, nel venirci a proporre “più Europa”. Un messaggio thatcheriano: lo statista come il buon padre di famiglia che deve preoccuparsi di ripagare i debiti, come se il debito pubblico fosse il debito privato, che va ripagato perché c’è la cambiale che scade». In una macroeconomia, cioè in un sistema economico complesso, il debito pubblico – insieme all’inflazione, agli investimenti a deficit – è uno dei fattori da maneggiare con oculatezza, «sapendo che uno Stato con sovranità monetaria gestisce le cose non come una famiglia privata (che non può stampare i soldi in cantina): uno Stato più fare deficit per aumentare il Pil e diminuire così, anziché coi tagli alla sanità, il rapporto malsano tra debito e Pil».Da Emma Bonino abbiamo sentito assurdità mostruose: bloccare la spesa pubblica per i prossimi due anni, alzare l’Iva. «Questo è un paese martoriato dalle tasse, dove i consumi sono crollati e c’è l’esigenza di far circolare moneta e tenere più bassa la pressione fiscale», puntualizza Magaldi. «Soltanto dei pazzi potrebbero pensare di tagliare ancora la spesa e aumentare ulteriormente le tasse». E in campagna elettorale questo delirio ha avuto libero corso, «complice anche un linguaggio mediatico alterato». Già, infatti: «A che livello è scesa la comunicazione giornalistica, in Italia? Rappresenta le cose per come non sono. E’ lo stesso giornalismo che aveva fatto credere a Mario Monti di avere un consenso maggioritario nel paese, nel 2013, quando i giornaloni titolavano che finalmente l’Italia eta governata da illuminati professori. Monti e la Fornero ci sono stati proposti come sacerdoti del “vero” economico, per settimane, da quell’altro bel tomo di Giovanni Floris». Oltre al vecchio ceto politico, insiste Magaldi, «dovremmo rottamare un ceto mediatico corporativo, con giornalisti che si intervistano a vicenda, elevando la figura del giornalista a grande intellettuale e politologo – ma spesso è gente che non conosce nemmeno i rudimenti della storia patria, non parliamo dell’economia internazionale».Altra mistificazione: gli apostoli della Costituzione “più bella del mondo” che si professano nemici della massoneria – Di Maio in primis – dimenticando il massone conclamato Meuccio Ruini, presidente della “Commissione dei 75” incaricata di redigerne il testo (e il capo di gabinetto di Ruini era il grande economista Federico Caffè, insigne keynesiano). «Se vuole governare l’Italia – dichiara Magaldi – Di Maio dovrà affrancarsi dalle proprie fobie e immaturità illiberali e anticostituzionali. Nella lista di possibili ministri che ha presentato ci si richiama a John Maynard Keynes, altro notorio massone al pari di Franklin Delano Roosevelt: colonne portanti del mondo post-bellico, cioè di ciò che ha consentito il ritorno della libertà in Europa e nel mondo. Quindi merita riconoscenza quella corrente maggioritaria di massoneria che ha prima costruito e poi difeso le società aperte, liberali, parlamentarizzate e democratiche». Sono verità storiche che per Magaldi vanno finalmente acquisite, se si vuole fronteggiare davvero questa Disunione Europea «in cui vige il mercantilismo più spudorato da parte della Germania».Mercantilismo: dottrina econonica (superata dal libero mercato) secondo cui la ricchezza della nazione sta nel surplus di esportazioni. «La Germania ha violato anche i pessimi trattati vigenti, che pur essendo pessimi non consentirebbero il mercantilismo», insiste Magaldi. «Siamo al di là del pessimo: abbiamo una costruzione europea non democratica, nata dalla Dichiarazione Schuman scritta dall’ex progressista Jean Monnet convertito all’idea economicistica dell’Europa, sulle idee di Kalergi, ideatore di una costruzione quasi neo-feudale dell’Europa», a imitazione del feudalesimo carolingio. E’ un’Europa pericolosa, «fondata su un’idea di sfiducia verso la democrazia e verso la politica». Orrore: «O il potere spetta al popolo sovrano, oppure spetta a sedicenti illuminati – poco importa che utilizzino strumenti finanziari, diplomatici, militari, religiosi o mediatici. O il popolo è sovrano, o è sovrano qualcun altro», aggiunge Magaldi. «Dovremmo avere un Parlamento Europeo che rappresenta il popolo sovrano, con una potestà legislativa piena, con facoltà di fiduciare o sfiduciare un esecutivio europeo reale, al posto di questa barzotta Commissione Europea. Juncker e Tajani? Figure stucchevoli, a cui non lascerei gestire neppure un condominio, e invece sono ai vertici. Dovremmo avere un dipartimento del Tesoro e buoni del Tesoro europei che taglino alla radice qualunque cataclisma da spread, vero o presunto». Di Maio e Salvini presentati come antieuropeisti? Errore: «I veri antieuropeisti sono quelli che oggi infestano le cancellerie europee e gli organi tecnocratici di questa Unione Europea». Ma i neo-vincitori sapranno cambiare passo, verso Bruxelles?«Non vorrei che le istanze euro-critiche del Movimento 5 Stelle si andassero appannando, nel percorso politico che si avvia con queste consultazioni», dice Magaldi. «Mi piacerebbe che tutti gli schieramenti in Parlamento avessero un nuovo modo di guardare all’Europa». C’è anche un problema di legittima rappresentanza delle istanze nazionali: «L’Italia è un grande contraente dell’Ue e dell’Eurozona, eppure ha visto sfumare anche un riconoscimento simbolico come l’attribuzione dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco. E’ finita in farsa, l’Italia è stata defraudata anche di questa piccola cosa. E il peggio è che si è vista la latitanza delle istituzioni italiane nel far valere le ragioni del nostro paese». Disunione Europea, appunto: «Un equilibrio di cancellerie, che perseguono scopi nazionali mascherati da un’impalcatura burocratica. Spero che tutti – non solo i vincitori relativi di queste elezioni – ripensino il modo in cui l’Italia deve stare in Europa». L’Italia? «Deve essere più autorevole: non lo è stata affatto quando è venuto il tecnocrate Mario Monti, inviato direttamente dai salotti buoni europei. L’elemento più sublime della sua narrazione era che dovessimo fare quel che ci diceva “l’Europa”, perché l’avevamo interiorizzato. Uno scenario da Grande Fratello orwelliano: abdicare al proprio libero pensiero critico e fare qualcosa che viene imposto da altri, perché eseguire senza discutere è cosa buona e giusta».Nei fatti, alla “teologia” dell’Ue si è sottomesso anche Renzi, che ora trasforma in farsa le sue dimissioni, dopo aver corso a capofitto verso la disfatta. «Sarebbe passato quasi per eroe – dice Magaldi – se solo avesse avuto il coraggio di inserire nel fatale referendum almeno il pareggio di bilancio in Costuzione, lasciando esprimere gli italiani». L’obbligo costituzionale del bilancio in pareggio, afferma Magaldi, «riporta il sedicente centrosinistra egemonizzato dal Pd alla destra storica di Quintino Sella, che conseguì il pareggio di bilancio nella seconda metà dell’800, quando al governo c’era il liberismo storico più bieco e spietato, che mandava Bava Beccaris a massacrare contadini, operai e povera gente che manifestava contro la tassa sul macinato e per le condizioni sociali allora davvero inique». Attenzione: su un tema come il pareggio di bilancio, di importanza capitale per la vita di tutti, non c’è stato uno straccio di dibattito mediatico: «Questo è un paese che parla a reti unificate solo di questioni irrisorie, mentre quando si votata il pareggio di bilancio gli eletti in Parlamento hanno agito come soldatini obbedienti, senza nessuna eccezione». Dov’era, il Pd? In aula, a votare: uso obbedir tacendo. «Via Renzi, il nuovo che avanza sarebbe Gentiloni, che ha fatto un governo renziano in linea con quelli di Monti e Letta? E gli altri che stanno nel Pd? Quando mai hanno levato la loro voce per proporre una traiettoria diversa? Sono tutti responsabili di questa bastosta. E’ una classe politica, quella del Pd, che deve andare a casa».Vale anche per l’Europa, aggiunge Magaldi: il Pd sta nell’alleanza dei socialisti democratici, e in tutta Europa «i socialisti sono chiaramente in regressione perché non hanno nessuna proposta socialista». Magaldi si definisce liberalsocialista: «L’elemento socialista ci deve essere: è la capacità di costruire un contesto di giustizia e mobilità sociale, in cui lo Stato abbia un ruolo dinamico e complementare a quello del libero mercato (e dove ci sia davvero libero mercato, senza monopoli, oligopoli e conflitti d’interesse)». Tutto ciò è mancato: poi qualcuno si lamenta se “la sinistra” è in estinzione. «E poi c’è il grande rimosso: John Maynard Keynes. Oggi, in tanti dicono che vogliono riscoprirlo: li aspettiamo al varco». L’eventuale Pd post-renziano? Può avere un senso solo a una condizione: che si dimetta, insieme a Renzi, chiunque abbia avuto un ruolo dirigente. «E se si deve eleggere un nuovo segretario, lo si faccia con un dibattito corale e democratico molto ampio, molto lungo e molto doloroso», perché la sincerità è una medicina amara. Sempre che ne valga la pena, di salvare il Pd: i tempi stanno cambiando velocemente. E Magaldi (promotore dell’ipotesi Pdp, Partito Democratico Progressista) è fra quanti pensano che forse sia il caso di «costruire qualcosa di nuovo, da offrire a un paese vistosamente lacerato».E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale. Il pareggio di bilancio? Lo fece Quintino Sella, all’epoca in cui la destra mandava Bava Beccaris a sparare sulla folla. «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».
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Dopo le elezioni, tutto come prima: l’Italia resta sottomessa
Tutto come prima: qualcuno sale e qualcuno scende, dopo le elezioni, ma la canzone non cambia. L’Italia resta sotto schiaffo, alla mercé dell’ordololiberismo finto-europeista che impone il rigore, cioè la depressione economica, sulla base di regole truccate come il tetto imposto alla spesa pubblica, non oltre il 3% del Pil, con il vincolo del pareggio di bilancio e l’incubo incombente del Fiscal Compact. L’unica vera notizia del 4 marzo è che ben tre italiani su quattro sono andati a votare: astensionismo limitato al 25%, contro l’atteso 35% annunciato dai sondaggi. Per il resto, previsioni rispettate al millimetro: la débacle di Renzi, il pletorico successo dei 5 Stelle, la preminenza aritmetica del centrodestra. Spiccioli di cronaca: Di Maio e soci sopra il 30%, Salvini davanti a Berlusconi, il Pd sotto il 20%. Nessuna delle liste-contro, da “Potere al Popolo” a CasaPound, ha raggiunto il 3%, cioè il sospirato accesso al Parlamento. Un pericolo – l’esclusione dall’aula – sfiorato dall’imbarazzante cartello “Liberi e Uguali” (D’Alema e Bersani, Grasso e Boldrini), dato oltre il 5% e invece fermatosi appena sopra la soglia minima per ottenere qualche poltrona. Risultato più che scontato: Parlamento ingovernabile, se non mediante larghe intese. «Troveranno il modo di mettersi d’accordo, anche Di Maio è pronto a fare inciuci», avverte Gianfranco Carpeoro. «Gentiloni o un altro? Non è che cambi granché. Il problema non è la figura, è quello che deve fare: o meglio, quello che sarà costretto a fare, perché l’Italia è sovragestita».Esponente del Movimento Roosevelt, scrittore, simbologo, avvocato di lungo corso con un passato socialista, Carpeoro ha le idee chiare sul voto: «Centrodestra o 5 Stelle, non cambia niente: non esiste un rischio maggiore, è la stessa cosa. Perché chiunque vince, lo fa in nome di una sovragestione unica, che porta allo stesso tipo di governo», ha detto Carpeoro, a urne ancora aperte. «E’ assolutamente irrilevante, sapere chi vince: se i partiti che vincono sono quelli che vincono per effetto della sovragestione, devono rispondere alla sovragestione». Parole che Carpeoro ha affidato a Fabio Frabetti di “Border Nights”, nella diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, su YouTube. «Non si scappa, se fai parte di quello schema. I 5 Stelle non ne facevano parte? Ma poi Di Maio ha fatto un bel viaggio a Londra, un bel viaggio in America… E comunque c’erano già le premesse anche prima, perché non è che Casaleggio fosse una realtà così staccata dal potere. Poi però con Di Maio hanno fatto capire che cosa vogliono fare, no?». Basta vedere l’ipotetico governo presentato in anticipo a Mattarella, con il neoliberista Fioramonti all’economia. «Non è che non pretendano garanzie, quelli a cui hai chiesto aiuto a Londra e in America: impongono il tuo appoggio, la tua la non-ostilità, l’assicurazione che non verrebbe ostacolato il loro progetto». E se vai al governo e poi non ne tieni conto? «Potresti fare la fine di Craxi, o quella di Olof Palme».Per Carpeoro, cha ha lanciato l’idea di promuovere in primavera un convegno sul grande leader svedese, assassinato a Stoccolma nel 1986 mentre era premier, in procinto di essere eletto segretario generale dell’Onu, Olof Palme – cui guardavano Craxi, il tedesco Helmut Schmidt e lo stesso Mitterrand – avrebbe cambiato volto all’Europa, impedendo l’instaurarsi del regime Ue (quello che, ancora oggi, sottrae all’Italia la possibilità di qualsiasi alternativa elettorale al dominio dell’oligarchia finanziaria). «Le sue idee sono ancora attuali, perché Olof Palme era avanti di trent’anni», sottolinea Carpeoro. «Aveva contestato agli Usa il fatto di fare guerre sempre a casa degli altri, aveva polemizzano aspramente con l’Urss per l’invasione di Praga, e soprattutto aveva un progetto economico basato su un sistema misto, pubblico-privato, con la compartecipazione dei lavoratori nelle aziende pubbliche e private, sistema che aveva consentito alla Svezia di uscire dalla crisi economica che invece colpiva gli altri paesi. In più era un ecologista, voleva affrancarsi dagli idrocarburi e dalla schiavitù del petrolio, sosteneva già progetti di energia alternativa». E’ stato fermato, colpito alla schiena da un killer invisibile e tuttora ignoto. «Faceva paura, perché avrebbe ostacolato gli interessi della sovragestione: tutta una serie di equilibri politici che su quelle realtà economiche sono fondati hanno rintenuto di farlo ammazzare. Aveva la capacità, le idee e la visione per costruire delle cose diverse».Da un gigante come Olof Palme ai nani dell’attuale politica italiana: Matteo Renzi in fuga dai giornalisti, con il Pd ridotto al 19%. La scissione di D’Alema e Bersani fermatasi sotto il 4%. Berlusconi appena sopra il 13%, dopo aver lanciato l’euro-maggiordomo Tajani, garantendo ai poteri forti europei il rispetto delle regole di ferro, l’austerity che sta devastando l’Italia. Il successo della Lega di Salvini, che sorprassa il Cavaliere e ormai tallona il Pd, è gravemente condizionato proprio dall’alleanza con Forza Italia, prona ai diktat di Bruxelles. Quanto ai 5 Stelle, hanno fatto il pieno nel centro-sud grazie alla promessa del reddito di cittadinanza, ma Di Maio ha già messo le mani avanti presentando il suo ipotetico esecutivo di tecnocrati: «Sembra il governo Monti senza Monti», commenta desolatamente Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt. Cosa accadrà ora? Se lo domandano tutti i giornalisti. Non Carpeoro: a prescindere dal nome del futuro premier e dal colore del suo partito, per gli italiani non cambierà assolutamente niente. Non cambia il programma: rigore, sofferenze, vincoli, sottomissione all’élite finanziaria che si è impadronita dell’Ue. Sono corsi a votare, gli italiani, ma – a quanto pare – è come se non avesse votato nessuno: tutto è esattamente come prima. La nave rischia di affondare, e la rotta (ancora una volta) non sarà decisa da chi siede a Roma.Tutto come prima: qualcuno sale e qualcuno scende, dopo le elezioni, ma la canzone non cambia. L’Italia resta sotto schiaffo, alla mercé dell’ordoliberismo finto-europeista che impone il rigore, cioè la depressione economica, sulla base di regole truccate come il tetto imposto alla spesa pubblica, non oltre il 3% del Pil, con il vincolo del pareggio di bilancio e l’incubo incombente del Fiscal Compact. L’unica vera notizia del 4 marzo è che ben tre italiani su quattro sono andati a votare: astensionismo limitato al 27%, contro l’atteso 35% annunciato dai sondaggi. Per il resto, previsioni rispettate al millimetro: la débacle di Renzi, il pletorico successo dei 5 Stelle, la preminenza aritmetica del centrodestra. Spiccioli di cronaca: Di Maio e soci sopra il 30%, Salvini davanti a Berlusconi, il Pd sotto il 20%. Nessuna delle liste-contro, da “Potere al Popolo” a CasaPound, ha raggiunto il 3%, cioè il sospirato accesso al Parlamento. Un pericolo – l’esclusione dall’aula – sfiorato dall’imbarazzante cartello “Liberi e Uguali” (D’Alema e Bersani, Grasso e Boldrini), dato oltre il 5% e invece fermatosi appena sopra la soglia minima per ottenere qualche poltrona. Risultato più che scontato: Parlamento ingovernabile, se non mediante larghe intese. «Troveranno il modo di mettersi d’accordo, anche Di Maio è pronto a fare inciuci», avverte Gianfranco Carpeoro. «Gentiloni o un altro? Non è che cambi granché. Il problema non è la figura, è quello che deve fare: o meglio, quello che sarà costretto a fare, perché l’Italia è sovragestita».
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Dezzani: il piano è spolpare l’Italia grazie al governo Di Maio
«Un ipotetico governo Di Maio non sarebbe nient’altro che la continuazione del processo iniziato con il governo Monti, anzi, ne sarebbe l’epilogo». Secondo Federico Dezzani, i grillini sarebbero uno strumento di “autodistruzione programmata” dell’Italia. «Prima i poteri “liberal” (gruppo Bilderberg e Trilaterale) indeboliscono il paese con l’austerità di Monti, poi aumentano la dose di veleno con i governi di centrosinistra e, quando il paziente è sufficientemente indebolito, inseriscono il virus: il Movimento 5 Stelle, con il suo mix letale di incapacità e cupio dissolvi». Secondo l’analista geopolitico, tutto nasce dalla crisi del sistema euro-americano: «Più il potere atlantico si indebolisce e più aumenta la volontà di fare terra bruciata, per impedire che i vecchi sudditi, una volta liberati, convergano verso la Russia e la Cina. L’Italia, il cui valore geopolitico è enorme, non fa eccezione: se non la si controlla, è meglio distruggerla, magari spartendosi le spoglie con i vicini (Francia e Germania)». A penalizzare gli italiani, tradizionalmente “esterofili”, c’è anche «un complesso di inferiorità nei confronti delle potenze straniere», ormai ferocemente in lotta tra loro ma coalizzate contro l’Italia, tra le macerie di quella che doveva essere una Unione Europea, e cui il Belpaese rischia di essere, definitivamente, la prima vittima.Il processo di annichilimento della Penisola, avviato nei primi anni ‘90 con Tangentopoli e la destabilizzazione della Somalia, secondo Dezzani ha accelerato a partire dal 2011: austerità, cessione delle imprese strategiche (Telecom, Edison, Unicredit, alimentare e lusso), guerra in Libia e conseguenti flussi migratori incontrollati. Arrivati nel 2018, sta per iniziare l’ultima fase del processo di “demolizione controllata” dell’Italia. «E le imminenti elezioni del 4 marzo, decretando chi dovrà gestire il pericolosissimo aumento generalizzato dei tassi ed il conseguente crollo delle piazze finanziarie, giocano un ruolo cruciale». La legge elettorale difettosa, che impedisce la governabilità? Non è un caso, sostiene Dezzani nel suo blog: «L’ingovernabilità è un valore – scrive – perché obbliga le istituzioni ad adottare, una volta chiuse le urne, soluzioni “impensabili”». Ovvero: «Costringe a sdoganare definitivamente il Movimento 5 Stelle, usandolo come perno attorno cui costruire un governo». Secondo Dezzani, l’opinione che i “poteri forti” premano per una grande coalizione “di centro”, basata su un patto tra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, è errata: «Entrambi sono indigesti a chi conta davvero», come «i circoli finanziari rappresentati dal settimanale “The Economist” che, per inciso, sono gli stessi che hanno partorito la Casaleggio srl e il Movimento 5 Stelle».Per Dezzani, la strategia dell’alta finanza non contempla una grande coalizione tra partiti “moderati”, ma «una grande coalizione incentrata sui grillini, la cui forza, si noti, nasce da quelle stesse politiche di austerità imposte dall’alta finanza». Dopo Monti e Letta, Renzi e Gentiloni, ecco il “virus” 5 Stelle, «gonfiato a dismisura dalle politiche dei precedenti esecutivi “europeisti”». Sempre secondo Dezzani, sarebbe illuminante l’atteggiamento del “Corriere della Sera”, che l’analista definisce «storico giornale della borghesia anglofila e “badogliana”». Si parte nel 2011 con l’incondizionato sostegno a Mario Monti, poi si sostiene la linea di austerità, privatizzazioni e ultra-europeismo di Letta, Renzi e Gentiloni, e adesso, quando il Pd è ormai logoro, si vira verso il Movimento 5 Stelle, «preparando così il terreno ad un governo grillino con la benedizione del primo quotidiano d’Italia», svolta incarnata dalla direzione di Luciano Fontana, con accanto un editorialista come Ernesto Galli della Loggia, «principale artefice dello “sdoganamento” del M5S: il movimento non è eversivo, è democratico e incarna la volontà di “palingenesi” del paese». Analogo percorso da La7 di Urbano Cairo, mai anti-grillina fin dall’inizio «essendo nata come tv della Telecom che ha giocato un ruolo chiave nella nascita del M5S».Domanda: «Perché il giornale della borghesia “anglofila” si prodiga per sdoganare i 5 Stelle, nonostante il clamoroso fallimento della giunta Raggi a Roma e di quella Appendino a Torino (che deve le sua nascita al decisivo avvallo degli Agnelli-Elkann)?». Ovvero: «Perché l’establishment liberal lavora per portare i grillini al potere, nonostante la loro manifesta incapacità di governare?». Perché sono deboli e fragili, quindi facilmente manovrabili da chi mira a spolpare definitivamente il paese. E’ la tesi che Dezzani formula, prendendo spunto dal caso-Roma: «Supponiamo che l’esperimento “Raggi” sia ripetuto a scala nazionale, per di più in un contesto macroeconomico sempre più ostile (aumento tassi e recessione economica); quale sarebbe il destino dell’Italia? Come una nave senza comandante in mezzo alla tempesta (dopo anni, peraltro, di incuria e malgoverno), l’Italia sarebbe travolta dai marosi della crisi: caos, saccheggio e default. La lunga stagione di “destrutturazione” del paese, iniziata nel 1992-1993, culminerebbe così in un epico schianto, grazie al M5S (dopotutto, non fu grazie ad Antonio Di Pietro, l’uomo simbolo di Mani Pulite, se Gianroberto Casaleggio si affacciò alla politica?)».E come si arriverebbe, concretamente, a un governo 5 Stelle? «Attraverso il “contratto” proposto da Luigi Di Maio», scrive Dezzani, ricordando che il leader grillino «ha smentito un’alleanza con la sinistra ma, per scongiurare scenari di “caos”, ha parallelamente aperto ad un programma di legislatura con chi è disponibile, da mettere nero su bianco in un contratto. E chi potrebbe essere disponibile a quest’avventura, se non proprio la sinistra?». Conti alla mano: “Liberi e Uguali” (5%) e un Pd al 20-25% «depurato dall’ormai esausto Matteo Renzi», tutto sommato «fornirebbero un numero di parlamentari sufficienti a formare una maggioranza», sommandoli all’ipotetico 25-30% del Movimento 5 Stelle. «Così, le disastrose amministrazioni Raggi e Appendino verrebbero replicate nei dicasteri romani, con il preciso intento di portare l’Italia alla bancarotta e spalancare le porte alla speculazione più selvaggia».Qualcuno potrebbe obiettare: ma non è interesse dell’establishment atlantico preservare la calma sui mercati, spingendo verso un governo “moderato”? Non è l’Italia “too big to fail”? Dezzani ritiene di no: «Dieci anni di liquidità a costo zero hanno creato un’enorme bolla azionaria e obbligazionaria che, alzati i tassi di interesse, cerca soltanto un pretesto per scoppiare: l’Italia del 2018 potrebbe essere la Lehman Brothers del 2008». Inoltre, aggiunge l’analista, «l’oligarchia finanziaria atlantica ha spinto al default negli ultimi 20 anni la Russia, i paesi del sud-est asiatico (1997-1998) e l’Argentina (2001). Non si capisce per quale motivo dovrebbe risparmiare l’Italia che, come ricordano sinistramente molti commentatori, vale ormai soltanto il 2-3% del Pil mondiale. E se il Movimento 5 Stelle sarebbe «il cavallo di Troia per portare il paese alla bancarotta», conclude Dezzani, «le nostre istituzioni massoniche e la borghesia “badogliana”, da sempre alleate col nemico, sono suoi complici».«Un ipotetico governo Di Maio non sarebbe nient’altro che la continuazione del processo iniziato con il governo Monti, anzi, ne sarebbe l’epilogo». Secondo Federico Dezzani, i grillini sarebbero uno strumento di “autodistruzione programmata” dell’Italia. «Prima i poteri “liberal” (gruppo Bilderberg e Trilaterale) indeboliscono il paese con l’austerità di Monti, poi aumentano la dose di veleno con i governi di centrosinistra e, quando il paziente è sufficientemente indebolito, inseriscono il virus: il Movimento 5 Stelle, con il suo mix letale di incapacità e cupio dissolvi». Secondo l’analista geopolitico, tutto nasce dalla crisi del sistema euro-americano: «Più il potere atlantico si indebolisce e più aumenta la volontà di fare terra bruciata, per impedire che i vecchi sudditi, una volta liberati, convergano verso la Russia e la Cina. L’Italia, il cui valore geopolitico è enorme, non fa eccezione: se non la si controlla, è meglio distruggerla, magari spartendosi le spoglie con i vicini (Francia e Germania)». A penalizzare gli italiani, tradizionalmente “esterofili”, c’è anche «un complesso di inferiorità nei confronti delle potenze straniere», ormai ferocemente in lotta tra loro ma coalizzate contro l’Italia, tra le macerie di quella che doveva essere una Unione Europea, e cui il Belpaese rischia di essere, definitivamente, la prima vittima.
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Crisi bancaria, ricatto Bce: il prossimo governo nasce morto
Comunque andranno le elezioni, il vincitore è già sul trono: la Bce. L’élite finanziaria ha appena stabilito, se mai ce ne fosse bisogno, che i partiti impegnati nella tornata elettorale del 4 marzo non potranno in nessun caso tener fede alle (clamorose) promesse appena fatte agli elettori: i veri super-padroni, infatti, stringeranno i cordoni della borsa tagliando i viveri al sistema-Italia. Lo afferma l’avvocato Marco Della Luna, esaminando le ultime notizie trapelate sulle intenzioni dei supremi manovratori. «Il regime bancario europeo, quello che ordì la crisi del debito pubblico italiano nel 2011 per rovesciare il governo e imporre Monti – scrive Della Luna – ha preparato lo strumento per mettere in ginocchio e ai suoi comandi il prossimo governo italiano già dalla sua gestazione, condizionandone la formazione». Nel suo blog, Della Luna cita media specializzati come “Marketinsight”, nonché agenzie come “Reuters” e “Ansa”: «Hanno annunciato che la Bce vuole mandare in vigore da aprile (ma i termini temporali non sono chiari) una nuova normativa sull’ammortamento dei crediti in sofferenza delle banche». Risultato: «I crediti deteriorati dovranno essere interamente ammortizzati, cioè passati a perdite, in non più di 7-8 anni se assistiti da garanzie, in due soli anni se non assistiti da garanzie».Dato l’alto livello di sofferenze già emerse (e che emergeranno nel sistema bancario italiano, soprattutto nel Monte dei Paschi di Siena), «queste nuove regole in prospettiva scateneranno una crisi bancaria generale, perché molte banche semplicemente non hanno i soldi per coprire le perdite e salteranno». Va anche considerato che «molte banche, da tempo, stanno concedendo crediti in modo piuttosto spensierato, allo scopo di raggiungere budget elevati». Le nuove regole annunciate per la primavera «indurranno le banche a restringere il credito, e ciò strozzerà l’economia». Secondo Della Luna, «nessun governo reggerebbe a un tale disastro, quindi il prossimo governo italiano dovrà inginocchiarsi ai grandi banchieri per impetrare rinvii dell’applicazione delle nuove regole e aiuti per adeguarsi ad esse nel tempo». Ma gli “aiuti”, si sa, «sono condizionati all’obbedienza politica, cioè a che il governo faccia le riforme, le cessioni di sovranità e le privatizzazioni che richiedono i grandi banchieri. E’ già avvenuto nel 2011».Sempre secondo Della Luna, quindi, «il prossimo governo dovrà dimenticare e far dimenticare alla gente tutte le promesse elettorali di farsi sentire in Europa, di sforare il 3%, di varare la Flat Tax, di fare grandi investimenti, di sostenere i poveri». I programmi elettorali sono stati bollati come velleitari, perché non indicano concretamente le coperture? Certo: «Sono velleitari, anzi illusori, soprattutto perché non tengono conto del fatto che l’Italia, come la Grecia, è sottoposta gerarchicamente al comando e al bastone di interessi esterni ad essa, che si stanno prendendo i suoi migliori assets aziendali». Da diversi decenni, «e ancor più con l’imposizione della guerra alla Libia e con il colpo di stato del 2011», l’Italia è stata «completamente sottomessa a quegli interessi». Peggio: «I suoi vertici istituzionali collaborano con essi». In più, «la ribellione a tutela dell’interesse nazionale, anche solo parziale, non è tollerata e viene repressa attraverso la Bce, l’Ecofin, il Fmi». Volete un governo che faccia gli interessi del vostro paese, per cui pagate le tasse? «Allora cambiate paese», taglia corto Della Luna.Comunque andranno le elezioni, il vincitore è già sul trono: la Bce. L’élite finanziaria ha appena stabilito, se mai ce ne fosse bisogno, che i partiti impegnati nella tornata elettorale del 4 marzo non potranno in nessun caso tener fede alle (clamorose) promesse appena fatte agli elettori: i veri super-padroni, infatti, stringeranno i cordoni della borsa tagliando i viveri al sistema-Italia. Lo afferma l’avvocato Marco Della Luna, esaminando le ultime notizie trapelate sulle intenzioni dei supremi manovratori. «Il regime bancario europeo, quello che ordì la crisi del debito pubblico italiano nel 2011 per rovesciare il governo e imporre Monti – scrive Della Luna – ha preparato lo strumento per mettere in ginocchio e ai suoi comandi il prossimo governo italiano già dalla sua gestazione, condizionandone la formazione». Nel suo blog, Della Luna cita media specializzati come “Marketinsight”, nonché agenzie come “Reuters” e “Ansa”: «Hanno annunciato che la Bce vuole mandare in vigore da aprile (ma i termini temporali non sono chiari) una nuova normativa sull’ammortamento dei crediti in sofferenza delle banche». Risultato: «I crediti deteriorati dovranno essere interamente ammortizzati, cioè passati a perdite, in non più di 7-8 anni se assistiti da garanzie, in due soli anni se non assistiti da garanzie».