Archivio del Tag ‘destra’
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Giannuli: la televisione è finita, come i leader che fabbricava
Non nascerà un altro Berlusconi, perché sta andando in pensione, per sempre, la vecchia fabbrica del consenso, la televisione, ormai disertata dal pubblico perché unidirezionale e quindi obsoleta. Lo sostiene Aldo Giannuli, che segnala «il collasso della televisione, il media principe dell’ultimo mezzo secolo». Per sessant’anni, la Tv pubblica ha svolto una funzione di socializzazione culturale e politica: «Se la società del Novecento è diventata una società della cultura di massa e della partecipazione politica di massa lo deve più di tutti alla televisione». Ma oggi la formula è stanca e la televisione perde costantemente ascolti. «E’ probabile che nel giro di pochi anni l’interazione fra Tv e computer produrrà l’abbandono del palinsesto», sostiene Giannuli. «La Tv trasmetterà in diretta solo i notiziari ed eventi sportivi o spettacoli, mentre, per il resto, le televisioni si trasformeranno in società produttrici di format televisivi a pagamento, che gli spettatori sceglieranno da un menù per guardarli quando meglio gli parrà».In fondo accade già con YouTube. E il fenomeno produrrà ricadute non banali: «Spingerà le Tv ad abbandonare sempre più l’impegno culturale e formativo a favore del taglio commerciale», diversificando peraltro l’offerta. Ormai la vecchia Tv ha perso troppo terreno nei confronti del Web. «La Tv è stata l’ultimo media mono-direzionale, e, nella sua versione commerciale è stato il media ideale del successo berlusconiano. Il Web è il primo media interattivo e bidirezionale, e in questo senso è terreno sfavorevole al Pd e soprattutto a Fi, mentre ha propiziato il successo del M5S». Se per vent’anni l’Italia è stata condizionata da un personaggio come Berlusconi, oggi la televisione come collettore elettorale non funziona più. Per Giannuli, il tramonto della vecchia Tv è il sintomo di una nuova trasformazione radicale del sistema politico, che va molto oltre l’occasionale performance di questo o quel leader. «Inizia a sentirsi davvero l’urto della crisi finanziaria internazionale e della prolungata stagnazione dell’economia italiana, che ormai brucia primati in discesa».Il sistema, ricorda Giannuli, era rimasto stabile dopo il crollo della Prima Repubblica, «nonostante la classe politica fosse assai meno capace di quella che l’aveva preceduta». Nell’euforia finanziaria internazionale, «l’economia italiana galleggiava sul mare della globalizzazione senza troppi scossoni». Oggi invece la situazione è molto più difficile, «e con pochissime speranze di miglioramento a breve». Inoltre, «si stanno liquefacendo le forme della politica che avevamo conosciuto». Fine dei partiti con insediamento sociale: più ancora di Forza Italia e del M5S, il Pd «sta diventando “partito del capo” che azzera ogni dissidenza interna e non ha neppure un vero e proprio gruppo dirigente collettivo», l’unico magnete elettorale è l’ascendente del condottiero e i congressi diventeranno «liturgie del karaoke». La minoranza, che sogna riscosse interne, «non ha capito che non sta più nel Pds e neppure nel Pd, ma nel prossimo “Partito della Nazione”, diverso per struttura interna, per funzione e collocazione politica: questo sarà un partito di centro con decise puntate a destra». Bersani e Speranza? «Stanno a Renzi come Turati stava a Mussolini: uomini del secolo precedente, del tutto inadeguati di fronte all’arroganza violenta del nuovo inquilino del potere».Non nascerà un altro Berlusconi, perché sta andando in pensione, per sempre, la vecchia fabbrica del consenso, la televisione, ormai disertata dal pubblico perché unidirezionale e quindi obsoleta. Lo sostiene Aldo Giannuli, che segnala «il collasso della televisione, il media principe dell’ultimo mezzo secolo». Per sessant’anni, la Tv pubblica ha svolto una funzione di socializzazione culturale e politica: «Se la società del Novecento è diventata una società della cultura di massa e della partecipazione politica di massa lo deve più di tutti alla televisione». Ma oggi la formula è stanca e la televisione perde costantemente ascolti. «E’ probabile che nel giro di pochi anni l’interazione fra Tv e computer produrrà l’abbandono del palinsesto», sostiene Giannuli. «La Tv trasmetterà in diretta solo i notiziari ed eventi sportivi o spettacoli, mentre, per il resto, le televisioni si trasformeranno in società produttrici di format televisivi a pagamento, che gli spettatori sceglieranno da un menù per guardarli quando meglio gli parrà».
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Renzi è l’effetto, non la causa: il Pd serve al nuovo regime
Grandi proteste della minoranza Pd per il tracollo del tesseramento al partito, passato dai 539.000 iscritti del 2013 ai a circa centomila del primo semestre 2014? Attenzione: Renzi c’entra fino a un certo punto, secondo Aldo Giannuli, come dimostra la serie storica del tesseramento: gli iscritti sono calati a partire dal 2008, quando erano 830.000, e il calo è stato interrotto solo nel 2013, «anno di votazioni per il segretario del partito e del gruppo dirigente», cosa che «fa pensare che ci sia stato un bel pacco di tessere “gonfiate”». Il punto è un altro, avverte Giannuli: il Pd «non sta scomparendo», ma «sta subendo una mutazione genetica: da partito di centro-sinistra in partito di centro-destra, da partito pur scolorito ideologicamente ma con tracce del suo passato identitario, in partito “prenditutto”, da partito organizzato di iscritti in partito di elettori, appunto all’americana». Renzi? Più che la causa, è il risultato di questa tendenza: «La liquidazione dei resti del fu Pci e la costruzione di questo partito amebico e privo di identità e cultura politica è il punto di arrivo di un processo più che ventennale».Tanti i fattori che hanno sottratto agli elettori l’opzione di sinistra, verso l’incolore Pd: intanto «l’adozione del sistema elettorale maggioritario e senza preferenze, che ha passivizzato la base e accentuato la trasformazione in partito “prenditutto”». Poi, certo, la fusione con la “Margherita”, «che ha ulteriormente cancellato le culture politiche di provenienza, affogando tutto in un unico e indistinto poltiglione». Pesante, peraltro, «l’accentuazione del partito come partito del leader», sull’esempio di Berlusconi. Questo favorisce «la pratica politica basata su una crescente delega ad un inamovibile ceto politico, con una base sempre più emarginata e convocata solo per le scadenze canoniche (elezioni e rinnovo delle cariche interne) senza alcun dibattito interno». Ma soprattutto, aggiunge Giannuli, «l’adozione del modello organizzativo basato sulle primarie di “elettori” ha determinato la “svolta americana”», con primarie aperte ai non-iscritti.«Il punto centrale è questo: se io, non iscritto al partito, posso votare per l’elezione del segretario, per il candidato presidente del Consiglio, per i candidati al Parlamento e alle Regioni, e, per di più in quel partito non esiste una pratica di dibattito interno sulla linea (ad esempio: chi ha mai consultato i militanti del Pd sull’articolo 18 o sulla riforma del Senato?), sapete dirmi per quale ragione devo prendere la tessera?». Dunque, il passaggio da partito militante e di insediamento territoriale a partito di elettori non organizzati sul territorio è ormai molto avanzato. La segreteria Renzi? «Un po’ per scelta un po’ per la situazione oggettiva che vede il Pd senza sfidanti credibili, sta provocando un altro mutamento che prefigura un vero e proprio regime». La destra è divisa in tre tronconi – Forza Italia, Lega Nord e Ncd – difficilmente coalizzabili e con sondaggi che (tranne in parte la Lega) la danno in picchiata: anche aggiungendo “Fratelli d’Italia”, a stento si arriva al 25%. Da sola, Forza Italia non è detto neppure che arrivi al ballottaggio. Il centro? Non esiste più. E a sinistra, Sel e Rifondazione «forse non hanno nemmeno i voti per entrare in Parlamento».Quanto al M5S, il sogno di un rapido sfondamento contro tutto e tutti «mi pare che sia definitivamente tramontato dopo le europee», annota Giannuli. E se il movimento non scoprirà la necessità di una politica delle alleanze, potrà al massimo arrivare a un eventuale ballottaggio con poche probabilità di vincerlo. Ecco perché il Pd vince “per posizione”, collocandosi nettamente al centro e prendendo voti da tutte le direzioni. «Quello che viene fuori è una sorta di riedizione tardiva e assai peggiorata della Dc, che era invece un grande partito, nonostante i suoi non pochi e non leggeri vizi». Il Pd, invece, vince semplicemente “perché vince”. «Cioè: gode della rendita di posizione del partito che prende anche voti non suoi, solo sulla considerazione che, tanto, è il partito che vincerà» e allora tanto vale, «lo si vota per rafforzare questa o quella ala». Renzi, naturalmente, sta «smontando il blocco sociale storico del Pci: pensate alla questione dell’articolo 18, la sua abrogazione: in breve offrirebbe il destro (ovviamente ben mascherato) per licenziare i rappresentanti sindacali della Cgil nell’industria e nei servizi, il che significa che la Cgil in breve si ridurrebbe a pensionati e pubblico impiego, avviandosi al definitivo declino». Ed ecco dunque il partito all’americana, «basato sul massimo della delega al suo ceto politico che, però, agisce in una condizione di monopolio di potere, senza alternative. Detto in parole povere, un vero regime».Grandi proteste della minoranza Pd per il tracollo del tesseramento al partito, passato dai 539.000 iscritti del 2013 ai a circa centomila del primo semestre 2014? Attenzione: Renzi c’entra fino a un certo punto, secondo Aldo Giannuli, come dimostra la serie storica del tesseramento: gli iscritti sono calati a partire dal 2008, quando erano 830.000, e il calo è stato interrotto solo nel 2013, «anno di votazioni per il segretario del partito e del gruppo dirigente», cosa che «fa pensare che ci sia stato un bel pacco di tessere “gonfiate”». Il punto è un altro, avverte Giannuli: il Pd «non sta scomparendo», ma «sta subendo una mutazione genetica: da partito di centro-sinistra in partito di centro-destra, da partito pur scolorito ideologicamente ma con tracce del suo passato identitario, in partito “prenditutto”, da partito organizzato di iscritti in partito di elettori, appunto all’americana». Renzi? Più che la causa, è il risultato di questa tendenza: «La liquidazione dei resti del fu Pci e la costruzione di questo partito amebico e privo di identità e cultura politica è il punto di arrivo di un processo più che ventennale».
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Servire il Popolo, anzi il business (e addio alla sinistra)
Ieri il motto era “Servire il Popolo”, e oggi? Tutti ai posti di comando, dall’altra parte della barricata: giornali, televisione, grandi aziende, partiti di governo. Dov’è finita la sinistra, quella che dovrebbe difendere gli italiani, per esempio dagli abusi del regime euro-Ue? Bisognerebbe chiederlo a loro, gli ex trotzkisti, che secondo i numerosi detrattori «stanno alla sinistra esattamente come i “neocon” e i “teocon” stanno alla destra», scrive Sebastiano Caputo, alludendo ai vari Oriana Fallaci, Giuliano Ferrara e Alessandro Sallusti. «Accecati da un anticomunismo in assenza di comunismo, furono Gianfranco Fini e i suoi seguaci a sposare definitivamente il liberismo economico di Silvio Berlusconi». E furono i loro “intellettuali di complemento” a «consegnare le chiavi della biblioteca» agli ultras della destra. E a sinistra? Idem, se si pensa agli ex trotzkisti, da Santoro a Lerner: «Stessi finanziatori, stessi interessi, stessi nemici». Destino speculare: «La la nazione per gli uni, la rivoluzione per gli altri», ma – si sa – la rivoluzione non c’è stata e la nazione sta sparendo, assorbita dall’Eurozona.«L’esistenza di una destra e di una sinistra – premette Caputo – aveva ancora senso qualche decennio fa». A prescindere dalla guerra fredda, quello che separava (e allo stesso tempo univa) i due schieramenti, «era un profondo spirito di appartenenza ideale e una forte identità culturale». Eppure «entrambi, come le subculture degli anni Sessanta e Settanta, sono stati inglobati dal sistema dominante per diventare progressivamente forze antinazionali e conservatrici». Il “tradimento” della sinistra, continua Caputo sul blog “Da dietro il sipario”, è tuttavia anteriore a quello della destra. E affonda le sue radici nell’eccentrica parabola dei trotzkisti italiani. Riuniti sotto diverse sigle (“Gruppo Comunista Rivoluzionario”, “Servire il Popolo”, “Avanguardia Operaia”, “Lotta Continua”, “Potere Operaio”) ed eredi del pensiero di Lev Trockij (internazionalismo e anti-sovietismo), dopo la contestazione studentesca del ‘68 adottarono la strategia dell’“entrismo”, cioè l’infiltrazione nei sindacati, nel Pci di Berlinguer e nei giornali di area.Tutto questo, probabilmente, secondo Caputo è avvenuto anche «con il sostegno economico dei servizi statunitensi, i quali finanziavano tutte le forze anti-sovietiche e di destabilizzazione dell’epoca», indipendentemente dal loro colore politico, «come del resto si è potuto verificare nei decenni successivi: non è un caso che quegli stessi trotzkisti che militavano nelle organizzazioni extra-parlamentari si siano successivamente ritrovati a occupare posizioni di potere in ambienti che spaziano da quello accademico a quello mediatico-giornalistico, passando per quello politico». La lista di quelli che Caputo chiama “i traditori dei principi della sinistra” è pressoché sterminata. Da “Servire il Popolo” provengono il sondaggista Renato Mannheimer, collaboratore del “Corriere della Sera” e docente dell’Università Bicocca di Milano, nonché Antonio Polito, membro dell’Aspen Institute ed editorialista del “Corriere”, e Barbara Pollastrini, ministro delle Pari opportunità del governo Prodi e attualmente deputata del Pd.Sempre da “Servire il Popolo” arrivano Linda Lanzillotta, senatrice di “Scelta Civica” di Mario Monti, e il popolarissimo Michele Santoro, mattatore della Tv-contro. E’ invece “Lotta Continua” la casa-madre di Adriano Sofri, editorialista di “Repubblica” come l’ex compagno Gad Lerner. Sono ex di “Lc” anche Paolo Liguori, giornalista Mediaset e conduttore televisivo, e il sociologo Luigi Manconi, docente universitario e senatore Pd. “Potere Operaio”, di Toni Negri, ha invece allevato Francesco Pardi, detto Pancho, già senatore Idv e promotore del “No Cav Day”. Con lui Ritanna Armeni, conduttrice televisiva di “Otto e Mezzo” con Giuliano Ferrara, e un peso massimo della cultura italiana come Paolo Mieli, storico, già direttore del “Corriere”, ora dirigente di Rcs. Infine, dal “Gruppo Comunista Rivoluzionario” è emerso Paolo Flores D’Arcais, direttore di “Micromega” (Gruppo Espresso), nel quale spicca il direttore di “Repubblica”, Ezio Mauro, che archivia il suo passato di sinistra con editoriali come quello intitolato “L’Occidente da difendere”, in cui «identifica il nemico russo e quello islamico, legittimando di conseguenza l’Occidente capitalista, pseudo-democratico, imperialista e a trazione statunitense». Mala tempora currunt: persino l’ex “zapatista” salottiero Bertinotti arriva a dire: «Abbiamo sbagliato tutto, sono anche un liberale». Poi uno si chiede dov’è finita la sinistra. E si domanda perché nessuno alzi mai la voce, neppure una volta, per difendere gli italiani massacrati dal rigore dell’élite tecno-finanziaria di Bruxelles, braccio armato dell’oligarchia ultraliberista.Ieri il motto era “Servire il Popolo”, e oggi? Tutti ai posti di comando, dall’altra parte della barricata: giornali, televisione, grandi aziende, partiti di governo. Dov’è finita la sinistra, quella che dovrebbe difendere gli italiani, per esempio dagli abusi del regime euro-Ue? Bisognerebbe chiederlo a loro, gli ex trotzkisti, che secondo i numerosi detrattori «stanno alla sinistra esattamente come i “neocon” e i “teocon” stanno alla destra», scrive Sebastiano Caputo, alludendo ai vari Oriana Fallaci, Giuliano Ferrara e Alessandro Sallusti. «Accecati da un anticomunismo in assenza di comunismo, furono Gianfranco Fini e i suoi seguaci a sposare definitivamente il liberismo economico di Silvio Berlusconi». E furono i loro “intellettuali di complemento” a «consegnare le chiavi della biblioteca» agli ultras della destra. E a sinistra? Idem, se si pensa agli ex trotzkisti, da Santoro a Lerner: «Stessi finanziatori, stessi interessi, stessi nemici». Destino speculare: «La la nazione per gli uni, la rivoluzione per gli altri», ma – si sa – la rivoluzione non c’è stata e la nazione sta sparendo, assorbita dall’Eurozona.
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Ovadia: il ‘900 è finito, infatti con Renzi torniamo all’800
Auspico un autunno caldo e la rinascita di una sinistra, autentica, altro che Pd. Se Renzi ammettesse di essere un uomo di destra, sarebbe un gesto di grande onestà intellettuale. Quando sento parlare di due sinistre, mi vien da sorridere: quale sarebbe la seconda? Il Pd? E allora io sono Papa. Il Pd non ha più nulla di sinistra. Massimo Cacciari, non un pericoloso bolscevico come me, recentemente ha spiegato come quel partito non sia mai veramente nato e che ora è nelle ferree mani di Matteo Renzi, i cui modelli sono la Thatcher e Blair. Li copia nella distruzione dello Stato Sociale e delle sue regole. Lo stesso utilizzo degli anglicismi è indicativo. Perché termini come Local Tax, Spending Review e Jobs Act? Tra l’altro se analizziamo al dettaglio, i termini sono esplicati: Job in inglese non è lavoro bensì impiego in senso lato, e Act sottintende un gesto unilaterale, non un accordo tra due contraenti. Renzi ha scardinato qualsiasi ipotesi di patto sociale.Alle europee prende il 40,8%? E’ un bravissimo comunicatore, si vende bene. Incarna la retorica del nuovismo contro chi è ancora ancorato al Novecento, peccato lui voglia tornare all’Ottocento dove si poteva licenziare arbitrariamente. Forse è più vecchio lui di quella folla che sabato scorso ha invaso Roma in difesa dei propri diritti. Vince perché altrove c’è il nulla. Grillo ha perso il treno. Poteva rappresentare un’interessante proposta ma ha sposato veementemente la retorica dell’urlo. Pur avendo ottimi parlamentari, questo va riconosciuto al M5S, hanno fallito, non sono riusciti a incidere e la novità dopo mesi annoia. Anche la destra è allo sfascio, Berlusconi è un uomo patetico. La sinistra, quella vera, avrebbe un vastissimo popolo e potrebbe arrivare anche al 20%. Ma è più presa a litigare e dal proprio narcisismo ombelicale che a fare politica. Ora è in attesa che l’ex sinistra del Pd le getti un osso. Così – tra paura, opportunismo e crisi – le persone optano per questo giovanotto tronfio, con uno stile dinamico e sbarazzino, il quale dice di voler cambiare e modernizzare il paese.Conosco gente, autenticamente di sinistra, che per mancanza di alternative alle europee l’ha votato. C’è un disperato bisogno di un’aggregazione del popolo di sinistra, lo dovrebbero auspicare anche le persone sinceramente democratiche. In tutta Europa esiste, tranne che in Italia. In Germania abbiamo la Linke, in Francia un fronte variegato intorno al 10, in Grecia l’esperienza trionfante di Syriza, in Spagna l’innovazione di Podemos. E da noi? Abbiamo bisogno di una vera sinistra capace di tutelare il mondo del lavoro, l’ambiente e arrestare razzismo e deriva ultraliberista. Senza, chi osteggerà il trattato europeo del Ttip? Chi si batterà per i beni comuni e contro le privatizzazioni? Non abbiamo l’ambizione di diventare il partito della nazione, ma una forza forte e dialogante con gli altri.Decine di operai di Terni vengono licenziati e con la disperazione nel cuore, con vite perse senza più un’occupazione, e magari con figli senza futuro, si riversano nella capitale per una manifestazione non violenta e che succede? Vengono caricati e manganellati. Ma siamo matti? In un’epoca di dramma sociale e aumento delle diseguaglianze, invece di parlare di solidarietà umana e primaria, si cancellano diritti e dignità dei lavoratori. Dubito che gli agenti l’abbiamo fatto di loro sponte, sarà giunto un comando dall’alto. Come succedeva in Gran Bretagna ai tempi della Thatcher, lì torniamo. I minatori inglesi sanno cosa hanno passato in termini di repressione per aver osato rivendicare salari dignitosi e tutele. Passatemi una battuta: il Papa sembra al momento l’unico leader di sinistra. Landini? Ha un potenziale enorme, un leader già pronto. Quando lo sento parlare in televisione, vedo l’autenticità di un uomo che la sua vita se l’è sudata. La schiettezza di un uomo senza doppi fini, che non vuole fregarti. E’ autenticamente indignato. Le sue sono parole pronunciate col cuore perché da anni vicino alla povera gente e ai deboli. La nostra Italia migliore. Altro che manganellate.(Moni Ovadia, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Se Renzi e il Pd sono di sinistra, io sono il Papa”, pubblicata da “Micromega” il 31 ottobre 2014).Auspico un autunno caldo e la rinascita di una sinistra, autentica, altro che Pd. Se Renzi ammettesse di essere un uomo di destra, sarebbe un gesto di grande onestà intellettuale. Quando sento parlare di due sinistre, mi vien da sorridere: quale sarebbe la seconda? Il Pd? E allora io sono Papa. Il Pd non ha più nulla di sinistra. Massimo Cacciari, non un pericoloso bolscevico come me, recentemente ha spiegato come quel partito non sia mai veramente nato e che ora è nelle ferree mani di Matteo Renzi, i cui modelli sono la Thatcher e Blair. Li copia nella distruzione dello Stato Sociale e delle sue regole. Lo stesso utilizzo degli anglicismi è indicativo. Perché termini come Local Tax, Spending Review e Jobs Act? Tra l’altro se analizziamo al dettaglio, i termini sono esplicati: Job in inglese non è lavoro bensì impiego in senso lato, e Act sottintende un gesto unilaterale, non un accordo tra due contraenti. Renzi ha scardinato qualsiasi ipotesi di patto sociale.
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Massacro sociale europeo: i nazisti erano meno subdoli
Quattro milioni e 68.250 persone, in Italia, costrette a chiedere aiuto per mangiare nel 2013, con un aumento del 10% cento sull’anno precedente. Lo ha calcolato la Coldiretti, sulla base della relazione che riguarda il “Piano di distribuzione degli alimenti agli indigenti” realizzato dall’Agea, l’agenzia per le erogazioni in agricoltura, in riferimento ai dati Istat sulle famiglie senza redditi da lavoro. Numero approssimato per difetto: tiene conto soltanto di chi ha chiesto aiuto attraverso canali più o meno ufficiali, trascurando chi si è rivolto a famiglie, genitori e amici. «Se mettessimo in fila quelle persone, dando a ciascuna soltanto mezzo metro di spazio, si formerebbe una fila che parte da Reggio Calabria e finisce a Bruxelles», scrive “Come Don Chisciotte”. Bruxelles, cioè la città «in cui ha sede il meccanismo di dominazione tirannica basato sullo smantellamento delle istituzioni democratiche e sull’impoverimento generalizzato che si definisce Unione Europea».«Facciamo ora uno sforzo più grande, e immaginiamo di prendere non solo gli italiani che grazie ai destini magnifici e progressivi dell’Europa reale hanno dovuto calpestare la propria dignità per avere un piatto di minestra, ma quelli di tutti i paesi che aderiscono all’Ue, ridotti in miseria dalla moneta unica. A quel punto – continua il blog – il continente che un tempo possedeva il più avanzato e inclusivo sistema di welfare, e per questo era universalmente stimato e rispettato come quello in cui la sua civiltà millenaria si esprimeva al livello più alto, si vedrebbe attraversato in ogni direzione da file di diseredati, lunghe migliaia e migliaia di chilometri». Se i progetti grandiosi della Ue, come i cosiddetti corridoi ferroviari trans-europei ad alta velocità che avrebbero dovuto attraversare il continente sono rimasti in gran parte sulla sulla carta, in compenso «l’Europa reale ha realizzato file ancora più lunghe di poveri, disoccupati e affamati». Statistica: «Solo la più sanguinosa delle guerre, quella combattuta dal 1939 al 1945, è stata capace di produrre qualcosa di simile. Malgrado le armi convenzionali non siano finora entrate in gioco, le conseguenze della moneta unica sono di entità simile a quelle proprie di un evento bellico di tale portata».Come ormai sostengono diverse fonti autorevoli, negli Stati che dovrebbero essere affratellati dai trattati di unione si sta effettivamente combattendo una guerra, anche se non con i mezzi corazzati, ma con gli strumenti della finanza. «Che sono forse più micidiali, essendo capaci di produrre danni ancora maggiori». Tutto questo per che cosa? «Per dare soddisfazione alla patologia di accumulazione compulsiva di un branco di oligarchi, e il doveroso compenso ai politici non eletti da nessuno al loro servizio», e anche «per il prestigio politico da essi speso nella realizzazione del più micidiale strumento di devastazione sociale e istituzionale oggi conosciuto, quello che risponde al nome di Euro». Di fronte a un disastro simile, «causato deliberatamente», il capo del terzo “governo fantoccio” che si succede in Italia in poco più di due anni, Matteo Renzi, «non trova di meglio che rispondere con l’elemosina degli 80 euro», che dovranno essere ripagati «mediante misure più costose e permanenti, come al solito a spese dei redditi medio-bassi».“L’elemosina” va comunque a chi ha già una busta paga, per quanto misera: viceversa, «chi non ha niente, ovvero il milione e più di famiglie che non percepiscono reddito da lavoro alcuno, sempre certificato dall’Istat, niente avrà». Questo, «in base alla logica consolidata negli anni che prevede di abbandonare al proprio destino la fascia dei più bisognosi, di giorno in giorno più ampia: se non si ha nulla, nulla si ha da pretendere e tantomeno da offrire». E’ la politica sociale «dei partiti di falsa sinistra, da decenni intenta alla spoliazione e all’impoverimento generalizzato dei ceti subalterni». Quei partiti, secondo “Come Don Chisciotte”, «hanno definitivamente sancito l’assenza di qualunque volontà di porre un benché minimo rimedio alle conseguenze delle loro politiche scellerate», ossia «l’essersi messi al servizio delle élite per eseguire le politiche più oltranziste della destra finanziaria», il capitalismo assoluto. «Si perviene così a una forma di dissociazione dalla realtà in base a ordini superiori, quelli provenienti dai vertici del partito, che a prima vista potrebbe apparire patetica ma in realtà è ignobile e vergognosa», perché «se si agisce in modo tale da favorire l’aggravarsi delle condizioni generali, oltretutto su mandato di poteri esterni al proprio paese», allora «ci si assumono responsabilità enormi». .“Come Don Chisciotte” traccia un parallelo tra «l’attività ademocratica e antisociale della politica attuale» e il comportamento dei magnate degli inizi del secolo scorso, come Rockefeller: «Per il loro arricchimento personale, e migliorare la competitività della propria impresa, non hanno esitato a ordinare che donne e bambini fossero trucidati: erano le famiglie dei lavoratori impiegati nelle miniere del Colorado che chiedevano condizioni di vita meno disumane». Gli autori della restaurazione iper-capitalistica e della conseguente macelleria sociale oggi in atto sono «come nazisti e moderni Mengele». “Nazista” è parola assurta a sinonimo universale della crudeltà peggiore e della negazione per il valore e l’intangibilità della vita umana: nel mondo occidentale, si viene ammaestrati fin dalla più tenera età a riconoscere il nazismo come il male assoluto per definizione. Ma i “nazisti” di oggi si riparano dietro al “frame” della persuasione occulta: il sangue non si vede, la strage non viene percepita subito. Perfino gli esiti quotidiani del disastro-Europa «diventano controversi e di interpretazione incerta, malgrado ciascuno si ritrovi con meno soldi in tasca e un potere d’acquisto ridotto ai minimi termini», la prole disoccupata o precaria.La potente manipolazione mediatica rende gli individui incapaci di stabilire «persino il più elementare legame di causa ed effetto». Eppure, il «massacro sociale odierno» va oltre il nazismo, secondo “Come Don Chisciotte”: «Infatti il nazismo, come tutte le altre dittature dello scorso secolo, in primo luogo agiva in nome e per conto del proprio Stato o parte di esso, sia pure con metodi condannevoli. La classe politica di oggi, invece, opera su mandato di poteri esterni, dei quali si è fatta collaborazionista, o meglio fantoccio». Soprattutto, «il nazismo riconosceva la propria natura e non aveva problemi a palesarla». Viceversa, «i moderni sgherri dell’assolutismo iper-capitalista si mascherano vilmente dietro le loro teorie deliranti», palesemente insostenibili ma «ripetute fino a renderle i dogmi su cui si basa il lavaggio del cervello di massa». E questo avviene «dietro la facciata delle istituzioni democratiche che nel frattempo hanno provveduto a sovvertire, svuotandole del loro contenuto originario, con lo scopo di trasformarle negli strumenti atti a giungere agli obiettivi di dominazione assoluta che si sono prefissi».Si adotta questo modello, oggi, grazie alla consapevolezza «che proprio l’essersi palesate in quanto tali è stato il primo punto debole di quelle dittature», all’epoca «finanziate molto generosamente dalle banche controllate da chi oggi persegue il disegno di dominazione globale». Proprio «la necessità di tenere nascosto quel disegno, per non renderlo riconoscibile fino al suo compimento definitivo, sta a testimoniare il valore che chi lo ha attuato è il primo ad attribuirgli: il che equivale a una piena e inappellabile confessione di colpevolezza». In più, le guerre di allora erano dichiarate e combatture alla luce del sole. «I tiranni di oggi invece muovono guerre invisibili ma ancora più micidiali, che sovente hanno per vittima il loro stesso Stato». Se e quando il popolo se ne accorge, «è troppo tardi per rimediare». Per di più, «la tirannide attuale ritiene di poter fare a meno di una qualsiasi base di consenso che non sia quella dell’1%, cosa che le permette di colpire indiscriminatamente qualunque ceto sociale e di porsi come obiettivo la distruzione totale di tutto ciò che possa essere assimilato a una qualche forma di welfare». Al contrario, «le dittature storiche ricercavano comunque un consenso, il che le portava a realizzare opere di valore sociale, sia pure per motivi demagogici e inserite nel contesto delle loro politiche totalitarie».Per “Come Come Don Chisciotte”, dunque, «definire nazisti gli autori dell’odierno massacro sociale è fuorviante, ma soprattutto riduttivo». Il perché ce lo spiega George Orwell, nel suo capolavoro “1984”, in cui denuncia i problemi di percezione indotti dalla manipolazione linguistica, un deficit cognitivo che porta al blackout mentale e all’incapacità di articolare un’autodifesa fondata sul pensiero critico. «Assieme alla negazione sistematica della realtà e alla riscrittura altrettanto sistematica del passato, proprio questo va a costituire l’architrave dell’ordinamento tirannico descritto dallo scrittore inglese, cui non a caso la realtà di oggi rassomiglia in maniera sempre più evidente». E’ urgente che «qualche intellettuale di buona volontà si sforzi per coniare un neologismo», un termine «che condensi in sé tutta l’enorme e inedita carica di vile malvagità insita nel disegno restaurativo dell’assolutismo capitalista e dei suoi esecutori», in modo da incidere nell’immaginario comune. «Fino ad allora non sarà possibile far sì che l’opinione pubblica si renda conto fino in fondo di quanto sta avvenendo».Quattro milioni e 68.250 persone, in Italia, costrette a chiedere aiuto per mangiare nel 2013, con un aumento del 10% cento sull’anno precedente. Lo ha calcolato la Coldiretti, sulla base della relazione che riguarda il “Piano di distribuzione degli alimenti agli indigenti” realizzato dall’Agea, l’agenzia per le erogazioni in agricoltura, in riferimento ai dati Istat sulle famiglie senza redditi da lavoro. Numero approssimato per difetto: tiene conto soltanto di chi ha chiesto aiuto attraverso canali più o meno ufficiali, trascurando chi si è rivolto a famiglie, genitori e amici. «Se mettessimo in fila quelle persone, dando a ciascuna soltanto mezzo metro di spazio, si formerebbe una fila che parte da Reggio Calabria e finisce a Bruxelles», scrive “Come Don Chisciotte”. Bruxelles, cioè la città «in cui ha sede il meccanismo di dominazione tirannica basato sullo smantellamento delle istituzioni democratiche e sull’impoverimento generalizzato che si definisce Unione Europea».
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Putin agli Usa: agite da nemici, sappiate che resisteremo
A Sochi, nell’ottobre 2014, Putin ha “resettato” drasticamente il rapporto tra la sua Russia e Washington. Un discorso ben meditato, che sarebbe grave errore, per tutti, sottovalutare. Molto più forte, a tratti drammatico nella sua chiarezza, di quello da lui pronunciato a Monaco, nel 2007. Nei 14 anni del suo potere il presidente russo non si era mai spinto fino a questo punto. E si capisce il perché solo seguendo il suo ragionamento. Vediamo di quale reset si tratta. Fino all’altro ieri Putin era rimasto “dentro” lo schema del post guerra fredda. C’era rimasto sia perché non aveva scelte diverse da fare, sia perché – con ogni probabilità – a quello schema credeva e lo riteneva utile e realistico. La crisi era già visibile. La Russia ci stava dentro scomoda. Ma rimaneva l’intenzione di superarla, con il tempo, costruendo una nuova architettura della sicurezza mondiale assieme agli Stati Uniti. Per anni, dopo il crollo del Muro, la Russia ha dovuto sopportare molti “sgarbi”. È un eufemismo. In molti casi la parola giusta sarebbe schiaffi.La Russia è stata emarginata da numerosi momenti decisionali di rilievo internazionale, messa in secondo piano, scartata senza troppi complimenti. Era (anche) un modo per farle capire che non contava e che non si voleva che contasse. Espulsa dalla gestione dei conflitti africani, ignorata nel dibattito finanziario, messa in fila per il Wto. E duramente offesa nell’intera vicenda jugoslava, fino al bombardamento di Belgrado e all’indipendenza del Kosovo. Ammessa in sala riunioni solo là dove era indispensabile che ci fosse, nel negoziato con l’Iran e nella crisi siriana. Peggio ancora: con gli ultimi presidenti americani, da Clinton, via George Bush Junior, fino a tutto Obama compreso, gli Stati Uniti hanno manovrato su scala planetaria ignorando platealmente ogni riconoscimento delle zone d’influenza russa, passeggiandovi dentro senza alcun riguardo diplomatico. Tutta l’Asia centrale ex sovietica è stata praticamente occupata dalle loro iniziative: dall’Azerbaigian fino alla Kirghisia. Non dovunque con gli stessi successi. Ma quello che conta, è il significato: Washington semplicemente mandava a dire a Mosca che non avrebbe tenuto in alcun conto il peso della Russia in quelle aree.Per non parlare della Nato, la cui espansione a est – dopo la fine del patto di Varsavia – ha proceduto senza soste, alla pari con l’allargamento dell’Unione Europea su tutta l’Europa orientale, fin dentro alcuni territori che erano stati parte dell’Unione Sovietica, come le tre repubbliche baltiche. Il tutto violando gli accordi, verbali e scritti, che impegnavano la Nato a non portare basi e armamenti nelle nuove repubbliche che via via aderivano all’Unione Europea. Espansione accompagnata da dichiarazioni sempre più incongruenti con i fatti, secondo cui l’estensione della Nato non sarebbe stata indirizzata all’accerchiamento progressivo della Russia. Infine le operazioni degli ultimissimi anni, con l’inserimento della Georgia di Saakashvili nei meccanismi Nato e la promessa di un futuro ingresso a vele spiegate nella Nato della quarta repubblica ex sovietica; e con le analoghe pressioni e promesse nei confronti della Moldavia. Da ricordare la “guerra georgiana”, conclusasi con la secca sconfitta di Tbilisi dopo il massacro di Tzkhinvali e l’intervento delle forze armate russe per ricacciare indietro i georgiani dal territorio dell’Ossetia del Sud.Il riconoscimento russo delle due repubbliche di Abkhazia e Ossetia del Sud (che Putin non aveva concesso fino all’agosto 2008) fu il primo segnale che il Cremlino aveva deciso – sebbene non di propria iniziativa ma pressato dall’iniziativa avversaria – di alzare il segnale di stop verso Washington. Tutto questo è stato superato, d’un colpo, dall’avventura spericolata del colpo di stato a Kiev, dal rovesciamento violento di Yanukovic e dal varo di una nuova Ucraina dichiaratamente ostile e bellicosa nei confronti di Mosca. Il tutto non solo con il consenso ma con il finanziamento, la direzione, il controllo americano delle operazioni sul territorio, e politiche e, infine, militari. Non si comprende la sintesi putiniana di Sochi se non tenendo conto della sommatoria di questi eventi. La conclusione è esplicita: la leadership americana non prevede alcun multipolarismo, né alcun rispetto delle regole di un qualsivoglia partenariato tra eguali. Non ci sono più regole condivise. Esiste uno stato di caos, senza alcuna direzione. Putin prende atto – senza dirlo esplicitamente, ma facendo capire che ha ben compreso – che il bersaglio è lui in persona. Che le sanzioni non sono cominciate colpendo la Russia, ma colpendo il suo stesso entourage. Che negli atteggiamenti e nelle dichiarazioni dei leader occidentali è riconoscibile l’idea che Putin non rappresenta la Russia e che, dunque, una volta eliminato lui, la Russia sarà ricondotta all’ovile. In altri termini: l’Occidente non intende negoziare con la Russia fino a che Putin sarà alla sua testa.La risposta di Sochi è ora nettissima, un vero e proprio punto di non ritorno. Poggiato su alcuni pilastri. Il primo è l’idea che l’unità dell’Occidente è precaria. L’Europa non è compatta dietro l’America. Resta un partner, anche se si trova sotto costrizione. Lo dicono i numeri delle relazioni economiche e commerciali, oltre che la storia del dopoguerra. Questo è il primo pilastro. Potrebbe essere una scommessa che non si verificherà. Ma è un modo per tenere aperto un campo di manovra. Putin mostra di sapere perfettamente che la Russia che si trova tra le mani è incastonata in mille modi nel sistema occidentale. Anche nei suoi quattordici anni di potere, non solo in quelli elstsiniani, la Russia si è legata mani e piedi ai destini dell’Occidente. Dunque è vulnerabile e dovrà pagare prezzi salati, forse salatissimi. Qui Putin è con le spalle al muro, e dovrà dimostrare ai suoi cittadini che riesce a svincolarsene. Lo spazio potrà forse aprirsi come effetto della crisi politica di questa Europa.Lo sfaldamento della tenuta dei partiti politici tradizionali, quasi dovunque, mostra che ci possono essere altri interlocutori, oltre ai conservatori tradizionali, ormai avvinghiati alle sinistre socialdemocratiche, tutte emigrate oltre Oceano. L’Europa popolare va a destra, si muove in senso antieuropeo, antiamericano e antiglobalista, e converge sull’altro pilastro su cui Putin si appoggia: quello del patriottismo, del conservatorismo etico, dei valori tradizionali della famiglia, dell’educazione, del rispetto della memoria. La “famiglia europea” potrebbe cambiare di segno nei prossimi anni. E c’è un altro pilastro, ormai evidente: l’Oriente, la Cina, l’Iran, il resto del mondo. Verso quella direzione – andassero male i tentativi verso l’Occidente – guarderà l’aquila bifronte. Le sanzioni – dice Putin – non fermeranno questa Russia, che nelle parole di Putin appare vicina, risvegliata, compatta come non lo era da molti decenni.È una specie di preludio a un governo di salvezza nazionale, in cui entreranno forse i comunisti di Ziuganov, i liberal-democratici di Zhirinovskij, i nazionalisti di destra e di sinistra, saltando a piè pari le distinzioni europee-occidentali che in Russia hanno sempre contato poco. L’America di Obama, l’America che Mosca vede come in preda a una crisi senza ritorno (perché dopo Obama potrebbe venire il peggio, con una Hillary Clinton che vince le elezioni con il programma dei repubblicani più forsennati), non è più un partner. L’orso russo – proprio questo ha detto Putin – non intende uscire dal suo habitat. Non ha ambizioni espansive. Ma non è disposto a farsi sloggiare. Putin a questa conclusione è giunto. Questo è il suo piano di resistenza. Si tratta ora di vedere se è in condizione di reggerlo. E con un’America che gioca alla “o la va o la spacca”, sarà una partita dura. È dura quando entrambi i contendenti hanno le spalle al muro.(Giulietto Chiesa, “Il reset di Putin”, da “Megachip” del 26 ottobre 2014).A Sochi, nell’ottobre 2014, Putin ha “resettato” drasticamente il rapporto tra la sua Russia e Washington. Un discorso ben meditato, che sarebbe grave errore, per tutti, sottovalutare. Molto più forte, a tratti drammatico nella sua chiarezza, di quello da lui pronunciato a Monaco, nel 2007. Nei 14 anni del suo potere il presidente russo non si era mai spinto fino a questo punto. E si capisce il perché solo seguendo il suo ragionamento. Vediamo di quale reset si tratta. Fino all’altro ieri Putin era rimasto “dentro” lo schema del post guerra fredda. C’era rimasto sia perché non aveva scelte diverse da fare, sia perché – con ogni probabilità – a quello schema credeva e lo riteneva utile e realistico. La crisi era già visibile. La Russia ci stava dentro scomoda. Ma rimaneva l’intenzione di superarla, con il tempo, costruendo una nuova architettura della sicurezza mondiale assieme agli Stati Uniti. Per anni, dopo il crollo del Muro, la Russia ha dovuto sopportare molti “sgarbi”. È un eufemismo. In molti casi la parola giusta sarebbe schiaffi.
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De Luna: un deserto senza politica a sinistra di Matteo
Il conflitto tra il governo e la Cgil spalanca intere praterie a sinistra del Pd. E’ la conseguenza della scelta di Renzi di puntare sul partito pigliatutto, spostandosi verso il centro, inglobando gli uomini di Alfano ed esercitando una fortissima attrazione verso Forza Italia. Di fatto, il partito a vocazione maggioritaria tende a svuotare di senso il bipolarismo su cui si è fondata la Seconda Repubblica, dilatando gli spazi del “grande centro”, ma favorendo anche una radicalizzazione delle ali estreme del sistema politico. A destra questo è puntualmente avvenuto con il ritorno in campo della Lega; un sussulto difficile da prevedere dopo gli scandali che avevano segnato il tramonto di Bossi. Il partito di Matteo Salvini sembra in grado di intercettare i consensi dei transfughi del centrodestra berlusconiano (e di una composita galassia di ex fascisti) rilanciando l’immagine conflittuale della Lega degli esordi (quando legò le sue fortune alla lotta contro i meridionali, contro il fisco, contro il centralismo statale) nel contesto di una crisi economica che, rispetto agli anni ‘80 del tumultuoso successo del movimento di Bossi, ha accentuato in maniera dirompente le tensioni e lo scontro sociale.A sinistra non è successo niente di tutto questo. Nel 1994 Rifondazione Comunista rappresentava circa il 10% dell’elettorato. Da allora in poi, mentre gli uomini dell’ex Pci intraprendevano la loro lunga marcia verso il centro, scandita dalle sigle Pds, Ds, Pd, quel 10% è andato sgretolandosi fino a configurarsi oggi come una costellazione di piccoli partiti rinchiusi nel ghetto di un’opposizione impotente. E’ il prezzo pagato a una sorta di coazione a ripetere che ha sempre portato a raccogliere le bandiere lasciate cadere dagli altri senza mai trovarne di diverse e spesso mutuando dagli altri le derive personalistiche, la frammentazione in correnti, un modo narcisistico e autoriferito di far politica. Per anni è sembrato che il problema fosse quello di trovare una leadership autorevole. Le esperienze in questo senso, da Bertinotti a Vendola, sono sempre naufragate; il loro tentativo non è andato oltre la soglia di una “narrazione” seduttiva, ma incapace di incidere sulla realtà.C’è stata poi la stagione disastrosa dei leader chiesti in prestito alla magistratura: il flirt con Di Pietro, l’abbraccio a De Magistris, gli entusiasmi per Ingroia. Ora tocca a Landini, alla Fiom e al sindacato con un trasporto che ricorda quello per Cofferati e per i tre milioni di manifestanti che affollarono Piazza San Giovanni. Ma ha un senso guardare alla magistratura e al sindacato come ad ambiti in cui si forma oggi una leadership politica? Il sindacato degli anni ‘70 fu quello che allargò la sua sfera di intervento dalla tutela del salario alla contrattazione complessiva di tutte le condizioni del lavoro, estendendo il suo raggio d’azione fino a interagire con il governo sulla scuola, la sanità, i trasporti, la casa. In quegli stessi anni la magistratura, finalmente, spezzò la continuità che aveva legato i suoi apparati ai codici del fascismo, aprendosi all’applicazione della Costituzione e ampliando gli spazi della nostra democrazia.Quel sindacato fu sconfitto nel 1985, con il referendum sulla scala mobile, perdendo da allora in poi rappresentanza e rappresentatività; e la magistratura in questi anni è stata chiamata ad esercitare un ruolo di supplenza nei confronti di una classe politica inadeguata, fino ad assumere un ruolo improprio, con uno straripamento che ha funzionato come un vero e proprio boomerang per la sua credibilità. In questa coazione a ripetere è come se la fine del Novecento abbia provocato un lutto mai elaborato. Il Pd ha semplicemente rimosso quel passato. L’altra sinistra in quel passato è rimasta invischiata, limitandosi a contemplare attonita le macerie dei pilastri (Stato, Partito, Lavoro, tutti con la maiuscola) su cui si era fondata la sua tradizione novecentesca e incapace di trovare alternative alla dissoluzione di quella forma partito. Così, in attesa che si sviluppino le potenzialità intraviste nell’esperienza della lista Tsipras, si prospetta l’eventualità del vecchio gioco delle scissioni e delle fusioni, in un orizzonte che oggi guarda a Civati, domani a Bersani e poi ancora, forse, a D’Alema. Non un presagio rassicurante per il futuro.(Giovanni De Luna, “Un deserto a sinistra di Matteo”, da “La Stampa” del 25 ottobre 2014).Il conflitto tra il governo e la Cgil spalanca intere praterie a sinistra del Pd. E’ la conseguenza della scelta di Renzi di puntare sul partito pigliatutto, spostandosi verso il centro, inglobando gli uomini di Alfano ed esercitando una fortissima attrazione verso Forza Italia. Di fatto, il partito a vocazione maggioritaria tende a svuotare di senso il bipolarismo su cui si è fondata la Seconda Repubblica, dilatando gli spazi del “grande centro”, ma favorendo anche una radicalizzazione delle ali estreme del sistema politico. A destra questo è puntualmente avvenuto con il ritorno in campo della Lega; un sussulto difficile da prevedere dopo gli scandali che avevano segnato il tramonto di Bossi. Il partito di Matteo Salvini sembra in grado di intercettare i consensi dei transfughi del centrodestra berlusconiano (e di una composita galassia di ex fascisti) rilanciando l’immagine conflittuale della Lega degli esordi (quando legò le sue fortune alla lotta contro i meridionali, contro il fisco, contro il centralismo statale) nel contesto di una crisi economica che, rispetto agli anni ‘80 del tumultuoso successo del movimento di Bossi, ha accentuato in maniera dirompente le tensioni e lo scontro sociale.
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Complici del massacro sociale, e ora contestano Renzi?
Da almeno trent’anni, il copione è sempre o stesso: per revocare diritti e conquiste sociali è necessaria la piena complicità di quella sinistra che nel dopoguerra aveva lottato per il welfare, cioè per l’estensione orizzontale del benessere. Il grande capitale finanziario e oligarchico utilizza partiti e sindacati di cui la gente è abitutata a fidarsi – chi meglio di loro? Dunque non devono più combattere contro le riforme strutturali, destinate a demolire la struttura dell’economia sociale. E in più devono collaborare pienamente all’erosione della società dei diritti, che oggi culmina con l’attacco storico alla Costituzione democratica. Attraverso il famigerato memorandum di Lewis Powell, la destra economica statunitense aveva dettato la linea già all’inizio degli anni ‘70: radere al suolo in tutto l’Occidente la sinistra radicale e addomesticare la sinistra riformista, letteralmente “comprando” i suoi leader per ottenere la smobilitazione di partiti e sindacati. Detto fatto. E quindi che senso ha, oggi, protestare contro Renzi dopo essersi piegati per decenni ai peggiori diktat?E’ stato il centrosinistra guidato dai tecnocrati a consegnare gli italiani all’euro-sistema, massima espressione della fine dei diritti, condannando il paese alla crisi: non c’è più “benzina” per le politiche sociali, perché Maastricht – revocando la sovranità monetaria – ha prosciugato le casse dello Stato, costretto a svendere prima i servizi pubblici e poi il sistema-paese, le aziende e le tecnologie, i risparmi, i giovani talenti. Tutto travolto dal taglio della spesa pubblica, che fa crollare anche l’economia privata fondata sui consumi. Dov’èra, Susanna Camusso, mentre tutto questo accadeva? Se lo domanda Giorgio Cremaschi, già leader della Fiom, di fronte al tardivo soprassalto di orgoglio esibito dalla Cgil dopo la rottamazione forzata della repubblica dei lavoratori, il Jobs Act renziano. «In questi decenni – scrive Cremaschi su “Micromega” – il principale sindacato italiano da un lato è stato l’attore sociale della sinistra, perfettamente collaterale al Pd, dall’altro ha ripetutamente tentato un patto dei produttori con l’impresa, per agire di concerto con essa rispetto al potere politico. Entrambi questi capisaldi della strategia della Cgil ora franano clamorosamente e il suo gruppo dirigente non sa letteralmente che fare».Nessuna mobilitazione di piazza, dice Cremaschi, riuscirà a chiarire dove si sta andando, «perché la rivoluzione reazionaria di Renzi si combatte non solo rompendo con le sue manifestazioni estreme, ma anche con le ragioni e con il percorso che ad essa ci hanno portato». Il governo Renzi? «Lo potremmo chiamare il governo Renzi-Marchionne, almeno per quel che riguarda il lavoro». Rappresenta «l’ultimo e più intelligente tentativo delle classi dirigenti italiane ed europee di imporre da noi le politiche liberiste che hanno distrutto la Grecia». Intelligente, certo, «perché si è capito che la pura brutalità dei diktat della Troika alla lunga non paga: per questo le politiche liberiste oggi devono essere accompagnate o addirittura precedute da cambiamenti politici e culturali che rendano accettabile o persino condivisibile l’accentuazione delle già così esplosive diseguaglianze sociali». Niente di nuovo: «Per fare questo non basta la destra tradizionale, bisogna occupare il campo della sinistra e portare la parte più grande di essa a sostenere politiche più a destra della destra tradizionale». Questo è il renzismo, dice Cremaschi. Ma è anche – alla lettera – l’applicazione della dottrina di Lewis Powell contro i lavoratori.In Italia, secondo Cremaschi, siamo di fronte all’ultima versione «di quel trasformismo politico che nella storia del nostro paese è sempre partito dalla mutazione genetica della sinistra». Ma il fenomeno non è certo un’esclusiva del made in Italy: in Gran Bretagna provvide Tony Blair, il maestro di Renzi, a far piazza pulita di quel po’ di sinistra laburista che era sopravvissuta a Margaret Thatcher. In Germania, la patria della socialdemocrazia europea, la Spd fu suicidata dal cancelliere Gerhard Schroeder, l’uomo che fece storici sconti alla Russia per poi ottenere un ingaggio miliardario dalla Gazprom come super-consulente. Proprio Schroeder varò le micidiali riforme strutturali ispirate dal boss della Volkswagen, Peter Haartz, che comprò – corrompendoli – i leader sindacali dell’azienda, perché tradissero i lavoratori che si fidavano di loro. In Francia, l’eclissi della sinistra raggiunse caratteri mostruosi col monarca finto-socialista Mitterrand: fu lui, il massimo architetto politico dell’euro-regime, a inoculare il virus letale dell’austerity nello Stato europeo, proiettando micidiali tecnocrati – da Jacques Delors a Jacques Attali – al vertice del nuovo super-potere di Bruxelles, da cui impartire le direttive che avrebbero trasformato la fiorente Europa nella “terra desolata” di oggi, ricattata dalle banche e devastata dalla recessione e della disoccupazione.In Italia, con Renzi, siamo agli spiccioli finali: «La cancellazione dell’articolo 18 ha il valore simbolico dell’abbattimento dell’ultima bandiera dell’uguaglianza e serve a rendere accettabili provvedimenti ben più immediatamente sostanziosi, come il via libera ai licenziamenti di massa dato alla ThyssenKrupp, o il regalo alla Confindustria della riduzione delle tasse sui profitti pagata con i ticket dei malati», scrive Cremaschi. «Abbiamo realizzato un sogno, ha detto Squinzi, mentre lavoratori e precari vivono nell’incubo». Ma la sceneggiatura è invariabile: la promozione della rovina non può procedere senza il pieno consenso dei leader dell’ex sinistra. «Un governo così sfacciatamente filopadronale – insiste Cremaschi – non poteva che nascere da una operazione culturale e politica che si accampasse e giustificasse nel Pd». Il governo Renzi? «Riassume trenta anni di politiche liberiste contro il lavoro e le conduce al punto estremo», rendendo palese «la doppia contraddizione della Cgil». La prima è la più evidente: «Il rapporto del primo sindacato italiano con il Pd sta diventando sempre più insostenibile, ma allo stesso tempo resta inscindibile».Il guaio è che la Cgil, con i suoi gruppi dirigenti, ha sinora avuto il Pd come referente istituzionale fondamentale: «Rompere con esso significherebbe praticare un mare aperto nelle relazioni politiche che fa paura». Imbarazzante, quindi, che con la Cgil si schierino esponenti Pd dell’area anti-renziana, come Stefano Fassina, che poi però restano «disciplinati nel votare la legge sul lavoro». Anche qui, nulla di originale: le più importanti manomissioni della legislazione del lavoro in Italia furono introdotte da esponenti del centrosinistra, primo fra tutti Tiziano Treu con l’omonimo “pacchetto” di riforme, poi sviluppato da Massimo D’Antona (governo D’Alema) a aggiornato da Marco Biagi, consulente del governo Berlusconi ma proveniente dalla sinistra socialista, come D’Antona poi barbaramente assassinato dalle “Nuove Br”. La loro “colpa”, agli occhi dei killer? Aver cercato di demolire lo Statuto dei Lavoratori, precarizzando l’impiego. E i sindacati dov’erano? Dalla stessa parte, ovviamente: tacevano, approvando in silenzio le norme padronali che avrebbero sottratto diritti un tempo intangibili.Un’acquiescenza tacita, mai interrotta. La Cgil oggi si oppone al Jobs Act, contesta Cremaschi, ma in questi trent’anni «ha sempre finito per accettare tutti i patti e i provvedimenti che hanno portato ad esso». Ultimi esempi: «La legge Fornero sulle pensioni e il primo attacco all’articolo 18 del governo Monti son passati tranquillamente». E se ora la Camusso si oppone alla legge-delega, «non fa certo altrettanto con quei Job Act diffusi che vengono definiti in accordi che riducono diritti e salario», da ultimi «l’accordo del 10 gennaio con la Confindustria sulla rappresentanza e alcuni pessimi contratti». Lo scatto d’orgoglio contro Renzi? Meglio tardi che mai. Ma non è sufficiente «né a fermare l’offensiva di un governo che le contraddizioni del sindacato ben le conosce ed usa, né tantomeno a invertire la tendenza al degrado delle condizioni di chi lavora». Perché tutto questo cambi, conclude Cremaschi, «è necessaria una rottura di fondo della Cgil con la linea politica e le pratiche sindacali di questi trenta anni. Ma di questo, al momento, non si vede alcuna traccia».Da almeno trent’anni, il copione è sempre o stesso: per revocare diritti e conquiste sociali è necessaria la piena complicità di quella sinistra che nel dopoguerra aveva lottato per il welfare, cioè per l’estensione orizzontale del benessere. Il grande capitale finanziario e oligarchico utilizza partiti e sindacati di cui la gente è abitutata a fidarsi – chi meglio di loro? Dunque non devono più combattere contro le riforme strutturali, destinate a demolire la struttura dell’economia sociale. E in più devono collaborare pienamente all’erosione della società dei diritti, che oggi culmina con l’attacco storico alla Costituzione democratica. Attraverso il famigerato memorandum di Lewis Powell, la destra economica statunitense aveva dettato la linea già all’inizio degli anni ‘70: radere al suolo in tutto l’Occidente la sinistra radicale e addomesticare la sinistra riformista, letteralmente “comprando” i suoi leader per ottenere la smobilitazione di partiti e sindacati. Detto fatto. E quindi che senso ha, oggi, protestare contro Renzi dopo essersi piegati per decenni ai peggiori diktat?
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Lavoratori all’inferno: grazie a Renzi, ma anche alla Cgil
Lavoro garantito, lavoro precario, lavoro nero. Quello garantito deve sparire alla svelta, è un’anomia della storia: «Renzi e i suoi accoliti vogliono realizzare i “sogni” dei padroni neocapitalisti, unificando il mercato del lavoro italiano sotto il segno, non dei pesci, ma della precarietà fin dall’inizio della vita lavorativa», scrive Eugenio Orso. «La Cgil dell’orripilante Camusso, legata a doppio filo al Pd, deve obbligatoriamente fingere di opporsi e di tutelare gli iscritti, per trattenere tessere e consensi». Operazione che «puzza di bruciato», di contrapposizione solo mediatica che certo non fermerà “il nuovo che avanza”. Prima il contratto d’ingresso senza diritti per i nuovi assunti, e poi in futuro l’abolizione del tempo indeterminato anche per i “vecchi” lavoratori? «Non si può partecipare troppo apertamente al massacro: questo i vertici della Cgil lo sanno bene, perciò si oppongono alla riforma, a costo di passare per “conservatori”».Da molto tempo, scrive Orso in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, la propaganda sistemica giustifica lo smantellamento delle difese dei lavoratori e utilizza in modo subdolo i temi della precarietà e della disoccupazione, come se non fosse proprio il sistema ad aver diffuso precari e disoccupati. Oggi, al colmo dell’ipocrisia, con Renzi si arriva a denunciare la “spaccatura” nel mercato del lavoro italiano, «una tripartizione che genera squilibri e ingiustizie sociali, non producendo alcun effetto positivo per la produzione, i redditi e i consumi». Resiste una quota di lavoro ancora “garantito”, tutelato dalla legge e dallo Statuto dei Lavoratori degli anni ‘70, ma «sta diventando sempre di più l’ultima “ridotta”, particolarmente nel pubblico impiego, dei diritti e delle tutele concesse ai lavoratori». Secondo Orso «è destinato progressivamente a scomparire, perché troppo “oneroso”, sia in termini di costi, sia in termini di “privilegi” concessi ai lavoratori protetti, in ossequio agli interessi degli agenti strategici neocapitalistici, ben tutelati dai loro servitori politici locali».Il lavoro stabile è stato il bersaglio di attacchi continui e reiterati (da Sacconi, Brunetta e Renzi), e addirittura di insulti e di criminalizzazione (Ichino e i “nullafacenti” della pubblica amministrazione). L’impiego garantito e a tempo indeterminato «è contrario all’ideologia neoliberista dominante e, per tale motivo, deve essere portato a estinzione». Spiega Orso: «La stabilità del lavoro e le garanzie offerte dal comunismo, dal fascismo e dal keynesismo postbellico non appartengono in alcun modo alla liberaldemocrazia di mercato, espressa dal grande capitale finanziario». Così il lavoro è diventato sempre più «precario, flessibile, interinale», introdotto ufficialmente in Italia nella seconda metà degli anni ‘90 e dilagato progressivamente nei Duemila, «figlio naturale del cosiddetto toyotismo». Dal “just in time”, varato negli anni ‘70 dalla Toyota per razionalizzare le scorte, si è deciso di estendere il “toyotismo” e di pagare i lavoratori esclusivamente per il tempo di lavoro, utilizzando il “servizio lavorativo” quando necessario per esigenze produttive.«Da questo punto di vita, chiaramente economico e di organizzazione della produzione – continua Orso – l’imposizione del lavoro precario mira a razionalizzare l’uso del fattore-lavoro comprimendone all’estremo i costi, come nel caso delle materie prime, dei pezzi da assemblare, delle scorte, dei semilavorati». A questo punto, «è chiaro che il precario non è un cittadino, nel mondo neocapitalistico, ma soltanto l’anonimo prestatore di un servizio lavorativo, che si tende a pagare sempre meno». Quella dell’imposizione di soli contratti a termine e precari, «in un progressivo e rapido evaporare dei diritti», è la strada scelta «dagli agenti strategici neocapitalistici per l’Italia, ed è esattamente la consegna che hanno dato ai lacchè subpolitici, come Matteo Renzi». Infine – terza categoria – resta il lavoro nero, cioè «senza oneri contributivi e prelievi fiscali, senza alcuna garanzia e diritto». Di fatto, «realizza il massimo della flessibilità-precarietà del lavoratore, alimenta l’evasione e garantisce un significativo risparmio di costi». Col declino industriale e la disoccupazione galoppante, però, «anche il lavoro nero entra in crisi, riducendosi il numero degli occupati, non pagando i lavoratori e aumentandone lo sfruttamento».Se questa è la situazione, conclude Orso, ecco invece che Renzi «spergiura di voler rinnovare il mercato del lavoro dalle fondamenta, introducendo un nuovo contratto d’ingresso che partirebbe da una condizione di precarietà per arrivare alle chimeriche tutele». Il Rottamatore «dichiara di voler semplificare e di voler estendere le opportunità di lavoro anche a chi oggi ne è escluso». Ma sono «dichiarazioni chiaramente mendaci», dal momento che «nascondono l’unico esito possibile della riforma: rendere il lavoro precario contrattualizzato assolutamente prevalente». La Cgil, messa con le spalle al muro, non può approvare il “piano lavoro” renziano apertamente: «Deve fingere di attaccarlo, deve contestarlo con enfasi e risonanza mediatica». Per questo «si erge a difesa di quel vecchio simulacro che ormai è diventato lo Statuto dei Lavoratori, che ancora sbarra la strada, con l’articolo 18, ai sogni liberisti, europeisti “alla Benigni”, occidentali, di libertà, cioè, nel concreto, alla realizzazione di una precarietà assoluta e generale».Sicché, quello tra Renzi e Camusso è «uno scontro fra “parenti serpenti”, disposti a coprirsi a vicenda di contumelie, a fronteggiarsi tirandosi piatti e soprammobili ma uniti da vincoli “di sangue” e di appartenenza». Più che altro, è «l’ennesima recita infarcita di imbrogli, finzione e malafede, per truffare gli italiani». Dal canto suo, Renzi la pensa esattamente come i boss dell’élite tecno-finanziaria, da Draghi a Juncker alla Lagarde, «a lui ideologicamente affini», anche se «nega di aver in mente Margaret Thatcher quando si parla del lavoro». Infatti, aggiunge Orso, «possiamo scommettere che non incontrerà una resistenza sanguinosa come quella opposta alla Thatcher dai minatori britannici di Arthur Scargill, dal 1984 al 1985». Al più, sulla strada di Renzi spunteranno «le blande resistenze di maniera della Cgil all’abolizione dell’articolo 18». Il premier dichiara di pensare a “Marta”, piccola fiammiferaia precaria, e a tutti i giovani a quali in questi anni non ha pensato nessuno. Giovani «condannati a un precariato a cui il sindacato ha contribuito», peraltro, «preoccupandosi soltanto dei diritti di qualcuno e non dei diritti di tutti».Nuove regole per ciascuno, dice Renzi, per incoraggiare investimenti produttivi stranieri: verranno le multinazionali a dare un lavoro a chi non ce l’ha. Peccato che, a quel punto, «il lavoro sarà debitamente flessibilizzato, offerto a prezzi stracciati e a condizioni di semi-schiavitù». Renzi è felice, come ha dichiarato più volte, se i grandi squali “investono” in Italia, facendo lo shopping di aziende a prezzi di fine stagione, anche se poi chiudono e spostano le produzioni in Estremo Oriente o nell’Europa dell’Est. E ai sindacati che vogliono contestarlo, Camusso e Landini, il Rottamatore dice: dove eravate in questi anni quando si è prodotta la più grande ingiustizia che ha l’Italia? L’ingiustizia tra chi il lavoro ce l’ha e chi non ce l’ha, tra chi ce l’ha a tempo indeterminato e chi è precario. E soprattutto tra chi non può neanche pensare a costruirsi un progetto di vita, perché si è pensato soltanto a difendere le battaglie ideologiche e non i problemi concreti della gente. Sono i diritti di chi non ha diritti che ci interessano, e noi li difenderemo in modo concreto e serio.«Commovente: i diritti di chi non ha diritti», chiosa Orso. «Una frase di sicuro effetto, alla Papa Francesco». Così, “per difendere gli ultimi”, si abolisce la tutela dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori per i nuovi assunti “a tutele crescenti”, «in modo tale che l’ingresso nel mondo del lavoro sia sempre e comunque precario». A questo, forse, non aveva pensato neppure Marco Biagi, il giuslavorista assassinato dalle “nuove Br”. Da consigliere ministeriale, «ha contribuito a inoculare il virus della precarietà nella società italiana». Renzi sarà altrettanto efficace? «Su una cosa, però, ha ragione l’imbonitore fiorentino, in polemica strumentale con la Cgil», conclude Orso: «Ciò che è accaduto ai lavoratori negli ultimi decenni, tutte le ingiustizie che hanno subito, portano anche la firma dei sindacati, che hanno favorito, in modo più o meno scoperto – scopertamente la Cisl, più subdolamente la Cgil e ancor più nascostamente la Fiom – la “discesa negli inferi” neoliberista del lavoro, siglando contratti-truffa e accordi-capestro, avallando riforme antipopolari, facendo carne di porco persino dei loro iscritti».Lavoro garantito, lavoro precario, lavoro nero. Quello garantito deve sparire alla svelta, è un’anomia della storia: «Renzi e i suoi accoliti vogliono realizzare i “sogni” dei padroni neocapitalisti, unificando il mercato del lavoro italiano sotto il segno, non dei pesci, ma della precarietà fin dall’inizio della vita lavorativa», scrive Eugenio Orso. «La Cgil dell’orripilante Camusso, legata a doppio filo al Pd, deve obbligatoriamente fingere di opporsi e di tutelare gli iscritti, per trattenere tessere e consensi». Operazione che «puzza di bruciato», di contrapposizione solo mediatica che certo non fermerà “il nuovo che avanza”. Prima il contratto d’ingresso senza diritti per i nuovi assunti, e poi in futuro l’abolizione del tempo indeterminato anche per i “vecchi” lavoratori? «Non si può partecipare troppo apertamente al massacro: questo i vertici della Cgil lo sanno bene, perciò si oppongono alla riforma, a costo di passare per “conservatori”».
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Renzi trucca le carte, meno rigore solo per Confindustria
Renzi archivia Monti e Letta, proni all’euro-rigore, ma lo fa “da destra”: all’autismo suicida dell’euro oppone l’antica ricetta del neoliberismo, senza il coraggio di rompere con la prigione della moneta unica. E intanto trucca le carte, per tentare di imbrogliare Angela Merkel. «E’ noto come Mussolini usasse spostare di continuo i pochi e inefficienti carri armati di cui disponeva per far credere a tutti, e a Hitler in particolare, di avere un esercito ben più potente della misera realtà che la guerra dimostrerà ben presto». Passano gli anni, ma certi vizi restano: «Al posto dei carri armati ci sono ora i miliardi di una manovra economica che ha la stessa credibilità dell’esercito mussoliniano», sostiene Leonardo Mazzei. «Allora Hitler non si fece certo impressionare dal suo alleato italiano, tanto ambizioso quanto subordinato nei fatti». La Merkel? Vedremo. «Ma il “cambiare verso” all’Europa è ormai soltanto un ricordo a cui nessuno più crede». Il prestigiatore Renzi ha da tempo superato il “maestro” Berlusconi, con una finanziaria che doveva essere di 20 miliardi, poi 30, anzi 36.Numeri inventati, replica Mazzei: basta sfogliare le tabelle ufficiali del governo, che parlano di 16,1 miliardi in entrata e 13,2 in uscita. Semplici trucchi contabili, sostiene Mazzei su “Sollevazione”, che consentono a Renzi di arrivare «alla fantasiosa cifra di 36 miliardi, sparati a tutto volume per far credere che la sua sia una manovra largamente espansiva, quando invece non c’è una sola voce di incremento degli investimenti pubblici, quando le misure per il rilancio dei consumi sono più che misere, mentre le riduzioni fiscali sono rivolte soprattutto a lorsignori». Ma la finanziaria di Renzi non è fatta solo di annunci e trovate propagandistiche: ha anche una precisa matrice ideologica, è una finanziaria liberista e confindustriale. «Uno dei dogmi del neoliberismo è quello che si fonda sull’equazione: meno spese + meno tasse = crescita. Naturalmente, per i neoliberisti le spese da tagliare sono innanzitutto quelle sociali, mentre le tasse da decurtare sono principalmente quelle dei ricchi. Tradotto in termini “filosofici”, l’idea è che non debbano esserci (Monti docet) “pasti gratis” per nessuno. Viceversa, la tassazione dovrà essere ridotta soprattutto alle aziende e alle fasce più ricche, quelle che possono investire e consumare maggiormente».Renzi esegue: la parte del leone nel capitolo entrate è rappresentato dai tagli alla spesa pubblica, mentre la più importante novità in materia fiscale è costituita dal taglio dell’Irap, una misura di cui beneficeranno soprattutto le aziende più grandi, quelle con molti dipendenti, come ammette esultante il “Sole 24 Ore”. E chi beneficerà della fiscalizzazione degli oneri sociali? «Sempre i soliti noti, dato che le grandi aziende hanno quasi tutte una quota di lavoratori a tempo determinato, una parte dei quali passano via via, per le stesse esigenze aziendali, a tempo indeterminato». Quel passaggio ora frutterà un guadagno di circa 25.000 euro a lavoratore. Un giusto incentivo alla stabilizzazione del rapporto di lavoro? «Peccato che esso avvenga in parallelo all’introduzione del Jobs Act, che di fatto precarizza anche i contratti in teoria più stabili». E in ogni caso i quasi 2 miliardi previsti ricadranno sulla fiscalità generale, dunque sulle tasche dei soliti cittadini, mentre il minor gettito dell’Irap costringerà le Regioni a nuove tasse o a dolorosi tagli alla sanità, cioè «ospedali chiusi, meno infermiere, esami diagnostici rimandati a quando non servono più, ticket più cari».Lo ha ammesso lo stesso Padoan: le Regioni «potranno aumentare le tasse», agendo sull’addizionale Irpef, e i Comuni faranno la stessa cosa rincarando Imu e Tasi. «Qui siamo semplicemente di fronte a uno scaricabarile dal governo centrale a danno delle autonomie locali». Quanto alle “rendite finanziarie”, sale dall’11,5 al 20% la tassazione sulle pensioni integrative: vero, sono servite soprattutto come alibi per demolire quelle pubbliche, ma ad esserne colpiti saranno quei lavoratori rassegnati a pagarsi anche una pensione privata come «unica alternativa a una vecchiaia da fame». Infine c’è il Tfr, l’ultima trovata propagandistica di Renzi: «Qui la truffa fiscale è completa e garantita a 360 gradi», perché l’offerta di disponibilità mensile della quota Tfr in busta paga serve solo a «nascondere il persistente calo del salario reale, al quale il governo (vedi il Jobs act) lavora alacremente». In cosa consiste la truffa? «Semplice, dal 2015 i lavoratori avranno tre possibilità: mantenere il Tfr così com’è, farselo versare in busta paga, versarlo in un fondo pensione integrativo». Nel primo caso avranno una tassazione della rivalutazione annuale aumentata dall’11 al 17%, nel secondo non solo rinunceranno alla rivalutazione ma si ritroveranno con aliquote fiscali (quelle Irpef ordinarie) assai più alte del trattamento previsto per il Tfr, e nel terzo si vedranno applicare una tassazione quasi raddoppiata rispetto all’attuale.Quindi, la riduzione della pressione fiscale per le fasce popolari è sostanzialmente una bufala, solo parzialmente compensata dai famosi “80 euro”, limitata peraltro solo ai lavoratori dipendenti, esclusi pensionati e lavoro autonomo. Ed ecco spiegata l’insolita gioia di Confindustria per la manovra renziana. Ma si tratta, ancora e sempre, di una manovra recessiva, sottolinea Mazzei. Il presupposto è fragile: i “regalini” ai soliti noti dovrebbero spingerli a investire, producendo crescita e occupazione. Facile immaginare che – a fronte del protrarsi della crisi – la pressione fiscale aumenterà ancora, «magari dispersa nelle mille forme delle tassazioni comunali e regionali». Ma se anche i 15 miliardi di tagli previsti corrispondessero a tagli equivalenti delle tasse, «avremmo un effetto negativo sul Pil di quasi un punto percentuale». Secondo il Fmi, infatti, «per ogni miliardo di taglio alle spese si ha una contrazione del Pil di 1,3 miliardi», mentre «la parallela riduzione fiscale di un miliardo dà invece solo una crescita di 0,3 miliardi».Ne consegue, all’ingrosso, che «per ogni miliardo di tagli si abbia una riduzione equivalente (sempre di 1 miliardo) del Pil», dunque «anche nel 2015 avremo un Pil col segno meno». E il governo «lo sa benissimo». Matematico: «Se la spesa pubblica cala, se quella delle famiglie non potrà certo riprendersi, se gli investimenti pubblici e privati rimangono in calo, pensiamo forse che la luce potrà accendersi solo grazie alle esportazioni?». Nell’idea mercantilista – il modello tedesco – le cose potrebbero in teoria funzionare, ma in pratica non è così: perché i venti di crisi spirano anche fuori dall’Europa, e perché l’euro ha imposto all’Italia un deficit di competitività verso il suo principale competitor, la Germania. «Detto in altre parole, nell’euro non c’è posto per due Germanie. C’è posto, semmai, soltanto per alcune appendici purché subordinate all’economia tedesca». Ma allora, in cosa spera l’ipercinetico Renzi?A differenza di Monti e Letta, il nuovo premier «non appare affatto succube della Merkel», interpretando un liberismo non “targato” Berlino. «E’ normale dunque che Renzi non venga percepito come un servo dell’eurocrazia di Bruxelles». Con l’euro e l’Ue, però, si può “rompere” in vari modi, da destra o da sinistra: nell’interesse delle classi popolari o in quello dei pescecani della finanza, in nome dell’uguaglianza e dei diritti sociali o in quello delle virtù del mercato. E’ dunque neoliberista la critica che Renzi oppone all’eurocrazia austeritaria. La sua manovra? «Non è espansiva come si vorrebbe far credere, ma di certo non è neppure quella che avrebbe voluto la Commissione Europea», perché contiene comunque più deficit e «un netto smarcamento rispetto al tradizionale rigorismo europeo in materia di conti pubblici», in linea con la Francia.«La verità è che lo scontro è iniziato», dice Mazzei, e gli interessi tra i principali paesi europei «sono troppo confliggenti per trovare una vera composizione». Al tempo stesso, «manca ai protagonisti la caratura necessaria per affrontare a viso aperto l’indispensabile processo di uscita dalla moneta unica». Sul versante italiano, questa palese contraddizione ha prodotto una finanziaria che non è né carne né pesce: «E’ così che si spiega il parto di un mostriciattolo ancora recessivo, ma non sufficiente a placare il rigorismo del triangolo della morte Berlino-Francoforte-Bruxelles». Il problema per la triade Merkel-Draghi-Juncker è che «le finanziarie italiana e francese mettono in discussione alla radice (e non solo per il 2015) il Fiscal Compact, vero architrave di quella convergenza dei debiti senza la quale non potrà esservi nessuna unione fiscale e di bilancio, decretando in questo modo la manifesta insostenibilità dell’euro».E su questo – aggiunge Mazzei – non solo i tedeschi, ma la suddetta triade al completo, non possono proprio mollare. Tanto più in considerazione della posta in gioco, «uno scontro non esclude momenti di tregua e di pace armata». Ma una eventuale provvisoria “quadratura del cerchio” «sarà solo il preludio ad uno scontro ben più aspro, quello che porterà alla definitiva resa dei conti». Problema: chi giocherà quello scontro? «Sarà solo interno al blocco dominante, o vedrà finalmente il protagonismo delle classi popolari e quello di una soggettività politica in grado di guardare più avanti, ad una prospettiva di sganciamento dal capitalismo-casinò? Questa è la posta in gioco».Renzi archivia Monti e Letta, proni all’euro-rigore, ma lo fa “da destra”: all’autismo suicida dell’euro oppone l’antica ricetta del neoliberismo, senza il coraggio di rompere con la prigione della moneta unica. E intanto trucca le carte, per tentare di imbrogliare Angela Merkel. «E’ noto come Mussolini usasse spostare di continuo i pochi e inefficienti carri armati di cui disponeva per far credere a tutti, e a Hitler in particolare, di avere un esercito ben più potente della misera realtà che la guerra dimostrerà ben presto». Passano gli anni, ma certi vizi restano: «Al posto dei carri armati ci sono ora i miliardi di una manovra economica che ha la stessa credibilità dell’esercito mussoliniano», sostiene Leonardo Mazzei. «Allora Hitler non si fece certo impressionare dal suo alleato italiano, tanto ambizioso quanto subordinato nei fatti». La Merkel? Vedremo. «Ma il “cambiare verso” all’Europa è ormai soltanto un ricordo a cui nessuno più crede». Il prestigiatore Renzi ha da tempo superato il “maestro” Berlusconi, con una finanziaria che doveva essere di 20 miliardi, poi 30, anzi 36.
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Renzi, ovvero: la sinistra fa ciò che la destra minaccia
«La destra fa ciò che la sinistra promette», recitava negli anni Ottanta una pubblicità. Era quella di un amaro, che trasformava gente comune in testimonial del prodotto, con frasi a effetto. Una simpatica provocazione. Ma oggi, nell’Era Renzi, «possiamo capire quanta verità vi fosse in quello slogan», dice Angelo d’Orsi. «Basta rovesciarlo: “La sinistra fa ciò che la destra minaccia”». Il già sindaco fiorentino, poi leader del Pd e subito dopo capo del governo nazionale, «continuando a conservare quella poltrona da cui comanda caporalescamente il partito», sta realizzando il pacchetto delle “riforme” che, «come recita un mantra insopportabile, “l’Europa ci chiede”». Riforme? «Sono le stesse che aveva provato a portare avanti l’ex cavalier Berlusconi, incontrando sul suo cammino ben altri ostacoli: non solo il sindacato, a dispetto della corrività di Cisl e soprattutto Uil, ma una larga parte del Partito Democratico. E una vastissima opposizione sociale». Ora, finalmente al potere e avendo con sé i 4/5 del suo partito, Renzi «procede spedito verso la Terza Repubblica».Lo stile è tutto, scrive d’Orsi su “Micromega”, e la smart-politics del giovinotto in camicia bianca, «che mangia e distribuisce coni-gelato, che si rovescia in testa secchiate d’acqua», tra «battute che oscillano dalla noncuranza ostentata alla minaccia neppur velata», dicono molto del contenuto della sua politica, tradotta nell’“agenda” – quella dei 100 giorni, poi dei 1.000 giorni e infine chissà, «dell’intero millennio, una volta realizzata la base di questa orrenda “nuova Italia” che costui vorrebbe costruire». Una Italia forgiata a colpi di tweet lunghi 140 caratteri, un paese che deve archiviare “la cultura del piagnisteo”. Ostentato e reiterato ottimismo di facciata: anche in questo, il giovin Matteo si rivela berlusconiano. E l’insistenza sul tasto “ridurremo le tasse” – proprio mentre la pressione fiscale aumenta – è nel cuore della politica degli annunci, da Silvio a Matteo. «Tutti ricorderanno come nei mesi scorsi il Nostro abbia ripetutamente irriso i gufi, coloro che “frenano”, mentre una della sue fedelissime, la più nota delle bionde Renzi-girls, è diventata celebre per la battuta contro i “professoroni”, immancabile segnale di ogni forma di cultura parafascista».Qualsivoglia accenno di dissenso, continua d’Orsi, «viene bollato per tradimento del progetto patriottico: siamo alla campagna contro i “disfattisti” che in seno alla Prima Guerra Mondiale ne fu uno dei portati più nefasti». Il fascismo storico? «Fu la più tragica delle sue conseguenze». Ma non usa solo il tasto imperioso, il nuovo astro della politica nazionale: «Pretende di sommare la sagacia politica di un Cavour e la temerarietà di un Garibaldi, il decisionismo di Craxi e il battutismo di Berlusconi, per realizzare il suo “sogno”, parola che ricorre spesso nell’eloquio del Capo». Retorica combinata «con un beffardo sarcasmo da quattro soldi, che riesce a raggiungere vette inquietanti, da piccolo duce». Siamo passati dal volgare «Fassina chi?», rivolto al suo compagno di partito nonché membro di governo, all’irridente «brrr…, che paura!», in risposta alle riserve espresse dall’Anm, l’associazione nazionale magistrati, sul progetto di “riforma della giustizia”. Brr… che paura? «Suona semplicemente mussoliniano».«Dietro il simpatico ragazzo tutto pepe – continua d’Orsi – affiora nei momenti cruciali il bulletto di quartiere, con ambizioni smodate». Messaggio chiaro: a nessuno sarà permesso di ostacolare la sua irresistibile marcia. «Il governo va avanti», ripete. «Non ci lasciamo intimidire», dice, rivolto alle proteste degli agenti di polizia. «Non ci fermeranno». «Nelle orecchie risuona il famigerato “Noi tireremo diritto”», scrive d’Orsi. «In questo stile che rivela la peggiore eredità di Craxi e di Berlusconi fuse insieme, ma immessa nel corpo della forza politica che era stata la principale avversaria dell’uno come dell’altro, ciò a cui stiamo assistendo è un processo di evidenza purtroppo chiarissima: ciò che il barzellettiere di Arcore, con la sua piacioseria grottesca, con le pacche sulle spalle (maschili) e quelle sui culi (femminili) aveva annunciato, per un ventennio, senza riuscire ad attuarlo in nulla (salvo la “riforma Gelmini”, che infatti ha distrutto il sistema universitario), è finalmente in corso d’opera, grazie al suo avversario politico, che, in effetti, ha con lui concordato ogni punto sostanziale del programma».Patto del Nazareno: «Un programma di devastazione dell’impianto istituzionale della democrazia italiana e del welfare state, che è poi il cuore della “postdemocrazia”: il punto centrale di ogni disegno di “cambiamento”». Tradotto: «Eliminare garanzie, sottrarre diritti, ridurre margini di azione a chi la pensa diversamente, confinare in ghetti le residue opposizioni, e soprattutto togliere di mezzo quel fastidioso ostacolo che è la Costituzione repubblicana». E quindi: «Lavoro, scuola, giustizia, infrastrutture, difesa, cultura, politica estera». Il programma del governo Renzi? «E’ solo l’aggiornamento e lo sviluppo del programma degli esecutivi precedenti, da Berlusconi ai pallidi governi Monti-Letta». Proprio vero, allora: “La sinistra (italiana) fa ciò che la destra minaccia”. «Dal che si ha l’estrema, mesta conferma che il Pd oggi è una forza politica organicamente di destra», chiosa d’Orsi. Quindi, bisogna sapere che «qualsiasi ipotesi di politica alternativa» non può più pensare a un dialogo con quello che fu “il partito di Gramsci, Togliatti e Berlinguer”. Alternativa radicale? Buio pesto: nel passato recente c’è solo «la vicenda desolante della “Lista Tsipras”», ennesimo “voto inutile” in memoria della sinistra che fu.«La destra fa ciò che la sinistra promette», recitava negli anni Ottanta una pubblicità. Era quella di un amaro, che trasformava gente comune in testimonial del prodotto, con frasi a effetto. Una simpatica provocazione. Ma oggi, nell’Era Renzi, «possiamo capire quanta verità vi fosse in quello slogan», dice Angelo d’Orsi. «Basta rovesciarlo: “La sinistra fa ciò che la destra minaccia”». Il già sindaco fiorentino, poi leader del Pd e subito dopo capo del governo nazionale, «continuando a conservare quella poltrona da cui comanda caporalescamente il partito», sta realizzando il pacchetto delle “riforme” che, «come recita un mantra insopportabile, “l’Europa ci chiede”». Riforme? «Sono le stesse che aveva provato a portare avanti l’ex cavalier Berlusconi, incontrando sul suo cammino ben altri ostacoli: non solo il sindacato, a dispetto della corrività di Cisl e soprattutto Uil, ma una larga parte del Partito Democratico. E una vastissima opposizione sociale». Ora, finalmente al potere e avendo con sé i 4/5 del suo partito, Renzi «procede spedito verso la Terza Repubblica».
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Oggi teorie cospirative, domani verità: lo dice la storia
Forse, la prima vera operazione “false flag” dell’epoca moderna fu “l’incidente di Gleiwitz”, provocato dai nazisti nel 1939 vicino alla frontiera orientale: indossate le uniformi dell’esercito polacco, unità delle SS attaccarono una stazione radio tedesca per poi dare la colpa alla Polonia. Durante il blitz, le SS trasmisero un breve messaggio di propaganda in polacco. Poi uccisero dei prigionieri di un campo di concentramento vestiti con uniformi polacche e li lasciarono sulla scena, per far apparire l’incidente come un atto di aggressione progettato da Varsavia. Il giorno successivo, quando la Germania invase il paese confinante dando inizio alla Seconda Guerra Mondiale, Hitler citò l’episodio come uno dei pretesti. Nove giorni prima dell’incidente, Hitler aveva detto ai suoi generali: «Provvederò a un casus belli per la propaganda. La sua credibilità non ha importanza. Al vincitore non verrà chiesto se ha detto la verità». Anche se il termine “teoria del complotto” è diventato un dispregiativo usato contro chiunque metta in discussione la versione ufficiale degli eventi, innumerevoli esempi in tutta la storia delle cospirazioni hanno confermato i peggiori sospetti.«L’idea che i governi e le agenzie di intelligence svolgano atti di terrorismo sotto falsa bandiera è stata a lungo derisa dai media del sistema come una teoria della cospirazione, nonostante ci sia una pletora di casi storicamente documentati». Paul Joseph Watson e Alex Jones ne citano almeno dieci, famosi o famosissimi. Come l’Operarazione Ajax, che nel 1953 rovesciò il governo di Mohammed Mossadeq in Iran. La Cia ha ammesso il proprio ruolo nel golpe solo dopo mezzo secolo, nel 2013. Bilancio dell’attività terroristica: almeno 300 civili uccisi. Altra clamorosa “false flag”, lo scontro navale dell’estate del 1964 nel Golfo del Tonchino, che fornì il pretesto per la guerra del Vietnam. Peccato che nessuno sparò mai un solo colpo di cannone contro la flotta statunitense. Eppure, il 4 agosto 1964, il presidente Lyndon Johnson andò in televisione e disse al paese che il Vietnam del Nord aveva attaccato delle navi americane: «I ripetuti atti di violenza contro le forze armate degli Stati Uniti devono ricevere una risposta», dichiarò.Il Congresso approvò subito la Risoluzione del Golfo del Tonchino, che fornì a Johnson l’autorità per condurre operazioni militari contro il Vietnam del Nord. Nel 1969, oltre 500.000 soldati stavano già combattendo nel sud-est asiatico. «Johnson e il suo segretario alla difesa, Robert McNamara, avevano ingannato il Congresso e il popolo americano», scrivono Watson e Jones in un post su “Infowars”, tradotto da “Come Don Chisciotte”. «In realtà, il Vietnam del Nord non aveva attaccato la Uss Maddox, come il Pentagono aveva sostenuto, e la “prova inequivocabile” di un “non provocato” secondo attacco contro la nave da guerra degli Stati Uniti era uno stratagemma». Interamente all’insegna della “false flag” fu l’Operazione Gladio, cioè «il terrore sponsorizzato dallo Stato e imputato alla sinistra». In piena guerra fredda, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Cia e la britannica Mi6 collaborarono assieme alla Nato nell’Operazione Gladio per creare un esercito clandestino, o “stay behind”, al fine di combattere il comunismo nel caso di una invasione sovietica dell’Europa occidentale. Ben presto, però, la rete difensiva anti-Urss si trasformò in un esercito terrorista incaricato di intimidire l’opinione pubblica dell’Europa occidentale.«Gladio – precisano Watson e Jones – trascese rapidamente la sua missione originaria e divenne una rete terroristica segreta composta da milizie di destra, elementi della criminalità organizzata, agenti provocatori e unità militari segrete». Le forze armate “stay behind” erano attive in Francia, Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Norvegia, Germania, e Svizzera. La “strategia della tensione”, quella che straziò l’Italia per due decenni, «venne progettata per far figurare i gruppi politici di sinistra europei come terroristici e per spaventare la popolazione, inducendola così a votare per governi autoritari». Dalla bomba di piazza Fontana a quella dell’Italicus, dai misteri del sequestro Moro (eseguito dalle Brigate Rosse ma “assistito” da una rete invisibile di protezione, anche all’insaputa degli stessi brigatisti), fino alla strage della stazione di Bologna: un retroterra torbido, popolato da servizi segreti molto opachi, infiltrati da organismi come la P2 di Licio Gelli, potente loggia massonica “deviata”, in collaborazione con gruppi neofascisti (Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale), impiegati come manovalanza per le stragi. In ultima analisi, rilevano Watson e Jones, l’Operazione Gladio «ha causato la morte di centinaia di persone in tutta Europa». Secondo Vincenzo Vinciguerra, ex terrorista di Gladio all’ergastolo per l’assassinio di un poliziotto, la ragione di “stay behind” era semplice: l’organizzazione era stata progettata «per costringere la gente, i cittadini italiani, a pretendere dallo Stato maggiore sicurezza. Questa è la logica politica che sta dietro tutte le stragi e gli attentati che restano impuniti, perché lo Stato non può condannare se stesso o dichiararsi responsabile di quanto è accaduto».Alla guerra segreta contro il regime comunista di Fidel Castro a Cuba appartiene invece l’Operazione Northwood: nell’ambito dell’Operazione Mangusta della Cia, «lo stato maggiore Usa propose all’unanimità di realizzare azioni terroristiche sponsorizzate dallo Stato all’interno degli Stati Uniti». Il piano, aggiungono Watson e Jones, «prevedeva l’abbattimento di aerei americani dirottati, l’affondamento di navi americane e l’uccisione di cittadini americani, a colpi di arma da fuoco, per le strade di Washington». Lo scandaloso piano «includeva anche lo scenario di un disastro alla Nasa, che prevedeva la morte dell’astronauta John Glenn». Il presidente John Fitzgerald Kennedy, ancora vacillante dopo l’imbarazzante fallimento della Cia per l’invasione di Cuba alla Baia dei Porci, «respinse il piano nel marzo del 1962». E pochi mesi dopo, lo stesso Kennedy «negò all’autore del piano, il generale Lyman Lemnitzer, un secondo mandato come militare di rango più alto della nazione». Poco dopo, nel novembre del 1963, Kennedy fu assassinato a Dallas, in Texas.Si chiama invece “Fast and Furious” l’operazione in cui «il governo Obama ha fornito armi ai signori messicani della droga con l’apparente scopo di seguirne le tracce al fine di distruggere le gang». Secondo Watson e Jones, «era in realtà parte di un piano cospirativo per demonizzare il secondo emendamento», cioè il diritto del cittadino americano di portare armi. I documenti ottenuti da “Cbs News” nel dicembre 2011 dimostrano che gli agenti speciali dell’Atf avevano discusso su come avrebbero potuto collegare le armi coinvolte nelle violenze in Messico ai negozianti di armi degli Stati Uniti, al fine di far approvare normative più restrittive sul controllo delle armi. Una fonte della polizia ha detto a “Cbs News” che le email indicano che l’Atf ha “montato” il caso, come parte di una manovra politica: «È come se l’Atf avesse creato o incrementato il problema, in modo da poter essere proprio lei a fornire la soluzione». Quanto alla droga, i narcos non sono solo messicani o colombiani: la stessa Cia «è stata implicata in operazioni di traffico di droga in tutto il mondo, anche a livello nazionale, in particolare durante l’affare Iran-Contras».«Con la benedizione della Cia», i miliziani che dall’Honduras contrastavano i guerriglieri di dinistra del Salvador e del Nicaragua «contrabbandarono negli Stati Uniti cocaina che venne poi distribuita come droga di prima qualità a Los Angeles, e i cui profitti furono poi versati ai Contras». Michael Ruppert, allora agente della polizia di Los Angeles, ha anche testimoniato di aveva assistito al traffico di droga della Cia. «I boss della droga messicani, come Jesus Vicente Zambada Niebla, hanno perfino dichiarato pubblicamente di esser stati ingaggiati dal governo Usa per operazioni di traffico di droga». Per Watson e Jones, «c’è un voluminoso corpo di prove che conferma che la Cia e i giganti bancari degli Stati Uniti sono i maggiori players in un commercio mondiale di droga del valore di centinaia di miliardi di dollari l’anno», come confermano anche le informazioni pubblicate da svariati osservatori, tra cui Gary Webb, su autorevoli blog d’inchiesta come “Prison Planet”. Banchieri e droga? Sì, e anche sigarette: secondo la Bbc, le aziende americane del tabacco sono state “prese con le mani nel sacco” nell’ingegnerizzare deliberatamente le “bionde”, additivandole con prodotti chimici che ne incrementano artificialmente la dipendenza. Per Clive Bates, direttore di “Ash” (Action on Smoking and Health), la scoperta ha messo alla luce «uno scandalo in cui le aziende del tabacco deliberatamente utilizzano additivi per rendere i loro dannosi prodotti ancora peggiori».Poi c’è lo sterminato capitolo dello spionaggio, fino alla sorveglianza di massa dell’National Security Agency. «Negli anni ‘90, quando gli attivisti anti-sorveglianza e i personaggi dei media stavano mettendo in guardia sulla vasta operazione di spionaggio della Nsa, vennero trattati come teorici paranoici della cospirazione», riordano Watson e Jones. «Ben più di un decennio prima delle rivelazioni di Snowden», l’agenzia di intelligence «era impegnata a intercettare e registrare tutte le comunicazioni elettroniche di tutto il mondo nel quadro del programma “Echelon”». Sorveglianza globale: “Echelon” era in grado di intercettare «ogni chiamata internazionale via telefono, fa, e-mail o trasmissione radio del pianeta». Nel 1999, il governo australiano ha ammesso di farvi parte, assieme a Stati Uniti e Gran Bretagna. In cabina di regia, già allora, c’era la Nsa. Un dossier del Parlamento Europeo risalente al 2001 afferma: «In Europa, tutte le comunicazioni e-mail, telefono e fax sono regolarmente intercettate», dall’agenzia smascherata da Snowden.Vastissimo, infine, il capitolo delle morti in apparenza accidentali. Non è solo cinema: nell’arsenale degli 007, anche il “dardo invisibile” che provoca l’infarto cardiaco. Ne parlò il Senato degli Usa già nel 1975, durante una testimonianza sulle attività illegali della Cia: «Fu rivelato che l’agenzia aveva sviluppato un’arma a dardi che causa un attacco di cuore». Nella prima udienza televisiva, svolta nella sala Caucus del Senato, intervenne Frank Church, senatore dell’Idaho e presidente della commissione d’inchiesta sul caso Watergate. «Church mostrò una pistola a dardi velenosi della Cia, rivelando così che la commissione era venuta a conoscenza del fatto che l’agenzia aveva violato un ordine presidenziale diretto, conservando uno stock di tossine di molluschi che sarebbe stato sufficiente a uccidere migliaia di persone», come conferma ancora oggi una pagina web del sito ufficiale del Senato statunitense. Il veleno penetra nel sangue e provoca l’arresto cardiaco. Al massimo, la vittima percepisce il fastidio di una puntura di zanzara. Veleno micidiale e invisibile: tutto ciò che resta è un puntino rosso sulla pelle. «Una volta che il danno è fatto, il veleno denatura rapidamente, in modo che nell’autopsia è molto improbabile rilevare che l’infarto è stato provocato da qualcosa di diverso da cause naturali».Forse, la prima vera operazione “false flag” dell’epoca moderna fu “l’incidente di Gleiwitz”, provocato dai nazisti nel 1939 vicino alla frontiera orientale: indossate le uniformi dell’esercito polacco, unità delle SS attaccarono una stazione radio tedesca per poi dare la colpa alla Polonia. Durante il blitz, le SS trasmisero un breve messaggio di propaganda in polacco. Poi uccisero dei prigionieri di un campo di concentramento vestiti con uniformi polacche e li lasciarono sulla scena, per far apparire l’incidente come un atto di aggressione progettato da Varsavia. Il giorno successivo, quando la Germania invase il paese confinante dando inizio alla Seconda Guerra Mondiale, Hitler citò l’episodio come uno dei pretesti. Nove giorni prima dell’incidente, Hitler aveva detto ai suoi generali: «Provvederò a un casus belli per la propaganda. La sua credibilità non ha importanza. Al vincitore non verrà chiesto se ha detto la verità». Anche se il termine “teoria del complotto” è diventato un dispregiativo usato contro chiunque metta in discussione la versione ufficiale degli eventi, innumerevoli esempi in tutta la storia delle cospirazioni hanno confermato i peggiori sospetti.