Archivio del Tag ‘destra’
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Addio democrazia, Renzi e Silvio i manovali del piano
Le chiamano “riforme”, come fossero sinonimo di “migliorie”, secondo la vulgata mainstream accettata dai media come verità di fede. Ma sono soltanto le “indicazioni” – leggasi: diktat – che l’oligarchia euroatlantica da anni reitera all’Italia, a colpi di spread (Mario Monti) oppure confidando nell’appeal demiurgico di Renzi, che attraverso il ministro Padoan (Ocse) e con la collaborazione dell’immancabile “uomo di sinistra”, il ministro Poletti, propone la stessa cura-Monti spacciandola per innovazione entusiasmante. Tutto molto semplice: smantellare i punti cardine della Costituzione antifascista, quella che Jamie Dimon (Jp Morgan) ritiene obsoleta, perché tutela l’interesse pubblico di cittadini e lavoratori contro la legge del business. Quella che – con l’applicazione del Ttip, il Trattato Transatlantico voluto dai padroni di Obama e imposto a Renzi – farà sparire in tutta Europa le ultime garanzie di tutela su ambiente, salute, lavoro e sicurezza alimentare, liquidando la qualità del made in Italy. Logica traduzione: sbaraccare lo Stato di diritto e il “rischio” che possa essere governato dai cittadini tramite politici onesti e responsabili.Marco Travaglio lo chiama “il patto Renzi-Berlusconi”, individuandone la declinazione italiana di oggi, i suoi manovali. Ma è un “patto” che viene da lontano, a metà strada tra Wall Street, Bruxelles e Berlino. «Unendo i puntini delle varie riforme vaganti tra governo e Parlamento, costituzionali e ordinarie, ma anche di certe prassi quotidiane passate sotto silenzio per trasformarsi subito in precedenti pericolosi, come le continue interferenze del Quirinale nell’autonomia del Parlamento, della magistratura e della stampa, viene fuori un disegno che inquieta», scrive Travaglio sul “Fatto Quotidiano”. «Una democrazia verticale, cioè ben poco democratica: sconosciuta, anzi opposta ai principi ispiratori della Costituzione, fondata invece su un assetto orizzontale in ossequio alla separazione e all’equilibrio dei poteri». Svolta autoritaria: «All’insaputa del popolo italiano, mai consultato sulla riscrittura della Costituzione, e fors’anche di molti parlamentari ignoranti o distratti, il combinato disposto di leggi, decreti e prassi – di per sé all’apparenza innocue – rischia di costruire un sistema illiberale e piduista fondato sullo strapotere del più forte e sul depotenziamento degli organi di controllo e garanzia».Il pericolo, sintetizza Travaglio, è una «dittatura della maggioranza». Una “democratura”, come direbbe Giovanni Sartori, «a disposizione del primo “uomo solo al comando” che se ne impossessa, diventando intoccabile, incontrollabile, non contendibile, dunque invincibile». Unendo l’ultimo dei “puntini” – il più importante, anche se Travaglio lo sfuma, forse dandolo per scontato – si scopre che il cervello della manovra per liquidare la residua democrazia italiana non risiede a Roma, ad Arcore o a Firenze, ma nei centri di potere economico-finanziari e tecnocratici che negli ultimi trent’anni hanno logorato senza sosta i gangli vitali della fragile e sgangherata democrazia italiana, per assoggettarla a regole scritte altrove, nei santuari del neoliberismo: fine della sovranità nazionale, debito pubblico ostaggio della speculazione finanziaria, demonizzazione del deficit, taglio della spesa pubblica e del welfare, attacco ai salari, flessibilità e precarizzazione del lavoro (Jobs Act), massacro delle pensioni (riforma Fornero). Tutto questo è avvenuto grazie all’alibi del debito, in realtà esploso dopo il divorzio tra Bankitalia e Tesoro nel 1981, che privò di colpo il paese della possibilità di finanziare il deficit – cioè l’investimento pubblico – a costo zero.Da allora, tutti i “tecnici” al potere (in prima linea e nelle retrovie: Draghi, Ciampi, Amato, Andreatta, Prodi, Dini, Padoa Schioppa, Visco, Treu, Bassanini, Monti) hanno proseguito la missione: dire agli italiani che “bisogna” suicidare lo Stato, cioè spillare più soldi – in tasse – di quanti lo Stato non sia disposto a spendere per i cittadini. “Lo vuole l’Europa”, naturalmente, ovvero la Germania, interessata a sbarazzarsi della concorrenza industriale italiana, e lo vuole – da sempre – l’élite economica euroatlantica, insofferente alla relativa autonomia di paesi come l’Italia, capaci di sviluppare benessere diffuso (nonostante la casta corrotta dei politici) proprio grazie alla spesa pubblica strategica dello Stato, che finisce per fare concorrenza al “mercato”, ovvero ai signori delle multinazionali. Sono loro, i “padroni dell’universo”, gli unici a comandare oggi – a fare le leggi che contano – grazie alle lobby insediate a Bruxelles e a organismi sovranazionali pressoché onnipotenti, dal Wto alla Banca Mondiale, dal Fmi alla Bce, dal Bilderberg alla Banca dei Regolamenti Internazionali. Tutto il potere che conta è verticalizzato, nel sistema neo-feudale dell’euro, in mano a poche “menti raffinatissime” che vogliono la morte per fame dello Stato democratico e la impongono mediante rigore e austerity, Fiscal Compact, unione bancaria europea, pareggio di bilancio.Nella sua lunga analisi, Travaglio osserva la traduzione italiana del piano, affidato a Renzi e Berlusconi con la regia di Napolitano sin dai tempi di Monti (Goldman Sachs, Commissione Trilaterale) e Letta (Aspen, Bilderberg). Il fondatore del “Fatto” individua i punti-chiave della definitiva archiviazione della macchina democratica così come l’abbiamo conosciuta finora. La spaventosa legge elettorale, battezzata “Italicum”, che impedirebbe ai cittadini di eleggere i loro candidati. Il Senato, ridotto a comparsa della democrazia. La fine dell’opposizione, con l’emarginazione dei parlamentari scomodi nelle commissioni (il caso Mineo) e una riforma costituzionale che «disarma le minoranze, istituzionalizzando la “ghigliottina” calata dalla presidente Laura Boldrini contro il M5S che tentava di impedire la conversione in legge del decreto-regalo alle banche». E mentre vengono falciati i poteri di controllo, il capo dello Stato abdica al suo storico ruolo di garanzia per ripiegare su una «funzione gregaria del governo», se per eleggerlo basteranno 33 senatori, dopo che il premier – con la legge-truffa per le elezioni – disporrà «del 55% dei deputati da lui nominati».Chi andrà al governo con l’Italicum, continua Travaglio, controllerà anche la Corte Costituzionale, il Csm, i procuratori della Repubblica: un’ingerenza mai vista prima del potere esecutivo, che – con le nuove regole – metterà al guinzaglio il potere giudiziario, proprio come sognava di fare Licio Gelli. Su tutto, resta ovviamente in piedi l’immunità parlamentare anche per i neo-senatori “nominati”, cioè sindaci e consiglieri regionali: «Basterà che un consiglio regionale li nomini senatori, e nel tragitto dalla loro città a Roma verranno coperti dallo scudo impunitario, che impedirà ai magistrati di arrestarli, intercettarli e perquisirli senza l’ok di Palazzo Madama». Tutto questo proviene dal giovane Renzi: interessato a “rottamare” la democrazia, si guarda bene dal toccare le due leggi-vergogna sull’informazione, la Gasparri sulla televisione e la Frattini sul conflitto d’interessi, mentre i grandi giornali italiani restano in mano a editori impuri come «imprenditori, finanzieri, banchieri, palazzinari (per non parlare di veri o finti partiti, con milioni di fondi pubblici), perlopiù titolari di aziende assistite e/o in crisi e dunque ricattabili dal governo, anche per la continua necessità di sostegni pubblici». Non è strano, quindi, che non raccontino ciò che sta davvero accadendo.Addio, cittadini italiani: «Espropriati del diritto di scegliersi i parlamentari, scippati della sovranità nazionale (delegata a misteriose e imperscrutabili autorità europee), i cittadini non ancora rassegnati a godersi lo spettacolo di una destra e di una sinistra sempre più simili e complici, che fingono di combattersi solo in campagna elettorale, possono rifugiarsi in movimenti anti-sistema ancora troppo acerbi per proporsi come alternativa di governo (come il M5S); o inabissarsi nel non-voto (che sfiora ormai il 50%)». In teoria, la Costituzione prevede alcuni strumenti di democrazia diretta, come i referendum abrogativi: «Che però, prevedibilmente, saranno sempre più spesso bocciati dalla Consulta normalizzata». Restano le leggi d’iniziativa popolare, peraltro quasi mai discusse dal Parlamento, ma i “padri ricostituenti” hanno pensato anche a queste, «quintuplicando la soglia delle firme necessarie, da 50 a 250 mila. Casomai qualcuno s’illudesse ancora di vivere in una democrazia».Nella peggiore delle ipotesi, l’allarme di Travaglio sarà costretto a impallidire se il Trattato Transatlantico che avanza a porte chiuse fosse davvero approvato, come vogliono Obama e Renzi, entro la fine del 2015: i giudici italiani non avrebbero più nessun potere contro le pretese delle multinazionali, pronte a chiedere maxi-risarcimenti a Stati e governi che oseranno opporre leggi a tutela del territorio, dei lavoratori, delle persone. E se a qualcuno il “nuovo ordine” non starà bene, l’Unione Europea – ora guidata dall’impresentabile oligarca Juncker – sta già addestrando in gran segreto l’Eurogendfor, polizia militare antisommossa e multinazionale, incaricata di reprimere le proteste: a caricare i cortei italiani potranno essere agenti francesi e olandesi, poliziotti spagnoli e portoghesi. Entro due o tre anni, secondo i critici più pessimisti, la Costituzione italiana sarà ricordata soltanto sui libri di storia.Le chiamano “riforme”, come fossero sinonimo di “migliorie”, secondo la vulgata mainstream accettata dai media come verità di fede. Ma sono soltanto le “indicazioni” – leggasi: diktat – che l’oligarchia euroatlantica da anni reitera all’Italia, a colpi di spread (Mario Monti) oppure confidando nell’appeal demiurgico di Renzi, che attraverso il ministro Padoan (Ocse) e con la collaborazione dell’immancabile “uomo di sinistra”, il ministro Poletti (Lega Coop), propone la stessa cura-Monti spacciandola per innovazione entusiasmante. Tutto molto semplice: smantellare i punti cardine della Costituzione antifascista, quella che Jamie Dimon (Jp Morgan) ritiene obsoleta, perché tutela l’interesse pubblico di cittadini e lavoratori contro la legge del business. Quella che – con l’applicazione del Ttip, il Trattato Transatlantico voluto dai padroni di Obama e imposto a Renzi – farà sparire in tutta Europa le ultime garanzie di tutela su ambiente, salute, lavoro e sicurezza alimentare, liquidando la qualità del made in Italy. Logica traduzione: sbaraccare lo Stato di diritto e il “rischio” che possa essere governato dai cittadini tramite politici onesti che abbiano a cuore l’Italia.
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Renzi, atroce imbroglio: la faccia allegra della catastrofe
Quanti disoccupati produrrà la sciagurata privatizzazione della Fincantieri, che sinora proprio perché pubblica ha permesso all’Italia di essere competitiva nella costruzione delle grandi navi, assieme alla Germania? Vogliamo parlare della privatizzazione di Ilva, Telecom, Italtel e Alitalia, dei disastri che hanno prodotto in tutte le direzioni senza un centesimo di guadagno, anzi con gigantesche perdite, per lo Stato? Vogliamo parlare dello scandalo della Fiat delocalizzata e che fugge il fisco, con il governo muto e complice? Quanti nuovi disoccupati e precari produrrà la cosiddetta riforma della pubblica amministrazione che, dietro la misura demagogica del taglio dei permessi sindacali (che alla fine sarà un boomerang per i suoi autori perché rafforzerà chi lotta sul serio), dietro la propaganda attua il taglio lineare del personale e la deresponsabilizzazione pubblica nella catena degli appalti? E soprattutto quanti disoccupati produrrà la continuazione delle politiche di austerità che già ora hanno creato 7 milioni di senza lavoro?E non si venga a dire che gli 80 euro sono una rottura di questa politica. Chi fa credere questo è in totale malafede. Quell’assegno è stato concordato tra Renzi e Merkel per indorare la pillola del rigore alla vigilia delle elezioni, e verrà restituito con gli interessi, con le tasse i ticket e i tagli ulteriori alla spesa sociale. Però bisogna ammettere che l’operazione gattopardesca per il momento è riuscita. Durante i governi Monti e Letta si parlava sempre più di vincoli europei e di austerità. Ora non se ne parla più, le questioni economiche e sociali vengono dopo il calcio. Si parla di legge elettorale e di abolizione del Senato elettivo, di riforme di tutti i tipi, ma di austerità non si parla più, la si attua e basta. Gli scandali delle grandi opere non provocano più nessuna pubblica discussione sulla loro necessità, ma solo uno stanco ritorno delle campagne di moralizzazione ipocrita e inconcludente, con Renzi naturalmente alla loro testa. Anche Grillo pare esserci cascato in pieno… la crisi economica si risolve con le riforme… Ma va, son venti anni che i liberisti fanno questa propaganda e attuano questa politica e la crisi si aggrava sempre di più.Comunque con ben maggiore efficacia rispetto al suo ammiratore invidioso e frustrato, Berlusconi, Renzi può compiere un’opera di distrazione di massa. Naturalmente non c’è la fa da solo, con lui stanno tutti i poteri forti nazionali e internazionali e un sistema informativo vergognoso, che è saltato sul suo carro come quei giornalisti “embedded” che stavano in Iraq sui carri armati di Bush e raccontavano quelle menzogne che han fatto danno sino ad oggi. Qualcuno parla ancora di Fiscal Compact? Nel nuovo Pd di Renzi che vuol battere i pugni in Europa, qualcuno propone forse di abolire quella mostruosità unica che è il pareggio di bilancio costituzionale? Cameron, quando quella riforma fu approvata, disse che Keynes, cioè lo stato sociale, erano stati messi fuori legge. Nelle elezioni locali qualche candidato del Pd si è forse impegnato a mettere in discussione il patto di stabilità? No di certo, perché Renzi spinge a fare i primi della classe in Europa. Forse anche per questo il vertice europeo torinese è stato rinviato: vuoi mai che per colpa delle parole di qualche sconsiderato burocrate i temi dell’austerità potessero tornare di pubblico confronto?Bisogna depistare e nascondere, noi siamo la seconda cavia di Europa dopo la Grecia. Si mette in atto la stessa politica, ma con un metodo diverso, quello di Renzi. Che si paragona a Obama ma in realtà è un epigono di Blair, che ha distrutto in Gran Bretagna tutto ciò che aveva resistito alla signora Thatcher. Compreso il suo partito. Attenti, sostenitori esultanti e anestetizzati del Pd: alla fine sarà proprio il vostro partito a pagare la politica del suo leader. Intanto però si festeggia e le fragili e tremebonde opposizioni ufficiali di destra e sinistra si inchinano al regime. Berlusconi e la Lega son sempre più parte del gioco. La Cgil ha adottato come massima forma di protesta il borbottio, anche se riceve uno schiaffone al giorno. Grillo dialoga sulle riforme e la lista Tsipras ha già le prime scissioni verso il Pd. Il presidente del consiglio sta sbancando.Eppure, nonostante i clamorosi successi attuali, il progetto di Renzi è destinato a fallire per due ragioni di fondo. La prima è che la crisi economica si trasforma in stagnazione e continuerà così, senza nessuna luce in fondo al tunnel. D’altra parte la politica di Renzi non serve ad uscire dalla crisi, ma solo ad abituarci a convivere con essa. Dobbiamo accettare la disoccupazione di massa e la distruzione dello stato sociale, e imparare a sopravvivere arrangiandoci. Ci dobbiamo rassegnare alla ingiustizia e alla diseguaglianza, questo insegnano il Jobs Act o il feroce articolo 5 del decreto Lupi, che colpisce con crudeltà da Ottocento vittoriano i senza casa. Il punto non è la soluzione della crisi, impossibile con l’austerità, ma la passività sociale. È su questa che contano Renzi e la signora Merkel per andare avanti. Ed è su questo che falliranno.Certo ora sfiducia e rassegnazione sono massimi, mai in Italia si è fatto così tanto danno alle persone con così poche reazioni. Ma questa situazione finirà, il conflitto ripartirà e Renzi rischierà allora di apparire per come lo dipinge il suo unico oppositore televisivo, il comico Maurizio Crozza. La seconda ragione è che l’Europa della signora Merkel che ha benedetto Renzi ha rivelato tutta la sua subalternità e fragilità mondiale. Il governo ucraino con i suoi ministri nazifascisti ha rotto il disegno della Germania di portare l’Europa da essa dominata alla intesa cordiale con Putin e ad una maggiore autonomia dagli Stati Uniti. La nuova guerra, anzi la guerra mai finita in Iraq, rafforza la stessa spinta di fondo. Gli Usa hanno ripreso il controllo del blocco occidentale con la vecchia Nato e ancor di più lo faranno con il Ttip, il patto liberista tra le due sponde dell’Atlantico che vuole trasformare la Ue in appendice di Usa e Canada, mentre di fronte si delinea la nuova alleanza globale di Russia e Cina.Forse non ce ne siamo accorti nel teatrino della nostra politica, ma la globalizzazione è morta, si torna ai grandi schieramenti di potenze e un’Europa indebolita da anni di austerità viene assorbita nel vecchio impero americano. Povero Renzi, che c’entra la sua politica con tutto questo? Nulla, e ancora una volta il conto di un potere politico gattopardesco, che sta indietro rispetto alla realtà del mondo, lo pagheremo tutti noi. Bisogna augurarsi allora che il regime di Renzi non ci metta i venti anni di quello berlusconiano per farci scoprire tutti i suoi danni. Bisogna augurarselo e bisogna agire perché questo regime fallisca il prima possibile. Solo con la sconfitta di Renzi e del renzismo si ridà un futuro a questo paese.(Giorgio Cremaschi, estratto dall’intervento “Facciamo fallire il regime renziano”, da “Micromega” del 20 giugno 2014).Quanti disoccupati produrrà la sciagurata privatizzazione della Fincantieri, che sinora proprio perché pubblica ha permesso all’Italia di essere competitiva nella costruzione delle grandi navi, assieme alla Germania? Vogliamo parlare della privatizzazione di Ilva, Telecom, Italtel e Alitalia, dei disastri che hanno prodotto in tutte le direzioni senza un centesimo di guadagno, anzi con gigantesche perdite, per lo Stato? Vogliamo parlare dello scandalo della Fiat delocalizzata e che fugge il fisco, con il governo muto e complice? Quanti nuovi disoccupati e precari produrrà la cosiddetta riforma della pubblica amministrazione che, dietro la misura demagogica del taglio dei permessi sindacali (che alla fine sarà un boomerang per i suoi autori perché rafforzerà chi lotta sul serio), dietro la propaganda attua il taglio lineare del personale e la deresponsabilizzazione pubblica nella catena degli appalti? E soprattutto quanti disoccupati produrrà la continuazione delle politiche di austerità che già ora hanno creato 7 milioni di senza lavoro?
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Fini: media cialtroni, smascherati solo se la crisi precipita
Credo che l’informazione sia finita. Non il nostro mestiere, ma l’informazione. L’informazione è finita per eccesso di informazione. È quello che ti insegnano al primo anno di economia: il primo cucchiaio di minestra ti salva la vita, il secondo ti nutre, il terzo di fa piacere, ma, alla lunga, il decimo ti uccide. Noi siamo attraversati di continuo da messaggi, non solo di tipo informativo, ma anche pubblicitari, per cui non riusciamo più a ritenere nulla di quel che leggiamo. Qualche anno fa lessi un articolo americano che spiegava come i giovani cresciuti in era pre-televisiva avessero una quantità di informazioni molto superiore ai loro coetanei nati dopo. Non parlo di qualità, ma di quantità. È un processo naturale, oserei dire di difesa. Come non puoi emozionarti di tutto, così non puoi ritenere tutto. Non credo che sia una morte definitiva, perché non c’è mai nulla di definitivo, però per gli anni a venire sono molto pessimista, non per difetto, ripeto, ma per eccesso.I veri cambiamenti avvengono soltanto quando ci si ritrova in condizioni di crisi veramente profonda. Se ci fosse una crisi economica veramente forte, e adesso non ci siamo ancora, allora forse le persone si sveglierebbero e non farebbero come adesso, che tirano a campare. E questo vale per tutto, non soltanto per l’informazione. L’informazione è un campo strano: se leggi soltanto quella mainstream sai che al 90 per cento è taroccata, se invece cerchi in rete ti ritrovi con una massa talmente vasta di informazioni che non sai più nemmeno come gestirla. Qual è l’errore peggiore che può fare un giornalista? Non scrivere quello che vede e non dire quello che pensa, senza dimenticare mai che quello che pensa non è la verità assoluta, visto che non c’è nessuna verità. La cosa peggiore che può fare un giornalista è non essere onesto. Io l’ho sempre detto: se in un’inchiesta dovessi scoprire che mia madre è una puttana, scriverei che mia madre è una puttana. Questo deve fare il giornalista.Naturalmente non c’è una verità oggettiva, non esiste, ma questo è un tema più profondo, qui sfociamo nella metafisica. C’è un bellissimo film degli anni Cinquanta di Akira Kurosawa che si chiama Rashomon. Kurosawa ti fa vedere la scena di un samurai e di sua moglie che vengono aggrediti in un bosco. Lei viene stuprata e lui ucciso. Poi c’è il processo, e al processo ognuno racconta la sua verità. E Kurosawa ti fa vedere ogni volta la stessa scena, senza cambiare una virgola, ma ogni volta la verità è diversa. L’onestà intellettuale è un atteggiamento mentale che dovrebbe rappresentare la normalità. Significa trattare nello stesso modo chi ti sta simpatico e chi ti sta antipatico. Una cosa se secondo te è sbagliata, o giusta, lo devi riconoscere indipendentemente da chi la fa. Questo vuol dire essere coerente e onesto intellettualmente, se no fai l’agitatore, che è un altro mestiere.Il grande corruttore in questo senso è stato Eugenio Scalfari, il quale incominciò a dire una cosa per poi dire il suo contrario sei mesi dopo, finché arrivò all’apice assoluto e, in un articolo su Bettino Craxi, scrisse una seconda parte in cui riusciva a smentire ciò che lui stesso aveva detto nella prima. Un tempo questo non sarebbe stato possibile, perché come diceva Giorgio Bocca esisteva una “società degli eccellenti”. È un concetto da prendere con le molle, ma insomma, certe cose non le potevi fare, se no eri squalificato. Poi è saltato tutto, e infatti lo vediamo nel giornalismo di oggi, ma anche nella politica. «Stai sereno», dice Renzi a Letta, e dopo due giorni gli ha preso il posto. Ecco, almeno per queste cose, un tempo l’Italia era diversa, c’erano delle regole, anche non scritte, ma certe cose non le potevi fare. E non solo nel giornalismo, anche nella vita quotidiana. Era un’Italia, quella dei Cinquanta e Sessanta, in cui l’onestà era un valore per tutti: per la borghesia, se non altro perché dava credito, per il mondo contadino, in cui se venivi meno alla parola data o a una stretta di mano venivi escluso dalla comunità, e anche per le classi medie e il proletariato.Quale è stato il punto di rottura? Il boom economico, l’idolatria del quattrino. L’idolatria del quattrino ha cambiato gli italiani radicalmente: ora ci si vende per niente. Lo vediamo tutti i giorni, i recenti scandali che abbiamo visto ne sono la prova. Il dio quattrino è diventato l’unico idolo condiviso di questo paese. Questa è la verità. Il giornalismo e gli intellettuali – uh, che brutta parola – hanno delle responsabilità gravissime, forse maggiori della stessa classe politica. Gli intellettuali hanno tradito il loro compito, il loro mestiere. E qual è il mestiere dell’intellettuale o del giornalista è, per usare una vecchia formula un po’ usurata, quella del cane da guardia del potere, il controllore. Un ruolo che in alcune parti del mondo ancora esiste, penso agli Stati Uniti, paese che detesto per molti motivi, ma a cui bisogna dare questo merito: la stampa, o almeno, delle parti della stampa sembrano ancora avere l’indipendenza minima, quella che ti permette quando parli dell’Afghanistan, per esempio, di criticare l’operato del tuo governo e del tuo esercito.In Italia la stampa ha smesso da molto tempo di fare il suo mestiere, è totalmente versipelle, ma ci sono esempi di tutti i tipi. Giuliano Ferrara direi che ne è l’emblema, perché è una persona intelligente, anche se in questo caso l’intelligenza mi sembra una aggravante più che un’attenuante. In ogni caso, è questo mondo quello di cui parlo: i Ferrara, i Della Loggia, i Panebianco, i Battista e via dicendo, sono loro che hanno squalificato il lavoro del giornalista. Ma ci sono anche esempi positivi, penso ai Rizzo, agli Stella, che hanno fatto parecchia gavetta e che sono degli ottimi giornalisti. Il problema è che restano in uno stato di perenne gavetta, non avranno mai il peso che può avere un editorialista del “Corriere della Sera”, che poi non si sa nemmeno più perché debbano essere loro gli editorialisti del “Corriere”.Qual è il prezzo che un giornalista paga per difendere la propria onestà intellettuale? Come paga? Be’, con la marginalizzazione, l’estromissione, l’annullamento. Del resto, non si può fare la rivoluzione con la mutua, come pretendevano quelli del ‘68. Se ti metti contro devi essere disposto a pagarne il prezzo, e il prezzo è quello. Una nuova generazione di giornalisti potrà cambiare le cose? È molto difficile. Prima di tutto perché è difficilissimo entrare. Una volta assumevi il figlio del collega o il nipote di un politico, ma insieme assumevi anche uno bravo. Adesso quelli bravi fanno molta più fatica. Forse il web sarà utile in questo senso, per creare qualcosa di nuovo e indipendente, anche se la rete ha tutta una serie di problemi che non rendono affatto facile emergere. Con l’abbondanza che può offrire il web farsi notare è sempre più un’impresa eccezionale.Ci sono tantissimi finti anticonformisti in Italia, ci sono sempre stati, e se ne stanno benissimo incistati in quello che si chiama pensiero unico, che non sanno nemmeno bene che cos’è. È il pensiero uscito dalla rivoluzione industriale, che si basa su una distinzione netta tra destra e sinistra, che sono in realtà due facce della stessa medaglia. Questo quando sono onesti intellettualmente. Quando sono disonesti sembrano anche la stessa faccia, perché fondamentalmente si conformano al potente del momento. È normale, è quello di cui parlava Flaiano quando diceva “salire sul carro del vincitore”. Adesso c’è Renzi, prima c’era Berlusconi, poi chi sa chi ci sarà. Una volta i giornali davano spazio anche a personaggi eterodossi. Certo li usavano come foglia di fico, ma almeno li facevano scrivere. Pensa all’esempio di Pasolini, che ha scritto cose micidiali sulle pagine del “Corriere della Sera”, opinioni eterodosse che oggi non hanno più spazio. Questo tipo di intellettuale è esistito in Italia per molto tempo. Mi vien da pensare anche a una parte della carriera di Bocca, o di Montanelli. Adesso però io non riesco a vedere personaggi di questo genere, di questa statura intellettuale. Insomma, o fai parte della compagnia del giro, quella dei Fazio, dei Saviano, dei Gramellini, o non avrai spazio. Per avere spazio devi essere cooptato da qualcuno.(Massimo Fini, dichiarazioni rilasciate ad Andrea Coccia per l’intervista “I giornalisti? Sono più disonesti dei politici”, pubblicata da “Linkiesta” il 15 giugno 2014).Credo che l’informazione sia finita. Non il nostro mestiere, ma l’informazione. L’informazione è finita per eccesso di informazione. È quello che ti insegnano al primo anno di economia: il primo cucchiaio di minestra ti salva la vita, il secondo ti nutre, il terzo di fa piacere, ma, alla lunga, il decimo ti uccide. Noi siamo attraversati di continuo da messaggi, non solo di tipo informativo, ma anche pubblicitari, per cui non riusciamo più a ritenere nulla di quel che leggiamo. Qualche anno fa lessi un articolo americano che spiegava come i giovani cresciuti in era pre-televisiva avessero una quantità di informazioni molto superiore ai loro coetanei nati dopo. Non parlo di qualità, ma di quantità. È un processo naturale, oserei dire di difesa. Come non puoi emozionarti di tutto, così non puoi ritenere tutto. Non credo che sia una morte definitiva, perché non c’è mai nulla di definitivo, però per gli anni a venire sono molto pessimista, non per difetto, ripeto, ma per eccesso.
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Ma Renzi non piace agli Usa: quanto resisterà al governo?
Matteo Renzi non piace agli americani, che non perdono occasione per farlo notare: Obama, nell’incontro, fu freddissimo, limitandosi ad apprezzamenti sull’ “energia” del nostro presidente del Consiglio (ben più calorosi erano stati i giudizi su Enrico Letta); poi, nel momento peggiore della crisi di Crimea, le note del Dipartimento di Stato evitavano ostentatamente di citare l’Italia a differenza di Francia e Germania; poi è venuto lo schiaffo del D-Day e del G7. Insomma, l’ometto non suscita entusiasmi sul Potomac. Capita, ma perché? In fondo, con il suo inconfondibile stile alla Fonzie, tanto po’ dinoccolato e un po’ tamarro, non dovrebbe dispiacergli. Ha anche fatto il boy scout! Eppure… Forse sarà perché gli americani badano anche ad altre cose oltre che il look. Certo, a Renzi non mancano gli amici americani come Michael Ledeen, ma il guaio è che sono della destra repubblicana, colore opposto a quello dell’attuale amministrazione. Poi, sicuramente, gli americani si capivano molto meglio con Enrico Letta e, probabilmente, non gli è piaciuto il modo con cui è stato buttato giù di sella: allo zio Sam non piace che i suoi amici vengano trattati in quel modo.Ma i motivi più “pesanti” probabilmente sono altri. Il primo si chiama Eni. Gli americani avrebbero tanto gradito la nomina ad Ad di Leonardo Maugeri, già rappresentante dell’Eni a New York, grande esperto di petrolio, soprattutto loro grande amico e sicuro avversario della politica pro-Mosca di Scaroni. Con lui alla guida dell’ente, l’operazione Southstream sarebbe cosa morta e sepolta. Finalmente! E invece no: Renzi nomina Descalzi. Insomma, lo zio Sam sogna da anni di togliersi dai piedi il duo Berlusconi-Scaroni, fa quello che può per ammazzare il primo (quelle di Geithner sono lacrime di coccodrillo), aspetta con pazienza la fine del mandato dell’aborrito Scaroni e tu che fai? Nomini al suo posto il suo vice? Vero è che, in queste settimane, l’Eni ha ridotto la sua partecipazione in Southstream dal 50 al 15% in favore di tedeschi e francesi, vero è che il nuovo percorso del gasdotto passa tutto per i Balcani e non fa neppure più il passaggio per il Tarvisio ed è anche vero che Renzi non sa neppure dove stanno i Balcani ed il Tarvisio; ma sa dove sta l’Eni e ci nomina Descalzi che, per ora, lascia al suo posto Marco Alverà (che è stato quello che ha ordito la trama con i russi) e accetta che sia comunque la Snam a fare la posa dei tubi del gasdotto.Qui non ci siamo capiti: il problema non è cambiare il percorso di Southstream, ma proprio la cancellazione del progetto. E lo zio Sam si arrabbia. C’è poi la questione Finmeccanica. C’è chi dice che per far confermare l’amico De Gennaro al suo posto, gli americani abbiano dovuto smuovere Re Giorgio dal Colle, cosa poi smentita dallo stesso Re. E va bene, ma Re Giorgio o non Re Giorgio, resta che l’ometto di Palazzo Chigi ha provato a togliere di mezzo De Gennaro e anche questo non sta bene. Poi, come amministratore delegato, ci piazza Moretti, con il quale aveva vecchi legami personali per questioni fiorentine. Il fatto è che Moretti conosceva le ferrovie traversina per traversina, e quindi si dedicherà al ramo trasporti di Finmeccanica (come già sta facendo) ma di armi capisce quanto di dialetto algonkino e questo è un momento in cui gli americani, nel settore armi, hanno bisogno di interlocutori sì obbedienti, ma che capiscano di che si sta parlando. Insomma, anche qui, buca!Come si sa, Renzi ha importanti legami con Israele e, se non li ha lui, li ha il suo consigliere economico Yoram Gutgeld; questo sarebbe stato un ottimo viatico in altri tempi, ma negli ultimi anni Tel Aviv ha dato più dispiaceri che altro all’amico americano: loro sono ostilissimi al Qatar e gli americani hanno bisogno del suo gas per fare un gasdotto alternativo a quello russo (come aveva ben capito Enrico Letta), hanno urgenza di chiudere la partita palestinese e gli israeliani fanno le bizze, ora hanno bisogno di capirsi con l’Iran per mettere un freno all’offensiva di Al Qaeda in Irak senza andare a impantanarsi di nuovo lì e gli israeliani non apprezzano… Insomma, neanche da questo versante c’è modo di capirsi con il nuovo capo del governo italiano. Intendiamoci: noi abbiamo sempre apprezzato chi sa dire no agli americani e far valere l’interesse nazionale, ma è una cosa che occorre saper fare e non per fare un favore a terzi. Tutte cose che richiedono cervello lucido e spalle larghe, molto larghe. Il guaio è che Palazzo Chigi va largo a Renzi, troppo largo. Comincio a pensare che questo non durerà molto su quella poltrona.(Aldo Giannuli, “Ma perché Renzi non piace agli americani?”, dal blog di Giannuli del 20 giugno 2014).Matteo Renzi non piace agli americani, che non perdono occasione per farlo notare: Obama, nell’incontro, fu freddissimo, limitandosi ad apprezzamenti sull’ “energia” del nostro presidente del Consiglio (ben più calorosi erano stati i giudizi su Enrico Letta); poi, nel momento peggiore della crisi di Crimea, le note del Dipartimento di Stato evitavano ostentatamente di citare l’Italia a differenza di Francia e Germania; poi è venuto lo schiaffo del D-Day e del G7. Insomma, l’ometto non suscita entusiasmi sul Potomac. Capita, ma perché? In fondo, con il suo inconfondibile stile alla Fonzie, tanto po’ dinoccolato e un po’ tamarro, non dovrebbe dispiacergli. Ha anche fatto il boy scout! Eppure… Forse sarà perché gli americani badano anche ad altre cose oltre che il look. Certo, a Renzi non mancano gli amici americani come Michael Ledeen, ma il guaio è che sono della destra repubblicana, colore opposto a quello dell’attuale amministrazione. Poi, sicuramente, gli americani si capivano molto meglio con Enrico Letta e, probabilmente, non gli è piaciuto il modo con cui è stato buttato giù di sella: allo zio Sam non piace che i suoi amici vengano trattati in quel modo.
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Travaglio: Gelli un dilettante, nella monarchia di Giorgio I
«Chiediamo umilmente scusa a Gelli e ai suoi fratelli per aver demonizzato il loro progetto di Repubblica presidenziale: i piduisti, compreso il povero B. che ci sta ancora provando, erano soltanto dei precursori, tra l’altro piuttosto timidi e minimalisti, della nostra bella Monarchia presidenziale». Così Marco Travaglio commenta l’ultima doppia iniziativa di Napolitano, che il 18 giugno «ha riunito il Consiglio Supremo di Difesa per esautorare ancora una volta il Parlamento, ridurlo a scendiletto del governo Usa e ordinare di non ridurre di un centesimo gli stanziamenti miliardari per acquistare gli inutili anzi dannosi F-35». Non solo, l’uomo del Colle «ha inviato una lettera segreta al fido vicepresidente del Csm Michele Vietti» per bloccare l’azione disciplinare invocata da ben due commissioni parlamentari contro il procuratore di Milano, Bruti Liberati. «Gli F-35 si comprano perché lo dice lui, Bruti si salva perché lo dice lui». Protesta Travaglio: «In una democrazia parlamentare degna di questo nome, fondata sulla divisione dei poteri, i presidenti delle Camere reagirebbero all’istante contro l’ennesima invasione di campo».Allo stesso modo, continua Travagalio, il Csm «accoglierebbe la lettera del presidente come l’interessante parere del primus inter pares, il cui voto vale 1 esattamente come quello degli altri consiglieri». Invece, «tutti si comportano come in una monarchia assoluta, dove il sovrano può tutto». Anche con Renzi, che all’inizio «vantava una certa autonomia» dal Quirinale, ora secondo “Repubblica” «è scoccata una scintilla, una strana alchimia, una singolare emulsione di sintonie e affinità». Aggiunge Travaglio: il bello è che la lettera di Napolitano al Csm «è più misteriosa del terzo segreto di Fatima: la conoscono Lui, Vietti e due giornali amici ammessi agli arcana imperii (“Corriere” e “Repubblica”, che ne anticipano il contenuto ma non il testo)». Bei tempi, prosegue Travaglio, quando i presidenti «parlavano con messaggi alle Camere, comunicati ufficiali, esternazioni pubbliche». Ora invece «piovono pizzini scritti in codice iniziatico e riservati a pochi adepti in grado di decrittarli, al di fuori di ogni controllo democratico, tanto anche gli esclusi dal cerchio magico eseguono senza fiatare».Altri tempi, quando – il 14 novembre ’91 – il presidente Cossiga proibì al vicepresidente del Csm Galloni di mettere all’ordine del giorno del plenum alcune pratiche a lui sgradite e mandò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli a far sgombrare l’aula in caso di disobbedienza ai suoi ordini: «Violante avviò le pratiche per l’impeachment, accusandolo di alto tradimento e attentato alla Costituzione, Napolitano ne chiese le dimissioni e l’Anm scese in sciopero contro la grave violazione costituzionale». Oggi invece il mainstream politico e giornalistico tace e acconsente, senza dimenticarsi di bastonare Grillo e il M5S, «trattati come appestati da sempre», ma ancor più da quando hanno annunciato l’accordo tecnico, al Parlamento Europeo, coi nazionalisti inglesi dell’Ukip e con altri esponenti di destra svedesi, francesi e lituani. «Intanto il segretario e premier del Pd Matteo Renzi annuncia tra carnevali di Rio e gridolini di giubilo l’accordo politico-istituzionale, al Parlamento italiano, per la riforma del Senato (e dunque della Costituzione) con Forza Italia, guidata da un frodatore fiscale».Riforma «ideata da un pregiudicato per mafia», Dell’Utri, «recluso nello stesso carcere di Riina». Le manovre per il nuovo Senato sono appoggiate dalla Lega Nord, di cui i media evitano accuratamente di ricordare che è alleata in Europa col Front National di Marine Le Pen, che lo stesso mainstream definisce populista, xenofobo, razzista e fascista. Pesi e misure: «L’anno scorso Adam Kabobo uccise a picconate tre passanti a Milano: il segretario della Lega Nord Matteo Salvini gli augurò di “marcire in prigione”. Martedì Davide Frigatti ha ucciso un passante a coltellate e ne ha feriti altri due a Cinisello Balsamo: Salvini ha educatamente chiesto se non sia “il caso di riaprire delle strutture dove accogliere e curare i malati di mente”. Il fatto che Kabobo sia ghanese e Frigatti padano è puramente casuale», ironizza Travaglio. E che dire di Alfano? «Un mese fa il leader Ndc ha candidato alle europee il governatore dimissionario della Calabria, Giuseppe Scopelliti, condannato in primo grado per abuso d’ufficio, con la decisiva motivazione che “è un presunto innocente” e “noi siamo garantisti”. Lunedì il ministro garantista Alfano ha annunciato via Twitter la cattura dell’“assassino di Yara Gambirasio”, mai condannato in primo grado né imputato, ma solo indagato. Però, non trattandosi di un politico e non militando (che si sappia, almeno) nell’Ncd, è già colpevole prim’ancora del processo».Il 28 marzo 2013 “L’Unità”, organo del Pd, titolò a tutta prima pagina: “Patto Grillo-Berlusconi: fermare il cambiamento”. «La notizia era palesemente falsa – protesta Travaglio – ma non fu mai rettificata dall’house organ allora bersaniano e ora renziano». Neppure quando, il 20 aprile 2013, fu siglato il “patto Pd-Berlusconi” per “fermare il cambiamento” con la rielezione dell’ottantottenne Napolitano, o quando – il 24 aprile 2013 – fu firmato il “patto Pd-Berlusconi” sempre per “fermare il cambiamento” col governo Letta di larghe intese. Nessun soprassalto di sincerità neppure il 19 gennaio 2014, quando al Nazareno fu sottoscritto il “patto Pd-Berlusconi” per “fermare il cambiamento” con l’Italicum (liste bloccate, peggio ancora che col Porcellum) e il Senato delle Autonomie (non più eletto dai cittadini, ma nominato dalla Casta). Silenzio anche nei giorni scorsi «quando una telefonata fra Renzi e il Caimano ha confermato il “patto Pd-Berlusconi” per “fermare il cambiamento”», conclude Travaglio: «Coraggio, compagni dell’ “Unità”, siete ancora in tempo».«Chiediamo umilmente scusa a Gelli e ai suoi fratelli per aver demonizzato il loro progetto di Repubblica presidenziale: i piduisti, compreso il povero B. che ci sta ancora provando, erano soltanto dei precursori, tra l’altro piuttosto timidi e minimalisti, della nostra bella Monarchia presidenziale». Così Marco Travaglio commenta l’ultima doppia iniziativa di Napolitano, che il 18 giugno «ha riunito il Consiglio Supremo di Difesa per esautorare ancora una volta il Parlamento, ridurlo a scendiletto del governo Usa e ordinare di non ridurre di un centesimo gli stanziamenti miliardari per acquistare gli inutili anzi dannosi F-35». Non solo, l’uomo del Colle «ha inviato una lettera segreta al fido vicepresidente del Csm Michele Vietti» per bloccare l’azione disciplinare invocata da ben due commissioni parlamentari contro il procuratore di Milano, Bruti Liberati. «Gli F-35 si comprano perché lo dice lui, Bruti si salva perché lo dice lui». Protesta Travaglio: «In una democrazia parlamentare degna di questo nome, fondata sulla divisione dei poteri, i presidenti delle Camere reagirebbero all’istante contro l’ennesima invasione di campo».
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Sangue e Pil: una guerra mondiale per salvare la crescita
ita – crescita di tutto, compresi i veleni, i disastri, gli sprechi criminali. Lungi anche solo dall’ipotizzare un’economia non più fondata sulla crescita illimitata (non solo “impossibile” ma anche letale per la Terra) il professor Cowen, docente ultra-liberista della George Mason University, sostiene che il mondo di oggi non sia più visitato, come in passato, dalla favolosa opportunità rappresentata dal genocidio bellico.«Alcuni dei recenti titoli di giornale sull’Iraq o il Sud Sudan fanno sembrare il nostro mondo un posto molto cruento – premette Cowen – ma le vittime di oggi impallidiscono alla luce delle decine di milioni di persone uccise nelle due guerre mondiali nella prima metà del XX secolo». La stessa Guerra del Vietnam, aggiunge, ha avuto molti più morti di qualsiasi guerra recente che coinvolga un paese ricco. Ecco il punto: «Il maggior pacificismo del mondo può rendere meno urgente, e quindi meno probabile, il raggiungimento di alti tassi di crescita economica». Nel suo intervento, ripreso da “Zero Hedge” e tradotto da “Come Don Chisciotte”, Cowen sostiene che la semplice possibilità del precipitare verso la guerra «focalizza l’attenzione dei governi su come prendere correttamente alcune decisioni fondamentali», per esempio su come «investire nella scienza o semplicemente liberalizzare l’economia». E questa “attenzione”, di fatto, «finisce per migliorare le prospettive a più lungo termine di una nazione».«Può sembrare ripugnante trovare un lato positivo alla guerra in questo senso», ammette ancora Cowen, deciso però a “rivalutare” fino in fondo la prospettiva del conflitto come volano economico, come fossimo ancora agli albori dell’era del carbone e del petrolio: «Uno sguardo alla storia americana suggerisce che non possiamo respingere l’idea così facilmente». E spiega: «Innovazioni fondamentali come l’energia nucleare, il computer e l’aviazione moderna sono state tutte spinte da un governo americano desideroso di sconfiggere le potenze dell’Asse o, più tardi, di vincere la Guerra Fredda». La stessa rete Internet è stata progettata a scopo militare-strategico, e la Silicon Valley «deve le sue origini alle forniture militari, non alle start-up imprenditoriali di oggi». Tutto merito del lancio del primo Sputnik, il satellite con cui l’Urss sfidò gli Usa mettendosi in pole position nella conquista dello spazio. Proprio lo Sputnik «ha stimolato l’interesse americano nel campo della scienza e della tecnologia, a beneficio della conseguente crescita economica». Piccolo particolare: questo succedeva mezzo secolo fa, quando eravamo 1 miliardo e mezzo anziché 7 e il “terzo mondo” era ancora una sconfinata cassaforte da saccheggiare.La guerra, insiste Cowen, «porta con sé un’urgenza a cui i governi altrimenti non riescono ad appellarsi». Lo conferma la storia del Progetto Manhattan per l’atomica, realizzata in soli sei anni «partendo praticamente dal niente» e coinvolgendo lo 0,4% della produzione economica americana: «In questi giorni è difficile immaginare un risultato così rapido e decisivo». Il dogmatico Cowen cerca alleati, nella sua visione economico-bellicista così consonante con gli Usa di Obama, che provocano la Russia accerchiando la Cina. Secondo Ian Morris, professore di letteratura e storia a Stanford e autore del saggio “Guerra! A che cosa serve?”, che esamina il rapporto tra conflitto e progresso “dai primati ai robot”, la guerra ha sempre aiutato la crescita: prima sotto l’Impero Romano, poi col Rinascimento e infine con la nascita degli Stati Uniti. «Ci sono prove che l’intenzione di prepararsi alla guerra abbia spinto l’invenzione tecnologica e portato anche un certo maggior grado di ordine sociale».Un altro libro, “Guerra e oro, una storia di 500 anni di imperi, avventure e debito”, scritto da un altro conservatore, il deputato britannico Kwasi Kwarteng, si sostiene che la necessità di finanziare le guerre abbia portato i governi a sviluppare le istituzioni monetarie e finanziarie, consentendo l’ascesa dell’Occidente. Una terza indagine sul tema, dossier firmato dagli economisti Chiu Yu Ko, Mark Koyama e Tuan-Hwee Sng, si afferma che l’Europa si è evoluta in modo più frammentario rispetto alla Cina, costretta al centralismo di Pechino per evitare invasioni da ovest. L’accentramento avrebbe fatto arretrare il paese, mentre gli europei avrebbero investito di più in tecnologia e modernizzazione «proprio perché avevano sempre paura di essere conquistati dai vicini loro rivali». Se non altro, concede Cowen, «vivere in un mondo pacifico con una crescita del Pil del 2% ha alcuni grandi vantaggi che non si ottengono con una crescita del 4% e molti più morti in guerra».Per contro, dice ancora l’economista di destra, i nostri antenati non hanno probabilmente mai conosciuto una stagnazione come l’attuale. Errore: fu spaventoso il crollo in cui sprofondò l’Europa, economia compresa, dopo la caduta dell’Impero Romano. Qualcosa del genere potrebbe accadere oggi, se dovesse collassare l’impero americano. Cowen però non è uno storico, ma un economista: e la sua ideologia neoliberale, smentita dai fatti ma più che mai al potere, vede solo un futuro lineare e progressivo, proprio come la leggenda della crescita infinita e l’atroce fiaba dell’austerity espansiva. In attesa di scoprire se l’ipotetico colossale business chiamato Terza Guerra Mondiale sia davvero alle porte – magari innescato a Kiev contro Mosca, o da Israele contro Teheran – Cowen si limita a domandarsi «se la recente diffusione della pace è una semplice bolla temporanea che aspetta solo di essere fatta scoppiare», naturalmente a beneficio di un Pil finanziario ormai controllato da pochissimi super-padroni, forse pronti a lasciare sul terreno i 2 miliardi di morti che un attacco nucleare contro la Russia provocherebbe.L’economia occidentale è in stagnazione da troppo tempo? Niente di meglio che una bella guerra, magari mondiale, per “far ripartire la crescita”. Lo afferma, senza troppi giri di parole, l’economista statunitense Tyler Cowen, allievo della “scuola austriaca” di Friedrick Von Hayek cui si ispirano i famigerati professori europei del rigore, a cominciare dal non rimpianto Mario Monti. Sul “New York Times”, Cowen spiega che solo la guerra è il potente motore dell’economia, anche se purtroppo «il conflitto porta morte e distruzione». Il problema, però, è che la pace non aiuta il Pil, cioè il grossolano indicatore convenzionale di crescita – crescita di tutto, compresi i veleni, i disastri, gli sprechi criminali. Lungi anche solo dall’ipotizzare un’economia non più fondata sulla crescita illimitata (non solo “impossibile” ma anche letale per la Terra) il professor Cowen, docente ultra-liberista della George Mason University, sostiene che il mondo di oggi non sia più visitato, come in passato, dalla favolosa opportunità rappresentata dal genocidio bellico.
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I leader Ue sono marci: tangenti da 120 miliardi l’anno
L’Europa è malata. Quanto gravemente è questione non sempre facile da giudicare. Ma tra i sintomi ce ne sono tre di cospicui, e interrelati. Il primo, e più familiare, è la svolta degenerativa della democrazia in tutto il continente, di cui la struttura della Ue è a un tempo la causa e la conseguenza. Lo stampo oligarchico delle sue scelte costituzionali, a suo tempo concepite come impalcatura di una sovranità popolare a venire di scala sovranazionale, nel tempo si è costantemente rafforzato. I referendum sono regolarmente sovvertiti se intralciano la volontà dei governanti. Gli elettori le cui idee sono disdegnate dalle élite rigettano i governi che nominalmente li rappresentano, l’affluenza alle urne cala di elezione in elezione. Burocrati che non sono mai stati eletti controllano i bilanci dei parlamenti nazionali espropriati del potere di spesa. All’involuzione generalizzata si è accompagnata una corruzione pervasiva della classe politica, argomento su cui le scienze politiche, parecchio loquaci a proposito di quello che nel linguaggio dei contabili è definito il deficit democratico dell’Unione, solitamente tacciono.Le forme di tale corruzione devono ancora trovare una tassonomia sistematica. C’è la corruzione pre-elettorale: il finanziamento di persone e partiti da fonti illegali – o legali – contro la promessa, esplicita o tacita, di futuri favori. C’è la corruzione post-elettorale: l’uso delle cariche per ottenere fondi mediante malversazioni sulle entrate o mazzette sui contratti. C’è l’acquisto di voci o voti nei parlamenti. C’è il furto puro e semplice dalle casse pubbliche. C’è la falsificazione di credenziali per vantaggi politici. C’è l’arricchimento dalla carica pubblica dopo l’evento, così come durante o prima di esso. Il panorama di questa malavita è impressionante. Un affresco di esso potrebbe cominciare con Helmut Kohl, governante della Germania per sedici anni, che accumulò due milioni di marchi di fondi neri da donatori illegali i cui nomi, quando fu denunciato, rifiutò di rivelare per timore che venissero alla luce i favori che aveva fatto loro. Oltre il Reno, Jacques Chirac, presidente della Repubblica Francese per dodici anni, fu condannato per appropriazione di fondi pubblici, abuso di ufficio e conflitti d’interesse, una volta caduta l’immunità. Nessuno dei due ha subito pene. Questi erano due dei più potenti politici dell’epoca in Europa.In Germania il governo di Gerhard Schroeder garantì un prestito da un miliardo di euro alla Gazprom per la costruzione di un gasdotto sul baltico poche settimane prima che egli si dimettesse da cancelliere e andasse a libro paga della Gazprom con uno stipendio maggiore di quello che aveva ricevuto governando il paese. Dopo la sua partenza, Angela Merkel ha visto due presidenti della repubblica, uno dietro l’altro, costretti a dimettersi da screditati: Horst Koehler, ex capo del Fmi, per aver spiegato che il contingente della Bundeswehr in Afghanistan stava proteggendo interessi commerciali tedeschi; e Christian Wulff, ex capo cristiano-democratico della Bassa Sassonia, per un prestito discutibile ricevuto da un affarista amico per la sua casa. Due ministri eminenti, uno della difesa e l’altro dell’istruzione, hanno dovuto andarsene quando sono stati privati dei loro dottorati – una credenziale importante per una carriera politica nella Repubblica Federale – per violazione dei diritti di proprietà intellettuale. Quando il secondo, Annette Schavan, un’intima amica della Merkel (che aveva manifestato piena fiducia in lei) era ancora in carica, il “Bild Zeitung” ha osservato che avere un ministro dell’istruzione che aveva falsificato le sue ricerche era come avere un ministro delle finanze con un conto segreto in Svizzera.In Francia il ministro socialista del bilancio, il chirurgo plastico Jérôme Cahuzac, la cui direttiva era di difendere la probità e l’equità fiscale, è stato scoperto detenere qualcosa tra i 600.000 e i 15 milioni di euro in depositi segreti in Svizzera e a Singapore. Nicolas Sarkozy, nel frattempo, è accusato da testimoni concordi di aver ricevuto circa 20 milioni di dollari da Gheddafi per la campagna elettorale che lo portò alla presidenza. Christine Lagarde, il suo ministro delle finanze, che oggi dirige il Fmi, è sotto inchiesta per il suo ruolo nella concessione di 420 milioni di dollari di ‘risarcimento’ a Bernard Tapie, un ben noto truffatore con un passato in carcere, negli ultimi tempi amico di Sarkozy. Contiguità disinvolta con la criminalità è bipartisan. François Hollande, attuale presidente della repubblica, usava come pied-à-terre per gli incontri con la sua amante un appartamento della donna di un gangster corso, ucciso l’anno scorso in una sparatoria sull’isola.In Gran Bretagna, circa nello stesso periodo, l’ex premier Blair consigliava a Rebekah Brooks, che rischiava il carcere per cinque accuse di cospirazione criminale («Sii forte e prendi pastiglie per dormire. Passerà») e la sollecitava a «pubblicare un rapporto in stile Hutton», come aveva fatto lui per sterilizzare qualsiasi parte il suo governo potesse aver avuto nella morte di una fonte interna che aveva fatto rivelazioni sulla sua guerra in Iraq: un’invasione dalla quale ha poi proseguito a raccogliere – naturalmente per la sua Fondazione Faith – mance e contratti assortiti in giro per il mondo, considerevoli fondi in contanti da una compagnia petrolifera della Corea del Sud gestita da un delinquente condannato con interessi in Iraq e presso la dinastia feudale del Kuwait. Quali ricompense possa essersi guadagnato più a est resta da vedere («I progressi del Kazakistan sono splendidi. Comunque, signor Presidente, lei ha toccato nuovi vertici nel suo messaggio alla nazione». Alla lettera.).In patria, in uno scambio di favori a proposito dei quali ha mentito compuntamente al Parlamento, le sue mani sono state unte da un milione di sterline versate alle casse del partito dal magnate delle corse automobilistiche Bernie Ecclestone, attualmente sotto giudizio in Baviera per tangenti al ritmo di 33 milioni di euro. Nella cultura del New Labour, figure di spicco della cerchia di Blair, ministri di gabinetto un tempo – Byers, Hoon, Hewitt – non sono stati in grado di offrirsi in vendita al successore. Negli stessi anni, indipendentemente dal partito, la Camera dei Comuni è stata denunciata come un pozzo nero di meschine malversazioni di denaro dei contribuenti. In Irlanda, contemporaneamente, il leader del Fianna Fàil, Bertie Ahern, avendo canalizzato più di 400.000 euro di pagamenti non spiegati prima di diventare “taioseach”, si è votato lo stipendio più elevato di qualsiasi premier in Europa – 310.000 euro, più persino del presidente degli Stati Uniti – un anno prima di doversene andare con disonore per assoluta disonestà.In Spagna l’attuale primo ministro, Mariano Rajoy, alla guida di un governo di destra, è stato colto con le mani nel sacco mentre riceveva mazzette per contratti di costruzione e di altro genere per un totale di un quarto di milione di euro nel giro di un decennio, passategli da Luis Bàrcenas. Tesoriere del suo partito per vent’anni, Bàrcenas è oggi sotto arresto per aver accumulato un tesoro di 48 milioni di euro in conti svizzeri non dichiarati. I libri mastri, compilati a mano, contenenti i dettagli dei suoi versamenti a Rajoy e ad altri notabili del Partito del Popolo – tra cui Rodrigo Rato, altro ex capo del Fmi – sono apparsi in facsimile in abbondanza sulla stampa spagnola. Una volta scoppiato lo scandalo Rajoy ha inviato a Bàrcenas un messaggio con parole virtualmente identiche a quelle di Blair alla Brooks: «Luis, io capisco. Resta forte. Ti chiamerò domani. Un abbraccio». Pur con uno scandalo in cui l’85% del pubblico spagnolo ritiene che egli menta, resta incollato alla poltrona nel Palazzo della Moncloa.In Grecia, Akis Thochatzopoulos, del Pasok – ministro, in successione, dell’interno, della difesa e dello sviluppo – in un’occasione arrivato a un soffio dalla guida della socialdemocrazia greca, è stato meno fortunato: condannato l’autunno scorso a vent’anni di carcere per una formidabile carriera di estorsioni e di riciclaggi di denaro sporco. Oltre il mare Tayyip Erdogan, a lungo celebrato dai media e dall’establishment intellettuale dell’Europa come il più grande statista democratico della Turchia, la cui condotta ha virtualmente dato al paese il titolo di membro onorario della Ue ante diem, ha dimostrato di essere meritevole di essere incluso nei ranghi della dirigenza europea in un altro modo: in una conversazione registrata in cui dava al figlio istruzioni su dove nascondere decine di milioni in contanti, in un’altra in cui alzava il prezzo di una robusta tangente su un contratto di costruzioni. Tre ministri del governo sono caduti dopo scoperte analoghe, prima che Erdogan purgasse le forze della polizia e della magistratura per assicurarsi che non si spingessero oltre.Mentre egli faceva questo la Commissione Europea ha pubblicato il suo primo rapporto ufficiale sulla corruzione nell’Unione, la cui dimensione il commissario autore del rapporto l’ha descritta come “mozzafiato”: secondo una stima prudente, costa alla Ue quanto l’intero bilancio dell’Unione, circa 120 miliardi l’anno, ma la cifra reale è «probabilmente molto più alta». Prudentemente il rapporto si è occupato solo degli stati membri. La stessa Ue, la cui intera Commissione fu costretta in tempi non lontani a dimettersi screditata, è stata esclusa (la Commissione Santer fu costretta a dimettersi nel 1999 per accuse di corruzione contro alcuni suoi membri). Diffuso in un’Unione che si presenta come tutore morale del mondo, l’inquinamento del potere ad opera del denaro e della frode deriva dallo svuotamento di sostanza o dalla caduta del coinvolgimento nella democrazia. Le élite, liberate sia da una reale divisione in alto sia da un significativo dovere di rispondere in basso, possono permettersi di arricchirsi alla follia e impunite. La denuncia cessa di contare molto, poiché l’impunità diviene la regola. Come i banchieri, i politici di spicco non finiscono in carcere.Ma la corruzione non è solo una funzione del declino dell’ordine politico. E’ anche, ovviamente, un sintomo del regime economico che si è impossessato dell’Europa a partire dagli anni ’80. In un universo neoliberista dove i mercati sono il metro del valore, il denaro diventa, più platealmente che mai, la misura di tutte le cose. Se ospedali, scuole e carceri possono essere privatizzati a fini di profitto delle imprese, perché non anche le cariche politiche? Oltre alla ricaduta culturale del neoliberismo, tuttavia, vi è l’impatto del sistema socio-economico, la terza e, nell’esperienza del popolo, di gran lunga più acuta delle malarie che affliggono l’Europa. Che la crisi economica scatenate in occidente nel 2008 sia stata il risultato di decenni di liberalizzazioni nel settore finanziario e di espansione del credito lo ammettono, più o meno, i loro stessi architetti; si veda Alan Greenspan. Collegate oltre Atlantico, le banche e le attività immobiliari europee erano già coinvolte nel disastro tanto quanto le loro omologhe statunitensi. Nella Ue, tuttavia, questa crisi generale è stata aggravata da un altro fattore peculiare dell’Unione, le distorsioni create dalla moneta unica imposta a economie nazionali molto diverse tra loro, spingendo le più vulnerabili di esse sull’orlo della bancarotta quando sono state colpite dalla crisi generale.(Perry Anderson, estratto dall’intervento “Il disastro italiano”, pubblicato da “Sinistra in rete” il 29 maggio 2014).L’Europa è malata. Quanto gravemente è questione non sempre facile da giudicare. Ma tra i sintomi ce ne sono tre di cospicui, e interrelati. Il primo, e più familiare, è la svolta degenerativa della democrazia in tutto il continente, di cui la struttura della Ue è a un tempo la causa e la conseguenza. Lo stampo oligarchico delle sue scelte costituzionali, a suo tempo concepite come impalcatura di una sovranità popolare a venire di scala sovranazionale, nel tempo si è costantemente rafforzato. I referendum sono regolarmente sovvertiti se intralciano la volontà dei governanti. Gli elettori le cui idee sono disdegnate dalle élite rigettano i governi che nominalmente li rappresentano, l’affluenza alle urne cala di elezione in elezione. Burocrati che non sono mai stati eletti controllano i bilanci dei parlamenti nazionali espropriati del potere di spesa. All’involuzione generalizzata si è accompagnata una corruzione pervasiva della classe politica, argomento su cui le scienze politiche, parecchio loquaci a proposito di quello che nel linguaggio dei contabili è definito il deficit democratico dell’Unione, solitamente tacciono.
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Grillo con Farage, caccia ai voti di destra orfani di Silvio
Grillo scopre Farage. Casaleggio invita i parlamentari a “sorridere di più”, il Movimento 5 Stelle è in ebollizione e sembra spostarsi a destra. Da analista politico, dico: la svolta è sensata. Se aggiungiamo l’evidente smarrimento della destra moderata, fin qui riconosciutasi in Berlusconi, e consideriamo la capacità, oggettiva, di Renzi di occupare il centrosinistra e di sedurrre e al contempo rassicurare anche una parte importante dell’elettorato di centro e forzista, appare evidente che la sola area politica dove oggi ci sia da costruire è il centrodestra. E’ una prateria che molti cercheranno di occupare. Il primo a capirlo è stato Matteo Salvini che, abbracciando la causa “No euro”, ha saputo dare una chiara identità alla Lega, riuscendo a far dimenticare scandali e scandaletti dell’ultima era Bossi. Il Cavaliere stesso appare consapevole di una svolta, ma gli arresti domiciliari e la difficoltà di trovare un vere erede politico, nonché gli screzi tra i colonnelli, ne minano l’efficacia e la capacità prospettica.Ora tocca a Grillo. Come abbiamo più volte osservato su questo blog la differenza fondamentale tra Grillo e Farage è la capacità dell’inglese di essere al contempo rivoluzionario e rassicurante. Audace nelle idee, ma borghese nel modo di porsi. Grillo, invece, ha giocato solo la carta della protesta e, mal consigliato da Casaleggio, ha rifiutato di schierarsi contro l’euro; non ha mai tentato di abbassare i toni, illudendosi che bastasse andare nei talk show per conquistare il consenso dell’Italia piccolo e medio borghese. Dire ora, come fa Casaleggio, che bisogna “sorridere di più”, è giusto ma un po’ ridicolo. Proprio lui, il Roberspierre del web? Non è credibile. E non è un caso che il dialogo improvviso con Farage – giusto e a mio giudizio naturale – venga accolto con sconcerto da una parte del pubblico grillino.Per il M5S la denuncia non basta più, occorre crearsi una nuova identità, una nuova immagine, una nuova coerenza; conquistare voti a destra significa perderli a sinistra. Significa mettersi la giacca e la cravatta, schierarsi con decisione contro l’euro e l’Europa tecnocratica, che invece non dispiace a Casaleggio. Grillo ne è capace? C’è ancora tempo? Chi comanda davvero, lui o l’intelligente ma sfuggente, misterioso Casaleggio? E Berlusconi è capace di rifondare davvero Forza Italia, slegandola progressivamente ma saggiamente dalla sua personalità? E la Lega, che finora si è mossa benissimo, è capace di crescere ulteriormente e di sfondare anche in altre zone d’Italia, magari creando una Lega Centro e una Lega Sud (come rifletteva Antonello Angelini in un colloquio col sottoscritto), di parlare anche a un’Italia diversa da quella dei commercianti, dei piccoli industriali e delle partite Iva del Nord? Sono queste le domande che contano, per non farsi cogliere impreparati quando gli italiani smetteranno di farsi incantare da Matteo l’Affabulatore.Grillo scopre Farage. Casaleggio invita i parlamentari a “sorridere di più”, il Movimento 5 Stelle è in ebollizione e sembra spostarsi a destra. Da analista politico, dico: la svolta è sensata. Se aggiungiamo l’evidente smarrimento della destra moderata, fin qui riconosciutasi in Berlusconi, e consideriamo la capacità, oggettiva, di Renzi di occupare il centrosinistra e di sedurrre e al contempo rassicurare anche una parte importante dell’elettorato di centro e forzista, appare evidente che la sola area politica dove oggi ci sia da costruire è il centrodestra. E’ una prateria che molti cercheranno di occupare. Il primo a capirlo è stato Matteo Salvini che, abbracciando la causa “No euro”, ha saputo dare una chiara identità alla Lega, riuscendo a far dimenticare scandali e scandaletti dell’ultima era Bossi. Il Cavaliere stesso appare consapevole di una svolta, ma gli arresti domiciliari e la difficoltà di trovare un vere erede politico, nonché gli screzi tra i colonnelli, ne minano l’efficacia e la capacità prospettica.
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Votiamo chi ci spolperà: siamo un paese di imbecilli?
«Il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali». Così il Principe di Salina nel “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa. Citazione perfetta, secondo Rosanna Spadini, per fotografare lo sconcertante voto italiano delle europee, che trasformano l’incolore Pd neoliberista nel primo partito europeo, ufficialmente ancora “di sinistra” benché renziano e ligio ai diktat della destra economica euro-atlantica, prontissimo anche ora alle larghe intese a Bruxelles coi popolari della Merkel e del navigato tecnocrate lussemburghese Juncker, ennesima controfigura del super-potere antidemocratico diretto dalla Troika.«Io però non credo all’esito di queste elezioni», protesta Spadini. «Non credo che gli italiani possano essere così imbecilli da rifiutare il cambiamento, o comunque barattarlo con un voto di scambio degli 80 euro. Non credo che siano state elezioni pienamente libere e democratiche, perché garantite da una casta politica che usa le garanzie solo per sé».La dissonanza dell’Italia è dolorosa, preoccupante. In Francia, il Front National di Marine Le Pen conquista il 25% e demolisce il socialista Hollande, in Spagna crollano i due grandi partiti del bipolarismo iberico, popolari e Psoe, che dimezzano la loro rappresentanza europea. E mentre in Gran Bretagna lo Ukip di Farage diventa primo partito stracciando il prenier Cameron relegato in terza posizione, in Grecia, con Syriza, Tispras arriva al 26,7%, staccando di quattro punti il partito del premier Antonis Samaras. «Che cos’ha l’Italia per essere diversa?». La mancanza di alternative credibili? Grillo ambiguo sull’euro? Non basta: con una posizione più netta sulla moneta unica, il M5S avrebbe recuperato «i 3 punti che sono andati alla Lega» e si sarebbe fermato a quota 24-25%, quella del febbraio 2013. Bravo Salvini, certo: ha «riesumato un partito-spazzatura», corresponsabile «di tutte le nefandezze euriste che hanno saccheggiato il paese», compresi «tutti i trattati-capestro europei che stanno trasformando l’Italia in economia da terzo mondo».«Oggi – continua Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte” – l’Italia ha perso tutte le proprie sovranità, quella monetaria con l’introduzione dell’euro, quella economica con la legge del divorzio tra il Tesoro e Bankitalia (Ciampi-Andreatta, 1981) e quella politica, da quando nel 2011 il governo Berlusconi è stato silurato dal “golpe bianco” dello spread e sostituito da “governi oligarchici” impostici da quei poteri finanziari che hanno commissariato l’Italia e la spolperanno fino all’osso. Io non credo – continua Spadini – che gli italiani abbiano capito cosa sta succedendo a loro e al loro paese, mentre il governo Renzi proseguirà nel progetto di svendita dei gioielli di Stato (Eni, Enel, Finmeccanica) alle lobby finanziarie straniere, e nella realizzazione del suo piano di lavoro Jobs Act, che precarizzerà a vita il lavoro delle giovani generazioni – se ne troveranno uno e retribuito decentemente». Gli italiani? «Non hanno capito la nuova proposta politica del M5S, un movimento di cittadini che si fanno Stato, cittadini comuni entrano nelle istituzioni, ma solo per due mandati».Una forma di democrazia diretta, quella dei 5 Stelle, che «risponde benissimo alle sfide del nostro tempo e si adatta perfettamente alla società dei consumatori, dove i grandi apparati politici si sono sgretolati sotto il crollo delle ideologie, dove le grandi fabbriche si stanno dissolvendo a vista d’occhio sotto i colpi della globalizzazione (vedi Fiat)». Il Movimento 5 Stelle non sparirà facilmente: «Si è confermato comunque come prima forza politica di opposizione e seconda forza in Italia», quindi «continuerà a restituire i soldi dello stipendio e a rifiutare i rimborsi elettorali, a difendere la Costituzione, i giovani dal precariato e gli imprenditori da Equitalia», mentre il Pd confluirà nel Partito Socialista Europeo che ha già annunciato che si alleerà con il Ppe della Merkel e di Berlusconi – possibile che gli elettori Pd non se ne siano “accorti”? Più facile, invece, che nel frattempo sparisca l’Italia, «condannata al declino inesorabile stabilito dagli oligarchi». E’ un destino di terzomondizzazione, «sancito da quelle lobby finanziarie che pilotano Renzi and company: l’Italia è destinata a diventare un’economia da terzo mondo – anzi, se vogliamo culturalmente lo è già, perché così ha stabilito il vero potere».«Il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali». Così il Principe di Salina nel “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa. Citazione perfetta, secondo Rosanna Spadini, per fotografare lo sconcertante voto italiano delle europee, che trasformano l’incolore Pd neoliberista nel primo partito europeo, ufficialmente ancora “di sinistra” benché renziano e ligio ai diktat della destra economica euro-atlantica, prontissimo anche ora alle larghe intese a Bruxelles coi popolari della Merkel e del navigato tecnocrate lussemburghese Juncker, ennesima controfigura del super-potere antidemocratico diretto dalla Troika.«Io però non credo all’esito di queste elezioni», protesta Spadini. «Non credo che gli italiani possano essere così imbecilli da rifiutare il cambiamento, o comunque barattarlo con un voto di scambio degli 80 euro. Non credo che siano state elezioni pienamente libere e democratiche, perché garantite da una casta politica che usa le garanzie solo per sé».
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Ma il mondo ha capito che Obama è più bugiardo di Bush
Caro Obama, ci hai deluso. Firmato: 93 paesi, dalla A di Afghanistan alla Z di Zimbabwe, passando per Europa, Brasile, Medio Oriente, ex Urss, Sudamerica e Africa. Durante gli anni di Bush, le popolazioni di tutto il mondo erano inorridite dalle aggressioni, dalle violazioni dei diritti umani e dal militarismo degli americani. Nel 2008 solo una persona su tre, in tutto il mondo, approvava l’operato dei leader Usa. L’avvento di Obama trasmise un messaggio di speranza e cambiamento, e nel 2009 il monitoraggio della Gallup (Usglp, Us Global Leadership Project) registrò il forte consenso dell’opinione pubblica mondiale: il 49% del campione aveva fiducia nella nuova leadership statunitense, che però è andata riducendosi non appena Obama è passato dalle promesse ai fatti. Domanda: lei approva o disapprova la leadership Usa? In alcuni paesi, «un gran numero di persone ha rifiutato di rispondere e di esprimere un qualsivoglia parere, mascherando la disapprovazione dietro ad un silenzio dettato dalla paura», spiega Nicolas Davies.I dati più suggestivi vengono dall’Africa, continente dove Obama aveva sempre goduto di alti indici di gradimento: la caduta delle grandi speranze nei suoi riguardi può spiegare, almeno in parte, il minor consenso in 28 dei 34 paesi esaminati, scrive Davies in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Ma non può spiegare perché, ora, in 15 paesi su 27 – ovvero nella maggior parte del continente nero – le persone considerano la leadership di Obama peggiore di quella di Bush (compreso il Kenya, il paese di origine della famiglia Obama). Va meglio in Europa, dove più forte era stata l’ostilità verso Bush. Ma attenzione: «Le interviste europee della Gallup, nel 2013, sono state fatte prima delle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio della Nsa, e prima che l’assistente segretario di Stato, Victoria Nuland, organizzasse il colpo di stato in Ucraina, trasformando questo paese nell’ultimo campo di battaglia di quella guerra globale americana», cioè il tipo di guerra «che aveva alienato il consenso di così tanti europei all’amministrazione Bush».Le promesse di speranza e di cambiamento fatte da Obama nella campagna presidenziale del 2008 «sono progressivamente sbiadite, nei titoli dei giornali di tutto il mondo, esattamente come in America». La sua politica estera e militare? «E’ clamorosamente fallita nel segnare una rottura con le politiche di Bush». Obama «non è riuscito a chiudere Guantanamo, né a “contenere” gli alti ufficiali statunitensi responsabili dei crimini di guerra». Inoltre ha intensificato la guerra in Afghanistan con 22.000 attacchi aerei e «ha consentito centinaia di illegittimi attacchi di droni in Pakistan, Yemen e Somalia». Sempre Obama «ha ampliato le operazioni delle forze speciali fino all’incredibile numero di 134 paesi, ha lanciato sanguinose guerre “per procura” in Libia ed in Siria precipitando, questi due paesi nel caos, e ha consegnato l’Iraq e l’Afghanistan ai “signori della guerra”». Più operazioni coperte, meno occupazioni militari, più navi da guerra nel Pacifico: un’evoluzione dettata dai fallimenti in Iraq e Afghanistan e dall’ascesa della Cina, più che da una precisa visione della Casa Bianca.«Il fascino di Obama», scrive Davies, «si è sempre basato più sullo stile che sul merito. Dietro alla maschera del “cambiamento” c’è sempre stata la continuità. Né l’America né le popolazioni globali avrebbero accettato tranquillamente un altro George W. Bush». Quindi, servivano «un volto e una voce cui una popolazione sfibrata avrebbe volentieri dato il benvenuto», ma in grado di garantire, al tempo stesso, «la continuità nel controllo di Wall Street e dell’economia, e la ricerca incessante – ma sempre più sfuggente – del dominio militare americano nel mondo». La suggestione del cambiamento? «Era indispensabile per depistare e porre il bavaglio alla crescente richiesta di un cambiamento effettivo nella politica degli Stati Uniti: è questa la sfida che ha definito il ruolo intrinsecamente ingannevole di Obama come nuovo “ceo dell’America Incorporated”».I parametri della politica estera Usa dopo la guerra fredda, continua Davies, furono definiti nel 1992, per orientare i leader e aiutarli a sfruttare il meglio il dividendo acquisito con il crollo dell’Unione Sovietica. Furono precisati nel documento “Defense Planning Guidance” redatto dal sottosegretario alla difesa Paul Wolfowitz e dal suo assistente Scooter Libby, come trapelò sul “New York Times” nel marzo del 1992. «Quel documento fu poi sostanzialmente rivisto per oscurare le sue implicazioni a livello di offensiva globale, prima che fosse ufficialmente rilasciato il mese successivo». Il quadro politico delineato da Wolfowitz nel 1992 fu poi codificato nel 1997 da Bill Clinton e poi nel “2002 National Security Strategy”, che il senatore Edward Kennedy definì «un manifesto dell’imperialismo americano del 21° secolo, che nessun’altra nazione può o dovrebbe accettare».La politica delineata da Wolfowitz nel 1992 stabiliva un ordine mondiale in cui l’esercito statunitense sarebbe stato così schiacciante, e così pronto ad usare la sua forza, che «i potenziali concorrenti sarebbero stati indotti a non aspirare ad un qualche ruolo regionale o globale». Anche gli alleati della Nato sarebbero stati dissuasi dall’agire in modo indipendente dagli Stati Uniti, o dal formare autonomi accordi di sicurezza europea. Quell’impostazione «violava implicitamente il divieto contenuto nella “Carta delle Nazioni Unite” di minacciare o di far ricorso unilateralmente all’uso della forza militare, da parte degli Stati Uniti, contro i “potenziali concorrenti”». Era la fine del cosiddetto “internazionalismo collettivo”, cioè il multilateralismo che aveva permesso agli Alleati, vincitori della Seconda Guerra Mondiale, di dar vita all’Onu come organizzazione deputata a mediare le dispute e scongiurare i conflitti armati.Durante l’amministrazione Bush, la filosofia “neocon” di Wolfowitz «è uscita dal cono d’ombra ed è diventata un bersaglio della critica mondiale». Le radici dell’aggressione all’Iraq sono state rintracciate nel neoconservatore “Project for the New American Century”, il famigerato Pnac firmato nel 1997 da Robert Kagan e William Kristol, direttore del “Weekly Standard” fondato da Rupert Murdoch. Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz e Libby erano tutti membri del Pnac. «Ma il ruolo della moglie di Kagan, Victoria Nuland, quale leader del team del Dipartimento di Stato e della Cia che ha organizzato il colpo di Stato americano in Ucraina, ha attirato nuova attenzione sul fatto che anche sotto Obama i neocon continuano a detenere posizioni di potere e di influenza», ben insediati in tutte le stanze dei bottoni di Washington, accanto a Obama. La Nuland ha lavorato indifferentemente con Cheney, alla Nato, con Hillary Clinton e John Kerry. E suo marito, Robert Kagan, lavora al Brookings Institution e, insieme a Kristol, ha fondato il “Foreign Policy Initiative”, considerato il successore del Pnac. Obama ha citato il suo saggio “The Myth of American Decline” al discorso sullo Stato dell’Unione del 2012.Un altro neocon molto influente nell’amministrazione Obama è il fratello di Kagan, Frederick, studioso dell’“American Enterprise Institute”, mentre sua moglie Kimberly è presidente dell’“Institute for the Study of War”. «Nel 2009 erano tra i principali sostenitori dell’escalation in Afghanistan, e gli stretti rapporti con il segretario Gates e con i generali Petraeus e McChrystal ha dato loro un’influenza fondamentale nel far prendere ad Obama la decisione di intensificare e prolungare la guerra». L’ex direttore del Pnac, Bruce Jackson, è presidente del “Project on Transitional Democracies”, il cui scopo è l’integrazione dell’Europa dell’Est nell’Ue e nella Nato. Reuell Marc Gerecht, membro della “Foundation for the Defense of Democracies” ed ex agente della Cia in Iran, «è una delle voci più forti che si sono alzate a Washington per sostenere l’aggressione americana alla Siria e all’Iran, e l’abbandono di soluzioni diplomatiche per entrambi i casi». Ancora: Carl Gershman e Vin Weber sono i leader della Ned, “National Endowment for Democracy”, l’organizzazione che ha pianificato il golpe a Kiev spendendo più di 3,4 miliardi di dollari. Ron Paul ha definito la Ned «un’organizzazione che utilizza i soldi delle tasse statunitensi per sovvertire la democrazia, concedendo finanziamenti a pioggia a partiti o movimenti politici di loro gradimento all’estero».Per Davies, l’influenza del neoconservatorismo si estende ben al di là della cricca dei neocon che cavalcavano l’amministrazione Bush: gli obiettivi definiti da Wolfowitz nel 1992 «sono stati scolpiti nella pietra, allo stesso modo, da tutte le amministrazioni democratiche e repubblicane: l’obiettivo della supremazia militare degli Stati Uniti è diventato un tale articolo di fede, che le alternative razionali vengono considerate come un sacrilegio o un tradimento». Non ci sono crimini che l’eccezionalismo americano non possa giustificare, dice Davies, e il genuino rispetto per uno Stato di Diritto «è visto come un’impensabile minaccia al nuovo fondamento del potere americano». Ed ecco il trucco: «L’unico modo attraverso il quale un governo può mantenere una posizione di tale illegittimità, è attraverso l’uso della propaganda, dell’inganno e della segretezza, sia contro il proprio popolo che contro il resto del mondo». Di qui il “modello Obama”, che si è evoluto grazie alle tecniche di marketing e costruzione dell’immagine fiduciaria di un presidente «trendy, sofisticato, con forti radici nell’afro-americanismo e nella moderna cultura urbana».Il contrasto tra l’immagine e la realtà, un elemento così essenziale nel ruolo di Obama, rappresenta la nuova conquista della “democrazia gestita”, che gli consente di «continuare ed espandere politiche che sono l’esatto opposto del cambiamento che i suoi sostenitori pensavano di andare a votare», scrive Davies. «Questo regime di segretezza, di inganno e di propaganda è la caratteristica essenziale della filosofia politica neoconservatrice che sta ora guidando la leadership di entrambi i maggiori partiti politici americani». E’ un pensiero che viene da lontano: Leo Strauss, il padrino intellettuale dei neocon – un rifugiato proveniente dalla Germania del 1930 – credeva che qualsiasi sforzo, seppur sincero, per ottenere un “governo del popolo, dal popolo e per il popolo” fosse destinato a finire come la Repubblica di Weimar in Germania, con l’ascesa di Hitler e dei nazisti. Pensava che «qualsiasi sistema in cui il popolo avesse detenuto sul serio il potere sarebbe sicuramente finito in barbarie».La soluzione di Strauss? E’ il sistema della “democrazia gestita”, ovvero «una forma privilegiata di “alto sacerdozio” o di “oligarchia”, che monopolizza il potere reale e sovrintende ad una superficiale struttura democratica, promuovendo miti patriottici e religiosi per garantirsi la fedeltà del popolo e la coesione sociale». Il politologo Sheldon Wolin lo definisce “totalitarismo invertito”, meno apertamente offensivo del totalitarismo classico e quindi più sostenibile, oggi, nella concentrazione totale della ricchezza e del potere. Paradossalmente, dice Davies, questa nuova forma di totalitarismo “invisibile” è più insidiosa del roboante totalitarismo storico. Nel suo saggio su Strauss e la destra americana, Shadia Drury avverte: «Strauss crede che ogni cultura ed ogni sua implicita forma di moralità siano invenzioni umane, progettate dai filosofi e dagli altri geni creativi per la conservazione del gregge. Poiché la verità è buia e sordida, Strauss sostiene che il filosofico amore per la verità deve restare un appannaggio riservato a pochissimi».«Nella loro posizione pubblica – continua Drury – i filosofi devono mostrare rispetto ai miti e alle illusioni che hanno fabbricato per gli altri. Devono sostenere l’immutabilità della verità, l’universalità della giustizia e la natura disinteressata del bene, mentre segretamente insegnano ai loro accoliti che la verità non è che una mera costruzione, che la giustizia deve fare del bene agli amici e del male ai nemici, che il solo bene è il proprio piacere. La verità deve essere gustata da pochi, perché è molto pericoloso che la consumino in molti». Se tutto ciò sembra inquietante, esattamente come lo è l’atteggiamento cinico delle persone che gestiscono l’America di oggi, è perché «stiamo vivendo in un sistema politico neoconservatore e straussiano». E il presidente Obama, «lontano dal rappresentare una sorta di alternativa, è un presidente neoconservatore, anch’egli straussiano». Obama e i Clinton «si sono dimostrati praticanti più sofisticati e magistrali della politica straussiana di quanto mai lo siano stati Bush o Cheney».Il report 2013 della Gallup, la prima agenzia di ricerche statistiche del mondo, «è una prova di come si possa ingannare qualcuno per un po’ di tempo, e qualcun altro per tutto il tempo, ma non si può ingannare tutto un popolo per sempre», conclude Davies. «Dietro alla cortina di fumo della democrazia e dei valori americani, il sistema politico statunitense ricicla la ricchezza in potere politico, e il potere politico in ricchezza. Dietro al consumista “Sogno Americano”, un’economia guidata dalle oligarchie economiche e finanziarie sta portando la concentrazione di ricchezza e di potere a un livello che mai i totalitaristi del 20° secolo avevano nemmeno immaginato, sostenuta dalla corrispondente esplosione della povertà, del debito e della criminalizzazione di massa». E dietro a tutto questo «sventola all’infinito la bandiera di una politica estera militarizzata, che distrugge paese dopo paese in nome della democrazia». Se Leo Strauss aveva ragione, «il popolo americano accetterà passivamente questo regime basato sulla propaganda e sull’inganno». Se invece aveva torto, e i cittadini reagiranno, devono sapere che il tempo stringe: «I problemi che affliggono il mondo di oggi non aspetteranno ancora a lungo prima che noi si arrivi a comprendere se Leo Strauss aveva ragione o torto, nella sua oscura e sprezzante visione di chi noi siamo».Caro Obama, ci hai deluso. Firmato: 93 paesi, dalla A di Afghanistan alla Z di Zimbabwe, passando per Europa, Brasile, Medio Oriente, ex Urss, Sudamerica e Africa. Durante gli anni di Bush, le popolazioni di tutto il mondo erano inorridite dalle aggressioni, dalle violazioni dei diritti umani e dal militarismo degli americani. Nel 2008 solo una persona su tre, in tutto il mondo, approvava l’operato dei leader Usa. L’avvento di Obama trasmise un messaggio di speranza e cambiamento, e nel 2009 il monitoraggio della Gallup (Usglp, Us Global Leadership Project) registrò il forte consenso dell’opinione pubblica mondiale: il 49% del campione aveva fiducia nella nuova leadership statunitense, che però è andata riducendosi non appena Obama è passato dalle promesse ai fatti. Domanda: lei approva o disapprova la leadership Usa? In alcuni paesi, «un gran numero di persone ha rifiutato di rispondere e di esprimere un qualsivoglia parere, mascherando la disapprovazione dietro ad un silenzio dettato dalla paura», spiega Nicolas Davies.
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Pritchard: così l’euro-sinistra ha svenduto i popoli all’élite
«Per un terribile rovescio del destino, la politica della sinistra europea sostiene la politica economica più reazionaria: i grandi partiti socialisti europei del dopoguerra sono rimasti intrappolati nella dinamica corrosiva dell’unione monetaria, apologeti della disoccupazione di massa e di un regime deflazionistico stile anni ‘30 che, sottilmente, favorisce gli interessi delle élite». In poche righe, Ambrose Evans-Pritchard fotografa la tragedia europea: i partiti che “inventarono” il sistema di welfare migliore del mondo sono oggi i migliori interpreti del rigore escogitato per demolire proprio quel welfare, il frutto migliore che la sinistra europea sia stata capace di creare dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fino a cancellare la stessa idea di Europa come patria comune, traguardo civile di convivenza. E’ stato il centrosinistra europeo a far ingoiare l’amara medicina dell’oligarchia finanziaria, abusando della fiducia storicamente ottenuta dalle fasce popolari e dall’elettorato progressista.«Uno dopo l’altro, la stanno pagando tutti», scrive Pritchard sul “Telegraph”, in un’analisi ripresa da “Come Don Chisciotte”. Primo esempio, i Paesi Bassi: «Il partito laburista olandese che diede vita al “Polder Model” e amministrò l’Olanda per mezzo secolo ha perso i suoi bastioni a Amsterdam, Rotterdam e Utrecht, i suoi sostenitori sono scesi al 10% per aver timidamente approvato le politiche di austerità che hanno portato alla deflazione e ad un abbattimento del valore immobiliare tanto da arrivare a ipoteche sul 25% di patrimoni netti negativi». Le politiche recessive «sono velenose per i paesi che già hanno problemi». L’indebitamento delle famiglie olandesi è passato dal 230% al 250% del reddito disponibile dal 2008 a oggi, mentre il debito dei britannici (che si sono tenuti la sterlina) è sceso da 151% al 133% nello stesso periodo. E’ tutta colpa del rigore imposto da Bruxelles, ma il partito laburista olandese «non può fare nessuna critica coerente, perché il suo orientamento pro-Ue lo costringe quasi al silenzio».«Il Partito Socialista non ha mai creduto nell’euro e non ci crediamo nemmeno adesso: dobbiamo quindi smettere di chiedere sempre più sacrifici per mantenerlo», ha detto Dennis de Jong, il leader del partito a Strasburgo che si appella a un “Piano B” per smantellare l’unione monetaria in modo ordinato». In Grecia, il socialista Pasok che ha guidato il paese verso la democrazia dopo la dittatura dei “colonnelli”, è sceso al 5,5%: un guscio svuotato da Syriza, che ora con il 25% di voti promette di strappare Atene dalle grinfie della Troika Ue. «Il Pasok si è meritato il suo annientamento», scrive il notista del “Telepgraph”: «Ha cospirato nel colpo di stato fatto nel retrobottega a novembre 2011, ancora una volta accettando le richieste dell’Ue per rovesciare il proprio primo ministro e per annullare il referendum della Grecia sul bail-out. Rinunciò, allora, ad una prova di forza catartica e necessaria con Bruxelles, per la troppa paura di rischiare l’espulsione dall’euro. Questo referendum si farà adesso: Tsipras ha trasformato le elezioni europee di questa settimana in un verdetto sulla servitù del debito».Se si può capire la paura della sinistra nei paesi periferici, aggiunge Evans-Pritchard, «il mistero è il motivo per cui un presidente socialista francese, con una maggioranza parlamentare, debba subire passivamente le politiche che stanno fiaccando la linfa vitale dell’economia francese e che stanno distruggendo la sua presidenza». François Hollande ha vinto due anni fa puntando sulla crescita e promettendo di bocciare il Fiscal Compact. Da quando è in carica, però, la disoccupazione francese è salita dal 10,1 al 10,4%, la crescita del Pil è scesa a zero e anche nell’ultimo trimestre la Francia ha perso 23.600 posti di lavoro, dopo i 57.000 perduti nel 2013. Sicché, secondo l’ultimo sondaggio Ifop, l’indice di gradimento di Hollande è crollato sotto il 18%: il peggiore da sempre per un leader francese. «La sua retorica del New Deal non ha portato a niente». Hollande «è capitolato sul Fiscal Compact, accettando una camicia di forza che obbliga la Francia a tagliare il debito pubblico ogni anno per un importo fisso per due decenni, fino a quando non sarà scesi al 60% del Pil, a prescindere dalla demografia o dal gap che esista nel settore privato o dalle esigenze di investimento dell’economia».La sua presidenza? «E’ stata tutto uno spettacolo dell’orrore di pacchetti di austerità, uno dopo l’altro, un circolo vizioso di maggiori imposte che fanno abortire qualsiasi recupero e lo debilitano con un effetto moltiplicatore che peggiora la situazione». Inasprimento fiscale nonostante il disavanzo: è la ricetta per il suicidio, se la Bce non interviene per compensare con iniezioni di denaro. «La risposta di Hollande è stata un raddoppio del rigore per infiocchettare il pacchetto: ha ceduto alle richieste di Bruxelles per altri 50 miliardi di euro di austerità nei prossimi tre anni». Questa volta, «la scure cadrà sulla spesa pubblica, arrivata al 57% del Pil». Inoltre, «ci saranno radicali riforme del lavoro, una variante della terapia-shock Hartz IV che servì per fottere i salari tedeschi dieci anni fa». In altre parole: se il socialista Hollande ha fatto pace con le grandi imprese, «sarà l’austerità a farlo a fette».Hollande si era prodigato per una “alleanza latina” per contrastare i deflattori quando presero il potere e per costringere la Germania a mettere il veto sulle azioni della Bce. Quella momentanea dimostrazione di grinta aveva spinto Draghi verso un piano di retromarcia sul debito italiano e spagnolo nel mese di agosto 2012, aiutato molto da Washington, ma poi non è andato avanti «e la Spagna ha continuato per la sua strada, come se fosse una Prussia del Sud o una nuova Tigre latina». La Bce? «Ancora una volta ha continuato a rigirarsi i pollici, incurante della deflazione». Francoforte «ha lasciato che i vincoli negativi bloccassero il bilancio francese facendolo ridurre di 800 miliardi, mentre l’euro si è rivalutato dell’ 8% contro lo yuan e del 15% contro lo yen, in un anno». Mentre gran parte del mondo sta cercando di tener basso il cambio delle valute e la deflazione delle esportazioni, l’Europa «è rimasta l’unica e tenersi tutto il pacco sulle spalle».I francesi non possono accettare di morire per asfissia economica: «La Francia è il cuore pulsante dell’Europa, l’unico paese con una statura di civiltà capace di condurre una rivolta e di prendersi carico della macchina politica dell’Unione Monetaria. Ma per scoprire il bluff della Germania, con una minima credibilità, Hollande dovrebbe essere pronto a rovesciare tutto il progetto dalle sue fondamenta e persino a rischiare una rottura sull’euro». Ed è quello che non farà mai. «Tutta la sua vita politica, da Mitterrand a Maastricht, è stata intessuta negli affari europei». Hollande «è prigioniero dell’ideologia di questo progetto, convinto come è che un condominio franco-tedesco rimanga la leva del potere francese e che sia l’euro a tenere legati i due paesi». Lo statista francese Jean-Pierre Chevenement confronta l’acquiescenza di Hollande con il corso rovinoso dei decreti deflazionistici di Pierre Laval nel 1935 durate il Gold Standard, cioè «l’ultima volta che un leader francese pensò di dover cavare sangue dal suo paese per difendere il vezzo di un cambio fisso».E’ la verità brutale, aggiunge Evans-Pritchard: «I socialisti francesi pensavano di non avere nulla da temere dall’ascesa del Fronte Nazionale, un partito che si prepara a sfruttare la furia prorompente dalla “France Profonde”, con l’impegno di ripristinare il controllo sovrano francese su tutto ciò che conta nella nazione, e che ha messo l’euro al primo posto tra i suoi compiti». I socialisti pensavano che il Fn avrebbe tolto voti ai gollisti, dividendo la destra? Errore: Marine Le Pen «sta dilaniando, con lo stesso vigore, anche le loro proprie roccaforti della classe operaia». Hanno sottovalutato la Le Pen, ora quotata al 24%, e sono scivolati al terzo posto, travolti dal “lepenismo di sinistra”, nuovo guardiano del welfare francese. I socialisti «non hanno nessuna risposta» da opporre agli attacchi del Fn sulla “austerità insensata” e “le politiche monetarie folli della Bce”, che continuano a intaccare il nucleo industriale della Francia. La Le Pen ripete che il prgetto dell’euro coincide con la disoccupazione di massa? «E’ tutto vero», dice Evans-Pritchard, ed è per questo che Hollande non sa cosa rispondere a Marine Le Pen.Tutto cominciò con il “referendum rubato”, la fatidica decisione di approvare il Trattato di Lisbona senza farlo votare, dopo che il popolo francese aveva già respinto un testo quasi identico chiamato “Costituzione europea”. «Nella scelta di ignorare la scelta del popolo del maggio 2005 – scrive Evans-Pritchard – i leader francesi hanno anticipato tutto quello che stiamo vedendo ora in Europa», ovvero «le scosse di assestamento di quel terremoto anti-democratico in Europa», per dirla con Coralie Delaume e il suo “Gli Stati Disuniti d’Europa”. «I socialisti dicono che è un oltraggio rifiutare un referendum su Lisbona, ma quando venne il momento di votarlo in parlamento, 142 deputati e senatori si astennero, e 30 votarono a favore del Trattato e diedero al presidente Nicolas Sarkozy la maggioranza dei tre quinti», ricorda Evans-Pritchard. «Le élite pensavano di essersela cavata con le loro prestidigitazioni su Lisbona? Non se l’erano cavata affatto», ma è ormai storia lo squallore del centrosinistra europeo, senza il quale l’oligarchia neoliberista non arebbe mai potuto imporre la crisi, attraverso il progetto neo-feudale chiamato euro.«Per un terribile rovescio del destino, la politica della sinistra europea sostiene la politica economica più reazionaria: i grandi partiti socialisti europei del dopoguerra sono rimasti intrappolati nella dinamica corrosiva dell’unione monetaria, apologeti della disoccupazione di massa e di un regime deflazionistico stile anni ‘30 che, sottilmente, favorisce gli interessi delle élite». In poche righe, Ambrose Evans-Pritchard fotografa la tragedia europea: i partiti che “inventarono” il sistema di welfare migliore del mondo sono oggi i più inflessibili interpreti del rigore escogitato per demolire proprio quel welfare, il traguardo più avanzato che la sinistra europea sia stata capace di centrare dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fino a cancellare la stessa idea di Europa come patria comune, traguardo civile di convivenza. E’ stato il centrosinistra europeo a far ingoiare l’amara medicina dell’oligarchia finanziaria, abusando della fiducia storicamente ottenuta dalle fasce popolari e dall’elettorato progressista.
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Fermare il Pd, il partito che ha fatto più danni all’Italia
Non ignoro i limiti ed i problemi del M5S e su questo sito, ma è anche vero che si tratta di un movimento giovane, che deve ancora attraversare il lungo tunnel della propria definizione. Quanto all’accusa di populismo (che peraltro Grillo non respinge ed anzi rovescia in una orgogliosa rivendicazione): io non sono affatto populista, vengo da una cultura politica che non è affatto populista, però so che ogni processo di rivolta contro il sistema ha sempre avuto esordi di tipo populista. Ma, soprattutto, so che questa polemica contro il populismo è la foglia di fico dietro cui queste miserabili élite nascondono le loro incapacità, la loro voracità, i loro ignobili privilegi. Questo mi dice da che parte stare in questo scontro. Io credo che siamo in un momento cruciale della storia del nostro paese. Ed in particolare in Italia, le cosiddette élite stanno dando il peggio di sé.Dopo un ventennio nel quale hanno preparato il disastro presente, si apprestano a svendere questo paese: pezzi pregiati di Eni, Finmeccanica, porti, patrimonio immobiliare e artistico, Ferrovie, Cdp, tutto sta per essere svenduto ed alla fine ci ritroveremo con lo stesso debito ma molto più poveri. Ricordate la svendita delle Partecipazioni Statali degli anni Novanta? Dovevano servire ad abbattere il debito: che fine hanno fatto? In questi venti anni abbiamo avuto un ceto politico sostanzialmente omogeneo, salvo sfumature di stile: stessa cultura politica liberista, stesso uso cinico delle tecniche surrettizie di raccolta di consenso, stessa moralità politica. Entrambe hanno occupato l’intero spazio politico con il solito argomento: vota me per non far vincere l’altro. Ma era una falsa alternativa, come l’esito finale di questo ventennio nero rende evidente.Dunque, è arrivato il momento di rovesciare questa classe dirigente in tutte le sue “varianti”. La specie berlusconiana sembra felicemente avviata all’estinzione, ma ora è il momento di pensare al Pd. Il partito che ha fatto più danni sul piano della democrazia (per tutte si pensi alle leggi elettorali maggioritarie e senza preferenze ed alla riforma del titolo V nel 2001; alla riforma dei servizi segreti del 2007), che sta svendendo la Banca d’Italia, che ha sempre espresso il maggior grado di asservimento agli Usa, che in 20 anni non ha svolto alcuna azione di contrasto alla corruzione, che non ha fatto alcuna legge sul conflitto di interesse chiedendo i voti per farla, che per i giovani propone solo e sempre maggiori periodi di lavoro gratuito (servizio civile, praticantato post laurea, lavoro in azienda durante il periodo scolastico), che, con il pacchetto Treu, ha dato il via alla demolizione dei diritti dei lavoratori, che ha difeso la legge Fornero, etc.Ora, l’approdo alla segreteria Renzi è il punto di arrivo finale della degenerazione di quello che fu un grande partito di sinistra ed è oggi un piccolo covo di intriganti e faccendieri. Posso avere molte perplessità sul M5S, ma in compenso ho la certezza che il Pd di Renzi sia il nemico da battere e punire. E’ probabile che in questo turno Renzi cresca, l’importante ora è ostacolarne al massimo l’avanzata per batterlo nella prossima occasione. Il M5S è lo strumento più efficace che ho per colpire questa classe politica. C’è poi un secondo ordine di motivi: è evidente ormai che l’ordinamento della Ue, con l’euro al centro, sta soffocando l’Europa ed occorra un forte ripensamento di questa costruzione tecnocratica. Se l’Europa dei popoli non è solo uno slogan, ma un’aspirazione vera, occorre prima mandare in frantumi questa Europa dei finanzieri e dei tecnocrati che è inconciliabile con l’altra. Il M5S, in Italia, è l’unico martello che ho a disposizione per colpire l’Europa delle banche, se non voglio lasciare campo libero, su questo tema, alle formazioni fasciste, xenofobe, di destra.Inoltre, come ho sempre dichiarato, sono un convinto fautore della legge elettorale proporzionale come unica garanzia di vera rappresentanza non manipolata e, non solo il M5S è l’unica forza politica dichiaratamente proporzionalista, ma soprattutto so che una forte affermazione del M5S avrebbe l’effetto immediato di paralizzare l’abominevole legge Renzi-Berlusconi che è in discussione in Parlamento. E’ sufficiente che il M5S emerga come secondo polo per far passare qualsiasi velleità di legge maggioritaria a doppio turno. E già questa sarebbe da sola una ragione sufficiente. Dunque, sulla base di queste considerazioni, voterò il M5S.Tuttavia, faccio anche i miei auguri alla lista Tsipras di raggiungere il quoziente richiesto. Una sconfitta di questa lista sarebbe molto negativa, comportando la dissoluzione della sinistra radicale. Certo sarebbe stato auspicabile che questa lista avesse espresso posizioni meno ambigue su questioni come l’Euro e non si fosse rifugiata nello slogan fumoso dell’Altra Europa, che vuol dire tutto e niente; ma sarà un alleato importante la prossima volta, quando avrà chiarito le sue posizioni. E, dunque, che per ora non le manchi il quoziente. Ci pensino quei malpancisti del Pd che non se la sentono di votare per il M5S: hanno quest’altra occasione di voto per sbarrare la strada a Renzi.(“Perché voto M5S, auguri anche alla Lista Tsipras”, estratti dell’intervento che Aldo Giannuli ha pubblicato sul suo blog il 18 maggio 2014).Attenti agli applausi: quelli che Grillo ha rimediato a Torino, nella straripante piazza Castello. Secondo il blog marxista “Contropiano” è utile prendere nota di cosa enstusiasma i seguaci: dalla battaglia No-Tav all’“euro-nazismo” di Schulz, che dimentica i meriti dell’Urss («Non avesse vinto Stalin, oggi Schulz avrebbe una svastica sulla fronte»). E c’è anche il fantasma buono di Enrico Berlinguer, evocato da Giuseppe Zupo per dire che il Movimento 5 Stelle è «l’unico erede, oggi in Italia, della battaglia berlingueriana per la “questione morale”», cioè istituzioni pulite come argine necessario contro la tentazione della violenza, di fronte alla rabbia per uno Stato dilaniato dalla corruzione di casta. Un’élite così moralmente fragile da farsi “comprare”, a poco prezzo, da chi vuol finire di mangiarsi l’Italia in un sol boccone: votare 5 Stelle, dice un ex esponente di Rifondazione Comunista come il professor Aldo Giannuli, storico e politologo, significa punire la classe politica (Pd, in primis) che ha tradito l’elettorato di sinistra per fare politiche di destra, al servizio esclusivo dei poteri forti.