Archivio del Tag ‘democrazia’
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Scappare da Madrid? Ovvio: la storia della Spagna è feroce
Barcellona vorrebbe smarcarsi da Madrid ma non da Bruxelles, che deprime le autonomie nazionali, ma bisogna capire la rivolta contro il centralismo iberico, imposto sempre e solo con brutalità della peggior monarchia europea e poi dal franchismo, una dittatura persino più feroce di quella nazista. Lo afferma il politologo Aldo Giannuli, osservando la crisi catalana in precaria evoluzione, fra richieste di dialogo e minacce di repressione. «La questione catalana sembra essersi impantanata, ma emergono i primi segni di cedimento del fronte indipendentista», scrive Giannuli nel suo blog. «Non sappiamo come andrà a finire, ma l’episodio ha comunque una sua gravità». Giusta la pretesa di autodeterminazione e la rivendicazione di indipendenza, ma resta un problema non sciolto alla base, ovvero: chi è il soggetto titolare di questo diritto? E come delimitarlo? Se era puro delirio quello di Bossi sul “popolo padano”, in un Nord Italia rappresentato da piemontesi, liguri, emiliani e lombardo-veneti più milioni di meridionali e importanti minoranze anche linguistiche (valdostani, altoatesini, ladini, friulani e occitani), perché invece uno spagnolo dovrebbe pensarla diversamente, a proposito della Catalogna?«Certo il caso catalano è molto più definito, e il popolo catalano è una entità decisamente più omogenea e storicamente fondata del popolo padano, che non esiste», premette Giannuli. Ma questo “distinguo” potrebbe valere anche per i baschi, per gli andalusi o per i galiziani, «che hanno una identificabilità più o meno netta», a cominciare proprio dai baschi. E allora, si domanda lo storico dell’ateneo milanese, dov’è la soglia oltre la quale possiamo identificare un popolo-nazione demarcato rispetto agli altri? Ad applicare la formula di Pasquale Stanislao Mancini (comunità di lingua, di religione, di cultura, di storia) nessuno degli Stati nazionali oggi esistenti risulterebbe conforme ad essa, «e tantomeno nel tempo della globalizzazione, basato su un intenso nomadismo». Peraltro, aggiunge Giannuli, la costruzione dell’Unione Europea «ha indebolito fortemente sia i poteri che la legittimazione degli Stati nazionali, risvegliando antichi separatismi più o meno dormienti», anche se «quello catalano non è stato mai davvero dormiente». Di fatto, l’Ue «ha messo a nudo tutte le debolezze della costruzione dei vari Stati nazionali». In particolare, sottolinea Giannuli, «la Spagna non è mai esistita se non come dominio brutale della Castiglia su tutte le altre parti del paese».Brutta, l’architettura statuale iberica: «Una costruzione priva di ogni reale consenso e giustificata solo da un disegno imperiale, peraltro naufragato da secoli e sopravvissuto solo nell’immaginario legato ad una delle monarchie più squalificate d’Europa», sostiene Giannuli. «E’ sintomatico che le spinte indipendentiste si siano attenuate durante le due brevi parentesi repubblicane (1873-74 e 1931-39) quando si posero le basi di un ordinamento di tipo para-federalista». Al contrario, «il centralismo monarchico ha sempre ravvivato le spinte alla separazione». Anche lo Stato italiano è nato come prodotto dell’espansionismo sabaudo? Vero, ma con enormi differenze: il Risorgimento ebbe anche una componente democratica e repubblicana, poi battuta dal “partito moderato” di cui parla Gramsci. Blocco moderato che comunque «ebbe un ruolo che ha caratterizzato in parte lo Stato italiano». Nel caso spagnolo, invece non c’è traccia di questa spinta dal basso: nel XV secolo «tutto è stato deciso solo come conquista castigliana». Da noi, Torino cedette il ruolo di capitale: Firenze, poi Roma. Quello italiano «fu sempre un centralismo imperfetto», in equilibrio coi vari regionalismi.In Italia, continua Giannuli, hanno giocato un ruolo i mutevoli equilibri fra i diversi “partiti regionali”. «Ne è conseguito che il “partito moderato” ha sempre avuto caratteristiche più sociali (blocco delle classi possidenti, monarchia, esercito, burocrazia) che territoriali: l’esercito restava a lungo a preminenza piemontese ma la burocrazia divenne ben presto interregionale ed a centralismo romano, mentre le classi possidenti avevano la loro capitale nel sud (quelle agrarie) e in Lombardia, Toscana e Piemonte (quelle industriali e finanziarie)». Al contrario, in Spagna esiste un unico blocco sociale dominante, quello della Castiglia: e questo attizza i risentimenti regionali. Se quella dell’Italia è «una storia di tipo inclusivo», fondata sulla mediazione, la Spagna «viene da una storia terribile» basata sullo sterminio ricorrente: i Moriscos andalusi, i Marrani ebrei, il bagno di sangue della guerra civile. Ben raramente Madrid ha incluso e mediato, osserva Giannuli, denunciando il franchismo: «Contro l’immagine corrente, fu un fascismo non più moderato ma più feroce del nazismo». Hitler colpì i socialdemocratici e i comunisti, «ma cercò (e in buona parte riuscì) a riassorbire la base socialdemocratica e comunista nel suo sistema di consenso: nei campi di sterminio finirono ebrei, omosessuali, zingari, ma solo in minima parte comunisti e socialisti». Viceversa, il franchismo «procedette all’insegna della “limpieza”, pulizia non etnica ma politica e ideologica».La ferocia delle esecuzioni disgustò persino Galeazzo Ciano, ricorda Giannuli. E ancora dopo la fine della guerra civile, il regime del “caduillo” continuò per quasi 10 anni con la repressione, il cui conto finale è ignoto, ma si parla di 400.000 vittime. Cifra forse esagerata? Non importa: anche se le vittime sono state la metà o un quarto, bastano e avanzano a definire la guerra civile spagnola come «la più feroce della storia moderna d’Europa». E questo, conclude Giannuli, ha un peso anche sul presente: perché la storia, anche quella più lontana, non è mai priva di conseguenze, «a maggior ragione nel caso di un paese che non ha mai fatto i conti con il suo passato dittatoriale». In questa situazione oggi «arriva la globalizzazione, che dice che gli Stati nazionali non hanno più senso». E in Europa «questo si accompagna a uno sconclusionato disegno di unità continentale che, in realtà, è l’alleanza dei sistemi nazionali di potere nella loro staticità e trasferisce poteri ad un centro tecnocratico». E’ ovvio, annota lo storico, che questo «si traduce in una delegittimazione degli Stati nazionali, in una messa a nudo delle illegittimità dei loro sistemi di potere». Risultato: «Si producono irrefrenabili spinte centrifughe», come dimostra il caso di Barcellona.Barcellona vorrebbe smarcarsi da Madrid ma non da Bruxelles, che deprime le autonomie nazionali, ma bisogna capire la rivolta contro il centralismo iberico, imposto sempre e solo con brutalità della peggior monarchia europea e poi dal franchismo, una dittatura persino più feroce di quella nazista. Lo afferma il politologo Aldo Giannuli, osservando la crisi catalana in precaria evoluzione, fra richieste di dialogo e minacce di repressione. «La questione catalana sembra essersi impantanata, ma emergono i primi segni di cedimento del fronte indipendentista», scrive Giannuli nel suo blog. «Non sappiamo come andrà a finire, ma l’episodio ha comunque una sua gravità». Giusta la pretesa di autodeterminazione e la rivendicazione di indipendenza, ma resta un problema non sciolto alla base, ovvero: chi è il soggetto titolare di questo diritto? E come delimitarlo? Se era puro delirio quello di Bossi sul “popolo padano”, in un Nord Italia rappresentato da piemontesi, liguri, emiliani e lombardo-veneti più milioni di meridionali e importanti minoranze anche linguistiche (valdostani, altoatesini, ladini, friulani e occitani), perché invece uno spagnolo dovrebbe pensarla diversamente, a proposito della Catalogna?
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Bagnai: il grillismo è una religione, funzionale al potere Ue
Elaborare il lutto, dopo aver scoperto di aver votato ancora una volta per il partito sbagliato? Impossibile, purtroppo: non ce la faranno, ad ammettere l’errore. Lo sostiene l’economista Alberto Bagnai, a proposito della delusione che starebbe invadendo milioni di elettori del Movimento 5 Stelle, inizialmente entusiasti del giustizialismo moralista grillino. «Quella dei 5 Stelle è una religione», dichiara Bagnai, a colloquio con Claudio Messora su “ByoBlu”. Ammette Bagnai: «Io stesso scelsi i 5 Stelle, nel 2013, ma in modo strumentale: volevo votare contro Bersani, specie dopo l’appello pubblico di Eugenio Scalfari che chiedeva di boicottare Grillo». Autocritico, l’economista di “Goofynomics”, anche sul sistema elettorale maggioritario: «All’epoca votai a favore, ma oggi me ne pento e anzi me ne vergogno: anziché l’alternanza destra-sinistra, il maggioritario ci ha offerto solo una scelta tra due destre, e soprattutto ci costringe a poter votare solo “contro”», cioè a scegliere il (presunto) meno peggio, come appunto il Movimento 5 Stelle alle politiche del 2013, quelle “non vinte” dal Pd bersaniano. Salvo poi verificare che i grillini non hanno fatto assolutamente nulla, a parte canalizzare il dissenso, addormentandolo su binari innocui per il grande potere finanziario.«Intendiamoci, so benissimo che tra i 5 Stelle esistono persone ottime, e anche politici che hanno cercato onestamente di darsi da fare», puntualizza Bagnai, che è tra gli economisti italiani che guidano con decisione il fronte anti-euro. Ma la sua analisi politica è netta: scagliandosi contro un bersaglio apparente ed economicamente irrilevante, “la casta”, cioè la politica tout-court e quindi lo Stato, i grillini – secondo Bagnai, docente universitario di economia della globalizzazione – non hanno fatto altro che assecondare i dogmi-cardine del neoliberismo oligarchico, il cui avversario potenziale è appunto lo Stato, se “impugnato” come strumento democratico contro i poteri forti. I 5 Stelle (in altri tempi molto vociferi su temi come la medicina alternativa) non hanno battuto ciglio di fronte alla mostruosa campagna sui vaccini obbligatori promossa dal governo Gentiloni attraverso Beatrice Lorenzin. Ma Bagnai sottolinea soprattutto la farsa tragicomica dei 5 Stelle a Strasburgo, con il tentativo (poi anche pateticamente abortito) di traslocare tra i “falchi” pro-euro dell’Alde, il gruppo centrista ultra-europeista in cui è rappresentato Mario Monti.Grillo ha gettato la maschera? Quand’anche, il popolo dei VaffaDay non lo ammetterà facilmente, sostiene Bagnai. «In realtà – dichiara il professore – il grillismo è una religione, che predica l’odio contro lo Stato». E da una religione non è facile smarcarsi, con l’abiura. «Stessa musica per gli esponenti di Sinistra Italiana: capiscono perfettamente che razza di trappola sia l’euro, ma – avendo sostenuto per anni l’euro-sistema, non hanno il coraggio di ammettere apertamente il loro errore». La riflessione offerta su “ByoBlu”, peraltro datata, fotografa comunque in modo mestissimo lo scenario politico italiano: di fatto (forse, con la sola eccezione della Lega di Salvini) l’offerta non offre nessuna vera alternativa alla completa sudditanza rispetto al potere di Bruxelles, che ha creato deliberatamente la crisi nella quale l’Italia si sta dibattendo da anni. I grillini? Da dividere in due: una base quasi fanatizzata “religiosamente”, disponibile a migliorare l’Italia ma frenata da un vertice che ha rivelato la vera natura di “gatekeeper” del movimento, semplice camera di sfogo della rabbia sociale, ben attento a non disturbare mai il manovratore, sulle cose che contano. Ma la disillusione – l’amara ammissione dell’equivoco – costerà dolore e richiederà tempo, dice Bagnai: per questo, ancora per un po’, l’inutile Movimento 5 Stelle ingombrerà la scena politica italiana.Elaborare il lutto, dopo aver scoperto di aver votato ancora una volta per il partito sbagliato? Impossibile, purtroppo: non ce la faranno, ad ammettere l’errore. Lo sostiene l’economista Alberto Bagnai, a proposito della delusione che starebbe invadendo milioni di elettori del Movimento 5 Stelle, inizialmente entusiasti del giustizialismo moralista grillino. «Quella dei 5 Stelle è una religione», dichiara Bagnai, a colloquio con Claudio Messora su “ByoBlu”. Ammette Bagnai: «Io stesso scelsi i 5 Stelle, nel 2013, ma in modo strumentale: volevo votare contro Bersani, specie dopo l’appello pubblico di Eugenio Scalfari che chiedeva di boicottare Grillo». Autocritico, l’economista di “Goofynomics”, anche sul sistema elettorale maggioritario: «All’epoca votai a favore, ma oggi me ne pento e anzi me ne vergogno: anziché l’alternanza destra-sinistra, il maggioritario ci ha offerto solo una scelta tra due destre, e soprattutto ci costringe a poter votare solo “contro”», cioè a scegliere il (presunto) meno peggio, come appunto il Movimento 5 Stelle alle politiche del 2013, quelle “non vinte” dal Pd bersaniano. Salvo poi verificare che i grillini non hanno fatto assolutamente nulla, a parte canalizzare il dissenso, addormentandolo su binari innocui per il grande potere finanziario.
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Tasse e tagli: arriva il Fiscal Compact, e nessuno ne parla
Alzi la mano chi nelle ultime settimane ha visto anche solo un trafiletto o un qualche servizio televisivo menzionare il Fiscal Compact. In un clima già da campagna elettorale inoltrata, non passa giorno senza leggere di alleanze che si creano e si disfano, di questo o quell’esponente politico che passa da uno schieramento all’altro, di sondaggi e intenzioni di voto. Questo per non parlare delle infinite discussioni intorno alla possibile legge elettorale con la quale dovremmo andare a votare il prossimo anno. Peccato che qualsiasi futura maggioranza parlamentare e qualsiasi governo dovesse insediarsi all’indomani del voto rischia di essere, se non commissariato, per lo meno fortemente limitato nelle proprie scelte. Se lo scopo principale di un governo è infatti quello di gestire e indirizzare le risorse disponibili per attuare determinate politiche, il futuro sembra verrà deciso altrove. Entro la fine dell’anno, il Parlamento dovrà ratificare il Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, meglio noto come Fiscal Compact.Tra le diverse disposizioni, questo trattato prevede l’obbligo di riportare entro 20 anni il rapporto tra debito pubblico e Pil alla fatidica soglia del 60%, uno dei parametri degli accordi siglati a Maastricht all’inizio degli anni ’90. Parametri fortemente criticati per la loro arbitrarietà, a maggior ragione perché da applicarsi indistintamente, senza considerare le specificità di un paese, la fase economica o la situazione sociale e occupazionale. L’Italia ha oggi un rapporto tra debito e Pil superiore al 130%. Sarebbe lungo il discorso su come si è arrivati a tale percentuale. Basti ricordare che da oltre il 120% della metà degli anni ’90, si è scesi al 103% nel 2008, per poi registrare un’esplosione che è seguita, in Italia come nella maggior parte delle economie occidentali, allo scoppio della bolla dei mutui subprime. In altre parole una crisi della finanza privata il cui conto è stato scaricato su quella pubblica. Al culmine del paradosso, la prima è ripartita a pieno ritmo, inondata di soldi tramite quantitative easing e altre politiche monetarie, mentre alle finanze pubbliche vengono imposti tagli e controlli durissimi. Ancora peggio, con un ribaltamento dell’immaginario collettivo le responsabilità delle attuali difficoltà vengono addossate ai debiti pubblici.Tale ribaltamento di cause e conseguenze della crisi è la giustificazione per volere introdurre un trattato con forza superiore alle legislazioni nazionali che ci imporrà di scendere dal 130% al 60% in venti anni. Secondo i suoi difensori, il Fiscal Compact più o meno “si pagherà da solo”. Crescita dell’economia e inflazione dovrebbero garantire un aumento del Pil che porterebbe a ridursi il rapporto debito/Pil. “Basterebbe” quindi un avanzo di bilancio non troppo gravoso per rispettare i dettami del Fiscal Compact. Dovremmo quindi imporci di rinunciare a qualsiasi margine di manovra dei prossimi governi per realizzare avanzi primari, ovvero sempre più tasse e sempre meno servizi erogati. Questo nella migliore delle ipotesi. Non è chiaro chi abbia la sfera di cristallo per potere prevedere crescita dell’economia e inflazione su un periodo di venti anni. I risultati del recente passato – per non parlare di possibili nuove crisi in un mondo sempre più dominato dalla finanza speculativa – non invitano certo all’ottimismo. In caso di una nuova, probabile, flessione dell’economia, rispettare il Fiscal Compact significherebbe un disastro sociale ed economico. Quello che però colpisce di più è l’affermazione definitiva della tecnocrazia sulla democrazia.Qualsiasi futuro governo dovrà operare entro margini strettissimi e imposti da una visione dell’economia come una scienza esatta, guidata da regole matematiche dove il benessere dei cittadini o l’ambiente diventano le variabili su cui giocare, mentre i parametri macroeconomici sono immutabili. Indipendentemente da cosa ci riserva il futuro, il debito va ridotto a marce forzate e questo va garantito a ogni costo. Che il costo sia disoccupazione, perdita di diritti, impossibilità di investire per una trasformazione ecologica dell’economia, non è un problema, non può essere nemmeno materia di discussione. Attac Italia ha provato a rompere il silenzio lanciando una campagna di informazione e una petizione da firmare on-line. Perché è a dire poco incredibile assistere al livello di un dibattito concentrato sulle presunte responsabilità dei migranti, mentre in un Paese con 4,8 milioni di persone in povertà assoluta stiamo affermando che ci imponiamo vent’anni di alta pressione fiscale e tagli alla spesa pubblica e ai diritti fondamentali. Il problema non è e non può essere “prima gli italiani”. Il problema è se sia possibile sancire che la vita delle persone – di tutti noi – sia sacrificabile nel nome di una percentuale decisa decenni fa da qualche burocrate.(Andrea Baranes, “Fiscal cosa?”, da “Sbilanciamoci” del 10 ottobre 2017. Per informazioni e per firmare la petizione: http://www.stopfiscalcompact.it).Alzi la mano chi nelle ultime settimane ha visto anche solo un trafiletto o un qualche servizio televisivo menzionare il Fiscal Compact. In un clima già da campagna elettorale inoltrata, non passa giorno senza leggere di alleanze che si creano e si disfano, di questo o quell’esponente politico che passa da uno schieramento all’altro, di sondaggi e intenzioni di voto. Questo per non parlare delle infinite discussioni intorno alla possibile legge elettorale con la quale dovremmo andare a votare il prossimo anno. Peccato che qualsiasi futura maggioranza parlamentare e qualsiasi governo dovesse insediarsi all’indomani del voto rischia di essere, se non commissariato, per lo meno fortemente limitato nelle proprie scelte. Se lo scopo principale di un governo è infatti quello di gestire e indirizzare le risorse disponibili per attuare determinate politiche, il futuro sembra verrà deciso altrove. Entro la fine dell’anno, il Parlamento dovrà ratificare il Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, meglio noto come Fiscal Compact.
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Il fantasma di Soros: buonismo migrante, guerre e affari
Una presenza ectoplasmatica si aggira per l’Europa: George Soros, il miliardario ottuagenario la cui longa manus rattrappita sta dietro tutti i movimenti (contro)rivoluzionari del pianeta, le novità pseudoculturali, l’umanitarismo di facciata che nasconde interessi economici inconfessabili. Osannato dal mondo della cooperazione, dalle Ong e dai partiti progressisti europei, l’arzillo nonnino è ormai diventato in Europa un’icona della filantropia, il difensore per eccellenza dei diritti umani e delle minoranze straniere e di genere. Ma sotto una crosta superficiale di santità questo personaggio nasconde ben altro, essendo il principale finanziatore a livello mondiale della sovversione controiniziatica che sta portando il mondo alla deriva. Poco noti al grande pubblico sono infatti gli intrecci loschi tra Soros e gli agenti della sovversione. Ma andiamo per ordine, cominciando col rivelare i legami torbidi tra Soros e il mondo della cooperazione, anche italiana. Stando al quotidiano “Il Sole 24 Ore” Soros avrebbe di recente investito sui titoli di alcune cooperative rosse del Nord Italia diventando, con il 5% del capitale sociale, il terzo azionista di alcuni colossi che fanno capo alla Lega delle Cooperative, quella presieduta dal pacioccone Poletti, ministro del lavoro dell’attuale governo.L’ingresso di Soros svela il passaggio del mondo della cooperazione italiana da un modello economico di tipo solidale a un modello capitalistico tout court, già da anni adottato dalle cooperative, che ancora oggi si ammantano di un idealismo e di una purezza che non hanno mai posseduto. Insomma, le mani del nonnino Soros sulla cooperazione italiana porta alla luce del sole quel che già si sapeva da tempo e che era sottaciuto da molti: la trasformazione di quel mondo in un potere forte in grado di esercitare pressioni lobbistiche sui governi (e la nomina di Poletti alla guida del ministero del lavoro ne è una prova tangibile). Soros finanzia anche la cooperazione bianca, di matrice cattolica. Ben documentata è infatti la partecipazione di Soros alle attività filantropiche della Compagnia delle Opere, che fa capo al colosso cattolico Comunione e Liberazione. In concomitanza con l’aumento dei flussi migratori verso il nostro paese, molte cooperative bianche e rosse hanno di recente riconvertito le loro attività nel sociale, precedentemente concentrate in settori quali i servizi educativi e sanitari, in attività di accoglienza e di gestione dei profughi. E’ quindi nata negli ultimi anni una costellazione di strutture residenziali e di comunità per accogliere e integrare i clandestini portati in Italia dalle Ong che operano nel Mediterraneo per il salvataggio di costoro.Altro aspetto, questa volta più noto, dell’intraprendenza “filantropica” di Soros è il suo legame a doppio filo con le Ong, specialmente con quelle che si occupano della promozione dei diritti umani, in paesi dove vengono a loro dire calpestati. Attraverso la Open Society Foundation, Soros ha creato in pochi anni una vera e propria ragnatela in cui sono state attirate migliaia di Ong, spesso politicizzate e ideologizzate in senso radical progressista, che operano come agenti di disturbo verso i governi legittimamente eletti di paesi non allineati. Il caso della Siria è emblematico: attraverso una machiavellica propaganda mediatica queste Ong hanno creato a tavolino la fola della Siria violatrice di diritti umani e diffuso l’immagine demoniaca di Assad dittatore sanguinario che tortura i suoi cittadini. Altro aspetto veramente inquietante della rete labirintica creata da Soros per destabilizzare il mondo è il generoso finanziamento che egli elargisce alle associazioni Lgbtq. Secondo i documenti desecretati da Wikileaks, l’organizzazione di Julian Assange, è Soros il principale finanziatore del movimento delle Pussy Riots, un gruppo punk di donne russe sciamannate che contesta con atti provocatori Putin e l’attaccamento del popolo russo alle tradizioni patrie, e le laide Femen ucraine, sospettate di simpatie naziste. Come è lo stesso Soros a finanziare, solo per fare un esempio tra i tanti, l’Arcigay e tante altre associazioni gay e gender.Il filo rosso che unisce Soros alle Ong che operano nel Mediterraneo è poi noto a tutti (o quasi). E’ lui che finanzia le navi che solcano il Mediterraneo per soccorrere i clandestini caricati nelle carrette degli scafisti. Anche se più che di soccorso bisognerebbe parlare di complicità vera e propria tra gli operatori Ong e gli scafisti, come alcune recenti indagini della magistratura italiana hanno rivelato. D’altra parte i referenti delle Ong non nascondono, con un certo autocompiacimento, la loro stretta collaborazione con la Open Society Foundation sorosiana, e i bilanci di tali Ong palesano il finanziamento diretto da parte di essa. Il legame tra il magnate ungherese e le Ong dei “profughi” è così stretto che quando il mese scorso il governo libico ha deciso di vietare alle navi Ong di accostarsi alle coste libiche per caricare i clandestini, Soros ha avuto un’esplosione di rabbia, tempestando di telefonate tutti i big della politica internazionale, Onu compresa, per bloccare la decisione del governo libico.E per sensibilizzare l’opinione pubblica occidentale Soros ha già pronto l’avvio di un nuovo movimento di protesta pro migrates, i No Borders, che si attiveranno con manifestazioni e provocazioni di ogni tipo in tutti i paesi europei. Solita strategia della manipolazione dell’opinione pubblica a suon di slogan e attivismo a pagamento, insomma. Cambiamo gli attori ma la trama e il regista restano uguali. Che dire, per concludere, di questo magnate con il chiodo fisso della democrazia a tutti i costi? Ma che cosa intenderà mai il filantropo Soros con il termine “democrazia”? Potere al popolo, come l’etimologia suggerisce, o potere alle élite illuminate che sovrastano il popolo prendendo decisioni non condivise che peggiorano la qualità della vita? Democrazia come solidarietà e difesa delle fasce più deboli della cittadinanza o democrazia del denaro? Rispetto dell’autodeterminazione dei popoli o imposizione della democrazia attraverso campagne di demonizzazione o campagne militari? Lascio ai più lungimiranti l’ardua risposta.(Federica Francesconi, “Un ectoplasma si aggira per l’Europa: Soros e la sua mania di onnipotenza”, dal blog della Francesconi del 10 settembre 2017).Una presenza ectoplasmatica si aggira per l’Europa: George Soros, il miliardario ottuagenario la cui longa manus rattrappita sta dietro tutti i movimenti (contro)rivoluzionari del pianeta, le novità pseudoculturali, l’umanitarismo di facciata che nasconde interessi economici inconfessabili. Osannato dal mondo della cooperazione, dalle Ong e dai partiti progressisti europei, l’arzillo nonnino è ormai diventato in Europa un’icona della filantropia, il difensore per eccellenza dei diritti umani e delle minoranze straniere e di genere. Ma sotto una crosta superficiale di santità questo personaggio nasconde ben altro, essendo il principale finanziatore a livello mondiale della sovversione controiniziatica che sta portando il mondo alla deriva. Poco noti al grande pubblico sono infatti gli intrecci loschi tra Soros e gli agenti della sovversione. Ma andiamo per ordine, cominciando col rivelare i legami torbidi tra Soros e il mondo della cooperazione, anche italiana. Stando al quotidiano “Il Sole 24 Ore” Soros avrebbe di recente investito sui titoli di alcune cooperative rosse del Nord Italia diventando, con il 5% del capitale sociale, il terzo azionista di alcuni colossi che fanno capo alla Lega delle Cooperative, quella presieduta dal pacioccone Poletti, ministro del lavoro dell’attuale governo.
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Nasce il Pdp: rianimare l’Italia, via il pareggio di bilancio
Via la vergogna del pareggio di bilancio, inserito nella Costituzione dal governo Monti con l’appoggio di Berlusconi e Bersani. Fine dell’austerity e ritorno al futuro (virtuoso) dei decenni del benessere, interrotti con i tagli sanguinosi alla spesa pubblica, motivati solo con il dogma neoliberista dello “Stato minino”. Imperativo morale: ribaltare lo scenario cronico di crisi con un’iniezione di fiducia (e di carburante) nel sistema-Italia. E quindi: meno tasse e più investimenti, per un’economia nuovamente espansiva. Obiettivo: piena occupazione per tutti, al posto dell’elemosina del “reddito di sopravvivenza” per chi non lavora. E inoltre, stop al cancro della speculazione finanziaria illimitata, con la separazione netta, per legge, degli istituti di credito: le banche d’affari separate da quelle al servizio del risparmio e dell’economia reale di famiglie e aziende. Sono i primissimi pilastri su cui si fonderà la proposta politica del Pdp, Partito Democratico Progressista, in via di avanzata gestazione su iniziativa del gruppo che fa capo a Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (che denuncia le trame della supermassoneria oligarchica) nonché fondatore del Movimento Roosevelt, entità meta-partitica nata per “risvegliare” la politica italiana in senso democratico e sovranista.Caduti nel vuoto i ripetuti appelli lanciati da Magaldi – non ultimo, quello ai 5 Stelle per le elezioni di Roma, con la proposta di candidatura del prestigioso economista Nino Galloni – Magaldi ora punta direttamente alla costruzione di un partito «realmente progressista», di fronte al desolante scenario dell’offerta politica italiana: nessuo dei tre poli affronta a viso aperto il vero nodo della crisi, che è strettamente europeo e legato all’imposizione delle politiche di rigore che l’élite finanziaria internazionale fa imporre agli Stati, attraverso la nomenklatura tecnocratica di Bruxelles. «Finora, Matteo Renzi ha solo finto di opporsi al sistema che opprime l’Italia: mentre abbaiava contro i gestori dell’euro-rigore, bussava ripetutamente alle porte dei circuiti della peggiore supermassoneria internazionale reazionaria, sperando di essere accolto». Berlusconi? Anacronistico, e comunque fallimentare: «Non è riuscito neppure a varare le riforme liberali che aveva proposto». I grillini? «Ancora devono spiegarci come governerebbero l’Italia, magari evitando lo spettacolo che stanno dando a Roma». Morale: dalle prossime elezioni uscirà un Parlamento inevitabilmente balcanizzato e costretto alle solite larghe intese. E cioè: ancora una volta un governo debole, “suddito” dei super-poteri manovrati da Bruxelles.E’ esattamente di fronte a questo panorama che il nascente Pdp (assemblea costitutiva il 4 novembre a Roma) si propone di aprire una crepa, provando a rovesciare il paradigma della crisi: non è vero che l’economia italiana è condannata al declino. Basta solo (si fa per dire) trovare il coraggio di dire no agli oligarchi dell’Ue, stracciando il pareggio di bilancio e la falsa “teologia” da cui è nato. E avere il fegato di sfidare direttamente i mandanti, i dominus della grande finanza, sottraendo le banche popolari alle grinfie della speculazione: sarebbe la fine delle varie “bancopoli” innescate, a cascata, in tutto l’Occidente, da quando Bill Clinton cancellò il Glass-Steagall Act, la “diga” innalzata da Roosevelt più di mezzo secolo prima per proteggere l’economia americana dagli squali di Wall Street. Magaldi, Galloni e soci sono fra quanti sognano un riscatto democratico dell’Italia, partendo dalla guarigione economica. Il traguardo è ambizioso: mobilitare energie trasversali, intellettuali e politiche, per riabilitare lo Stato come arbitro autorevole e schierato con i cittadini, altrimenti in balia del potere neoliberista delle multinazionali, oggi protagoniste assolute della grande privatizzazione globalizzata. Primo mattone: una piattaforma di idee, da cui partire: per smontare il grande imbroglio che il potere europeo chiama semplicemente “crisi”.Via la vergogna del pareggio di bilancio, inserito nella Costituzione dal governo Monti con l’appoggio di Berlusconi e Bersani. Fine dell’austerity e ritorno al futuro (virtuoso) dei decenni del benessere, interrotti con i tagli sanguinosi alla spesa pubblica, motivati solo con il dogma neoliberista dello “Stato minino”. Imperativo morale: ribaltare lo scenario cronico di crisi con un’iniezione di fiducia (e di carburante) nel sistema-Italia. E quindi: meno tasse e più investimenti, per un’economia nuovamente espansiva. Obiettivo: piena occupazione per tutti, al posto dell’elemosina del “reddito di sopravvivenza” per chi non lavora. E inoltre, stop al cancro della speculazione finanziaria illimitata, con la separazione netta, per legge, degli istituti di credito: le banche d’affari separate da quelle al servizio del risparmio e dell’economia reale di famiglie e aziende. Sono i primissimi pilastri su cui si fonderà la proposta politica del Pdp, Partito Democratico Progressista, in via di avanzata gestazione su iniziativa del gruppo che fa capo a Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (che denuncia le trame della supermassoneria oligarchica) nonché fondatore del Movimento Roosevelt, entità meta-partitica nata per “risvegliare” la politica italiana in senso democratico e sovranista.
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Un mondo di sole destre, finto-ribelli. La sinistra? E’ sparita
Alice Elisabeth Weidel è la vincitrice morale delle recenti elezioni tedesche e, con la sua terza posizione, diventa uno scomodo ma forte interlocutore politico. La Weidel è omosessuale e da anni convive con la produttrice di film Sarah Bossard, cittadina svizzera originaria dello Sri Lanka, con la quale ha due figli. Alice nel paese delle meraviglie, ex Goldman Sachs, lavorava negli stessi ambienti di Soros, tanto per capire come sia interna e complementare allo stesso sistema che a parole combatte. Il simbolo del partito è a metà strada tra il logo della Nike, un simbolo fallico e una saetta delle Ss rubata da una vecchia bandiera. Segno dei tempi, un po’ nazi, un po’ trendy e gayfriendly… Le destre radicali e i populismi rappresentano quell’aggiornamento di sistema che descrivo da tempo, ovvero il favorire le estreme come catalizzatore di voti, contenitori del dissenso che spostino il voto popolare a destra, e giustifichino la vittoria dei moderati, come l’Afd per la Cdu, la Le Pen per Macron, Grillo per il Pd. Stesso identico schema. A questo servono, sono il cane da guardia del capitale, le avanguardie del padronato.Nei prossimi decenni l’aggiornamento del sistema vedrà l’affermazione delle destre radicali, utilizzate come ultimo baluardo di un re nudo (leggi liberismo) per contenere una possibile e potenziale deriva antagonista progressista culturale e di piazza, soprattutto per tarparne il desiderio, spostando il dissenso a destra o in contenitori definiti reazionari. Questa è una strategia nuova ma al tempo stessa vecchia e già sperimentata, è quella che la grande borghesia mise in campo all’inizio del ventennio del secolo scorso contro le avanzate del bolscevismo e in vista di un potenziale risveglio dei popoli da sinistra. Fascismo e nazismo rispondevano a questo bisogno borghese di individuazione di un nemico e di tarpare le ali a qualsiasi rivoluzione popolare. Quando i cosiddetti moderati di ogni dove non potranno più essere votati, dopo l’ultimo ed ennesimo inganno, in un mondo dove le notizie circolano ed i tabù crollano, le sentinelle silenti di estrema destra, oggi ancora di nicchia, arriveranno e svolgeranno il ruolo per cui sono state create. La rete in questi anni è stata molto utile per ripulire certi mondi, l’estrema destra è stata spesso salutata come forza liberatrice, come novità, sfruttando la rabbia e l’astinenza da rogo dei popoli e l’ignoranza atavica che pervade l’uomo qualunque.Un certo revisionismo della storia è stato fatto circolare e accettare; questo tornerà comodo e sarà il medium preposto a stabilizzare il sistema, incarnando uno spauracchio anti-democratico, oppure, nel peggiore dei casi, a sostituirsi al sistema potenziandolo, ma pur sempre restando nell’alveo iper-liberista, con l’aggiunta di un certo sentimento nazionalista e xenofobo, magari con virate peroniste, ma sempre rispettando la matrice dello schema di base. L’unica vera assente a livello planetario da almeno 30 anni è lei, la tanto vituperata e obsoleta sinistra: ridicolizzata, schernita, derisa; eppure manca solo lei, nello scenario mondiale. Gli ultimi leader socialisti e progressisti di un tempo, declinati in diverse gradazioni e temperature politiche, sono stati fatti fuori, quelli attuali rispondo a logiche neo-liberiste e comunque non progressiste. Pensiamo ad Olof Palme ucciso in Svezia dall’estrema destra manovrata dai servizi, pensiamo ad Allende ucciso da Pinochet e dalla Cia, pensiamo a Sankara, a Gheddafi, a Chavez e tanti altri.Ragioniamo su quali schieramenti sono stati sconfitti nel tempo e conflitti dal sistema che ha usato servizi segreti, estrema destra, spezzoni di magistratura, per sbarazzarsi anche culturalmente di ogni progressismo. Pensiamo ai nazisti patrioti ucraini, appoggiati perfino dal Pd in versione anti-Putin, curiosa joint venture tra mondi diversi, ma uniti dal bisogno reciproco. Comunque ragioniamo sulle cause storiche degli ultimi 40 anni, che hanno materializzato l’attuale paradigma neo-aristocratico che ha pervaso entrambi gli schieramenti, come sul modello americano, dove destra e sinistra partitica sono chimere e fazioni quasi identiche e vengono percepiti lontani dalla gente. Il modello di pensiero unico ha bandito le ideologie: chiediamoci il perché. Ha cambiato il linguaggio, svuotando di significato due polarità necessarie alla dialettica democratica. Non è passatista ed errato parlare ancora di destra e sinistra, perché incarnano valori e ideali, senza i quali rimane solo la mera speculazione finanziaria senza idee e progettualità, la giungla più buia dove vince il più forte.Quando Michael Ledeen parla di fascismo universale, lui – sionista imperialista, vero grande burattinaio, al cui cospetto Gelli era un passacarte – dice una cosa precisa, e non è mia la definizione. Il fascismo non è stato solo un ventennio; il fascismo, come ci ricordano i grandi manovratori, certi iniziati, veri studiosi e liberi pensatori anarchici come Reich (che non a caso, da uomo libero quale era, parla di fascismo rosso), è un’attitudine, è un modello di pensiero che trasla gli schieramenti, è una forma-pensiero; possiamo anche chiamarla diversamente, ma questo è… Così la plasmarono gli iniziati neri, quando crearono il nazismo esoterico decenni prima dell’avvento del nazismo politico; sono egregore che servono a manipolare le masse e la psicologia di massa.(“Un mondo di sole destre è possibile, anzi è reale”, dal blog “Maestro di Dietrologia” del 1° ottobre 2017).Alice Elisabeth Weidel è la vincitrice morale delle recenti elezioni tedesche e, con la sua terza posizione, diventa uno scomodo ma forte interlocutore politico. La Weidel è omosessuale e da anni convive con la produttrice di film Sarah Bossard, cittadina svizzera originaria dello Sri Lanka, con la quale ha due figli. Alice nel paese delle meraviglie, ex Goldman Sachs, lavorava negli stessi ambienti di Soros, tanto per capire come sia interna e complementare allo stesso sistema che a parole combatte. Il simbolo del partito è a metà strada tra il logo della Nike, un simbolo fallico e una saetta delle Ss rubata da una vecchia bandiera. Segno dei tempi, un po’ nazi, un po’ trendy e gayfriendly… Le destre radicali e i populismi rappresentano quell’aggiornamento di sistema che descrivo da tempo, ovvero il favorire le estreme come catalizzatore di voti, contenitori del dissenso che spostino il voto popolare a destra, e giustifichino la vittoria dei moderati, come l’Afd per la Cdu, la Le Pen per Macron, Grillo per il Pd. Stesso identico schema. A questo servono, sono il cane da guardia del capitale, le avanguardie del padronato.
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Mariano Rajoy, il pericoloso idiota che serve all’oligarchia
Mariano Rajoy è un pericoloso idiota. E sarebbe il caso che i suoi amici del Partito popolare europeo se ne rendessero conto in fretta. Se davvero i democristiani del Vecchio continente, assieme ai socialisti un po’ ovunque loro alleati, vogliono essere il baluardo contro quello che definiscono la minaccia del vento populista dovrebbero affermare un principio chiaro, precedente a ogni legge e Costituzione: nessun governo può ordinare di picchiare, malmenare, manganellare decine di migliaia di manifestanti inermi e non violenti. Le immagini della Guardia Civil travestita da Dart Fener, che si contrappone alle divise pacifiche e colorate dei pompieri, colpendo a sangue donne anziane e ragazzi con le mani alzate sono la propaganda migliore per chi denuncia (a volte non a torto) gli abusi di un establishment apparentemente interessato solo a conservare il proprio potere.I tanti dotti commenti che in questi giorni, anche sulla stampa nostrana, si limitano a sottolineare come il referendum per l’indipendenza della Catalogna fosse illegale perché non previsto dalla Costituzione, sono miopi e ridicoli. È vero infatti che da sempre nelle democrazie l’uso legittimo della violenza è demandato allo Stato anche per mantenere l’ordine costituito. Ma è evidente che nella società contemporanea la forza deve essere l’extrema ratio, che le sue conseguenze vanno ponderate con cura e che prima di farvi ricorso va battuta ogni strada. La domanda da porsi è dunque una sola: c’erano altre vie? Le cronache che in questi mesi sono giunte dalla Spagna sono unanimi nel rispondere di sì. Basti pensare che Rajoy nel 2010 portò davanti alla Corte costituzionale (che in Spagna è di nomina solo politica) e fece cassare il nuovo statuto per l’autonomia della Catalogna siglato nel 2006 tra il suo predecessore José Zapatero e l’allora amatissimo ex sindaco di Barcellona, Pasqual Maragall.Così, oggi, le centinaia di migliaia di persone che scendono in piazza per protestare contro la violenza di Stato, fanno diventare un gigante politico l’alcadesa Ada Colau. Lei, che da subito aveva annunciato il suo no alla secessione nel referendum poi soffocato nel sangue, si era battuta perché i catalani si potessero comunque esprimere. Il perché è evidente. In un territorio in cui si parla una lingua diversa da quella dello Stato centrale e dove i partiti indipendentisti – ma quasi sempre europeisti – raccolgono il 48 per cento dei consensi, impedire ai cittadini di votare è impossibile (come ci ha insegnato il Regno Unito con la Scozia). Compito della politica è invece quello di prendere atto della situazione e trovare le vie per una mediazione. Anche perché, spesso, come ripeteva Leo Longanesi in uno dei suoi fulminanti aforismi, «un’idea che non trova spazio a tavola è capace di fare la rivoluzione».Il refrain “ma la Costituzione non lo prevede” in questo caso è solo l’ultimo rifugio di chi teme che quanto sta accadendo in Catalogna (per ragioni diverse dall’indipendenza) possa ripetersi altrove. Di chi alla realtà sa solo opporre incapacità e arroganza. Seguendo questa logica, se domani in Spagna un partito repubblicano raccogliesse il 50% e più dei consensi, il referendum per decidere se uscire dalla monarchia dovrebbe essere comunque vietato. E pure l’Europa, che spesso a vanvera si dichiara dei popoli, dovrebbe schierarsi con le truppe del Re contro i cittadini. Dimostrando che oggi il pericolo più grande corso dalle nostre democrazie non è la dittatura o il populismo, ma la sorda e cieca oligarchia.(Peter Gomez, “Mariano Rajoy, il pericoloso idiota che serve all’oligarchia”, da “Il Fatto Quotidiano” del 4 ottobre 2017).Mariano Rajoy è un pericoloso idiota. E sarebbe il caso che i suoi amici del Partito popolare europeo se ne rendessero conto in fretta. Se davvero i democristiani del Vecchio continente, assieme ai socialisti un po’ ovunque loro alleati, vogliono essere il baluardo contro quello che definiscono la minaccia del vento populista dovrebbero affermare un principio chiaro, precedente a ogni legge e Costituzione: nessun governo può ordinare di picchiare, malmenare, manganellare decine di migliaia di manifestanti inermi e non violenti. Le immagini della Guardia Civil travestita da Dart Fener, che si contrappone alle divise pacifiche e colorate dei pompieri, colpendo a sangue donne anziane e ragazzi con le mani alzate sono la propaganda migliore per chi denuncia (a volte non a torto) gli abusi di un establishment apparentemente interessato solo a conservare il proprio potere.
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Magaldi: Barcellona sbaglia, ma Rajoy è un perfetto cialtrone
Senza fare arresti, senza mandare la polizia a picchiare nessuno, senza rievocare le ombre dell’autoritarismo franchista, bastava dire: questo referendum è incostituzionale, quindi lo consideriamo non valido ed eventualmente lo sanzioneremo nelle sedi opportune, ma intanto si svolga pure. Questo avrebbe detto un governo forte, democratico, sereno, se appunto a Madrid ci fosse stato un esecutivo degno, liberale, che avesse a cuore l’integrità della Spagna. Invece c’è Mariano Rajoy, che ha condotto una conferenza stampa che faceva ridere i polli e faceva venir voglia di prenderlo a schiaffi: non è vero che non è successo nulla, a Barcellona, eppure Rajoy è arrivato a negare che si sia svolto il referendum. Peraltro la gente ha votato lo stesso: il 95% dei seggi sono rimasti aperti, nonostante i “robocop” inviati da Madrid. Guai a chi si serve delle forze di polizia (costrette a eseguire ordini) per bastonare la gente che si riunisce per esprimere un parere, costituzionale o meno. E guai a quel cialtrone di Mariano Rajoy, che non è nemmeno legittimato da un voto popolare certo. Rajoy è un politico nefasto: prima la Spagna se lo toglie di torno, e meglio è. Nessuno vuole più vedere le scene vergognose cui abbiamo assistito in televisione nelle ultime ore. Non vogliamo più vedere i manganelli, i calci e i pugni su cittadini che manifestano pacificamente.La Spagna non prevede la clausola di secessione: il referendum ha un valore politico. Ovvio che alle volte si forzano le cose, ma occorre avere un metodo di osservazione più sereno. Le istituzioni della Catalogna pongono un problema. Dicono: riteniamo ci sia una forte maggioranza popolare che vuole staccarsi dalla Spagna. Questo è incostituzionale, quindi sul piano formale avrebbe buon gioco il governo di Madrid, ma il problema politico resta. Forse, con un po’ di buon senso, questa storia potrebbe essere risolta attraverso un dialogo politico che metta a punto ancor meglio i termini dell’autonomia di Barcellona. Agli amici catalani che soffiano sul fuoco di questa indipendenza a tutti i costi voglio dire: calma e gesso, rifletteteci su, perché magari ci sono altre priorità, anche per la Catalogna e per quei cittadini di ogni provenienza culturale, etnica, sociale e linguistica che abitano la Catalogna. Perché questa visione del popolo catalano che anela all’autodeterminazione e all’affrancamento dalla Spagna egemonizzata dalla Castiglia è francamente dubbia e molto opaca: la Catalogna è una regione floridissima, ha una tradizione politica anche molto importante, è stata in primo piano nella guerra civile spagnola.Non so se questo scontro sia raccontabile in termini poetici, ferma restando la condanna del modo maldestro – e anche un po’ infame – con cui il governo centrale ha represso la convocazione (magari illegale, ma pacifica) del referendum. La Catalogna è stata sicuramente umiliata e repressa nelle sue istanze di autonomia (che è cosa diversa dalla secessione) durante il regime franchista, ma poi ha ottenuto amplissime autonomie – culturali, linguistiche, politiche. Allora cos’è questo desiderio di affrancarsi dalla Spagna? Un’anelito democratico di autodeterminazione del popolo? Anche quella spagnola è una lunga storia di sedimentazioni e contaminazioni: non vivono solo catalani, a Barcellona. Ricordiamoci che la Catalogna è la regione più ricca della Spagna: magari qualcuno soffia sul fuoco dell’indipendenza perché vuole gestirsi un po’ più di denari. Ci saranno anche tanti che vivono il sogno della nazione catalana indipendente dalla Spagna castigliana. Ma in un mondo come il nostro, dove i problemi sono altri, dovremmo forse riuscire a stare più uniti, tutti, in Europa, in forme nuove rispetto a quelle dell’attuale Disunione Europea. Uniti sapremmo meglio affrontare la globalizzazione e trasformarla in glocalizzazione, cioè qualcosa che metta insieme il bello della contaminazione globale con il rispetto delle tradizioni e delle eccellenze locali.Voci sull’apparenza di Rajoy alla superloggia Pan-Europa? Non mi risulta che ne faccia parte. In ogni caso, per come è maldestro, se mai fosse stato affiliato a qualche Ur-Lodge, credo che i suoi “fratelli” a – anche quelli che io considero contro-iniziati – presto o tardi lo caccerebbero a calci del sedere, perché una gestione come la sua non fa buon gioco nemmeno alle mire (che io combatto) dei massoni organizzati in superlogge sovranazionali. La Pan-Europa è collegata all’omonimo progetto di Richard Coudenhove-Kalergi, politico e filosofo austriaco. Negli anni ‘20 e ‘30 concepisce un’idea di Europa unita, ma in termini generici, contrapponendosi al nazionalismo e alla xenofobia di matrice fascio-nazista. Nel dopoguerra, esaurito il pericolo nazifascista (che aveva attirato su quel progretto anche dei progressisti), Kalergi getta la maschera e diventa, insieme a Jean Monnet, l’architetto principale di un’Europa neo-feudale e tecnocratica. Un’Europa che si fonda su presupposti economicistici quasi riproponendo un modello da Sacro Romano Impero, con una gerarchia di nuovi feudatari, incarnati in questo caso da tecnocrati. Uomini che rispondono peraltro a interessi privati: perché c’è una gerarchia occulta, dietro i rappresentati delle istituzioni non-elettive europee.Kalergi è questo, e la Pan-Europa è la superloggia in cui lui elabora queste idee, e che poi affilia personaggi importanti del secondo ‘900. Tuttora la Pan-Europa è uno dei maggiori puntelli di questa cattiva gestione dell’Europa, che anziché integrazione porta a una sempre maggior disunione. Il modello da opporre a Kalergi, a Monnet e a tutti costoro che hanno messo insieme la retorica economicistica e quella tecnocratica è il ritorno alla sovranità degli Stati: nazioni che poi possano un giorno riavviare un processo eventualmente federativo partendo dal basso, dall’ascolto dei propri popoli. Oppure – e le cose possono anche andare di pari passo – l’altra possibilità è la proposizione di una Costituzione Europea, che passi per la discussione e l’approvazione da parte del popolo europeo, che può governarsi attraverso una Costituzione politica e non può certo essere governato attraverso trattati stipulati sulla testa dell’interesse popolare. Rajoy? Ha semplicemente svolto un ruolo simile a quello dei tecnocrati, in questa stagione di austerity europea. Della Spagna si occupa Rajoy, che ha anche emanato una serie di leggi liberticide, reprimendo le libertà di manifestazione e di protesta. Capiremo meglio nei prossimi tempi quali “manine” comunque si muovano, e quali eventuali progetti “ultronei”, ulteriori, stiano dietro questa faccenda. Una storia che ha non pochi lati ancora da comprendere, e forse anche da rivelare all’opinione pubblica(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a David Gramiccioli di “Colors Radio” nella diretta del 2 ottobre 2017 della trasmissione “Massoneria on Air”).Senza fare arresti, senza mandare la polizia a picchiare nessuno, senza rievocare le ombre dell’autoritarismo franchista, bastava dire: questo referendum è incostituzionale, quindi lo consideriamo non valido ed eventualmente lo sanzioneremo nelle sedi opportune, ma intanto si svolga pure. Questo avrebbe detto un governo forte, democratico, sereno, se appunto a Madrid ci fosse stato un esecutivo serio, degno e liberale, che avesse a cuore l’integrità della Spagna. Invece c’è Mariano Rajoy, che ha condotto una conferenza stampa che faceva ridere i polli e faceva venir voglia di prenderlo a schiaffi: non è vero che non è successo nulla, a Barcellona, eppure Rajoy è arrivato a negare che si sia svolto il referendum. Peraltro la gente ha votato lo stesso: il 95% dei seggi sono rimasti aperti, nonostante i “robocop” inviati da Madrid. Guai a chi si serve delle forze di polizia (costrette a eseguire ordini) per bastonare la gente che si riunisce per esprimere un parere, costituzionale o meno. E guai a quel cialtrone di Mariano Rajoy, che non è nemmeno legittimato da un voto popolare certo. Rajoy è un politico nefasto: prima la Spagna se lo toglie di torno, e meglio è. Nessuno vuole più vedere le scene vergognose cui abbiamo assistito in televisione nelle ultime ore. Non vogliamo più vedere i manganelli, i calci e i pugni su cittadini che manifestano pacificamente.
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Realacci e 5 Stelle: salvi i piccoli Comuni, non chiuderanno
Se i piccoli Comuni italiani sopravviveranno come tali, forse sarà anche merito della legge caldeggiata e firmata anche dal Movimento 5 Stelle, approvata dal Senato in via definitiva a fine settembre dopo quattro anni dall’inizio dell’iter, avviato in modo congiunto dalla grillina Patrizia Terzoni dall’ambientalista Ermete Realacci, deputato Pd. «È una notizia di quelle storiche, perché da anni il Parlamento prova ad approvare una legge che tuteli gli oltre 5.500 piccoli Comuni», esultano i 5 Stelle sul blog di Grillo. Si tratta di una legge, ricordano, in ballo da ben 15 anni, ogni volta arenatasi su un binario morto. «Quando parliamo di piccoli Comuni non li consideriamo aree marginali», precisano i 5 Stelle: «Ci riferiamo al 70% dei Comuni italiani, che hanno una popolazione pari o inferiore ai 5 mila abitanti». Piccoli centri, che però occupano qualcosa come il 54,4% per cento del territorio italiano, e ospitano il 16,6% della popolazione nazionale: «Si tratta di oltre 10 milioni di persone», per le quali proprio il municipio rappresenta un baluardo irrinunciabile di autogoverno democratico: sono gli abitanti a eleggere (e controllare) i propri amministratori.«Tra i principali risultati ottenuti dai parlamentari – spiegano i 5 Stelle – ci sono i finanziamenti per il ripristino dei cammini storici che collegano i piccoli Comuni, il recupero dei borghi con interventi antisismici e diverse misure a sostegno dei prodotti tipici locali, come ad esempio la vendita diretta all’interno di punti commerciali, l’incentivo della filiera corta e la valorizzazione delle attività pastorali di montagna finalizzate alla produzione di formaggi di qualità». I grillini spiegano che, nell’ultimo passaggio al Senato, hanno accettato la trasformazione degli emendamenti che avevano preparato, «e questo per non rischiare che la legge, modificata, dovesse tornare alla Camera e lì insabbiarsi». Come esempio citano l’impegno per la riduzione degli imballaggi, anche attraverso progetti sperimentali nelle mense di enti pubblici e privati. «Il testo non è perfetto e di certo poteva essere migliorato – ammettono – ma rappresenta comunque un piccolo ma importante passo verso la ricostruzione e la valorizzazione dei piccoli Comuni».Attraverso la difesa dell’Italia dei campanili, il Movimento 5 Stelle sostiene di lavorare «per promuovere un cambiamento di paradigma che permetta ai borghi di ripopolarsi, anche per esempio attraverso la concessione di terreni abbandonati a realtà imprenditoriali giovanili». Difficile quantificare un risultato sicuramente simbolico e positivo, in una situazione come quella di oggi, in cui il potere decisionale è drasticamente centralizzato, a partire dall’imposizione delle tariffe per i servizi vitali, con i Comuni costretti ad aumentare le imposte per compensare i drammatici tagli dei trasferimenti statali imposti dalla “legge di stabilità” e dalle altre disposizioni-capestro, improntate all’austerity e originate in primo luogo dalla politica di rigore determinata dall’euro. Se non altro, la sopravvivenza dei piccoli Comuni contente ai cittadini di sentirsi democraticamente rappresentati e di provare a farsi sentire, attraverso portavoce in fascia tricolore – come i sindaci della valle di Susa che, dal 2005, affiancando i militanti NoTav, riuscirono a fermare (per anni) il progetto Tav Torino-Lione “in nome del popolo italiano”.Se i piccoli Comuni italiani sopravviveranno come tali, forse sarà anche merito della legge caldeggiata e firmata anche dal Movimento 5 Stelle, approvata dal Senato in via definitiva a fine settembre dopo quattro anni dall’inizio dell’iter, avviato in modo congiunto dalla grillina Patrizia Terzoni dall’ambientalista Ermete Realacci, deputato Pd. «È una notizia di quelle storiche, perché da anni il Parlamento prova ad approvare una legge che tuteli gli oltre 5.500 piccoli Comuni», esultano i 5 Stelle sul blog di Grillo. Si tratta di una legge, ricordano, in ballo da ben 15 anni, ogni volta arenatasi su un binario morto. «Quando parliamo di piccoli Comuni non li consideriamo aree marginali», precisano i 5 Stelle: «Ci riferiamo al 70% dei Comuni italiani, che hanno una popolazione pari o inferiore ai 5 mila abitanti». Piccoli centri, che però occupano qualcosa come il 54,4% per cento del territorio italiano, e ospitano il 16,6% della popolazione nazionale: «Si tratta di oltre 10 milioni di persone», per le quali proprio il municipio rappresenta un baluardo irrinunciabile di autogoverno democratico: sono gli abitanti a eleggere (e controllare) i propri amministratori.
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Violenza-spettacolo, le amnesie dei media e le regie occulte
Inorridisce giustamente, l’italiano medio, di fronte alla brutalità della polizia spagnola che a Barcellona prende a calci i giovani inermi finiti a terra, maltratta le donne tirandole per i capelli, rompe nasi e spezza braccia, spara nel mucchio proiettili di gomma ad altezza uomo, spintona e strattona persino le nonne, trascinadole via come pericolose terroriste. Inorridisce, ma senza chiedersi come mai tanta violenza di Stato venga esibita di colpo a reti unificate. E si domanda invece, giustamente, per quale motivo il governo democratico di Madrid non si vergogni nemmeno un po’ dello spettacolo barbarico dei suoi agenti antisommossa, i robocop neri a cui è stato semplicemente ordinato di picchiare senza riguardi, di pestare gente con le mani alzate, di spedire all’ospedale cittadini, popolo, anziani. Sono le domande naturali, ovvie, che assillano e disturbano lo spettatore neutrale, estraneo ai fatti, turbato dalla violenza andata in scena a Barcellona. Quegli interrogativi se li pongono anche gli addetti all’informazione ospiti dei talkshow. Ma, attenzione: sono gli stessi giornalisti mainstream che si guardarono bene dal fiatare quando a prendere a calci i cittadini – italiani – erano le forze antisommossa spedite dal governo di Roma in valle di Susa col medesimo ordine: mandare all’ospedale la gente che aveva osato protestare, presidiare spazi e invocare giustizia, molto prima che la battaglia NoTav venisse inquinata dalle derive rabbiose nate dall’esperazione.«Giornalisti bugiardi e cialtroni: ne caccerei nove su dieci», ebbe a dire recentemente un reporter di razza come lo statunitense Seymour Hersh, Premio Pulitzer. La sua tesi: se la stampa non avesse abdicato al suo ruolo, rinunciando a fare il proprio dovere, in questi ultimi decenni avremmo avuto meno vittime. Meno abusi e meno stragi, meno guerre, meno terrorismi opachi. E forse, costringendo politici e governi a dire la verità, qualche oscuro mandante sarebbe stato costretto a venire allo scoperto. I grandi media sono ormai “Presstitutes”: così li chiama Paul Craig Roberts, liberale, già viceministro di Reagan. Non sono più veri mass media, ma strumenti orwelliani di propaganda, megafoni di un regime finanziario unificato, proprietario universale dell’editoria cartacea e radiotelevisiva che ha trasformato l’informazione in gossip, in politica-marketing e tifoseria da stadio contro nemici apparenti come la Russia di Putin, o fabbricati a tavolino come i tagliagole-kamikaze dell’Isis. E’ tutto spettacolo, soltanto spettacolo – senza mai analisi, spiegazioni, memoria storica, retroscena e denunce argomentate, al punto da spingere milioni di utenti a spegnere il televisore cercando rifugio nella galassia magmatica del web, alla ricerca affannosa di informazioni e ricostruzioni (attendibili, o almeno plausibili) su qualsiasi guaio contemporaneo, dall’euro alle scie chimiche, dalle guerre ai vaccini obbligatori.Lo spettacolo, oggi, è quello della violenza imposta dagli uomini neri che Madrid ha spedito a Barcellona? Ieri era quello della Troika euro-tedesca impegnata a gambizzare un altro popolo alle prese con un referendum, quello greco. Quando i primi NoTav si agitavano in corteo nella loro valle di Susa, appena dopo il duemila, non immaginavano neppure lontanamente la reale geografia della partita in corso: ancora non era arrivato Mario Monti a usare il manganello (finanziario) contro gli italiani. In Francia, il pallido François Hollande era riuscito a conquistare l’Eliseo promettendo la fine del rigore imposto da Berlino? E’ stato “sistemato” a colpi di attentati, insieme ai francesi: che adesso si godono Macron, l’omino-Rothschild confezionato in vitro direttamente dalle officine supermassoniche cui sovrintendono personaggi come Jacques Attali, il finto-socialista che spinse a destra la politica di Mitterrand, nel segno euro-imperiale dell’ordoliberismo da cui è appena scappata la Gran Bretagna votando la Brexit. E’ tutto spettacolo, quello che va in televisione: e se ci va, è sempre bene chiedersi perché. Secondo un analista indipendente come Federico Dezzani, a manipolare la Catalogna indipendentista sarebbero gli stessi super-poteri oligarchici che orchestrarono il crollo della Prima Repubblica in Italia, corrotta ma ancora relativamente sovrana, ostile al falso europeismo neo-feudale degli oligarchi interessati a smantellare l’economia della penisola, aprendo la stagione della crisi infinita.La polizia che malmena gli inermi non è mai un bello spettacolo, e a Madrid non potevano non saperlo. Non poteva non sapere, il debolissimo governo Rajoy, che l’intera Europa avrebbe simpatizzato, in diretta televisiva, con gli abitanti di Barcellona. Ha ragione Dezzani: non può essere a Madrid, la vera regia di questa pagina imbarazzante, con troppo sangue e troppe ossa rotte. Forse non è nemmeno a Marsiglia, dove – in contemporanea – le forze di sicurezza francesi hanno abbattuto a pallettoni, tanto per cambiare, l’ennesimo presunto jihadista accoltellatore, destinato come tutti gli altri a non parlare più. La regia dell’orrore non è nemeno a Nizza, dove la polizia locale (un po’ come i Mossos catalani) si rifiutò di obbedire agli ordini di Parigi, quando il ministro dell’interno le impose di distruggere i filmati delle telecamere che avevano ripreso la strage del 14 luglio sulla Promenade des Anglais. Una parte di questa ipotetica regia probabilmente risiede proprio a Parigi, dove – dopo il non-suicidio di un valente commissario – il governo silenziò e chiuse le indagini su Charlie Hebdo con l’imposizione del segreto di Stato (segreto militare), togliendo il dossier al coraggioso magistrato che aveva scoperto una strana triangolazione per la fornitura delle armi al commando stragista, Kalashnikov slovacchi giunti in Francia via Belgio attraverso un uomo della Dgse, il servizio segreto parigino.Se tutto è spettacolo, in televisione, manca sempre il vero mandante, perché sfugge regolarmente il movente. Era di quello che si occupava il giudice italiano Gabriele Chelazzi, stranamente morto dopo aver scritto una lettera di protesta alla Procura di Firenze, che accusava di averlo lasciato solo, senza uomini e mezzi. Lo racconta un super-poliziotto, Michele Giuttari, che fece condannare i “compagni di merende”. Prima del Mostro di Firenze (la cui vera storia si è rassegnato a scriverla nei suoi romanzi), Giuttari aveva sgominato – con Chelazzi – la gang di Cosa Nostra impegnata a realizzare gli attentati dinamitardi di Milano, Firenze e Roma. Un’indagine record, con decine di mafiosi in manette. Per ordine di chi avevano agito? Totò Riina, Leoluca Baragarella. D’accordo, si domanda Giuttari: ma chi aveva ordinato a Riina e Bagarella di piazzare ordigni fuori dalla Sicilia? E per quale oscuro motivo? Per una ragione formidabile e al tempo stesso indicibile: terremotare l’Italia e renderla fragile, mentre i poteri forti organizzavano la tagliola fatale del Trattato di Maastricht, l’inizio della fine delle economie prospere e sovrane. A dirlo non è Giuttari ma Dezzani, lo studioso che ora accusa i politci catalani di essersi fatti strumento di quegli stessi poteri oligarchici che – c’è da giurarci – spingeranno il vento nelle vele degli autonomisti lombardi e veneti al referendum del 22 ottobre, sperando di veder presto anche l’Italia sbriciolarsi, come la Spagna, per meglio dominare, finanziariamente, un popolo ormai ipnotizzato dalla televisione.Inorridisce giustamente, l’italiano medio, di fronte alla brutalità della polizia spagnola che a Barcellona prende a calci i giovani inermi finiti a terra, maltratta le donne tirandole per i capelli, rompe nasi e spezza braccia, spara nel mucchio proiettili di gomma ad altezza uomo, spintona e strattona persino le nonne, trascinandole via come pericolose terroriste. Inorridisce, ma senza chiedersi come mai tanta violenza di Stato venga esibita di colpo a reti unificate. E si domanda invece, giustamente, per quale motivo il governo democratico di Madrid non si vergogni nemmeno un po’ dello spettacolo barbarico dei suoi agenti antisommossa, i robocop neri a cui è stato semplicemente ordinato di picchiare senza riguardi, di pestare gente con le mani alzate, di spedire all’ospedale cittadini, popolo, anziani. Sono le domande naturali, ovvie, che assillano e disturbano lo spettatore neutrale, estraneo ai fatti, turbato dalla violenza andata in scena a Barcellona. Quegli interrogativi se li pongono anche gli addetti all’informazione ospiti dei talkshow. Ma, attenzione: sono gli stessi giornalisti mainstream che si guardarono bene dal fiatare quando a prendere a calci i cittadini – italiani – erano le forze antisommossa spedite dal governo di Roma in valle di Susa col medesimo ordine: mandare all’ospedale la gente che aveva osato protestare, presidiare spazi e invocare giustizia, molto prima che la battaglia NoTav venisse inquinata dalle derive rabbiose nate dall’esasperazione.
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Sepúlveda: repubblica federale, o la Spagna non esisterà più
«Mariano Rajoy sta giustificando la brutalità dimostrata dalla Guardia Civil e dalla Policía Nacional contro una popolazione civile, contro cittadini che, con o senza ragione, volevano solo andare alle urne e votare». Luis Sepúlveda, scrittore cileno che ha scelto di vivere in Spagna il suo lungo esilio, e di cui è appena uscito in Italia il libro “Storie ribelli” (Guanda) parla con il “Corriere della Sera” mentre in televisione scorrono le immagini della conferenza stampa del premier spagnolo, che ha dato ordine ai reparti antisommossa di usare la forza contro la popolazione: oltre 700 persone ferite da pugni e calci, manganellate e proiettili di gomma. «Fino a pochi giorni fa, il numero dei catalani disposti a partecipare al referendum era la metà di quelli che hanno poi tentato di votare», osserva Sepúlveda, intervistato da Sara Gandolfi. I catalani «non hanno votato per o contro l’indipendenza», sostiene l’autore del bestseller “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”. I cittadini di Barcellona e Girona «votavano per il diritto a decidere liberamente, e contro l’arroganza di un governo ottuso, troppo vicino al franchismo, troppo immobile e insensibile ai problemi che si devono risolvere in modo politico e mai con la forza della repressione».
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Messora: bei tempi, quando esisteva il Movimento 5 Stelle
«C’era una volta il Movimento 5 Stelle». Era fatto «di cittadini che prendevano decisioni tutti insieme, dopo avere scartato migliaia di scelte alternative, valutate attentamente una per una». La televisione «era considerata complice del sistema e artefice del decadimento civico e culturale», e i sondaggi «erano l’antitesi della buona politica», nemici della democrazia diretta. All’indomani dell’investitura di Luigi Di Maio, il blogger Claudio Messora, fondatore di ByoBlu e già comunicatore dei pentastellati, intona il de profundis del movimento grillino. Bei tempi, quando «la demoagogia ripugnava tutti» e i protagonismi «erano il peccato originale, da cui era necessario pentirsi», sublimandolo «nella retorica del “cittadino portavoce”». Tutto era trasmesso in streaming, due mandati erano “due legislature” (e non dieci anni). Le cariche interne «ruotavano ogni tre mesi, tutte, così nessuno avrebbe potuto impadronirsi di una poltrona e diventare inamovibile. Tanto, un portavoce era solo un segnaposto della volontà degli attivisti certificati: era sostituibile».Le riunioni a porte chiuse? Atra «eresia blasfema, perché contrarie alla trasparenza»: per definizione «ponevano nelle mani di pochi il potere di elaborare strategie nascoste». Democrazia diretta e strategie di palazzo? «Incompatibili a priori». Il titolo di “onorevole”, poi, «era una macchia indelebile da cancellare con lunghi pellegrinaggi nei MeetUp di origine». All’epoca, il capo politico non esisteva ancora: non lo era neppure Beppe Grillo. C’erano solo due garanti, Grillo e Casaleggio, «lungimiranti fondatori, che tenevano a freno le derive individualistiche di ragazzi catapultati all’improvviso nelle stanze del potere senza i necessari anticorpi, omaggiati e riveriti dai media e dalle associazioni di interessi». Erano i tempi in cui Casaleggio rimetteva alla rete ogni decisione, e la rete talvolta votava perfino contro a quello che avrebbe voluto lui, come nel caso della depenalizzazione del reato di clandestinità, continua Messora. «Il rispetto degli attivisti era non solo formale, ma sostanziale, e questo si traduceva in referendum online dagli esiti mai scontati e presentati con completezza di informazione. Anche perché gli attivisti di una volta, quelli che si erano scorticati la pelle delle mani nel corso di interminabili banchetti al freddo e al gelo, non avrebbero mai e poi mai accettato niente di meno».Erano i tempi in cui Grillo girava senza scorta per le strade di Roma, perché lui poteva permetterselo e se ne vantava. Oggi invece Di Maio «ha bisogno di girare circondato dalla security». Bei tempi, appunto, quando il Movimento 5 Stelle «provava a declinare in politica il suo retroterra antieuropeista e sovranista, antielitario e fieramente populista», come rivendicato dallo stesso Casaleggio, «il genio comunicativo» che spesso «stravolgeva ogni aspettativa e ribaltava la prospettiva». E lo stesso Grillo «scendeva a Roma chiamando il popolo in piazza Montecitorio, e i politici scappavano dal palazzo come topi in fuga, mentre le acque si facevano agitate e rombavano minacciose, facendo tremare i muri delle aule». Quelli, continua Messora, erano i tempi in cui il Movimento 5 Stelle era diverso da tutte le altre forze del sistema, da Bersani ai mostri di Bruxelles, «il peggio degli europeisti banchieri, artefici dell’austerity come l’Alde, in cui i 5 Stelle Europa volevano confluire sotto la sapiente guida di europarlamentari stimati da Mario Monti e ormai dimentichi della logica dei portavoce, ma sempre più calati nei panni del perfetto manovratore di palazzo».Quei tempi sono finiti, scrive Messora. «Oggi il Movimento 5 Stelle è un partito. Si comporta da partito. Ha i riti di un partito. Accentra il potere, come un partito. Ha i suoi servi, i suoi yes-men, i suoi adoratori, i suoi fan, la sua terminologia, i suoi giornalisti, come un partito. Ha perfino il culto della personalità del capo». E’ finita la spinta propulsiva, la voglia di rottura, «la narrazione dirompente, la creazione di un linguaggio differente, motivante, sferzante, con i suoi neologismi dissacranti». Si è esaurita «la componente di attivismo disinteressato e un po’ ingenuo, l’esaltazione dell’uguaglianza», che aveva attratto «intellettuali anticonvenzionali che rappresentavano visioni diverse e inascoltate sulla società, sulle tematiche ambientali, sul futuro». Tutto questo non esiste più, dice Messora: il Movimento 5 Stelle ha compiuto la sua metamorfosi. «Dal bozzolo è uscito un leader (termine che un tempo avrebbe procurato inguaribili allergie e insopportabili pruriti)», il quale «ha vinto primarie senza rivali, con risultati bulgari, che in ossequio all’era dei reality show hanno tuttavia beneficiato di una suspence artificiale, con tanto di musica da nomination del Grande Fratello». Poco seria, la faccenda: i vertici avevano già scelto Di Maio da tempo, «quindi la cosa più ragionevole da fare (e più onesta) sarebbe stata per il garante prendersi la responsabilità di proporre Di Maio e sottoporre il suo nome a una ratifica referendaria sul blog, da parte degli attivisti». Sempre meglio che una (finta) vittoria, senza concorrenti.Nel sogno della diversità, i primi “grillini” ci avevano creduto «quando tutti gli altri li prendevano in giro». E avevano combattuto contro qualunque pregiudizio perché erano davvero affascinati «dalla purezza cristallina di un’idea coraggiosa e sfrontata», ed erano riusciti a coinvolgere con il loro disinteressato entusiasmo ben 9 milioni di elettori «che nulla sapevano dei Cinque Stelle», ma avevano «interiorizzato solo un grande, immenso vaffanculo». Alla fine di questa metamorfosi, ecco dunque un partito in pole position nei sondaggi: un partito leaderistico, «nato pescando nelle ideologie di sinistra, così come nel serbatoio di elettori delusi a destra», ma che ora – rinnegato Farage con la sua Brexit e sfatato il mito dell’accoglienza tout court dei rifugiati – si è «riposizionato con nonchalance al centro, lontano dagli estremi e in corsa per Palazzo Chigi con il beneplacito della Chiesa, del potere transazionale della Trilaterale (Monti, Napolitano & Co), delle lobby, dell’establishment americano in cui il Cinque Stelle è di casa, dei circoli europeisti di Bruxelles, della finanza internazionale e dei mercati, cui Di Maio si è appellato personalmente».Ma attenzione, continua Messora: è un partito che non ha segreterie né strutture dirigenziali, non ha correnti ma neppure regole, non ha tempi certi per sostituire il capo politico, che può decidere candidature ed espulsioni. Un partito ibrido, «dove tutti sono d’accordo perché gli altri per definizione sono già stati espulsi», e molti di quelli che avevano remore e hanno pensato per lungo tempo di esternarle «ora sorridono sul palco dietro a Luigi che abbraccia Beppe, come se fossero tutti una grande famiglia da Mulino Bianco». Ma dov’è la democrazia, cioè la facoltà di dissentire? «Poi il risultato sono primarie che assomigliano più a un sorteggio di Champions, dove in un girone da una parte c’è la Juventus e dall’altra tre squadrette dell’oratorio». Di certo, concede Messora, «non ci troviamo di fronte a una forza politica peggiore del Pd, di Forza Italia, della Lega e di tanti altri soggetti che da lungo tempo calcano il palcoscenico istituzionale».Magra consolazione: questo nuovo partito «non ha ancora avuto modo di fare i danni che i vecchi partiti hanno certamente e incontestabilmente apportato al tessuto sociale, produttivo ed economico del paese». E’ vero, il nuovo “partito” 5 Stelle non ha un solido programma alternativo. Però «non lo si può accusare di essere responsabile delle privatizzazioni, delle liberalizzazioni, delle cessioni di sovranità, della sottomissione ai mercati, della distruzione del tessuto produttivo e della domanda interna, della ratifica del pareggio di bilancio, del Fiscal Compact, del Mes». Tutte «disgrazie», aggiunge Messora, che il partito ora capeggiato da Di Maio «ha finora dimostrato di non avere compreso e alle quali non sembra intenzionato a porre rimedio». E questo è l’aspetto di gran lunga più preoccupante: gli ex “ribelli” pentastellati non si impegnano contro il vero nemico, nemmeno lo vedono. O fingono di non vederlo, che è ancora peggio.«C’era una volta il Movimento 5 Stelle». Era fatto «di cittadini che prendevano decisioni tutti insieme, dopo avere scartato migliaia di scelte alternative, valutate attentamente una per una». La televisione «era considerata complice del sistema e artefice del decadimento civico e culturale», e i sondaggi «erano l’antitesi della buona politica», nemici della democrazia diretta. All’indomani dell’investitura di Luigi Di Maio, il blogger Claudio Messora, fondatore di ByoBlu e già comunicatore dei pentastellati, intona il de profundis del movimento grillino. Bei tempi, quando «la demoagogia ripugnava tutti» e i protagonismi «erano il peccato originale, da cui era necessario pentirsi», sublimandolo «nella retorica del “cittadino portavoce”». Tutto era trasmesso in streaming, due mandati erano “due legislature” (e non dieci anni). Le cariche interne «ruotavano ogni tre mesi, tutte, così nessuno avrebbe potuto impadronirsi di una poltrona e diventare inamovibile. Tanto, un portavoce era solo un segnaposto della volontà degli attivisti certificati: era sostituibile».