Archivio del Tag ‘diktat’
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Ilva, la tomba neoliberista: se tagli lo Stato uccidi il paese
Ilva e Alitalia, Fca in fuga insieme a Whirlpool ed Embraco. E poi altri mille “tavoli di crisi” che disegnano il tramonto del sistema industriale italiano. Chi si concentra solo sulle notizie del giorno (è colpa di chi ha messo in discussione lo “scudo legale”, non si cambiano le regole in corso d’opera, Arcelor Mittal voleva 5.000 esuberi e ha giocato sporco) è destinato a non capire cosa sta davvero succedendo, afferma Dante Barontini su “Contropiano”: «C’è un paese che sta affondando nella de-industrializzazione, senza peraltro avere mai costruito un modello di sviluppo alternativo». Le colpe, secondo il “giornale comunista online”, vanno equamente divise «tra una classe imprenditoriale di inqualificabile viltà e una classe politica, se si può, anche peggiore». Entrambe, infatti, «davanti alla costruzione europea che toglieva sovranità alle scelte economiche, hanno reagito fuggendo», ciascuno a modo suo: gli imprenditori «girando i loro profitti nella finanza speculativa», e i politici (nessuno escluso, da Berlusconi a Salvini) di fatto «accettando i diktat europei, spogliandosi di qualsiasi responsabilità e rifugiandosi nella bolla della “comunicazione”, ossia nella menzogna professionale».Da quasi trent’anni, dal Trattato di Maastricht in poi – ricorda Barontini – la “politica industriale” di tutti i governi è consistita in privatizzazioni e soldi a pioggia alle imprese. In sostanza: “regali industriali” – da Telecom a Italsider, ad Autostrade – accompagnati da generose “dazioni” liquide (sotto forma di decontribuzione, finanziamenti a fondo perduto, taglio del cuneo fiscale), «oltre che da politiche criminali sul lavoro», ovvero «precarietà contrattuale legalizzata, allungamento dell’età lavorativa, eliminazione delle tutele dei lavoratori, deflazione salariale», con la piena “complicità” di Cgil, Cisl e Uil. E tutto questo, «accettando sempre la tagliola del “divieto agli aiuti di Stato” imposta dall’Unione Europea». Di fatto, aggiunge Barontini, «sono state consegnate alle imprese le chiavi dello sviluppo o della morte del paese». Le imprese ovviamente hanno pensato ai loro affari, in una situazione di cortissimo respiro: «I “mercati” valutano le relazioni trimestrali, mica le prospettive strategiche». Rimosso a monte l’obiettivo sistemico (lo sviluppo del paese, il benessere diffuso, posti di lavoro e salari accettabili) non resta che il calcolo costi-benefici «tra costo del lavoro, incentivi a pioggia, efficienza delle infrastrutture, politiche fiscali nazionali».Inevitabile, secondo Barontini, che le imprese «decidessero per la morte, ponendo ogni volta il ricatto con modalità mafiose: o ci date mano libera o ce ne andiamo da un’altra parte». Amarezza: «C’erano una volta i lavoratori che si trasferivano là dove c’erano le industrie, con la valigia di cartone legata con lo spago. Oggi sono le imprese multinazionali a viaggiare, spostando linee di montaggio e casseforti gonfie di soldi». Globalizzazione selvaggia, delocalizzazioni facili: «Da questa condizione storica non si esce con misure una tantum, con un finanziamento in più e neanche con una “partecipazione pubblica” nei casi più disperati», sostiene “Contropiano”, segnalando che «dopo anni, è arrivato a chiederla – per la sola Ilva – persino il segretario della Cgil». Di fronte alla dimensione del disastro economico e sociale, per Barontini c’è bisogno di una visione e di una programmazione di lungo periodo: «C’è bisogno di decidere che cosa produrre e come farlo». Soprattutto: «C’è bisogno di investire in barba a qualsiasi “patto di stabilità europeo”, perché un paese di 60 milioni di persone non può accettare di finire nel baratro della storia solo per rispettare “regole” scritte per favorire altri sistemi industriali, altri paesi e altre multinazionali». Giusto nazionalizzare, ma non basta più: serve «una diversa visione del mondo e della produzione». In altre parole, «si tratta di prendere atto che il capitalismo neoliberista non funziona più e va superato prima che esploda», seminando (come sempre nella storia) «morte e distruzione».Ilva e Alitalia, Fca in fuga insieme a Whirlpool ed Embraco. E poi altri mille “tavoli di crisi” che disegnano il tramonto del sistema industriale italiano. Chi si concentra solo sulle notizie del giorno (è colpa di chi ha messo in discussione lo “scudo legale”, non si cambiano le regole in corso d’opera, Arcelor Mittal voleva 5.000 esuberi e ha giocato sporco) è destinato a non capire cosa sta davvero succedendo, afferma Dante Barontini su “Contropiano“: «C’è un paese che sta affondando nella de-industrializzazione, senza peraltro avere mai costruito un modello di sviluppo alternativo». Le colpe, secondo il “giornale comunista online”, vanno equamente divise «tra una classe imprenditoriale di inqualificabile viltà e una classe politica, se si può, anche peggiore». Entrambe, infatti, «davanti alla costruzione europea che toglieva sovranità alle scelte economiche, hanno reagito fuggendo», ciascuno a modo suo: gli imprenditori «girando i loro profitti nella finanza speculativa», e i politici (nessuno escluso, da Berlusconi a Salvini) di fatto «accettando i diktat europei, spogliandosi di qualsiasi responsabilità e rifugiandosi nella bolla della “comunicazione”, ossia nella menzogna professionale».
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Russia derubata: l’imbroglio americano del Muro di Berlino
Torgau, 25 aprile 1945: si abbracciavano commossi, su un ponte dell’Elba, i soldati russi e americani che avevano combattuto insieme per liberare l’Europa dal nazismo. Ma la storia li avrebbe traditi: la pace sarebbe svanita, perché l’Occidente non sarebbe stato ai patti. Altre lacrime, stavolta in mondovisione, il 9 novembre 1989. Cadeva il Muro di Berlino, che aveva diviso in due l’ex capitale di Hitler per 28 anni. Altro tradimento: gli Usa non avrebbero rispettato la solenne promessa fatta a Gorbaciov di non estendere la Nato verso l’Est Europa. Da allora, finita la guerra fredda e franato l’argine geopolitico dell’Urss, è svanita la pace vagheggiata dall’uomo della Perestrojka: e il mondo è precipitato nel feroce caos della guerra asimmetrica universale, terroristica e senza più frontiere, scatenata dall’élite occidentale globalista e neoliberista contro il resto del mondo. Doveva essere una festa della riconciliazione, il crollo del Muro, e invece è stato l’inizio di un trennennio buio per moltissimi popoli, travolti dalle “guerre americane” (e in Europa, dall’austerity). Ma il destino del pianeta era segnato, da quando scomparve Franklin Delano Roosevelt il 12 aprile 1945. A differenza di Truman, che ne prese il posto, il presidente del New Deal non avrebbe ingannato l’Unione Sovietica, riconoscendole anzi il merito storico di aver stroncato il nazismo a Stalingrado, invertendo il corso della storia oltre un anno prima dello Sbarco in Normandia.E’ la tesi che Giulietto Chiesa espone del provocatorio saggio “Chi ha costruito il muro di Berlino?”, che esplora i decisivi albori del dopoguerra – da Hiroshima alla guerra fredda – frugando, carte alla mano, tra i segreti della nostra storia più recente. Al punto in cui erano, chiusi nell’angolo – sostiene Chiesa – nel 1961 i sovietici non potevano far altro che innalzare quell’odioso, maledetto muro: non avevano i soldi per rispondere ad armi pari alla micidiale offensiva statunitense in Germania Est, realizzata violando tutti gli accordi tra le superpotenze. Per esempio, la decisione (condivisa da Roosevelt e Stalin) di progettare insieme il futuro della Germania, in modo bilaterale. Via Roosevelt, il voltafaccia americano si fece palese. E Berlino, insieme alla Germania Ovest, divenne il perno su cui investire per puntare all’unico crollo che interessasse davvero a Washington: quello di Mosca. Se a Yalta i vincitori si erano accordati lealmente per co-gestire l’imminente dopoguerra, a Potsdam nell’estate del ‘45 gli americani decisero di cambiare passo: le atomiche sul Giappone sarebbero state una minaccia diretta all’Unione Sovietica. Un anno prima, del resto, a Bretton Woods il sistema capitalista (”miracolato” dal New Deal ma pronto a emarginare lo stratega progressista Keynes) aveva stabilito il gold standard, la supremazia del dollaro come valuta internazionale e il ruolo “imperiale” del Fmi rispetto alle banche centrali, tranne quella americana.Non c’è bisogno di dichiararsi anticomunisti per ammettere che, ovunque abbia conquistato il potere, quell’ideologia abbia sistematicamente deluso, tradito e represso il popolo, imponendo un’oligarchia dittatoriale capace di macchiarsi dei peggiori crimini. Preoccupa, semmai, che il Parlamento Europeo abbia appena votato una mozione che equipara il comunismo al nazismo: in 150 anni, ricorda lo storico Alessandro Barbero, la parola “comunismo” ha unito milioni di persone che speravano in un modo migliore, più giusto e solidale, mentre – com’è noto – il nazismo aveva come primo obiettivo il primato “razziale” germanico e lo sterminio degli ebrei. L’aspetto più inquietante, nel caotico dopoguerra (secondo Giulietto Chiesa, e non solo) riguarda lo strano feeling tra l’élite statunitense e la Germania nazista sconfitta: subito dopo lo spettacolare Processo di Norimberga, scrive Chiesa, furono almeno 20.000 i criminali nazisti reclutati da Washington per dar vita ai propri apparati di sicurezza come la Cia, ma anche la Nato e lo stesso esercito della Germania Occidentale, paese scelto – almeno dal 1947, a quanto pare – come leva strategica per scardinare la presa sovietica sull’Est Europa, fino poi a far crollare il regime di Mosca.Eterogenesi dei fini: paradossalmente, osserva Chiesa, è proprio “grazie a Hitler” (aiutato sottobanco dalla finanza facente capo a Rockefeller e Allen Dulles, poi capo della Cia) che l’America ha potuto diventare la superpotenza “imperiale”, unica padrona dei destini europei. «L’Europa che abbiamo ereditato – sostiene Giulietto Chiesa, già militante comunista e a lungo corrispondente da Mosca per “L’Unità” – è il risultato della sottrazione della vittoria alla Russia, dell’impossessarsi della vittoria da parte degli Usa e della fine dell’impero britannico, sostituito dall’impero americano». La sua ricostruzione della crisi di Berlino – culminata con la costruzione del Muro – è decisamente inconsueta. Nel 1946, subito dopo Norimberga, gli Usa decidono di rivalutare il marco della Germania Occidentale di quasi 5 volte il suo valore, nonostante gli accordi iniziali sulla co-gestione, con i russi, del futuro del paese. Tra parentesi: la battaglia di Berlino, culminata il 2 maggio del ‘45, aveva messo l’Armata Rossa nelle condizioni di dilagare in gran parte del territorio tedesco. «Stalin invece si fermò a Berlino, fedele al patto siglato a Yalta con Roosevelt». Salito Truman alla Casa Bianca, «di colpo l’Occidente vuole mezza Germania per sé, inclusa la parte occidentale di Berlino». E cosa fa? Rivaluta la moneta. «Risultato: a Berlino Ovest, da un giorno all’altro, si guadagna 4 volte tanto».Chiesa parla di «banconote preparate segretamente già dal 1947». A Berlino, alla vigilia della costruzione del Muro, 50-60.000 lavoratori dell’Est fanno i pendolari: lavorano nella zona Ovest, passando liberamente da un settore all’altro. All’improvviso, con l’impennata valutaria del marco occidentale, succede questo: all’Est, pane e benzina costano 4 volte meno, quindi i berlinesi dell’Ovest corrono a svuotare i negozi dell’Est. In parallelo, comincia l’esodo: 200.000 tedeschi lasciano Berlino Est per trasferirsi a Berlino Ovest. «In due anni e mezzo, traslocarono quasi 2 milioni di persone». L’Urss, ancora devastata dall’invasione nazista, non aveva i soldi per reagire sul piano economico-finanziario: «Nella Germania Orientale, Mosca aveva promosso infrastrutture avanzate: ospedali, università, centri di ricerca. Ma il livello di vita era quello socialista, come in Urss». Conclusione: «Il Muro di Berlino fu un atto elementare difensivo, al quale non ci si poteva sottrarre (se non arrendendosi)». Si dirà: ha stravinto, in ultima analisi, il modello economico più convincente. L’unico (dei due) capace di motivare gli individui, lasciandoli liberi di parlare, pensare ed esprimersi democraticamente, e soprattutto di conquistare in tempi brevi una condizione di notevole benessere.Giulietto Chiesa non si nasconde, ovviamente, le aberrazioni dello stalinismo: «C’erano stati milioni di arresti, le deportazioni in Siberia, l’industrializzazione mediante lavoro forzato». Eppure, aggiunge, «in quel momento la dirigenza sovietica aveva un enorme consenso popolare: finita la guerra, i russi pensavano che sarebbe cessata anche la repressione, e che si sarebbe cominciato finalmente a vivere, anche in Russia, in condizioni diverse». Attenzione: «La Russia aveva vinto la guerra, sul suo territorio. Aveva avuto 20 milioni di morti: non voleva, né poteva, considerarsi battuta». Orgoglio, e non solo: l’Unione Sovietica aveva sconfitto il nazismo, ereditando solo macerie. Città distrutte, industrie rase al suolo: un sacrificio immenso. L’America? Intatta. Nello Sbarco in Normandia, il 6 giugno 1944, gli alleati ebbero 4.400 morti e quasi 8.000 feriti. Cifre che impallidiscono di fronte a Stalingrado, battaglia decisiva per le sorti della Seconda Guerra Mondiale, protrattasi dal 17 luglio 1942 al 2 febbraio dell’anno seguente. Bilancio: mezzo milione di soldati sovietici uccisi e 650.000 feriti, oltre un milione di perdite inflitte ai tedeschi e ai loro alleati. L’attuale demonizzazione del comunismo pretesa (per legge) dall’Unione Europea finisce per mettere in ombra la storia, scippando un’altra volta la Russia: che, secondo Chiesa, quel dannato Muro fu costretta a erigerlo, dopo esser stata ingannata dall’ex alleato americano.(Il libro: Giulietto Chiesa, “Chi ha costruito il muro di Berlino? Dalla guerra fredda alla nascita della bomba atomica sovietica, i segreti della nostra storia più recente”, Uno Editori, 160 pagine, euro 13,90).Torgau, 25 aprile 1945: si abbracciavano commossi, su un ponte dell’Elba, i soldati russi e americani che avevano combattuto insieme per liberare l’Europa dal nazismo. Ma la storia li avrebbe traditi: la pace sarebbe svanita, perché l’Occidente non sarebbe stato ai patti. Altre lacrime, stavolta in mondovisione, il 9 novembre 1989. Cadeva il Muro di Berlino, che aveva diviso in due l’ex capitale di Hitler per 28 anni. Altro tradimento: gli Usa non avrebbero rispettato la solenne promessa fatta a Gorbaciov di non estendere la Nato verso l’Est Europa. Da allora, finita la guerra fredda e franato l’argine geopolitico dell’Urss, è svanita la pacificazione vagheggiata dall’uomo della Perestrojka: siamo precipitati nel feroce caos della guerra asimmetrica universale, terroristica e senza più frontiere, scatenata dall’élite occidentale globalista e neoliberista contro il resto del mondo e contro le stesse democrazie. Doveva essere una festa della riconciliazione, il crollo del Muro, e invece è stato l’inizio di un trentennio buio per moltissimi popoli, travolti dalle “guerre americane” (e in Europa, dall’austerity). Ma il destino del pianeta era segnato, da quando scomparve Franklin Delano Roosevelt il 12 aprile 1945. A differenza di Truman, che ne prese il posto, il presidente del New Deal non avrebbe ingannato l’Unione Sovietica, riconoscendole anzi il merito storico di aver stroncato il nazismo a Stalingrado, invertendo il corso della storia oltre un anno prima dello Sbarco in Normandia.
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Lo sfacelo della politica italiana e l’indegna fine dei 5 Stelle
Rumore di fondo: ogni giorno che passa, l’Armata Brancaleone del Conte-bis offre di sé un ritratto piuttosto penoso. Accuse, ripicche, insinuazioni e ricatti. Dopo la débacle in Umbria, il clima è ulteriormente peggiorato. Volano gli stracci tra i 5 Stelle, mentre l’incolore Pd zingarettiano si lecca le ferite senza nulla dire, pensare, proporre. Renzi (in versione mini-sciacallo) si gode lo spettacolo, gustandosi la faccia dello spaurito Speranza, ministro “di sinistra” di un esecutivo inesistente, abborracciato dai tecnocrati-canaglia di Bruxelles e tenuto in piedi da parlamentari terrorizzati dall’idea del voto anticipato. Sul funerale dell’Italia volteggia l’avvoltoio Mario Draghi, osannato dal gotha dell’euro-catastrofe, mentre Salvini (in tandem con Giorgia Meloni, miracolata dal voto umbro) già si proietta a colpi si selfie sulle regionali in Emilia. Nessuno di loro ha battuto ciglio per la svendita alla Francia dei resti umani della Fiat, operai residuali in balia degli affaroni non più italiani della dinastia Agnelli-Elkann. Silenti gli stessi sindacati-fantasma, anche di fronte al disperato taglieggiamento del governo ai danni del cittadino, vessato da grappoli di micro-tasse che servono a tenere in piedi un bilancio utile solo a rinviare di qualche mese la certificazione clinica del declino, imposto dalla sottomissione all’austerity perenne.L’ultima caccia alle streghe – tutta colpa dell’idraulico che lavora in nero, del ristorante che rifuta le carte di credito – aggiunge disagio al senso del ridicolo che grava sul paese, pietosamente alla mercé di qualsiasi forza esterna intenzionata a usare l’Italia come discount a prezzi stracciati. La liquidazione dell’Italia va avanti da almeno un quarto di secolo, si lamenta l’ex ministro socialista Formica: finita la cosiddetta Prima Repubblica, insieme ai partiti e a quel che restava delle loro ideologie sono sparite anche le idee su come progettare un futuro per la Penisola. Berlusconi e Prodi, poi Monti e i prestanome del Pd. Fallito sul nascere l’ambiguo tentativo gialloverde, si è tornati all’antico ma solo provvisoriamente, barcollando in modo precario sull’abisso. Emblema del momento presente, il non-premier Conte: non votato, non eletto, non schierato, non chiaro con gli italiani. Rumore di fondo: disgregazione, sfaldamento, diserzione. Renzi aspetta che Zingaretti si dissangui, Salvini attende la fine di Berlusconi. Nessuno ha spiegato che idea di paese ha in mente, quale visione di futuro, che tipo di collocazione per l’Italia, quale ruolo dello Stato nell’economia, che posizione assumere con l’Ue. Si procede a tentoni, tra voci di indagini e comparsate televisive, confidando nel supporto fokloristico delle opposte tifoserie, dall’ostilità calcistica per l’avversario.Lo sfacelo del Movimento 5 Stelle spiega, da solo, il disastro politico italiano. Dopo aver promesso di rimettere il cittadino al centro della scena, il partito-caserma fondato da Casaleggio e Grillo ha tradito militanti ed elettori, votando esattamente il contrario di quanto sbandierato per anni. Voltafaccia completo, su tutta la linea, sonoramente premiato col 7,4% rimediato a Perugia. I delusi bombardano Di Maio, come se Grillo non esistesse. Gli ottimisti scommettono ancora sulla base grillina, piena di buone intenzioni, ingannata dai perfidi dirigenti. Ma i 5 Stelle non hanno mai celebrato un congresso, eletto (davvero) i loro organi dirigenti, confrontato diverse opzioni sul tappeto. Hanno accettato, fin dall’inizio, che fosse il Capo ad avere l’ultima parola, sempre. E’ stato Grillo a imporre a Di Maio di allearsi con Renzi, dopo aver cestinato il 90% del programma dei 5 Stelle. Il MoVimento ora è in stato di disfacimento: doveva servire solo a tener buoni gli italiani, in attesa che il grande potere si riorganizzasse? In realtà, il caos regna anche ai piani alti: lo dimostra la paralisi della Commissione Europea. Macron e Merkel litigano, oggi. Ma non hanno di che preoccuparsi, riguardo all’Italia: il Movimento 5 Stelle ha mostrato loro che milioni di italiani possono davvero credere a storielle come il mitico “uno vale uno”. A metterli nel sacco c’è riuscito persino Beppe Grillo.Rumore di fondo: ogni giorno che passa, l’Armata Brancaleone del Conte-bis offre di sé un ritratto piuttosto penoso. Accuse, ripicche, insinuazioni e ricatti. Dopo la débacle in Umbria, il clima è ulteriormente peggiorato. Volano gli stracci tra i 5 Stelle, mentre l’incolore Pd zingarettiano si lecca le ferite senza nulla dire, pensare, proporre. Renzi (in versione mini-sciacallo) si gode lo spettacolo, gustandosi la faccia dello spaurito Speranza, ministro “di sinistra” di un esecutivo inesistente, abborracciato dai tecnocrati-canaglia di Bruxelles e tenuto in piedi da parlamentari terrorizzati dall’idea del voto anticipato. Sul funerale dell’Italia volteggia l’avvoltoio Mario Draghi, osannato dal gotha dell’euro-catastrofe, mentre Salvini (in tandem con Giorgia Meloni, miracolata dal voto umbro) già si proietta a colpi si selfie sulle regionali in Emilia. Nessuno di loro ha battuto ciglio per la svendita alla Francia dei resti umani della Fiat, operai residuali in balia degli affaroni non più italiani della dinastia Agnelli-Elkann. Silenti gli stessi sindacati-fantasma, anche di fronte al disperato taglieggiamento del governo ai danni del cittadino, vessato da grappoli di micro-tasse che servono a tenere in piedi un bilancio utile solo a rinviare di qualche mese la certificazione clinica del declino, imposto dalla sottomissione all’austerity perenne.
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Barbero: pessima idea, equiparare il comunismo al nazismo
Pessima idea, equiparare il simbolo del comunismo – falce e martello – alla svastica hitleriana. A lanciare l’allarme è lo storico Alessandro Barbero, ospite dell’edizione 2019 del Festival Logos di Roma, il 24 ottobre. La tesi: il fascismo è riconducibile al faccione di Mussolini in Italia e l’orrore nazista della Germania è indentificabile in un periodo storico altrettanto circoscritto nel tempo e nello spazio. Al contrario, l’ideale comunista (poi tradito dal regime criminale dell’Urss stalinista) aveva infiammato i cuori di milioni di persone. E’ accaduto in ogni parte del pianeta, nell’arco di 150 anni, da Marx in poi, sulla base di un sogno: un mondo più giusto e migliore, per tutti. Barbero prende così le distanze dall’insidioso documento approvato il 19 settembre dal Parlamento Europeo: il testo condanna il comunismo in quanto sistema politico “totalitario”, equiparandolo al nazifascismo. Con 535 voti a favore, 66 contrari e 52 astenuti, la controversa risoluzione sulla “memoria europea” getta nella spazzatura della storia l’intera esperienza comunista internazionale. Pericolo in vista: «Nella dimensione pratica – riassume “Radio Onda d’Urto – la risoluzione impegna a eliminare qualunque simbologia presente in Europa relativa al movimento comunista internazionale, dai monumenti ai nomi delle strade».Il documento propone una ricostruzione storica più che discutibile, che vede nel patto Molotov-Ribbentrop del 1939 (la spartizione della Polonia con cui Stalin cercò di guadagnare tempo, prima di subire l’invasione hitleriana) l’espressione di un progetto egemonico sull’Europa da parte della Germania nazista e dell’Unione Sovietica. In sostanza, accusando la Russia di non avere fatto i conti con il proprio passato, il Parlamento Europeo dimentica di ricordare che fu proprio l’Urss – a Stalingrado – a fermare l’esercito nazista, permettendo all’Europa occidentale di liberarsi dal terrore totalitario con il successivo aiuto militare degli Usa. A favore del testo, che condanna anche genericamente «tutte le organizzazioni politiche accusate di promuovere l’odio e la violenza politica», hanno votato a favore gli europarlamentari di Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Pd. Nel sanzionare «gli atti di aggressione, i crimini contro l’umanità e le massicce violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime nazista, da quello comunista e da altri regimi totalitari», si esprime «inquietudine per l’uso continuato di simboli di regimi totalitari nella sfera pubblica e a fini commerciali», ricordando che «alcuni paesi europei hanno vietato l’uso di simboli sia nazisti che comunisti».Attraverso il Parlamento Europeo sta dunque per calare sull’Europa una sorta di “post-verità orwelliana” destinata a mettere al bando, presto o tardi, il simbolo “falce e martello” clamorosamente equiparato alla svastica? A inquietare è il principio: la caccia alle streghe contro la simbologia comunista potrebbe essere l’antipasto di altre successive proibizioni. Vivaci, in Italia, le reazioni contrarie: lo storico dell’arte Tomaso Montanari parla di «squallore», perché è stato dimenticato il ruolo decisivo dell’Urss nella sconfitta del nazismo. Comunismo e nazismo posti sullo stesso piano? «Una falsificazione ignobile, quella della risoluzione votata dal Parlamento Europeo, come è ignobile che a votarla siano stati tanti sedicenti democratici nostrani», insorgono – come riporta “Repubblica” – Francesco Laforgia e Luca Pastorino, rispettivamente senatore e deputato di “Liberi e Uguali”. «Queste distorsioni – aggiungono – sono una pericolosa rilettura che finisce per sdoganare ideologie neo-fasciste». All’attacco anche il deputato Nicola Fratoianni, secondo cui siamo di fronte a «malafede, più che ignoranza».Protesta Massimiliano Smeriglio, eurodeputato Pd, a lungo braccio destro di Zingaretti: «Non si può costringere la storia dentro uno schema parlamentare al solo scopo di tirarla da tutte le parti, per poi finire in uno strano ecumenismo». Un altro eurodeputato Pd, Pierfrancesco Majorino, su Facebook parla di «banalizzazioni pericolose». L’equiparazione tra comunismo e nazismo «fa piangere, innanzitutto sul piano storico». Sulle barricate anche l’Anpi: «In un’unica riprovazione – afferma l’associazione partigiani – si accomunano oppressi e oppressori, vittime e carnefici, invasori e liberatori, per di più ignorando lo spaventoso tributo di sangue pagato dai popoli dell’Unione Sovietica (più di 22 milioni di morti) e persino il simbolico evento della liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa». Secondo l’Anpi, «davanti al crescente pericolo di nazifascismi, razzismi e nazionalismi, si sceglie una strada di lacerante divisione invece che di responsabile e rigorosa unità».Chissà cosa ne direbbe Primo Levi, se fosse vivo: le pagine di un memoriale come “La tregua” propongono un vivido ritratto della prorompente, caotica vitalità delle truppe sovietiche, consapevoli – a ogni livello – si essersi sacrificate non solo per difendere il territorio russo, ma anche per liberare l’Europa dalla barbarie. Dovunque poi sia andato al governo – ammette lo stesso Barbero, storico popolarissimo in Italia grazie anche alla sua presenza televisiva – il comunismo ha agito in modo inaccettabile, deludendo i suoi stessi sostenitori. Chi tende a dichiararsi al tempo stesso antifascista e anticomunista (liberali e socialisti) sottolinea: esattamente come il nazifascismo, anche il comunismo ha finito sempre per sopprimere la democrazia e imporre un’oligarchia autoritaria e spesso violenta, se non addirittura totalitaria come nel caso dello stalinismo. Avverte però il professor Barbero: attenti, a maneggiare la storia in modo frettoloso. Falce e martello, per centinaia di milioni di esseri umani – in tutto il mondo, e per un secolo e mezzo – hanno rappresentato ideali di fraternità e dignità, pace e giustizia sociale. Per Hitler, al copntrario, l’obiettivo supremo era lo sterminio razzista degli ebrei. Sicuri che sia saggio, gettare tutto questo nello stessa fogna dove la storia ha provveduto a relegare l’aberrante nazismo tedesco?Pessima idea, equiparare il simbolo del comunismo – falce e martello – alla svastica hitleriana. A lanciare l’allarme è lo storico Alessandro Barbero, ospite dell’edizione 2019 del Festival Logos di Roma, il 24 ottobre. La tesi: il fascismo è riconducibile al faccione di Mussolini in Italia e l’orrore nazista della Germania è identificabile in un periodo storico altrettanto circoscritto nel tempo e nello spazio. Al contrario, l’ideale comunista (poi tradito dal regime criminale dell’Urss stalinista) aveva infiammato i cuori di milioni di persone. E’ accaduto in ogni parte del pianeta, nell’arco di 150 anni, da Marx in poi, sulla base di un sogno: un mondo più giusto e migliore, per tutti. Barbero prende così le distanze dall’insidioso documento approvato il 19 settembre dal Parlamento Europeo: il testo condanna il comunismo in quanto sistema politico “totalitario”, equiparandolo al nazifascismo. Con 535 voti a favore, 66 contrari e 52 astenuti, la controversa risoluzione sulla “memoria europea” getta nella spazzatura della storia l’intera esperienza comunista internazionale. Pericolo in vista: «Nella dimensione pratica – riassume “Radio Onda d’Urto” – la risoluzione impegna a eliminare qualunque simbologia presente in Europa relativa al movimento comunista internazionale, dai monumenti ai nomi delle strade».
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Ultimo tango a Perugia: l’autopsia del Movimento 5 Stelle
Il Movimento 5 Stelle potrebbe anche risorgere, se solo ricominciasse a essere se stesso, cioè a riesumare le ruggenti battaglie democratiche ora dimenticate. Tornare a impegnarsi dalla parte dei cittadini lasciando perdere i tatticismi istituzionali e l’abbraccio mortale col Pd? E’ la tesi che Gianluigi Paragone, scomodo giornalista televisivo e ora deputato “dissidente”, rilancia dopo la débacle grillina in Umbria. L’infelice minuetto con Zingaretti, patrocinato da Conte? “Ultimo tango a Perugia”, lo definisce – parafrasando Bertolucci – Francesco Maria Toscano, dirigente di Vox Italia e ora anche collaboratore di Claudio Messora. Tempestiva, la diretta web offerta da “ByoBlu” il 28 ottobre per commentare, a caldo, il “Vaffa Umbro” rimediato dai pentastellati, ridotti al 7,4% e letteralmente “asfaltati” da Salvini. «Ora tutti vorranno la testa di Luigi Di Maio», avverte Debora Billi, già comunicatrice ufficiale (con Messora) dei primi gruppi parlamentari 5 Stelle, nel 2013. «Ma il fatto è – aggiunge – che Di Maio è il meno colpevole di tutti: aveva tentato in ogni modo di evitare l’intesa col Pd, imposta da Grillo».Ancora più esplicito il professor Paolo Becchi, filosofo del diritto, un tempo vicino ai 5 Stelle: «Il Movimento è stato creato da Gianroberto Casaleggio e distrutto da Beppe Grillo, con la svolta pro-Pd a cui Di Maio aveva tentato in ogni modo di opporsi». Ma Grillo, a sua volta – rilancia Debora Billi – è stato forse “costretto” a convergere verso Zingaretti e Renzi? L’allusione riguarda probabilmente l’inchiesta in corso sul figlio di Grillo, indiziato di abusi sessuali durante l’estate più pazza della politica italiana. L’indagine è ancora aperta, e il giovane Grillo – per ora solo sospettato di ipotetici comportamenti scorretti nella villa del padre in Costa Smeralda – è già finito nel tritacarne della speculazione polemica: tanto è bastato a Vittorio Sgarbi per tentare di crocifiggere l’ex comico, ora formalmente “garante” (cioè padre-padrone) del Movimento 5 Stelle. Iinsinuazioni? La tesi corrente è di questo tenore: a prescindere dall’esito giudiziario, Grillo si sarebbe sentito potenzialmente ricattato dal clamore mediatico sul caso inerente il figlio. Al punto da ordinare a Di Maio – a malincuore – di mollare Salvini per Zingaretti?Paolo Becchi offre un ragionamento diverso, niditamente politico e senza “attenuanti” per Grillo: un minuto prima del “diktat” dell’ex comico, che ha dato vita all’imbarazzante Conte-bis – rivela Becchi nell’instant book “Ladri di democrazia” scritto con Giuseppe Palma – Di Maio aveva offerto a Salvini un robusto rimpasto dell’esecutivo gialloverde, che tenesse conto del vasto successo della Lega alle europee. Il piano del “capo politico” grillino prevedeva il “pensionamento” di Conte, sgradito al leader leghista: Salvini avrebbe ottenuto ministri all’altezza della situazione, e il premier sarebbe stato lo stesso Di Maio. L’accordo era praticamente chiuso, dice Becchi, quando è esplosa la bomba-Grillo, cioè l’ordine di “suicidare” il Movimento 5 Stelle tra le braccia di Matteo Renzi, lestissimo a cogliere al volo l’assist proveniente da Genova. Primo risultato matematico, persino scontato: la disfatta in Umbria alle regionali. Con l’aggravante che il mesto “ultimo tango a Perugia” segnerà il destino del Conte-bis, rischiando di decretare addirittura l’estinzione politica dei 5 Stelle, abbandonati in massa dall’elettorato dopo lo spettacolo offerto dai parlamentari aggrappati alle poltrone.Debora Billi evoca un Vietnam inimmaginabile contro Di Maio, a cui ora – in una sorta di guerra per bande – saranno imputati tutti gli errori della gestione politica del Movimento 5 Stelle, benché a tifare per il divorzio da Salvini sia stata l’ala “sinistra”, capeggiata da Roberto Fico. Sollevando lo sguardo verso l’orizzonte, lo stesso Becchi e il giornalista Maurizio Blondet (altro ospite della diretta web di “ByoBlu”) si fanno la seguente domanda: se Salvini eredita “giustamente” i voti ex-grillini sulla base di una speranza di cambiamento, quale sarebbe l’idea di paese offerta dalla Lega? Casaleggio aveva la sua, che poi Grillo ha cancellato. E Salvini? A vincere è la Lega pragmatica dei governatori del Nord Italia, come i prudenti Zaia e Fontana, o la Lega ultra-critica verso l’Ue incarnata da economisti come Borghi, Bagnai e Rinaldi? Va ricordato, comunque, che il governo gialloverde (leghisti inclusi) non aveva certo fatto faville. L’unica certezza – dice Blondet – consiste nel fatto che Salvini ha intercettato il malessere sociale delle periferie, esposte a una non facile convivenza con l’immigrazione, specie africana. Ma a parte il freno agli sbarchi, dove sarebbe il piano leghista per governare l’Italia?Nel salotto di Messora, il 28 ottobre, si lascia ascoltare anche il giovane Dario Corallo, candidato “anomalo” delle ultime primarie del Pd: imputa alla sinistra il cedimento storico alle istanze del potere finanziario, e condanna lo scellerato taglio dei parlamentari «che ridurrebbe in modo drastico la già scarsa rappresentanza, allontanando ulteriormente i territori dai centri decisionali». Corallo sogna una convergenza trasversale di forze realmente progressiste, per affrontare a muso duro il rigore Ue e smontare il sistema suicida dei vincoli finanziari che costringe lo Stato a scaricare i costi sociali sulle Regioni, in termini di tagli ai servizi e di maggiori imposte, coi risultati ora sotto gli occhi di tutti. Ma il “Vaffa Umbro” raccontato da “ByoBlu” mette in scena innanzitutto l’autopsia del Movimento 5 Stelle, che ha tradito tutte le promesse elettorali. Ilva, Tap, vaccini, Tav, armamenti, trivelle: capitolazione, su tutta la linea. Gli ex grillini invocano un cambio radicale nella dirigenza. Ma il M5S non ha mai celebrato un solo congresso interno. Democrazia, questa sconosciuta. E l’ultima parola, in ogni caso, spetta a un privato cittadino mai eletto da nessuno: il signor Giuseppe Piero Grillo, detto Beppe.Il Movimento 5 Stelle potrebbe anche risorgere, se solo ricominciasse a essere se stesso, cioè a riesumare le ruggenti battaglie democratiche ora dimenticate. Tornare a impegnarsi dalla parte dei cittadini lasciando perdere i tatticismi istituzionali e l’abbraccio mortale col Pd? E’ la tesi che Gianluigi Paragone, scomodo giornalista televisivo e ora deputato “dissidente”, rilancia dopo la débacle grillina in Umbria. L’infelice minuetto con Zingaretti, patrocinato da Conte? “Ultimo tango a Perugia”, lo definisce – parafrasando Bertolucci – Francesco Maria Toscano, dirigente di Vox Italia e ora anche collaboratore di Claudio Messora. Tempestiva, la diretta web offerta da “ByoBlu” il 28 ottobre per commentare, a caldo, il “Vaffa Umbro” rimediato dai pentastellati, ridotti al 7,4% e letteralmente “asfaltati” da Salvini. «Ora tutti vorranno la testa di Luigi Di Maio», avverte Debora Billi, già comunicatrice ufficiale (con Messora) dei primi gruppi parlamentari 5 Stelle, nel 2013. «Ma il fatto è – aggiunge – che Di Maio è il meno colpevole di tutti: aveva tentato in ogni modo di evitare l’intesa col Pd, imposta da Grillo».
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Magaldi: sta cambiando tutto, e adesso ve ne accorgerete
Forse adesso anche i più sprovveduti, i teorici della “follia estiva” del Papeete, capiranno perché Salvini ha staccato la spina al governo gialloverde, una volta capito che Conte e Tria gli avrebbero impedito di alleggerire la pressione fiscale e inaugurare una politica finalmente espansiva. Ultimo tradimento, il voto dei grillini per Ursula von der Leyen alla Commissione Europea. Ragionamento del leghista: guai se resto al governo, costretto a firmare una manovra che rappresenta l’esatto contrario di quanto promesso. Risultato: Salvini ora fa il pieno alle regionali in Umbria (57,5%), umiliando Zingaretti e in particolare Di Maio, con i 5 Stelle al di sotto dell’8%. «Logico che gli italiani, a partire dall’Umbria, puniscano le forze del Conte-bis e la loro manovra finanziaria deprimente, persino preoccupante», con la crociata contro i mini-evasori e la demonizzazione del contante. Gioele Magaldi canta vittoria: il suo Movimento Roosevelt si è schierato con la Tesei sostenendo “Umbria Civica” del battitore libero Nilo Arcudi: «Non per rieditare l’obsoleto e deludente centrodestra, ma per promuovere un dialogo trasversale coi progressisti del centrosinistra, contro i conservatori di entrambe le coalizioni».Un esito scontato: «Nel 2018, i gialloverdi avevano promesso un vero cambiamento: assaporato il quale, ora gli elettori non possono digerire l’imbarazzante Conte-bis», sottomesso ai consueti vincoli-capestro imposti da Bruxelles. Per Magaldi, tutto sta insieme: gli elettori umbri premiano il Salvini che si è circordato di economisti post-keynesiani come Bagnai e Rinaldi, contrari alla “teologia” del rigore Ue. Nel frattempo, Giuseppe Conte è sulla graticola: oltre alla débacle umbra, che taglia le gambe alla grottesca alleanza tra il Pd e i grillini che proprio in Umbria li avevano denunciari, facendo cadere la giunta “rossa” di Catiuscia Marini, il premier teme sviluppi dal caso Russiagate, dopo le strane omissioni (segnalate dal “Corriere della Sera”) che rendono incompleta, se non reticente, la sua prima audizione al Coapasir. Il sospetto: Conte avrebbe usato in modo improprio i servizi segreti italiani, mettendoli a disposizione del ministro statunitense William Barr, impegnato a cercare prove contro Joe Biden, rivale di Trump. Non è tutto: proprio mentre Perugia si trasformava nella Caporetto di “Giuseppi”, il “Financial Times” ipotizzava che Conte potrebbe essere accusato di conflitto d’interessi per aver fatto da consulente a un fondo d’investimento di area vaticana, ora accusato di corruzione.«Me ne compiaccio», dichiara Magaldi, irridente, pensando alla “macchina del fango” scatenata contro Salvini per “Moscopoli”, anche attraverso il servizio di “Report” trasmesso in prossimità dell’audizione di Conte al Copasir e alla vigilia delle elezioni in Umbria. «Segno che tra i cosiddetti “poteri forti” non ci sono soltanto quelli di segno reazionario, che sostengono il Conte-bis, dopo aver sorretto i governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni». Esponente italiano del network massonico progressista internazionale (Grande Oriente Democratico, Rito Europeo Universale), Magaldi annuncia: i massoni progressisti sono impegnati in una controffensiva, in tutto il mondo, dopo i decenni devastanti della globalizzazione neoliberista. Il presidente del Movimento Roosevelt cita la Cina, che ha rimosso la governatrice di Hong Kong contestata dalla popolazione, e segnala anche l’esultanza di Trump per l’annuncio della morte del capo dell’Isis, «il massone reazionario e terrorista Abu Bakr Al-Baghdadi, esponente della superloggia “Hathor Pentalpha” fondata dal clan Bush per terremotare il pianeta anche col terrorismo, grazie ad affiliati come lo stesso Osama Bin Laden».Se le creazioni supermassoniche chiamate Isis e Al-Qaeda avevano marcato l’ultima svolta (terroristica) del piano di dominio del pianeta, fondato sulla strategia della tensione internazionale per imporre a mano armata questa globalizzazione a senso unico e senza diritti, secondo Magaldi – autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014) – tutto era cominciato l’11 settembre 1973 in Cile, con il golpe di Pinochet che aveva introdotto con la massima violenza la dottrina neoliberista della “scuola di Chicago” di Milton Friedman. A maggior ragione, dice oggi Magaldi, riempie il cuore – oggi – assistere a una protesta spettacolare come quella in corso a Santiago del Cile, sfidando il coprifuoco imposto da un governo che, come allora, ha schierato i carri armati nelle strade. «Tutto sta cambiando, a livello planetario, grazie alla regia della massoneria progresista», avverte Magaldi, lasciando capire che lo stesso Salvini – in apparenza esaltato dai mojito del Papeete, ad agosto – è stato «sapientemente consigliato» sul da farsi. «Salvini sta studiando», disse Magaldi, dopo il divorzio del leader leghista dal governo coi grillini. «E’ vero, sto studiando», ha confermato Salvini, nel “duello” televisivo con Renzi, da Bruno Vespa.«Fortemente trasformata da Salvini, la Lega è comunque ancora caratterizzata da un’impostazione tradizionalista, ad esempio in merito ai diritti civili (unico merito di Renzi, l’aver varato almeno le “unioni civili”)». Tuttavia, aggiunge Magaldi, «il Carroccio di Bossi e Maroni era apertamente liberista, mentre la Lega di Salvini si è affidata a economisti progressisti, dotati di una visione che prevede il ritorno dell’intervento dello Stato nell’economia: meno tasse e investimenti strategici da non inserire nel computo del deficit». Se son rose fioriranno, sembra dire Magaldi: anche perché, in ogni caso, tutti gli altri (Conte e Di Maio, Zingaretti e Renzi, lo stesso Berlusconi) non hanno mai osato neppure ipotizzare un cambio delle regole, da intavolare a Bruxelles. Potrebbe farlo ora l’ipotetico “nuovo” Mario Draghi, che – di colpo – evoca la sovranità monetaria, con l’emissione di denaro illimitata prescritta dalla Modern Money Theory? Meglio non correre con la fantasia, raccomanda Magaldi: Draghi potrebbe sostituire Conte «solo se si facesse garante con Bruxelles di una vera espansione della spesa strategica per l’Italia», e dopo aver fatto ammenda delle sue “malefatte”. «Come per la mafia contano i pentiti, che ne scardinano l’organizzazione, così Draghi dovrebbe dimostrare di essere davvero pentito della sua pessima governance reazionaria e neoaristocratica, prima di Bankitalia e poi della Bce».Forse adesso anche i più sprovveduti, i teorici della “follia estiva” del Papeete, capiranno perché Salvini ha staccato la spina al governo gialloverde, una volta capito che Conte e Tria gli avrebbero impedito di alleggerire la pressione fiscale e inaugurare una politica finalmente espansiva. Ultimo tradimento, il voto dei grillini per Ursula von der Leyen alla Commissione Europea. Ragionamento del leghista: guai se resto al governo, costretto a firmare una manovra che rappresenta l’esatto contrario di quanto promesso. Risultato: Salvini ora fa il pieno alle regionali in Umbria (57,5%), umiliando Zingaretti e in particolare Di Maio, con i 5 Stelle al di sotto dell’8%. «Logico che gli italiani, a partire dall’Umbria, puniscano le forze del Conte-bis e la loro manovra finanziaria deprimente, persino preoccupante», con la crociata contro i mini-evasori e la demonizzazione del contante. Gioele Magaldi canta vittoria: il suo Movimento Roosevelt si è schierato con la Tesei sostenendo “Umbria Civica” del battitore libero Nilo Arcudi: «Non per rieditare l’obsoleto e deludente centrodestra, ma per promuovere un dialogo trasversale coi progressisti del centrosinistra, contro i conservatori di entrambe le coalizioni».
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Toghe e 007: perché condizionano l’agenda politica italiana
Servizi segreti e magistratura: due player decisivi, ancora una volta, nel destino italiano? Solo grazie ai cosiddetti “servizi deviati” fu possibile trasformare in catastrofe nazionale gli anni di piombo, rendendo quasi invincibile il terrorismo rosso-nero. Più tardi, analoghe “manine” contribuirono ad agevolare l’eliminazione degli scomodissimi Falcone e Borsellino. Quanto alle toghe, è ormai storicamente accertato (e ammesso dallo stesso Francesco Saverio Borrelli) l’effetto politico dell’azione giudiziaria del pool Mani Pulite. Fu decapitata la classe dirigente della Prima Repubblica, con l’eccezione non casuale del Pci-Pds, proprio mentre il paese stava affrontando lo spinoso negoziato per l’ingresso nell’Unione Europea. Oggi, in un’Italia alle prese con tutt’altri tornanti della storia – le macerie dell’anomalia gialloverde sorta del 2018 dopo la lunga austerity eurocratica imposta da Monti e proseguita con Letta, Renzi e Gentiloni – tornano protagonisti, in fondo, sempre gli stessi organi istituzionali: da un lato gli 007, dall’altro i magistrati. Codice alla mano, alcune Procure hanno inquadrato nel mirino la Lega di Salvini, invisa ai poteri Ue: a Genova – l’ha spiegato bene Luca Telese, in un video-intervento – il giudice ha inflitto all’ex Carroccio un risarcimento inconsueto, sostanzialmente forfettario (sulla base di un calcolo presuntivo delle irregolarità gestionali attribuite a Bossi).Richiedere a un partito 49 milioni di euro, oggi, significa esporlo al rischio di non poter più svolgere l’attività politica (restringendo in tal modo la libertà costituzionale relativa all’offerta democratica garantita dalle elezioni). Ad Agrigento invece il pm sembra aver trattato Salvini – contrario agli sbarchi – alla stregua un bandito dell’anonima sarda, imputandogli addirittura l’ipotetico “sequestro di persona” a danno dei migranti, come se i profughi fossero stati tenuti prigionieri della nave che li aveva raccolti (e non fossero invece liberissimi di salpare, per poi sbarcare altrove). Ma il colpo più duro, alla Lega, lo hanno assestato i servizi segreti – non si sa di quale paese – che hanno intercettato e registrato a Mosca il famoso colloquio tra l’esponente leghista Gianluca Savoini e alcuni emissari di secondo piano del potere russo. Tema della conversazione: una ipotetica fornitura di petrolio e gas, sulla quale – hanno riferito giornali come “L’Espresso” – lo stesso Savoini (a che titolo, non si sa) avrebbe discusso la possibilità ipotetica di ricevere una percentuale sull’eventuale affare, peraltro non andato in porto e mai neppure avviato. Salvini si è difeso dichiarandosi più che tranquillo, evitando però di rispondere nel merito: del caso si sta occupando la magistratura milanese, a cui qualcuno (chi?) ha inviato l’audio della conversazione all’Hotel Metropol.Infastidito per l’insistenza dei giornalisti italiani che hanno seguito la vicenda (testate che contro l’ex Carroccio hanno condotto una vera e propria crociata politica), il leader lehista è apparso evasivo: ha detto di non essere stato messo al corrente di quell’incontro. In ogni caso, Savoini non rappresentava in alcun modo il governo italiano (all’epoca, ottobre 2018, Salvini era vicepremier, oltre che ministro dell’interno). Peraltro è noto a tutti che la Lega, alla luce del sole, ha sempre avuto ottimi rapporti politici con Mosca e col partito “Russia Unita”, fondato da Putin. Salvini giudica l’uomo del Cremlino uno statista di prima grandezza, e ritiene che l’Italia possa e debba riavvicinare la Russia all’orbita Nato, per ragioni geopolitiche e commerciali, dato anche il valore dell’export italiano verso Mosca. Non solo: dai tempi di Bossi, il Carroccio non è mai stato pregiudiziale nei confronti del mondo slavo. Durante la guerra civile nei Balcani, la Lega Nord fu l’unico partito italiano ad allacciare un dialogo anche con la Serbia filo-russa di Milosevic, bombardata dalla Nato e criminalizzata dalla disinformazione occidentale come unico “cattivo soggetto” dell’area balcanica. Una regione devastata dagli opposti nazionalismi e dal cinismo dei vari leader, come svelato nel memorabile saggio “Maschere per un massacro”, di Paolo Rumiz. Sullo sfondo, il ruolo occulto delle potenze egemoni (Occidente cristiano e Turchia islamica) nella “guerra per procura”, dopo la caduta dell’Urss, contro la residua influenza russa, attraverso il regime serbo, ai confini occidentali dell’Europa.Tornando a Salvini, è evidente lo stato di imbarazzo generato – a torto o a ragione – dal cosiddetto Russiagate. E’ pensabile che l’incidente non abbia inciso, nella scelta di “staccare la spina” dal governo gialloverde nel fatidico agosto 2018? Certo, a Bruxelles la Lega aveva appena incassato il “tradimento” di Conte e dei 5 Stelle, decisivi per l’elezione alla guida della Commissione Europea di Ursula von der Leyen, simbolo del rigore più estremo, di marca tedesca. Un vero e proprio affronto, per l’alleato leghista dichiaratamente impegnato (come un tempo anche i grillini) a pretendere un cambio di paradigma nella governance europea. Va aggiunto che Salvini aveva più di una ragione per pretendere il divorzio dai pentastellati: Conte, il misterioso premier indicato dai grillini ma teoricamente “venuto dal nulla”, aveva sostanzialmente insabbiato i referendum di Lombardia e Veneto per le autonomie regionali differenziate. Ma era stato ancora una volta uno dei consueti player istituzionali (la magistratura, in questo caso) a speronare indirettamente il progetto di Flat Tax, facendo piovere un avviso di garanzia sul suo ispiratore, il sottosegretario leghista Armando Siri. Effetti politici collaterali, certo. Ma intanto, una volta di più, è stato un soggetto terzo – non elettivo – a condizionare l’agenda politica italiana, esattamente come ai tempi di Mani Pulite e poi di Berlusconi.Se qualche potere sovrastante, non istituzionale, ha voluto provare a “togliere di mezzo” Salvini pensando di “utilizzare” apparati statali magari per fare un favore a Conte, oggi è lo stesso premier ad essere costretto (da altri poteri sovrastanti?) a rendere conto del suo operato, presso analoghi organi statali, in merito alla vicenda dell’ipotetico impegno “irrituale” dei servizi segreti italiani in favore di settori dell’intelligence statunitense. Si sospetta cioè che Conte, in modo indebito, abbia messo i servizi italiani a disposizione di quelli di Trump, a sua volta impegnato a difendersi dai vari Russiagate che gli sono stati addebitati: in questo caso, la Casa Bianca avrebbe richiesto l’aiuto italiano per “incastrare” il rivale Joe Biden, accusato di malversazioni in Ucraina. Qualcosa del genere aveva coinvolto anche Renzi: quando era primo ministro, Barack Obama gli avrebbe chiesto di mobilitare gli 007 italiani per aiutare Hillary Clinton ad azzoppare Trump, sempre attraverso indiscrezioni provenienti dalla sfera russa. In attesa che i fatti possano eventualmente chiarirsi (dopo le prime vaghe rassicurazioni rese dal premier al Copasir, ora presieduto dal leghista Raffaele Volpi) resta il fatto che Conte oggi è al governo proprio con Renzi, mentre a Salvini non resta che fare da spettatore.Sarebbe il colmo se lo stesso Conte, domani, fosse costretto a farsi da parte proprio a causa del suo ruolo nella gestione dell’intelligence, che stranamente ha voluto tenere per sé. Per coincidenza, negli ultimi giorni si rincorrono voci di corridoio proprio sull’eventuale sfratto dell’inquilino di Palazzo Chigi. Non durerà a lungo, profetizza Paolo Mieli. Potrebbe venir sostituito da Draghi, ipotizza Augusto Minzolini, interpretando i desiderata del redivivo Renzi. Secondo il saggista Gianfranco Carpeoro, a Renzi i “sovragestori” avevano dato un’ultima chance: rientrare in gioco, se fosse riuscito a silurare Salvini. Detto fatto: d’intesa con Grillo, il fiorentino è stato capace di digerire all’istante persino gli odiati 5 Stelle. In cambio di cosa? Il premio, pare, sarebbe il sospirato accesso al gotha supermassonico, quello da cui proviene il Draghi che oggi prova a dipingere se stesso come una specie di Robin Hood (evocando il ritorno alla sovranità monetaria) dopo aver interpretato per decenni il ruolo spietato dello Sceriffo di Nottingham.A Palazzo Chigi sta davvero per arrivare Super-Mario, che in realtà sarebbe propenso a puntare direttamente al Quirinale evitando la fatale impopolarità che attende chiunque si metta alla guida di un governo? Difficile dirlo. Certo, è impossibile non osservare il basso profilo ora adottato da Salvini: cauto e attendista, più moderato nei toni, concentrato sull’agevole partita tattica delle regionali. Come se sapesse che, a monte, restano da sciogliere nodi assai più grandi della Lega, fuori dalla portata dei comuni elettori. Svolte, scossoni e colpi di scena verranno, ancora una volta, da poteri non elettivi e organi istituzionali non politici? Un certo complottismo indiscriminato tende a mettere in cattiva luce sia i magistrati che gli 007, accusando gli uni di faziosità e gli altri di doppiogiochismo, come se non si trattasse di organismi che (salvo eccezioni) fanno semplicemente rispettare le leggi e vigilano sulla sicurezza del sistema-paese. Semmai, la lente andrebbe puntata su poteri elusivi e superiori, non solo italiani, che ne sfruttassero le prerogative per deviarne l’azione su obiettivi contingenti, condizionando – di fatto – l’agenda nazionale e le sue dinamiche politiche, al di sopra della volontà popolare espressa dai risultati elettorali.Secondo lo stesso Carpeoro, questa particolare fragilità italica ha radici antiche: già in epoca medievale e rinascimentale, Comuni e signorie ricorrevano regolarmente all’aiuto straniero (pagandone poi il prezzo in termini “coloniali”) per sbarazzarsi dei vicini di casa. L’Italia non è riuscita a proteggere né Enrico Mattei dai suoi sicari, né Adriano Olivetti dalla concorrenza industriale, di marca Fiat e statunitense. Travolta giudiziariamente la leadership dei vari Craxi e Andreotti, e scomparso un politico della caratura di Enrico Berlinguer, il Belpaese si è sorbito Berlusconi, Prodi, Grillo e Renzi. Così, Germania e Francia hanno fatto quello che hanno voluto, nella Penisola: Macron ha persino reclutato un esponente del Pd, Sandro Gozi, per farne una sorta di alfiere anti-italiano in sede europea, quand’era ancora in carica il governo gialloverde. Del resto, ormai, da noi vota solo un elettore su due. E quelli che tornano alle urne – nella maggior parte dei casi – lo fanno per votare contro qualcuno, più che per qualcosa. Se questo è il quadro, il meno che ci si possa aspettare è che poteri esterni cerchino di sfruttare le nostre istituzioni, con ogni mezzo, per insediare a Roma il governo più comodo per loro, non certo progettato per il benessere degli italiani. Non ci sarebbe da stupirsi, quindi, se fossero ancora le sentenze, gli avvisi di garanzia e le imprese degli 007 a scegliere tempi, modi e personaggi della politica italiana.Servizi segreti e magistratura: due player decisivi, ancora una volta, nel destino italiano? Solo grazie ai cosiddetti “servizi deviati” fu possibile trasformare in catastrofe nazionale gli anni di piombo, rendendo quasi invincibile il terrorismo rosso-nero. Più tardi, analoghe “manine” contribuirono ad agevolare l’eliminazione degli scomodissimi Falcone e Borsellino. Quanto alle toghe, è ormai storicamente accertato (e ammesso dallo stesso Francesco Saverio Borrelli) l’effetto politico dell’azione giudiziaria del pool Mani Pulite. Fu decapitata la classe dirigente della Prima Repubblica, con l’eccezione non casuale del Pci-Pds, proprio mentre il paese stava affrontando lo spinoso negoziato per l’ingresso nell’Unione Europea. Oggi, in un’Italia alle prese con tutt’altri tornanti della storia – le macerie dell’anomalia gialloverde sorta del 2018 dopo la lunga austerity eurocratica imposta da Monti e proseguita con Letta, Renzi e Gentiloni – tornano protagonisti, in fondo, sempre gli stessi organi istituzionali: da un lato gli 007, dall’altro i magistrati. Codice alla mano, alcune Procure hanno inquadrato nel mirino la Lega di Salvini, invisa ai poteri Ue: a Genova – l’ha spiegato bene Luca Telese, in un video-intervento – il giudice ha inflitto all’ex Carroccio un risarcimento inconsueto, sostanzialmente forfettario (sulla base di un calcolo presuntivo delle irregolarità gestionali attribuite a Bossi).
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Grillo e 5 Stelle, da finti outsider a vero pericolo per l’Italia
Il Movimento 5 Stelle è ormai ridotto a ruota di scorta di Matteo Renzi, il simpatico avvoltoio planato sulla carcassa del Pd e ora intento a logorare Giuseppe Conte, premier virtuale mai votato da nessuno. Da quando Beppe Grillo ha cominciato ad agitarsi sulla scena politica, con i suoi Vaffa-Day, il nostro paese ha smesso di essere guidato da governi normali, sostenuti dal suffragio popolare. Ultimo caso: Berlusconi, eletto nel 2008. A seguire: il paracadutato Monti, poi l’incorporeo Letta, quindi l’avventuriero Renzi (nemmeno parlamentare, allora) e infine Gentiloni, altro ectoplasma targato Pd. Poi Conte, anche lui non-eletto. I grillini sono passati dall’exploit del 2013, primo partito alla Camera – al punto da affondare il debolissimo Bersani – al quasi-plebiscito del 2018, gravido di promesse. Tav e Tap, Ilva, trivelle in Adriatico, Muos di Niscemi, F-35, vaccini. Tutto diventato carta straccia alla velocità della luce. Oggi, tra gli italiani ancora propensi ad andare a votare, in caso di elezioni (poco più della metà degli aventi diritto), i 5 Stelle verrebbero premiati da un 17% di cittadini. Stando ai sondaggi, il calo è rapido e inesorabile. E la cosa non sembra preoccupare minimamente il fondatore, l’istrionico ex comico genovese a cui, nel marzo 2018, qualcosa come 11 milioni di italiani avevano creduto.Confidando nel terrore dei suoi parlamentari di fronte all’ipotesi delle elezioni anticipate, è stato Grillo a impartire l’ordine di mettere fine al governo gialloverde, divorziando da Salvini per abbracciare il partito di Renzi, oggi impersonato dalla controfigura Zingaretti. Nell’ipocrita caserma dove circolava la barzelletta “uno vale uno”, è stato sempre Grillo a dettare la linea: anziché far nascere una democrazia interna ha imposto Di Maio come prestanome, e dopo aver straparlato di un referendum consultivo sull’euro ha tentato di traslocare il gruppo europarlamentare grillino tra gli ultra-euristi dell’Alde, in compagnia di Monti. Sempre Grillo (tramite il ventriloquo Di Maio) ha ordinato ai 5 Stelle di sostenere Ursula von der Leyen a Bruxelles, rompendo così in modo plateale l’alleanza con la Lega. Gran sacerdote dell’operazione il premier Conte, altro “signor nessuno” uscito misteriosamente dal cilindro del fondatore-monarca travestito da giustiziere. Non si contano i gesti pubblici con cui Grillo tenta di accreditarsi ancora come libero pensatore, magari eccentrico: la scorsa primavera, insieme all’amico Renzi, ha firmato il vergognoso “Patto per Scienza” promosso dal propagandista pro-vax Claudio Burioni per tagliare i fondi alla ricerca medica sui danni da vaccino.Non pago, Beppe Grillo ora si è anche soavemente permesso di proporre ai giovani italiani di sbarazzarsi dei loro nonni, escludendo brutalmente gli anziani dal diritto al voto. Se il delirio contro i vecchi richiama sgradevoli dissonanze di sapore vagamente hitleriano, ricorda gli ingloriosi trascorsi della P2 di Gelli il piccolo capolavoro post-democratico rappresentato dallo sgangherato taglio dei parlamentari. Una crociata cavalcata con surreale trionfalismo, come se si trattasse di sgominare una cosca mafiosa. Di fatto: una manomissione costituzionale gaglioffa, non inserita in un preciso riordino istituzionale (e senza neppure un’idea di legge elettorale: quella, va da sé, sarà modellata ad personam, in base all’interesse di bottega). Eppure, nessuno chiede a gran voce le dimissioni in massa degli impresentabili parlamentari penstastellati. Si preferisce il silenzio della semplice diserzione elettorale. Gli italiani ancora faticano a capacitarsi di fronte all’idea di esser stati raggirati in modo tanto sfrontato. Matteo Salvini, che almeno aveva provato davvero a cambiare le cose (la candidatura di Savona, l’impegno di Armando Siri per la Flat Tax) è stato messo alla porta insieme a Danilo Toninelli, l’unico ministro ad aver osato istituire una commissione per verificare l’utilità (inesistente, appunto) della Torino-Lione.L’ipnosi 5 Stelle ha funzionato a meraviglia, facendo deragliare nel nulla la protesta sociale di un paese messo alla frusta dai grandi poteri eurocratici. Alternando i panni del clown a quelli del dittatore sudamericano, Grillo ha tenuto la scena per anni, mentendo innanzitutto ai suoi elettori. Per conto di chi? Secondo l’analista geopolitico Federico Dezzani, basta “seguire i soldi” e ricostruire la filiera-Casaleggio per scoprire la mano sinistra dello Zio Sam dietro la colossale presa in giro della “democrazia diretta” evocata dall’autocrate genovese, sempre spietato verso qualsiasi voce dissidente fino a pretenderne l’immediata espulsione. Se l’illusione ottica chiamata Movimento 5 Stelle era solo uno stratagemma per addormentare gli italiani nel momento di massima crisi politica del paese, il suo suicidio pazzesco – l’alleanza con Renzi e il tradimento spettacolare di ogni promessa – non lascia presagire niente di buono: prima di sparire definitivamente come increscioso incidente della storia, il grillismo potrebbe infliggere altri danni all’Italia? C’è da aspettarsi di tutto, da chi ha raccontato solo e sempre il contrario della verità, occultando il suo reale pensiero. La stessa sconcertante duttilità di Di Maio – capace di cambiare idea all’istante, su tutto – rende il Movimento 5 Stelle lo strumento perfetto per chi volesse affossare il nostro paese, a partire dalle super-nomine in arrivo nel 2020, per finire con l’elezione del prossimo capo dello Stato.Il Movimento 5 Stelle è ormai ridotto a ruota di scorta di Matteo Renzi, il simpatico avvoltoio planato sulla carcassa del Pd e ora intento a logorare Giuseppe Conte, premier virtuale mai votato da nessuno. Da quando Beppe Grillo ha cominciato ad agitarsi sulla scena politica, con i suoi Vaffa-Day, il nostro paese ha smesso di essere guidato da governi normali, sostenuti dal suffragio popolare. Ultimo caso: Berlusconi, eletto nel 2008. A seguire: il paracadutato Monti, poi l’incorporeo Letta, quindi l’avventuriero Renzi (nemmeno parlamentare, allora) e infine Gentiloni, altro ectoplasma targato Pd. Poi Conte, anche lui non-eletto. I grillini sono passati dall’exploit del 2013, primo partito alla Camera – al punto da affondare il debolissimo Bersani – al quasi-plebiscito del 2018, gravido di promesse. Tav e Tap, Ilva, trivelle in Adriatico, Muos di Niscemi, F-35, vaccini. Tutto diventato carta straccia alla velocità della luce. Oggi, tra gli italiani ancora propensi ad andare a votare, in caso di elezioni (poco più della metà degli aventi diritto), i 5 Stelle verrebbero premiati da un 17% di cittadini. Stando ai sondaggi, il calo è rapido e inesorabile. E la cosa non sembra preoccupare minimamente il fondatore, l’istrionico ex comico genovese a cui, nel marzo 2018, qualcosa come 11 milioni di italiani avevano creduto.
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Austerity: tradimento 5 Stelle, camerieri della Colonia Italia
Se il cameriere, cioè il governo italiano, non si sbriga a tassare i cittadini, allora puntuale arriva la letterina del padrone, dell’Unione Monetaria Europea che tradotta significa più o meno “non ci interessano le vostre faide tra colonizzati; obbedite, poi vi sistemerete nel microscopico spazio di ipocrisia che resta”. Forse sono parole pesanti, ancorché vere, ma credo vi ricordino qualcosa, tipo l’impostazione che un certo MoVimento aveva quando si trattava di Uem, di stagnazione, di politiche degli zero virgola (briciolesimo) e di intrallazzi di palazzo. Certo, la critica che gli muovevo all’epoca era “meno toni strumentalizzabili dai media, più tecnica e decisione nei fatti”, mentre adesso mi indigno per come i giornalisti della carta stampata non denuncino un’evidenza: quel MoVimento è passato dal rifiuto della maggioranza dei cittadini italiani verso certi parametri Uem (inventati, peraltro), al rispetto religioso di essi e perfino all’aggressione di chi non professi altrettanto!!! Avete presente quando un truffatore, di quelli che si presentano ai cancelli delle persone anziane fingendosi dell’Enel, viene sgamato e se ne va ostentando proteste ma trasmettendo imbarazzo e cialtroneria (cioè quel mix tra l’essere disperati e mentecatti)?
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Giorni contati per il Conte-bis, Mario Draghi a Palazzo Chigi?
Campane a morto per Giuseppe Conte, ormai in rotta con Di Maio e incalzato ogni giorno dall’abile manovratore Renzi. Occhio, avverte Zingaretti: se il Vietnam contro il premier e il governo giallorosso non si arresta, il Pd potrebbe rompere e tornare al voto, ricandidando come primo ministro proprio il professor-avvocato di Volturara Appula, l’unico – secondo l’impalpabile “fratello di Montalbano” – ad avere chance elettorali. Non la pensano così personaggi televisivi come Alan Friedman, secondo cui Conte sarebbe «un uomo vuoto», e lo stesso Paolo Mieli, per il quale “l’avvocato degli italiani” avrebbe ormai i giorni contati, non disponendo di un reale peso parlamentare da opporre alle intemperanze dei renziani e al crescente malpancismo di un Di Maio emarginato da Grillo e contestato dai suoi. Lo scrittore Gianfranco Carpeoro l’aveva vaticinato a settembre: qui si rischia di tornare a votare entro tre mesi, al più tardi a gennaio. Ora Carpeoro rilancia: il governo traballa, e le elezioni anticipate potrebbero essere evitate solo dall’eventuale piano-Draghi, cioè l’ipotesi di potere che vorrebbe insediato a Palazzo Chigi il presidente uscente della Bce, il cui ruolo dietro le quinte potrebbe essere destinato a crescere, incidendo direttamente sull’Italia ex gialloverde, delusa dal modestissimo Conte-bis e spiazzata dalla fulminea alleanza tra Renzi e Grillo.
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Grillo-horror: via il voto agli anziani. Anche a Mattarella?
Tagliare, escludere, eliminare. In una parola: togliere. Password: “meno”. A Beppe Grillo, le parole “diritti” e “voto” procurano l’orticaria? Se si aggiunge il terzo vacabolo, “anziani”, si ottiene questo titolo: “Se togliessimo il diritto di voto agli anziani?”. Levàteje er fiasco, si potrebbe commentare, bonariamente, in romanesco. Film consigliato: “La ballata di Narayama”, di Shōhei Imamura, Palma d’Oro a Cannes nell’83. Trama: in un villaggio, al settantesimo compleanno gli anziani vengono esiliati su una montagna, dove attenderanno la morte. Si può concepire qualcosa di più mostruoso? Forse sì: nei ghetti della Polonia, per esempio, gli ebrei non vivevano giorni allegri, in attesa della deportazione che li avrebbe trasformati in cenere. Prendersela con gli anziani nel 2019 in un paese come l’Italia, poi, aggiunge alla demenzialità una vena di perfidia vagamente totalitaria. E’ una minaccia disgustosa, ma sembra anche una vendetta: contro le generazioni che hanno fatto dell’Italia la quarta potenza industriale del pianeta, pur in un paese insidiato da mali endemici come l’evasione fiscale da record, l’elevato tasso di corruzione politica e la pervasività delle mafie. Per buon peso, l’Italia appena uscita dal boom del dopoguerra dovette vedersela anche col terrorismo. Ma tenne duro ugualmente, grazie a quei cittadini – ora anziani – che il signor Giuseppe Piero Grillo propone di privare del diritto di voto.«Ci sono semplicemente troppi elettori anziani e il loro numero sta crescendo. Il voto non dovrebbe essere un privilegio perpetuo, ma una partecipazione al continuo destino della comunità politica, sia nei suoi benefici che nei suoi rischi». A di là della citazione cosmetica (Douglas J. Stewart) queste parole sarebbero state perfette per un tipetto come Joseph Goebbels: a chi altri poteva venire in mente l’espressione “troppi elettori”, per giunta “anziani”? Una proposta, scrive Grillo, «già ampiamente discussa dal filosofo ed economista belga Philippe Van Parijs», pensatore contemporaneo «tra i più grandi sostenitori del reddito universale» (che infatti trovò abusiva l’espressione “reddito di cittadinanza” coniata dai grillini per mascherare la ridicola elemosina elargita col contagocce da Luigi Di Maio). Il voto sarebbe un “privilegio perpetuo”? E certo: che belli, i tempi in cui il voto non esisteva proprio, e il Re poteva tagliare la testa a chi voleva, senza nemmeno un processo. Ma non era diventato un diritto, nel mondo contemporaneo, il suffragio universale? Non è stato introdotto, come conquista storica, da quel pezzo di carta chiamato Costituzione? Perché allora qualcuno pensa che sia così affascinante, tornare di colpo all’età della pietra? Fiato sprecato, se questo qualcuno è il privato cittadino che, occasionalmente, emana diktat cui deve allinearsi il partito-gregge più rappresentato nell’attuale Parlamento italiano.Il signor Grillo – non eletto, mai votato da nessuno eppure padrone feudale del marchio 5 Stelle – è la stessa persona che esortava gli ignari valsusini, con parole incendiarie, a lottare contro il Tav Torino-Lione (demonizzato come un Moloch del terzo millennio), salvo poi liquidarli, alla stregua di un branco di ottusi montanari, non appena gli fu chiaro che la recita era durata abbastanza, dato che era tempo di cambiare aria, spartito e compagnia di giro. Stessa storia in Puglia (Ilva, Tap) e in Sicilia (Muos di Niscemi). Armiamoci e partite, ma per finta: le trivelle in Adriatico, gli F-35. E vogliamo parlare di obbligo vaccinale? Milioni di voti, nel 2018, mietuti anche con la promessa free-vax della libertà di scelta. Meno di un anno dopo, la firma (con l’amico Renzi) dell’aberrante “Patto per la Scienza” scarabocchiato dal propagandista pro-vax Claudio Burioni. Dulcis in fundo, il taglio dei parlamentari: irrilevante sul piano finanziario ma gravido di minaccia sotto l’aspetto politico, contro la libertà di deputati e senatori. “Troppi”, anche loro, come gli anziani: gli uni da trasformare definitivamente in marionette abilitate solo a pigiare tasti secondo ordini prestabiliti, gli altri da esiliare – alla loro veneranda età – tra il ciarpame umano, ormai inutile. Per dire: il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha compiuto 78 anni lo scorso 23 luglio. Che facciamo, togliamo il diritto di voto anche a lui?Il presidente più amato dagli italiani, Sandro Pertini, aveva quasi novant’anni alla scandenza del mandato. E di anni ne aveva 80 Stefano Rodotà, quando i grillini volevano che diventasse presidente dopo Napolitano, altro “giovanotto” della Repubblica (classe 1925). E che dire dei vegliardi richiamati in servizio honoris causa, come senatori a vita? Nomi da niente: Toscanini e Sturzo, Ferruccio Parri, Meuccio Ruini, Pietro Nenni. E poi Eugenio Montale, Eduardo De Filippo. E Norberto Bobbio, Rita Levi Montalcini, Renzo Piano, Carlo Rubbia. Vecchie ciabatte, da gettare nel cassonetto? Ma sarebbe un errore opporre il lume della ragione al delirio, sempre piuttosto sinistro e tendenzioso, del signor Beppe: «L’idea», la chiama. Grande idea, non c’è che dire. «Nasce dal presupposto che una volta raggiunta una certa età, i cittadini saranno meno preoccupati del futuro sociale, politico ed economico, rispetto alle generazioni più giovani». Ma saranno fatti loro, no? Macché: «I loro voti – scrive il blogger più pericoloso d’Italia – dovrebbero essere eliminati del tutto, per garantire che il futuro sia modellato da coloro che hanno un reale interesse nel vedere realizzato il proprio disegno sociale». Attenzione: gli anziani, quei ribaldi, «saranno molto meno propensi a sopportare le conseguenze a lungo termine delle decisioni politiche». Quindi imbracceranno le armi e daranno l’assalto al Palazzo d’Inverno, creando il Soviet dei Novantenni per abbattere la democrazia?Argomenta il feldmaresciallo Grillo: «Se un 15enne non può prendere una decisione per il proprio futuro, perchè può farlo chi questo futuro non lo vedrà?». Magistrale coerenza: anziché abilitare il 15enne, meglio disabilitare anche il nonno. Oltretutto, costa meno: è la filosofia-canaglia dell’élite che ha promosso l’austerity altrui. Un piano – ora se ne sono accorti tutti – a cui il Movimento 5 Stelle ha fatto da stampella, traghettando verso l’area del vecchio potere i voti in libera uscita, ingannati dallo slogan “uno vale uno” prima di scoprire che, nella caserma pentastellata, “uno vale zero”. E non è finita: varrà meno di zero il singolo parlamentare: sfoltita la scolaresca, ci sarà posto solo per i fedelissimi delle segreterie. Se poi venisse imposto anche il vincolo di mandato, cadrebbe anche l’ultimo frammento di dignità parlamentare. Tanto varrebbe chiuderlo del tutto, il Parlamento, privatizzando anche il voto, magari con il ricorso a tragiche barzellette come la piattaforma Rousseau. A 71 anni suonati, lo stesso Grillo non cessa di disorientare sapientemente i seguaci con le sue supercazzole, tanto per sembrare brillante, magari stravagante ma libero, senza burattinai alle sue spalle. Sicuri? Ha smontato il governo gialloverde restituendo i voti degli incauti elettori agli antichi dominatori, i privatizzatori del Britannia, che non hanno mai perdonato al nostro paese la sua irriducibile capacità economica.Per pura combinazione, infatti, l’armata Brancaleone ora insediata a Palazzo Chigi s’è messa ad agitare, con la bava alla bocca, i vessilli dell’ultima crociata nazionale: quella contro gli scontrini della porta accanto. Guerra al bieco evasore: il barista, l’idraulico, l’elettricista. Perfidi untori, subdoli affossatori del Belpaese. Dal palco, già risuona il tinninnio delle manette evocate dal giulivo Travaglio, giornalista incapace – in tutti questi anni – di formulare una sola parola di analisi sull’euro-crisi italiana. Tutto questo, mentre il governicchio di “Giuseppi” s’inchina ai signori di Bruxelles che tollerano i paradisi fiscali dell’Unione Europea (Olanda, Lussemburgo) che drenano miliardi all’Italia, ogni anno, con il loro scandaloso dumping. Ma discutere con l’Ue non è roba per l’asceta Grillo: è vero, ai tempi belli si divertiva a straparlare di referendum sull’euro, ma poi ha tentato di traslocare il gruppo europarlamentare direttamente tra i banchi di Mario Monti. Il Beppe ormai preferisce bersagli più alla buona: quei gaglioffi dei parlamentari italiani, quel mascalzone del gelataio che non emette sempre lo scontrino. E ora pure i nonni, finiti nella “bad list” del teologo ligure.Del resto, perché mai aver cura dei pensionati, quando c’è in ballo il futuro dei giovani? Meglio ancora: c’è da pensare addirittura ai nascituri. «Le generazioni non nate – aggiunge infatti il messia genovese – sono, sfortunatamente, incapaci di influenzare le decisioni che prendiamo qui ed ora. Tuttavia, possiamo migliorare il loro destino spostando il potere decisionale verso chi tra noi dovrà interagire con loro». E pazienza se i pensionati, maltrattati dall’Inps e pieni di acciacchi, costretti a trascinarsi tra corsie ospedaliere in attesa di referti clinici che non arrivano mai, ora dovranno anche imparare a usare le carte di credito pure per le medicine, rinunciando a quell’orribile robaccia del contante. Fino a sei mesi fa, si parlava di moneta parallela per ovviare alla scarsità artificiosa di liquidità imposta dalla Bce. Ora siamo all’eliminazione delle banconote: sottrarre, ridurre. Sempre meno, questa è la legge. E già che ci siamo, perché non togliere agli anziani anche il diritto di voto? L’unica buona notizia, probabilmente, è che “le generazioni non nate” non avranno la fortuna di ascoltare, in diretta, le memorabili esternazioni del signor Grillo, il profeta beffardo ma in realtà servizievole, amico del potere che sta preparando, anche per loro, un mondo meraviglioso in cui i vecchi saranno gentilmente invitati a sbrigarsi a crepare. E possibilmente senza disturbare: magari spediti in esilio su una montagna giapponese, come nel film di Imamura.(Giorgio Cattaneo, “Grillo-horror: via il voto agli anziani. Anche a Mattarella?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 19 ottobre 2019).Tagliare, escludere, eliminare. In una parola: togliere. Password: “meno”. A Beppe Grillo, le parole “diritti” e “voto” procurano l’orticaria? Se si aggiunge il terzo vacabolo, “anziani”, si ottiene questo titolo: “Se togliessimo il diritto di voto agli anziani?”. Levàteje er fiasco, si potrebbe commentare, bonariamente, in romanesco. Film consigliato: “La ballata di Narayama”, di Shōhei Imamura, Palma d’Oro a Cannes nell’83. Trama: in un villaggio, al settantesimo compleanno gli anziani vengono esiliati su una montagna, dove attenderanno la morte. Si può concepire qualcosa di più mostruoso? Forse sì: nei ghetti della Polonia, per esempio, gli ebrei non vivevano giorni allegri, in attesa della deportazione che li avrebbe trasformati in cenere. Prendersela con gli anziani nel 2019 in un paese come l’Italia, poi, aggiunge alla demenzialità una vena di perfidia vagamente totalitaria. E’ una minaccia disgustosa, ma sembra anche una vendetta: contro le generazioni che hanno fatto dell’Italia la quarta potenza industriale del pianeta, pur in un paese insidiato da mali endemici come l’evasione fiscale da record, l’elevato tasso di corruzione politica e la pervasività delle mafie. Per buon peso, l’Italia appena uscita dal boom del dopoguerra dovette vedersela anche col terrorismo. Ma tenne duro ugualmente, grazie a quei cittadini – ora anziani – che il signor Giuseppe Piero Grillo propone di privare del diritto di voto.
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Voltagabbana non-eletto, è Grillo a tagliare la democrazia
Dopo il taglio dei parlamentari ci sarà la loro vivisezione? Per anni ho sostenuto la necessità di dimezzare il numero dei parlamentari a livello nazionale e regionale, dimezzando contestualmente le costose e inutili authority con i rispettivi impiegati e commessi annessi alle Camere e agli uffici, che ricevono stipendi spropositati pur essendo commessi e impiegati come gli altri dipendenti pubblici. La riduzione del numero dei parlamentari fu un cavallo di battaglia della destra che lo propose tanti anni fa e che fu poi bocciato nel referendum del 2006. Ma ora che si sta convertendo in legge la proposta grillina di portare a 600 i parlamentari, sento puzza d’inganno e d’imbroglio. A cosa doveva servire il taglio? A rendere più agili e spediti i lavori parlamentari, a diminuire i rischi di corruzione e trasmigrazione, ad avere candidati più selezionati e dunque migliori, circoscrizioni più ampie in cui contava di più il prestigio dei candidati e contava di meno il potere clientelare. Era un modo per elevare la qualità della rappresentanza, la responsabilità dei parlamentari e per diminuire le possibilità del voto di scambio. Il taglio che si promuove ora spunta da tutt’altro contesto. La preoccupazione principale non è qualificare il Parlamento, innalzare il livello qualitativo diminuendo la quantità, scegliere parlamentari più prestigiosi, ma esattamente il contrario.