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Magaldi: gialloverdi al 70% se osano sfidare il Deep State
Primo round: il governo gialloverde fa qualcosa di veramente eretico, straordinario e rivoluzionario. Ovvero: annuncia un deficit del 7-8%, o anche del 10%. Secondo round: l’eurocrazia insorge, massacrando l’Italia con ogni mezzo. E quindi minacce, ritorsioni, spread a mille, bocciatura del bilancio (e assedio dei media pro-Ue, a reti unificate). Terza mossa: il governo si dimette, clamorosamente, appellandosi agli elettori. Magari indice un referendum, come quello voluto in Grecia da Tsipras. Poi affronta nuove elezioni, e incassa un plebiscito: gialloverdi al 70% dei consensi. A quel punto, finalmente, la resa dei conti: epurazione di tutti i burocrati infiltrati dal potere-ombra negli uffici che contano, cominciando dai ministeri. Un sogno? Per ora, sì. Ma se non si agisce in questo modo, sostiene il sognatore Gioele Magaldi, la rivoluzione non l’avremo mai. E attenzione: per come siamo ridotti, proprio una rivoluzione – pacifica, democratica – è l’unica soluzione possibile, l’unica via d’uscita dignitosa dall’euro-stagnazione inflitta a tutta l’Europa, e in particolare all’Italia, dai signori del neoliberismo. Sono i super-oligarchi che impongono regole di ferro agli altri, ma campano alla grande facendosi fare leggi su misura per il loro business, anche truccando i conti pubblici come fa la Germania (che dichiara un debito all’80% del Pil mentre quello reale è il triplo).Non se ne esce mai, dal trappolone europeo? Certo, e non se ne uscirà fino a quando il cosiddetto Deep State sarà saldamente radicato in tutti i gangli vitali dello Stato. Burocrati e tecnocrati, servizi segreti pubblici e privati, banca centrale, uffici ministeriali, Quirinale. Ne ha parlato apertamente un parlamentare pentastellato, Pino Cabras, il 30 marzo a Londra. Eletto alla Camera in Sardegna lo scorso anno, Cabras – storico collaboratore di Giulietto Chiesa – ha partecipato al convegno “Un New Deal per l’Italia e per l’Europa”, promosso dal Movimento Roosevelt, soggetto meta-partitico fondato da Magaldi per rigenerare in senso democratico la politica italiana, stimolando i partiti a fare di più per recuperare la perduta sovranità popolare. Decisamente fuori programma l’esplicita ammissione di Cabras: a unire Lega e 5 Stelle, alleati ma sostanzialmente divisi su tutto, è l’impegno a resistere insieme alle “mostruose” pressioni del Deep State, che si è attivato per frenare il cambiamento promesso: dare più soldi agli italiani, ampliando il welfare e tagliando le tasse. Ed è intervenuto sin dal primo giorno, lo “Stato profondo”, inserendo le sue pedine nell’esecutivo Conte. Postilla: senza i “controllori di volo” (esempio, Tria al posto di Savona), il governo non sarebbe mai nato.Di Maio e Salvini hanno accettato la sfida: meglio di niente, si sono detti, perché solo il governo gialloverde (benché azzoppato in partenza) avrebbe potuto almeno tentare di cambiare qualcosa, liberando l’Italia dall’incubo dell’austerity. Ce l’ha fatta? No, purtroppo. Si è visto bocciare persino la timida richiesta di portare il deficit al 2,4%, cioè ben al di sotto del famigerato tetto del 3% imposto da Maastricht (e che la Francia di Macron violerà, con l’alibi della protesta dei Gilet Gialli). Proprio i Gilet Jaunes, sostiene Magaldi, erano un regalo della massoneria progressista internazionale. Il piano: destabilizzare la Francia, sentinella dell’euro-rigore, proprio mentre l’Italia friggeva, per quel misero 2,4%, sulla graticola della Commissione Europea. Ma il governo Conte non ne ha saputo approfittare: raro caso di insipienza politica e di mancanza di coraggio, di assenza di visione. Ora i pericoli sono dietro l’angolo: senza la necessaria benzina finanziaria per mantenere le promesse, i 5 Stelle sono già in picchiata nei sondaggi. Regge la Lega, ma solo per ora, grazie alla muscolarità (verbale) di Salvini. Però il tempo vola: in soli due anni, Matteo Renzi è passato dal 40% all’estinzione politica.Si spera nelle europee, per erodere il potere dello “Stato profondo” neoliberista che utilizza come clava l’asse franco-tedesco? Pie illusioni: secondo Magaldi non cambierà proprio niente, fino a quando la bandiera della protesta sarà agitata dai sedicenti sovranisti, velleitari demagoghi delle piccole patrie. Per chi non se ne fosse accorto, impera la globalizzazione: tutto è fatalmente interconnesso. Nessun paese, da solo, può sperare di uscire indenne da una fiera diserzione. Parla per tutti la Grecia, che disse “no” all’euro-tagliola. Risultato: Tsipras fu intimidito e costretto a piegarsi, tradendo la volontà del popolo. Alla Grecia arrivarono aiuti finanziari, ma solo per soccorrere le banche tedesche e francesi esposte con Atene. Il paese è stato sventrato, svenduto e distrutto, riducendo i greci in povertà. E nessuno Stato europeo è intervenuto in suo soccorso. In Francia, era stato François Hollande a candidarsi come anti-Merkel, promettendo di allentare il rigore di bilancio imposto da Bruxelles. Esito inglorioso: blandizie e minacce, compresi gli attentati terroristici targati Isis. In pochi mesi, Hollande ha ceduto su tutta la linea, rassegnandosi al ruolo di docile esecutore dell’ordoliberismo Ue.Anni fa, proprio Magaldi sosteneva che solo l’Italia avrebbe potuto accendere la miccia del cambiamento. «L’Italia traccia le strade», diceva Rudolf Steiner, attribuendo al Belpaese un ruolo storico di battistrada. Una specie di destino: prima il “format” dell’Impero Romano, poi il Rinascimento e la democrazia comunale, le prime università, le prime banche. Italia caput mundi, nel bene e nel male: in fondo, Hitler si considerava allievo del maestro Mussolini. Proprio l’Italia primeggiò ancora una volta nel dopoguerra: fece il record mondiale di crescita, con il boom economico, anche se non tutti applaudivano. L’uomo-simbolo di quegli anni ruggenti, Enrico Mattei, fu disintegrato a bordo del suo aereo. Oggi, dopo mezzo secolo, l’Europa è ancora una volta alle prese con il “problema” Italia, grazie a un governo teoricamente non-allineato a Bruxelles. Esecutivo capace di firmare un memorandum d’intesa commerciale con la Cina, che irrita pericolosamente gli Usa e manda su tutte le furie Parigi e Berlino, ovvero i due maggiori nazionalismi anti-europeisti su cui si regge l’infame Disunione Europea, quella che ha lasciato morire impunemente i bambini greci, negli ospedali rimasti senza medicine.Non bastano più, dice Magaldi, le sole analisi degli economisti democratici che in questi anni hanno smascherato tutte le bugie del neoliberismo. La prima: tagliare il debito pubblico risana l’economia. Falso: lo dimostra la scienza economica, da Keynes in poi, e lo confermano Premi Nobel come Krugman e Stiglitz. Ovvero: il deficit strategico – a patto che sia massiccio, e investito con oculatezza – può valere anche il 400%, in termini di Pil. Tradotto: oggi spendo dieci, e domani incasserò quattro volte tanto (lavoro, salari, consumi, e infine anche tasse). Beninteso: lo sanno tutti, a cominciare da quelli che fingono di non saperlo. Come Mario Draghi, che fu allievo del maggior economista keynesiano europeo – italiano, tanto per cambiare: il professor Federico Caffè. Tesi di laurea del giovane Draghi: l’insostenibilità di una moneta unica europea. Farebbe ridere, se non ci fosse da piangere. Specie se si calcola che Draghi fu accolto a bordo del Britannia, all’epoca della grande spartizione della Penisola, alla vigilia delle privatizzazioni degli anni ‘90 che hanno sabotato la nostra florida economia. Lo stesso Draghi ha lasciato il segno anche in Grecia: prima come manager della Goldman Sachs, la banca-killer che gonfiava i bilanci di Atene, e poi – a disastro compiuto – come inflessibile censore della Bce, in seno alla spietata Troika europea.Ancora lui, Mario Draghi, è l’uomo a cui risponde, di fatto, il governatore di Bankitalia. E proprio da Ignazio Visco, il presidente Mattarella – con una mossa senza precedenti – spedì l’allora premier incaricato, Conte, a prendere appunti su come non attuarlo affatto, il cambiamento appena promesso agli elettori. Pino Cabras lo chiama “Stato profondo”, e difende la strategia di Di Maio e Salvini: accettare la logica di una guerra di logoramento, dice Cabras, è l’unica soluzione praticabile. Non la pensa così Gioele Magaldi: a suo parere, è una tattica perdente. Nel libro “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere, ridisegna la mappa del Deep State, presentandolo come interamente massonico. Un potere a due facce: quella progressista (da Roosevelt ai Kennedy, fino allo svedese Olof Palme) spinse avanti la modernità dei diritti sociali in senso democratico, nei decenni del grande benessere diffuso. L’altra faccia, oligarchica – Merkel e Macron, Prodi e D’Alema, lo stesso Draghi – ha chiuso i rubinetti della finanza pubblica, inaugurando la globalizzazione del rigore e quindi l’impoverimento generale della popolazione occidentale, fino alla quasi-sparizione della classe media (che infatti oggi in Italia vota Salvini e Di Maio).Contro questo regime, insiste Magaldi, non valgono più né le pregevoli rivelazioni dei tanti economisti onesti, né i recenti tatticismi dei gialloverdi. Serve una rivoluzione, a viso aperto. Un paese che dica: “Adesso sforiamo il tetto di Maastricht. E se non vi va bene, sospendiamo la vigenza dei trattati europei”. Addirittura? Certo, altra via non esiste. Se ci si piega al racket, l’estorsione continua all’infinito. Anche in politica: la molla su cui fa leva il prevaricatore è sempre la stessa, la paura. Se si smette di avere paura, tutto il castello crolla. Perché quel ricatto è basato su un sortilegio psicologico, come quello che rende misteriosamente tenebroso l’invisibile Mago di Oz, in apparenza invincibile: in realtà è soltanto una bolla, che può dissolversi in un attimo. E’ già successo, nella storia. Sotto la sferza della Grande Depressione, la destra economica consigliò a Roosevelt di tagliare il debito – pena, l’apocalisse. Ma il presidente, ispirato da Keynes, fece l’esatto contrario: espansione smisurata del deficit. Risultato: l’America, che era alle prese con l’incubo quotidiano della fame, divenne una superpotenza. Non è che siano cambiate, le regole: il sistema è sempre quello capitalista. Non solo: è diventato universale, incorporando anche Russia e Cina (che infatti, così come gli Usa e il Giappone, non hanno nessuna paura di fare super-deficit, sapendo che è il solo modo per alimentare il mercato interno dei consumi, e quindi l’occupazione).Il Mago di Oz ora si chiama Unione Europea, si chiama Eurozona. Una vergogna mondiale, senza più democrazia: comanda la Bce, insieme alla Commissione formata da tecnocrati non-eletti. Non c’è una vera Costituzione, e il Parlamento Europeo non può eleggere il governo europeo. Siamo precipitati nella barbarie di un neo-feudalesimo, una specie di Sacro Romano Impero. D’accordo, ma per volere di chi? Magaldi non ha esitazioni nell’indicare i responsabili: massoni reazionari. Militano nelle Ur-Lodges neoaristocratiche. Sono strutture segrete e trasversali, spregiudicate e apolidi, senz’altra patria che il denaro. Hanno deformato la stessa geopolitica: quando parliamo di Russia, Europa, Cina e Stati Uniti, dovremmo invece saper distinguere tra élite oligarchiche ed élite a vocazione democratica. Esistono anche quelle, infatti: sono di segno progressista. Negli ultimi decenni sono state costrette a cedere il passo alla plutocrazia neoliberista, ma adesso stanno rialzando la testa. Lo stesso Magaldi ammette di agire d’intelligenza con alcune di queste strutture, come la superloggia Thomas Paine. Problema pratico, innanzitutto: se è stata la supermassoneria a creare il problema, non può che essere la stessa supermassoneria (lato B, progressista) a contribuire a risolverlo.Magaldi non demonizza le Ur-Lodges, non ne fa una speculazione complottistica. Se la massoneria sa di aver fondato la modernità – Stato di diritto, laicità delle leggi, suffragio universale democratico – è umano che pensi (sbagliando) di poter fare quello che vuole, della sua “creatura”. La distorsione è cominciata negli anni ‘70, con il saggio sulla “Crisi della democrazia” commissionato dalla Trilaterale, potente entità paramassonica. La tesi: troppa democrazia fa male. Dove siamo arrivati, oggi? Lo si è visto: un certo signor Pierre Moscovici, non votato da nessuno, ha il potere di bocciare il bilancio del governo italiano regolarmente eletto. Lo si può subire in silenzio, un affronto simile? Nossignore: la verità va gridata. Lo stesso Moscovici sa benissimo che un deficit robusto farebbe volare l’economia. Una volta, lo sapeva anche la sinistra (che oggi tace). Lega e 5 Stelle? Si limitano a brontolare, ma poi ingoiano il rospo. Peggio: sparano a vanvera contro la massoneria, fingendo di non sapere che sono proprio i supermassoni oligarchici a ostacolare il loro governo. Cosa aspettano a vuotare il sacco?Magaldi è esplicito: le Ur-Lodges progressiste sono pronte ad aiutarli, se smetteranno di essere ipocriti sulla massoneria, come se non sapessero che persino il governo gialloverde pullula di massoni occulti, non dichiarati. Sperano nelle europee, leghisti e grillini? Errore grave: nessuno verrà in aiuto dell’Italia, se non sarà il nostro paese – per primo – ad alzare la testa. Come? Nell’unico modo possibile: una rivoluzione gandhiana, basata sull’obiezione ideologica. Può svanire in attimo, la grande paura del Mago di Oz, se solo qualcuno avrà l’elementare coraggio democratico che oggi ancora manca, ai gialloverdi. Una rivoluzione potrebbe spazzarli via in un amen, i mammasantissima del peggior Deep State. Restano invece al loro posto, i boiardi dello “Stato profondo”, proprio perché a proteggerli – prima di ogni altra cosa – è proprio la nostra stessa paura. Per Magaldi, scontiamo anche un vuoto culturale: da riempire, per la precisione, ricorrendo al socialismo liberale teorizzato da Carlo Rosselli. Una corrente di pensiero illuminante ma rimasta in ombra, schiacciata dal fascismo e dallo stesso socialismo massimalista, prima ancora che dal comunismo. Poi venne l’atroce neoliberismo, nelle due versioni: quella sfrontata, della destra economica reaganiana, e quella – più ambigua nella forma ma identica della sostanza – del “terzismo” di Anthony Giddens adottato dall’ex-sinistra occidentale, da Blair fino a D’Alema, grandi protagonisti dell’attuale post-democrazia.Il succo non cambia: Stato minimo. Il privato ha sempre ragione. Nei fatti, il neoliberismo è un imbroglio: santifica l’impresa, ma a spese dello Stato. E quando scoppia Wall Street, è il bilancio pubblico a tenere in piedi le banche-canaglia. Turbo-globablizzazione mercantile, e addio diritti. Delocalizzazioni, privatizzazioni. Parola d’ordine, per i non privilegiati: arrangiarsi. Dogma assoluto: demolire l’impresa pubblica, che era il cemento armato del boom italiano. In Svezia, Olof Palme impegnò lo Stato a salvare le aziende traballanti, a due condizioni: management statale, e lavoratori coinvolti come azionisti (con tanto di dividendi, a fine anno). Fu ucciso a Stoccolma nel 1986, all’uscita di un cinema. Tuttora sconosciuto il killer, ma non il mandante: possiamo chiamarlo Deep State. Con Palme, questa Europa cialtrona non sarebbe mai potuta nascere. Al leader svedese, il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno a Milano il 3 maggio. Sul podio altri due giganti, lo stesso Rosselli e l’africano Thomas Sankara, anch’essi assassinati. Non difettavano di coraggio: sapevano di dover combattere, sfidando il potere ostile a viso aperto. E’ quello che dovrebbe fare anche l’Italia, ribadisce Magaldi. Sapendo che, da sole, le élite possono fare poco. Se però si sveglia il popolo, allora non c’è Deep State che tenga. E’ così che funzionano, le rivoluzioni che mandano avanti, da sempre, la storia dell’umanità.(Le riflessioni di Gioele Magaldi sono tratte dalla diretta web-streaming su YouTube “Gioele Magaldi Racconta” del 1° aprile 2019, condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”).Primo round: il governo gialloverde fa qualcosa di veramente eretico, straordinario e rivoluzionario. Ovvero: annuncia un deficit del 7-8%, o anche del 10%. Secondo round: l’eurocrazia insorge, massacrando l’Italia con ogni mezzo. E quindi minacce, ritorsioni, spread a mille, bocciatura del bilancio (e assedio dei media pro-Ue, a reti unificate). Terza mossa: il governo si dimette, clamorosamente, appellandosi agli elettori. Magari indice un referendum, come quello voluto in Grecia da Tsipras. Poi affronta nuove elezioni, e incassa un plebiscito: gialloverdi al 70% dei consensi. A quel punto, finalmente, la resa dei conti: epurazione di tutti i burocrati infiltrati dal potere-ombra negli uffici che contano, cominciando dai ministeri. Un sogno? Per ora, sì. Ma se non si agisce in questo modo, sostiene il sognatore Gioele Magaldi, la rivoluzione non l’avremo mai. E attenzione: per come siamo ridotti, proprio una rivoluzione – pacifica, democratica – è l’unica soluzione possibile, l’unica via d’uscita dignitosa dall’euro-stagnazione inflitta a tutta l’Europa, e in particolare all’Italia, dai signori del neoliberismo. Sono i super-oligarchi che impongono regole di ferro agli altri, ma campano alla grande facendosi fare leggi su misura per il loro business, anche truccando i conti pubblici come fa la Germania (che dichiara un debito all’80% del Pil mentre quello reale è il triplo).
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Magaldi: Michael Jackson massone, ucciso per una canzone
«Se ci fossero ancora Roosevelt e Martin Luther King, queste cose non succederebbero». Chi l’ha detto? Michael Jackson, nientemeno. Anzi: lo ha cantato, nel brano “They don’t care about us” (non gliene frega niente, di noi). «Era il 1995, e probabilmente quei versi gli sono costati la vita», avverte Gioele Magaldi, esponente italiano del network massonico progressista internazionale nonché presidente del Movimento Roosevelt. “Testa scuoiata, testa morta: cibo per cani, tutti”. Noi e loro, l’élite. Osò ribellarsi, l’ex divo di plastica, intonando un martellante inno alla rivolta – memorabile il videoclip girato in una favela brasiliana, tra gli ultimi della terra, sotto l’occhiuta sorveglianza della polizia, presentata come il braccio armato degli oligarchi. Tema, l’ingiustizia sociale planetaria. Ovvia la citazione del reverendo King. Assai meno scontata – in bocca a “Jacko” – la seconda citazione: quella di Franklin Delano Roosevelt, il presidente del New Deal. Svelare l’arcano è meno difficile del previsto, se si tiene conto che l’autore di “Thriller” e “Billie Jean” faceva parte – addirittura dal 1975, pare – della massoneria di Prince Hall, la comunione iniziatica dei grandi artisti afroamericani, da James Brown a Ray Charles, incluso l’immenso Louis Armstrong.Sul tema è intervenuto anche Gianfranco Carperoro, “rooseveltiano” quanto Magaldi, per spiegare un paio di cose. La prima: Prince Hall fu la risposta massonica dei neri, esclusi dalla massoneria bianca americana. «E cosa potevano fare per esprimersi, i neri, nell’America segregazionista? Cantare, naturalmente: far parlare la loro musica». Seconda notizia: Jackson fu assassinato perché il potere aveva capito che l’ex Peter Pan del pop mondiale poteva diventare pericoloso, se avesse convertito i suoi milioni di fan alla causa sociale contro questa globalizzazione a senso unico, dei ricchi contro i poveri. Michael Jackson massone? Ebbene sì, rivelano Magaldi e Carpeoro: fu avvicinato dal grande produttore Quincy Jones. Motore culturale della black music, la leggendaria Motown Records di Detroit: la vera fonte della Prince Hall Freemansonry. «Difenderemo la sua memoria», avverte Magaldi, «di fronte a una denigrazione spregevole come quella del documentario “Leaving Neverland”, che Robert Redford ha purtroppo presentato al Sundance Festival». Il regista, Dan Reed, si concentra solo sui presunti abusi sessuali che Michael Jackson avrebbe perpetrato nei confronti di due bambini di 7 e 10 anni, oggi trentenni: Wade Robson e James Safechuck. Conferma Gabriele Antonucci, su “Panorama”: «Lascia davvero perplessi la scelta di intervistare solo i due protagonisti e i loro stretti familiari, con primi piani, lacrime di prammatica e musichette d’atmosfera».Il film, scrive Antonucci, «non offre quella pluralità di voci e quell’approfondimento che sono elementi indispensabili a ogni documentario degno di questo nome». Inoltre, aggiunge “Panorama”, «a fronte di accuse gravissime, appare davvero incredibile che il regista non si sia premurato di ascoltare o di riportare la versione dei fatti di uno dei rappresentanti legali o della fondazione che cura gli interessi di Jackson: il diritto alla difesa, in caso di accuse penalmente rilevanti, è costituzionalmente garantito in ogni Stato occidentale, in Usa come in Italia». Dal lungometraggio, di una durata parossistica (4 ore), «non sono emerse prove concrete che diano credibilità alle testimonianze», aggiunge Antonucci. C’è solo «uno sfilacciato taglia e cuci di immagini e dichiarazioni, il cui unico obiettivo è screditare Michael Jackson». Il regista Marcos Cabotà, presente alla “prima”, stronca il lavoro di Reed con queste parole: «Non riesco a credere a una sola parola delle due “vittime”. Cattiva recitazione. A volte, vergognosa. La regia e i testi sono addirittura peggio». Jackson uscì indenne dai processi per pedofilia: innocente, per la giustizia Usa. Ma i giornali ridussero l’happy end a poche righe: niente a che vedere con l’inferno di titoli a tutta pagina, “sparati” per dare risalto alle infamanti accuse.La prima piovve addosso all’eccentrico artista nel 1993, quando Evan Chandler, un ex dentista di Los Angeles (radiato dall’albo), raccontò che Jackson avrebbe abusato di suo figlio Jordan. Lo scandalo costò carissimo al cantante, impegnato in un tour planetario: anziché denunciarlo per tentata estorsione, “Jacko” sborsò a Chandler una cifra imprecisata, ma il suo sponsor – la Pepsi – rescisse il contratto. Poi l’accusa crollò: Evans, al telefono con l’avvocato, spiegò che voleva semplicemete vendicarsi: la sua ex moglie e Michael Jackson, che erano molto amici, si erano rifiutati di prestargli dei soldi. Non era finita: il piccolo Jordan denunciò suo padre per tentato omicidio. E nel 2009, cinque mesi dopo la morte di Jackson, Evan Chandler si uccise sparandosi alla testa, in una camera d’albergo. Ma i guai per il re del pop riesplosero nel 2003, quando Jackson fu addirittura arrestato per molestie ai danni del giovanissimo Gavin Anzo, malato di cancro e assistito dalla popstar. Nel 2005, però, Jackson fu assolto con formula piena (mai commesso reati), mentre la madre di Gavin fu condannata per frode fiscale. Ma intanto la demolizione pubblica era stata devastante: Michael Jackson era ridotto a un fantasma. E proprio mentre si stava finalmente riprendendo, con in programma il grande rientro sulle scene, a Londra, fu improvvisamente tolto di mezzo.Lo stesso Carpeoro mette in relazione il caso Jackson con l’ex produttore dei Beatles, il geniale Phil Spector. Fu lui, dice, a presentare a Michael Jackson il dottor Conrad Murray, cioè il medico poi condannato per avergli somministrato la dose letale di Propofol, il 25 giugno 2009, a tre settimane dai concerti di Londra. Murray era in contatto con Spector, assicura Carpeoro, e lo stesso Spector aveva inutilmente chiesto a “Jacko” che gli cedesse i diritti dei Beatles, che Michael aveva acquisito. Dopo una lunga lite proprio su quei diritti era stato ucciso John Lennon: l’assassino, Mark David Chapman, dichiarò di aver agito obbedendo “al demonio”. Satanismo? Sempre Carpeoro collega Spector anche alla morte di Sharon Tate, moglie di Roman Polanski, uccisa alla vigilia della presentazione del film “Rosemary’s baby”. E’ la storia – terribile – di un bambino “consacrato a Satana”. «Il film – rivela Carpeoro – era la trasposizione dell’infanzia dello stesso Spector, figlio di genitori satanisti. Spector l’aveva confidata a Polanski, che però non avrebbe mai dovuto farne un film». Per l’omicidio di Sharon Tate finì all’ergastolo Charles Manson, anche lui in contatto con Spector: il produttore gli aveva promesso di farne una rockstar. Prima di morire, Manson chiese di incontrare Spector. Ma il produttore (a sua volta in carcere, per l’omicidio della sua compagna) si rifiutò di riceverlo.Michael Jackson era davvero diventato così ingombrante? Qualcuno decise di causarne addirittura la morte, dopo aver tentato di distruggerlo sul piano dell’immagine con accuse devastanti, poi rivelatesi infondate? Ne è convinto Gioele Magaldi, che avvisa: alla fine la verità verrà a galla, sul complotto di cui è rimasto vittima il “fratello” Michael Jackson. Movente: la paura che “Jacko” mettesse in piazza gli abusi dell’élite globalista. Una macchinazione di cui il documentario “Leaving Neverland” sembra l’ennesimo capitolo, postumo, per provare – ancora una volta – a spegnere la memoria dell’artista che 24 anni fa gettò il suo guanto di sfida al potere neoliberista, con quelle parole indimenticabili. “They don’t care about us”: viviamo in un mondo dominato da oligarchi; gente a cui non importa niente, di tutti noi. “E questo non succederebbe, se fossero vivi Roosevelt e Martin Luther King”. Magaldi l’ha precisato nel suo saggio “Massoni”: l’apostolo nero della lotta antisegregazionista, assassinato due mesi prima di Bob Kennedy, era un massone progressista esattamente come Roosevelt, di estrazione rosacrociana come il “Papa buono”, Giovanni XXIII. Ed è proprio allo spirito dei Rosa+Croce che Magaldi si ispira, anche in nome del “fratello” Michael, nel ribadire che il nostro mondo ha bisogno di una rivoluzione dell’uguaglianza fondata sui diritti, come quella invocata nel ‘600 negli storici appelli rosacrociani, da cui poi nacque il socialismo europeo. Prima o poi, verrano fuori anche i nomi di chi ha deciso che Michael Jackson dovesse morire, dopo aver citato Roosevelt e King?«Se ci fossero ancora Roosevelt e Martin Luther King, queste cose non succederebbero». Chi l’ha detto? Michael Jackson, nientemeno. Anzi: lo ha cantato, nel brano “They don’t care about us” (non gliene frega niente, di noi). «Era il 1995, e probabilmente quei versi gli sono costati la vita», avverte Gioele Magaldi, esponente italiano del network massonico progressista internazionale nonché presidente del Movimento Roosevelt. “Testa scuoiata, testa morta: cibo per cani, tutti”. Noi e loro, l’élite. Osò ribellarsi, l’ex divo di plastica, intonando un martellante inno alla rivolta – memorabile il videoclip girato in una favela brasiliana, tra gli ultimi della terra, sotto l’occhiuta sorveglianza della polizia, presentata come il braccio armato degli oligarchi. Tema, l’ingiustizia sociale planetaria. Ovvia la citazione del reverendo King. Assai meno scontata – in bocca a “Jacko” – la seconda citazione: quella di Franklin Delano Roosevelt, il presidente del New Deal. Svelare l’arcano è meno difficile del previsto, se si tiene conto che l’autore di “Thriller” e “Billie Jean” faceva parte – addirittura dal 1975, pare – della massoneria di Prince Hall, la comunione iniziatica dei grandi artisti afroamericani, da James Brown a Ray Charles, incluso l’immenso Louis Armstrong.
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Bannon: son stato io a frenare Salvini sul patto con la Cina
«Trump, Bolsonaro e Salvini sono i politici più importanti al mondo». Nella santissima trinità sovranista dell’ex consigliere di Donald Trump Steve Bannon, l’europeista Carlo Calenda non compare – nonostante la foto in costume postata su Twitter. Il dibattito “Sovranismo vs Europeismo” andato in scena tra i due nella sede dell’agenzia “Comin&Partners” ha raccolto nel cuore di Roma giornalisti, uomini delle istituzioni, da Equitalia a Bankitalia, e pure qualche volto politico dei Cinque Stelle della passata legislatura. Tutti accorsi a sentire le teorie della star del sovranismo venuto dagli States, che ora punta a riorganizzare la destra nazional-populista per conquistare Bruxelles. «Ho lavorato al progetto di un movimento populista negli ultimi dieci anni, per questo Trump mi ha chiamato per la sua campagna. E l’Italia, con la Lega e i Cinque Stelle, in questo progetto è centrale», spiega Bannon. «Il sovranismo non fa paura. Gli italiani rimangono fortemente europeisti», esordisce Calenda, a pochi giorni dall’annuncio della sua candidatura come capolista Pd del Nord-Est. Ma controbattere, difendendo l’Europa, agli slogan antieuropeisti che hanno fatto il successo dei partiti populisti, è impresa ardua. «I tecnocrati di Bruxelles e di Francoforte hanno distrutto un’intera generazione di italiani», ripete più volte Bannon. «La Bce con il Quantitative Easing ha salvato l’Italia», spiega Calenda.L’“America First” isolazionista da una parte. La «globalizzazione con delle regole» e gli accordi commerciali dall’altra. È una sorta di derby. Bannon cita più volte Salvini (che è «più populista di Trump», come ha spiegato a “El País”), molto meno i Cinque Stelle. Racconta di essere in contatto continuo con i membri della Lega. E di aver sconsigliato loro di firmare il memorandum con la Cina. «È un terreno scivoloso, la Cina pratica un capitalismo predatorio per creare delle colonie», dice Bannon. «Ma è solo un memorandum of understanding, che ora va riempito. Se Luigi Di Maio ha detto che porrà cento domande sulla due diligence, io dico che dovrà porne mille». Il disaccordo sull’intesa Italia-Cina è l’unico punto d’incontro con Calenda, che lo critica però da un altra prospettiva: per «la rottura del fronte europeo, perché non possiamo contenere la Cina se va a pezzi l’Europa. Di fronte all’espansione cinese, gli Stati da soli collassano». Ma è proprio «la necessità di Stati più forti» e di una «Europa delle nazioni» quello che Bannon ribadisce più volte nel corso del dibattito, continuando a sorseggiare la sua Redbull anche quando la discussione si accende.L’ex consigliere di Trump sfodera uno a uno gli slogan contro la «dittatura di Bruxelles e Francoforte» e il «neofeudalismo del partito di Davos». «I cittadini scelgono il primo ministro», ha detto, «ma poi tutto il resto lo decidono i tecnocrati di Bruxelles, rigettando le volontà democratiche degli italiani. Se l’Italia non cresce e i giovani vanno via è colpa dell’Europa. L’unica cosa da fare è riprendersi la libertà e far tornare il potere nelle mani degli italiani». Da parte sua, Calenda sarcastico esorta Bannon a «studiare di più», se vuole diventare “l’advisor” dei nazionalisti, ricordandogli come l’Italia in realtà «non deve chiedere nessuna competenza indietro» («fammi un solo esempio», gli chiede più di una volta, senza avere risposta). «Possiamo fare anche più deficit, ma poi nessuno compra il nostro debito». Eppure la stessa Lucia Annunziata, direttrice dell’“Huffington Post”, che modera l’incontro, fa notare come «molto di quello che dice Steve Bannon incontra la percezione di moltissimi italiani. Molte delle cose che ripete sono il pane e il burro del cambiamento che c’è stato in Italia».Loro, ammette Calenda, sono stati «molto smart a cavalcare alcuni problemi. Noi siamo stati molto ingenui a non accorgercene prima. Ma non hanno alcuna soluzione». E rivolgendosi a Bannon: «Non stai più all’opposizione, stai al governo. Come risolvete i problemi? Non certo tagliando le tasse ai più ricchi come ha fatto Trump». Ma con le elezioni europee dietro l’angolo, Bannon prevede un «terremoto». I «partiti sovranisti potranno arrivare fino al 50% del Parlamento Europeo». Calenda si tiene su un più basso 10-15%: «Non saranno in grado di fare assolutamente niente e continueranno a dire che è tutta colpa dell’Europa». Ma sulle ricette economiche sovraniste, Bannon ammette che «queste forze non hanno ancora un piano focalizzato», illustrando vagamente un programma di vendita di asset e privatizzazioni. Ma, precisa, «credo che nessun leader voglia uscire dall’Europa». Però la prima cosa da fare sarà una “deregulation”, tagliando «le 35mila pagine di regolamenti europei» perché il potere «possa tornare nelle mani degli Stati-nazione, a partire dall’immigrazione». Senza sapere che, in realtà, sull’immigrazione già oggi sono gli Stati che decidono, e non l’Europa. E questo è il problema. «Quindi», conclude Calenda, «mi stai dicendo che se Salvini e Orban vinceranno, lasceranno le cose esattamente come stanno. Perché già oggi abbiamo l’Europa delle nazioni».(Lidia Baratta, “Steve Bannon, il populismo degli slogan senza soluzioni – che però funziona”, da “Linkiesta” del 26 marzo 2019).«Trump, Bolsonaro e Salvini sono i politici più importanti al mondo». Nella santissima trinità sovranista dell’ex consigliere di Donald Trump Steve Bannon, l’europeista Carlo Calenda non compare – nonostante la foto in costume postata su Twitter. Il dibattito “Sovranismo vs Europeismo” andato in scena tra i due nella sede dell’agenzia “Comin&Partners” ha raccolto nel cuore di Roma giornalisti, uomini delle istituzioni, da Equitalia a Bankitalia, e pure qualche volto politico dei Cinque Stelle della passata legislatura. Tutti accorsi a sentire le teorie della star del sovranismo venuto dagli States, che ora punta a riorganizzare la destra nazional-populista per conquistare Bruxelles. «Ho lavorato al progetto di un movimento populista negli ultimi dieci anni, per questo Trump mi ha chiamato per la sua campagna. E l’Italia, con la Lega e i Cinque Stelle, in questo progetto è centrale», spiega Bannon. «Il sovranismo non fa paura. Gli italiani rimangono fortemente europeisti», esordisce Calenda, a pochi giorni dall’annuncio della sua candidatura come capolista Pd del Nord-Est. Ma controbattere, difendendo l’Europa, agli slogan antieuropeisti che hanno fatto il successo dei partiti populisti, è impresa ardua. «I tecnocrati di Bruxelles e di Francoforte hanno distrutto un’intera generazione di italiani», ripete più volte Bannon. «La Bce con il Quantitative Easing ha salvato l’Italia», spiega Calenda.
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Perdo dunque esisto, senza futuro la fiction della Basilicata
“Quando ti rendi conto di aver perso anche la Basilicata”: impietosa, la titolazione di “Scenari Economici” dopo l’esito delle regionali in Lucania. Senza anestesia anche il collage fotografico, dagli studi de La7 parati a lutto: parlano da sole le maschere funebri di Mentana e Damilano, più altri aedi minori del politicamente corretto, il mondo pre-gialloverde su cui il maninstream aveva fondato per decenni la leggenda del centrosinistra, creatura mitologica teoricamente opposta all’altrettanto mitologico centrodestra. Due esemplari estinti, come il dodo, ma tenuti in vita artificialmente dalla narrazione politica quotidiana. Zoologia fantastica, ora riesumata ma solo per un giorno, a scopo ludico-giornalistico, come una fiction mediocre e abbondantemente scaduta: il vintage di una Seconda Repubblica più virtuale che reale, palesemente defunta, stra-rottamata dagli elettori. Il centrodestra versione 2019? Dev’essere un giochino per la playstation: il videogame del vecchio Silvio, l’highlander. Ma la finta concorrenza, se possibile, è ancora più surreale: chi se lo ricordava, il centrosinistra? Eppure dev’essere esistito veramente, da qualche parte, se oggi si legge che “ha perso anche la Basilicata”.A questo è dunque servita l’ultima tornata regionale, a riesumare la memoria: il fiabesco invertebrato, riverniciato di fresco dal tenace carrozziere Zingaretti, un tempo ebbe vita propria almeno sul piano dell’apparenza mediatica, corroborato nei fatti dalla piccola geografia pensinsulare delle poltrone. Non che sia meno grottesca quella del volenteroso neo-presidente insediato a Potenza, l’ex generale della Guardia di Finanza scelto dall’omino della playstation: gli piacerebbe riunire in modo spettacolare, in una convention “made in Sud”, la famigliola dispersa – nonno Silvio e l’enfant terrible Matteo, insieme all’ornamentale Giorgia. Per fare cosa? Ovvio: per ricordare agli affezionati, agli appassionati cultori di storia patria (spazzatura inclusa), che un tempo esistette – regolarmente registrato all’anagrafe politica – anche il leggendario centrodestra, uscito dalle catacombe della Prima Repubblica e riformattato ad Arcore. L’esperimento vide la luce grazie a un prodigioso lifting, spettacolare e meno casereccio di quello del centrosinistra, l’animalone altrettanto tombale nato dalla clonazione di individui a loro volta ibernati, provenienti dalle retrovie delle parrocchie e dalla dirigenza transgenica del partito che aveva lasciato l’Urss, o almeno l’icona del comunismo storico, per transitare armi e bagagli nel peggior avamposto del campo nemico, ma senza dirlo ai propri elettori.Oltre che tra i Sassi di Matera (“perdo, dunque esisto”), il centrosinistra sembra sopravvivere – come venerata reliquia – almeno nello studio televisivo di Fabio Fazio, il conduttore che prima si genuflette di fronte al suo presidente (Macron) e poi celebra il party delle lacrime fondendo i giovanissimi Rami e Adam con i bravi carabinieri che li hanno salvati, nell’hinterland di Milano, dalla follia di un senegalese aspirante kamikaze. Nient’altro da segnalare, in fondo, eccetto il sontuoso video hollywoodiano (“citofonare Al Gore”, ha detto qualcuno) che mostra migliaia di giovanissimi intonare “Bella Ciao” in inglese, per la recita internazionale modellata sull’edificante storiella della piccola fiammiferaia Greta. Il resto è grisaglia: Cottarelli, Mattarella, l’ectoplasma di Tajani. Ce lo chiedeva l’Europa, eccetera. Guai a voi, anime prave: non isperate mai veder lo cielo. L’han ripetuto tutti, in questi anni, dalle divinità di Bankitalia a quelle della Bundesbank e della Bce, che poi in televisione sembrano avatar identici emanati dallo stesso pantheon. Apparizioni eteree, severissimi profeti dell’altrui sventura: qualcosa di amarissimo da somministrare, al volgo timorato, in virtù di misteriche conoscenze superiori, inaccessibili al comune mortale.Spenti i riflettori sull’inutile soap-opera lucana, in scena resta solo lo sceriffo Salvini, in compagnia del sorriso tirato e un po’ cinese di Di Maio. Niente di speciale, diranno i meno indulgenti – ma abbastanza, comunque, per convocare ad Aquisgrana il cast per uno spaghetti-western sul Sacro Romano Impero. Quanto ancora reggerà, il cerotto gialloverde, sulle piaghe di un’Italia deliberatamente retrocessa – con frode – dai numi dell’Olimpo tecno-totalitario? Non avrai altro Elohim all’infuori di me, tuonò la voce dal finto cielo. E così fu, per un buon quarto di secolo. Verità storica cercasi: c’è da riempire un cratere. Non ci sono alternative: un mantra bugiardo, spacciato per metafisico e durato venticinque anni. Il dogma nero, adottato da tutti – liberisti, sindacati, professori, anchorman – ha fatto morti e feriti, e ancora oggi diffonde rabbia e ostilità, innescando livide vendette. Il vero guaio, dicono voci eretiche come quelle di Gianfranco Carpeoro e Mauro Scardovelli, è che votiamo “contro”, ancora e sempre – contro qualcuno, non per qualcosa – senza capire che la nostra è l’animosità dei manzoniani capponi di Renzo, destinati ai fornelli.C’è da riempirlo di parole e idee, il vasto cratere spalancato dal meteorite neoliberale. Impresa estrema, alla portata di astronauti visionari. E il modulo spaziale chiamato Movimento Roosevelt sembra proiettato verso un altrove inafferrabile, in cerca di vita intelligente: a Londra, per esempio, dove il 30 marzo verrà allestita una stazione orbitale chiamata “New Deal per l’Europa”. A bordo saliranno gli economisti Rinaldi e Pisauro, Galloni e Grossi, la cosmonauta Ilaria Bifarini, lo start-upper Danilo Broggi, il fanta-imprenditore Fabio Zoffi. Missione: riempire il cratere, con istruzioni precise su come riacciuffare un futuro non virtuale, nel quale ci sia posto per tutti. E’ il futuro per il quale combatterono, e caddero, gli eroi che sempre il Movimento Roosevelt evocherà a Milano il 3 maggio: Carlo Rosselli e il sogno del socialismo liberale, Olof Palme e il sogno di un’Europa democratica e solidale, Thomas Sankara e il sogno di un’Africa libera e sovrana. Sono fondamentali, i sogni, per fabbricare qualcosa che non sia mediocre, scadente e deludente. “Sognai talmente forte”, cantava De André, “che mi uscì sangue dal naso”. Non si sogna più, oggi, in Italia e in Europa? Qualcuno, si sono detti gli astronauti, deve pur ricominciare a farlo. Perché tutto ciò che abbiamo, che abbiamo avuto, è venuto proprio da lì: dal coraggio dei sogni vissuti ad occhi aperti, che a volte finiscono per contagiare il mondo e liberarlo dal ciarpame che lo opprime. I sognatori questo credono: che un’alternativa ci sia sempre, in fondo al cuore di ognuno di noi, nessuno escluso.(Giorgio Cattaneo, “Perdo dunque esisto, l’inutile fiction preistorica della Basilicata e il viaggio nel futuro col Movimento Roosevelt a Londra, in cerca di vita intelligente”, dal blog del Movimento Roosevelt del 26 marzo 2019).“Quando ti rendi conto di aver perso anche la Basilicata”: impietosa, la titolazione di “Scenari Economici” dopo l’esito delle regionali in Lucania. Senza anestesia anche il collage fotografico, dagli studi de La7 parati a lutto: parlano da sole le maschere funebri di Mentana e Damilano, più altri aedi minori del politicamente corretto, il mondo pre-gialloverde su cui il maninstream aveva fondato per decenni la leggenda del centrosinistra, creatura mitologica teoricamente opposta all’altrettanto mitologico centrodestra. Due esemplari estinti, come il dodo, ma tenuti in vita artificialmente dalla narrazione politica quotidiana. Zoologia fantastica, ora riesumata ma solo per un giorno, a scopo ludico-giornalistico, come una fiction mediocre e abbondantemente scaduta: il vintage di una Seconda Repubblica più virtuale che reale, palesemente defunta, stra-rottamata dagli elettori. Il centrodestra versione 2019? Dev’essere un giochino per la playstation: il videogame del vecchio Silvio, l’highlander. Ma la finta concorrenza, se possibile, è ancora più surreale: chi se lo ricordava, il centrosinistra? Eppure dev’essere esistito veramente, da qualche parte, se oggi si legge che “ha perso anche la Basilicata”.
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Magaldi: ipocriti e invidiosi, i nemici dell’accordo Italia-Cina
Bei sepolcri imbiancati, i nemici dell’accordo Italia-Cina: di loro, par di capire, “il più pulito ha la rogna”. Francia e Germania friggono d’invidia: ma come possono rinfacciare a Roma il fatto di aver scavalcato Bruxelles, se Parigi e Berlino sono reduci dal Trattato di Aquisgrana, stipulato come se l’Unione Europea non esistesse neppure? Una discreta faccia tosta anche da parte dell’alleato americano: furono proprio gli Usa ad aprire alla Cina le porte del mercato globale, ricorda Gioele Magaldi in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti. Sempre in video-chat con il conduttore di “Border Nights”, lo stesso Gianfranco Carpeoro (che del Movimento Roosevelt è un dirigente) rincara la dose: «Ha fatto benissimo, il governo Conte, a fare l’accordo con la Cina: tutela i legittimi interessi dell’Italia. Gli Usa strepitano? Pazienza, capiranno: anche loro mirano all’interesse nazionale. Ci rinfacciano che stringiamo un’alleanza con un paese non democratico? Prima ci spieghino la loro alleanza con monarchie autoritarie come l’Arabia Saudita». Aggiunge Carpeoro: «Dopo l’accordo con la Cina, ora l’Italia passi oltre: faccia fronte comune con paesi come la Spagna e la Grecia. E’ ora di metter fine al domino abusivo nord-europeo, finora esercitato da nazioni come la Germania, la Francia e l’Olanda».La verità è che siamo attaccati in modo pretestuoso da politici invidiosi e smemorati, sintetizza Gioele Magaldi. Sono ipocriti, i bellimbusti come Macron che vorrebbero imporre proprio all’Italia una cabina di regina europea per la gestione del commercio con Pechino. Quanto ai rimbrotti degli Usa, irritati dal fatto che l’Italia stringa accordi con un paese non esattamente democratico, Magaldi ricorda che fu proprio il massimo potere statunitense – ben incarnato da una struttura come la Trilaterale, guidata dai vari Kissinger, Rockefeller e Brzezinski – ad accogliere la Cina nel Wto, senza pretendere da Pechino né una svolta democratica né la tutela dei diritti sindacali del lavoro, pur sapendo che in quel modo la Cina avrebbe potuto immettere sul mercato globale prodotti a bassissimo costo. Del resto, sostiene Magaldi, questa è la natura dell’attuale globalizzazione progettata dalla massoneria sovranazione di segno reazionario: un club opaco, che ha anteposto il business ai diritti umani e alla sovranità democratica. Nessuno, oggi, ha le carte in regola per criticare l’Italia: chi dice di pretendere democrazia da Pechino non gestisce affatto in modo democratico la stessa governance europea, preferendo il neoliberismo mercantile al libero mercato, e la post-democrazia alla sovranità effettiva delle istituzioni, completamente piegate all’ordoliberismo dell’élite finanziaria.Pur ribadendo la propria fede atlantista, Magaldi critica la stessa Nato, che in passato supportò in Grecia il regime dittatoriale dei colonnelli. La Cina, ribadisce Magaldi, non è certo un modello di democrazia. E l’aspetto peggiore del suo turbo-capitalismo, che pure ha fatto progredire rapidamente il paese garantendo un crescente benessere, sono i protagonisti del boom cinese: grandi magnati che hanno acquisito posizioni dominanti, in patria e all’estero, in quanto provenienti dalla ristretta oligarchia del partito comunista. Da qui a contestare l’Italia, però, ne corre: tra i grandi gestori mondiali del vero potere – conclude Magaldi – nessuno è estraneo alla vorticosa ascesa della Cina, con la quale l’Italia ha giustamente stretto il suo recente accordo. Secondo Magaldi, il nostro paese dovrebbe insistere proprio nell’interpretare il suo ruolo naturale di “ponte”: non solo verso Pechino ma anche verso la Russia, l’Africa e il Medio Oriente, impegnandosi a sviluppare relazioni che, accanto ai commerci, producano un’evoluzione democratica dei partner. Tutto questo, per arrivare infine a pretendere – come il Movimento Roosevelt chiederà nel suo convegno il 30 marzo a Londra – un “New Deal Rooseveltiano” per l’Europa, basato sul recupero del capitalismo sociale keynesiano: un forte investimento pubblico per sostenere l’economia e, al tempo stesso, la conquista di istituzioni comunitarie finalmente democratiche.Bei sepolcri imbiancati, i nemici dell’accordo Italia-Cina: di loro, par di capire, “il più pulito ha la rogna”. Francia e Germania friggono d’invidia: ma come possono rinfacciare a Roma il fatto di aver scavalcato Bruxelles, se Parigi e Berlino sono reduci dal Trattato di Aquisgrana, stipulato come se l’Unione Europea non esistesse neppure? Una discreta faccia tosta anche da parte dell’alleato americano: furono proprio gli Usa ad aprire alla Cina le porte del mercato globale, ricorda Gioele Magaldi in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti. Sempre in video-chat con il conduttore di “Border Nights”, lo stesso Gianfranco Carpeoro (che del Movimento Roosevelt è un dirigente) rincara la dose: «Ha fatto benissimo, il governo Conte, a fare l’accordo con la Cina: tutela i legittimi interessi dell’Italia. Gli Usa strepitano? Pazienza, capiranno: anche loro mirano all’interesse nazionale. Ci rinfacciano che stringiamo un’alleanza con un paese non democratico? Prima ci spieghino la loro alleanza con monarchie autoritarie come l’Arabia Saudita». Aggiunge Carpeoro: «Dopo l’accordo con la Cina, ora l’Italia passi oltre: faccia fronte comune con paesi come la Spagna e la Grecia. E’ ora di metter fine al domino abusivo nord-europeo, finora esercitato da nazioni come la Germania, la Francia e l’Olanda».
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L’imbroglio delle europee: il Parlamento conta meno di zero
Votare per un Parlamento i cui legislatori non possono fare le leggi e in più devono lottare come matti se vogliono opporsi a potentissime leggi fatte da tecnocrati che nessuno ha mai eletto – cioè votare alle elezioni per il Parlamento Europeo – significa «rendersi complici intenzionali di una dittatura». Lo sostiene Paolo Barnard, nella sua “Guida alla vergogna delle elezioni europee”: un riassunto spietato dell’euro-farsa di maggio. «La gran massa di quelli che oggi vi stanno dicendo che una rimonta populista euroscettica alle prossime europee sarà esplosiva contro la bieca autocratica Ue di Bruxelles, è così ripartita: il 2% sono consapevoli falsari, il 98% sono inconsapevoli cretini», premette Barnard. «Se la mattina del 27 maggio 2019 il più potente burocrate d’Europa, Martin Selmayr, vedrà su “Sky News” il faccione raggiante di Salvini “che non lo tiene più nessuno”, scrollerà le spalle e penserà: “Vabbè, una rogna in più”. Mica altro, perché la sua Europa verrà solo di un poco infastidita». Il Parlamento Europeo, infatti, conta niente: è il più demenziale, tragicomico baraccone mai concepito nella storia politica umana. Credere che, dall’interno di un carrozzone impantanato come questo, un’eventuale fronte anti-Bruxelles possa iniziare a sparare cannonate micidiali fin dalla mattina del 27 maggio, «è da fessi», dice Barbard, «o da falsari come Salvini, Bannon, il 5 Stelle e i loro soci in Ue».Per Barnard, è come «votare per dei vigliacchi», disposti a farsi mandare a Strasburgo pur essendo pienamente consapevoli della loro impotenza. I parlamentari europei? «Delegano la stesura di leggi sovranazionali – cioè più potenti di quelle scritte dai singoli paesi e sovente anticostituzionali, per loro – ai burocrati non-eletti della Commissione Europea». Ipocriti e codardi: «Il “principio di comodità” è ciò che li guida: è comodo sedersi a Strasburgo, intascare un grasso salario e poi, al limite, dara la colpa a Bruxelles per i danni micidiali che certe sue leggi ci fa». Lo chiarisce uno studio della Cambridge University del 1999: «I legislatori hanno noti incentivi a delegare tutto il potere ai burocrati, fra cui il fatto di evitare di essere poi chiamati a rispondere ai cittadini per scelte dure e impopolari». Tradotto: le infami “riforme” di lavoro e pensioni, e i tagli di spesa alla Juncker. Poi si è passati dal non poter fare nulla al poter fare quasi nulla, aggiunge Barnard: l’impotenza degli europarlamentari «divenne talmente oscena e grottesca, che alla fine i super-burocrati di Bruxelles decisero, dal 2006 e poi l’anno dopo col Trattato di Lisbona, d’infilare dei ritocchini cosmetici che dessero l’impressione che il Parlamento potesse bloccargli le leggi».Con nomi attraenti (Regulatory Procedure With Scrutiny e articolo 290 Tfeu) fu dato al Parlamento Europeo il potere teorico di opporsi alle leggi della Commissione, così come poteva fare il Consiglio dei ministri. Ma era solo l’ennesima farsa: «I parlamentari contestano? Costa una fortuna, e i tempi gli sono nemici». Il Trattato di Lisbona, spiega Barnard, ha reso pressoché inaffrontabile il costo di una contestazione del Parlamento contro la Commissione. Le direttive della Commissione «sono di proposito scritte da oltre 300 tecnocrati con intrichi legali asfissianti». Per cui, l’europarlamentare che volesse capirci qualcosa «dovrebbe pagare uno staff di tecnici a costi altissimi», ma non solo: «Deve poi avere ulteriori mezzi per “istruire” un’intera commissione parlamentare sul tema che vuole criticare, e tutto questo solo per iniziare ad agire». Infine, deve trovare altri mezzi «per formare una coalizione che sia d’accordo con lui, e non basta: deve anche convincere la Conferenza dei presidenti delle commissioni».E tutto questo, senza contare i tempi: solo 4 mesi, per organizzare il tutto, creare una lobby trasversale fra i vari partiti reclutando colleghi a favore della contestazione e quindi rifare tutto, daccapo, in seno al Consiglio dei ministri, che per legge deve essere poi d’accordo. «Scaduti i 4 mesi, il parlamentare Ue s’attacca al tram». Conferma l’“Economist”: «Il peso, i costi e gli ostacoli di una contestazione contro una legge della Commissione sono quasi sempre maggiori dei benefici. Meglio, per il parlamentare, una forma di baratto in privato con Bruxelles». Lo scriveva nel 2017 il College of Europe, Bruges. In altre parole: meglio darla vinta alla Commissione, in partenza. Un meccanismo «demenziale e democraticamente osceno», sottolinea Barnard: «Un parlamentare eletto deve svenarsi, per contestare burocrati non-eletti». Dal 2009 al 2017, su 545 leggi proposte dalla Commissione, il Parlamento Europeo di fatto ne ha contestate l’1,1%. «Il resto, e sono tutte leggi più potenti di quelle italiane, è passato liscio come l’olio».Mettiamo pure che i populisti euroscettici prendano buoni numeri a maggio: nel qual caso, «è stra-ovvio che avranno una vita infernale, anche solo per mantenere una frazione di ciò che oggi sbraitano agli elettori». In sostanza, un europarlamentare che volesse bloccare una super-legge della Commissione dovrebbe disporre di una barca di soldi e di supr-tecnici, per provare a convincere un mare di altri parlamentari, tra partiti e commissioni, solo per iniziare ad agire. Ma per arrivare a una conclusione di successo, continua Barnard, l’ipotetico parlamentare-eroe dovrebbe poi anche superare diversi veti. Il primo, salla commissione parlamentare interessata. Poi potrebbero contestargli un conflitto di giurisdizione fra commissioni, cioè dirgli: il tema non è di tua competenza. Se poi il parlamentare non ottiene la maggioranza assoluta di tutto il Parlamento Europeo, insieme all’ok del 55% del Consiglio dei ministri (cioè di tutti gli Stati Ue) la partita non può nemmeno cominciare. «Non è teatro pirandelliano: è come funziona ’sto delirio chiamato Parlamento Ue».Terza farsa, continua Barnard: questi europarlamentari “evirati” sono costretti a fare i lobbysti, e spesso di nascosto. Michael Kaeding, economista neoliberista dell’università Duisburg-Essen, ricoprire una decina d’incarichi nelle maggiori think-tanks d’Europa. Un super-tecnocrate, l’opposto di un euroscettico. Con Barnard, ha intrattenuto uno scambio chiarificatore. Kaeding è esplicito: la Commissione Europea, che emana tutte le leggi, è consapevole di avere scarsa legittimità democratica. Per questo, cerca sempre di non arrivare allo scontro coi parlamentari, coi quali tenta specifici accordi. Nientemeno: «Esiste un potere di fatto, dove il singolo parlamentare baratta con la Commissione su certe leggi, piuttosto che tentare uno scontro. Il problema – aggiunge Kaeding – è che questi negoziati non sempre sono trasparenti, o addirittura sono difficili da scoprire». Capito? Ridotto all’impotenza, l’europarlamentare si trasforma in lobbysta-ombra. Persino Kaeding arriva a domandarsi che senso abbiano queste trattative “riservate”, e quanto siano lecite.Che altro? Questo: il Parlamento Europeo può teoricamente bocciare sia la Commissione che il suo presidente. Una prospettiva che Barnard classifica «surreale», e spiega: «Il Parlamento Ue può in effetti bocciare sia la nomina del presidente della Commissione, sia la lista dei commissari». Ma poi cosa succede? «Presidente e commissari vengono ripresentati quasi identici, o al meglio con cosmetiche correzioni per salvare la faccia ai parlamentari contestatari». Ora, se un ipotetico Europarlamento “salviniano” non accettasse il salva-faccia, si riboccerebbe il tutto. A quel punto, si entrerebbe «nel labirinto chiamato “crisi costituzionale” secondo il Trattato di Lisbona», cioè la Costituzione Ue «introdotta di nascosto nel 2007, dopo la bocciatura francese e olandese della prima Costituzione proposta, bocciata perché “socialmente frigida”». E chi la risolverebbe, una crisi costituzionale di quel tipo? Il Parlamento Europeo? «Ma non facciamo ridere», taglia corto Barnard.Certo, resterenne il Consiglio Europeo. Ma idem: il Consiglio «ha consegnato dispute di ’sto genere a oltre 2.800 pagine di codicilli indecifrabili, scritti da tecnocrati nel 2007 (Trattato di Lisbona), da cui si desume – secondo studiosi come Jens Peter Bonde – che la crisi verrebbe a quel punto messa nelle mani della Corte Europea di Giustizia, che è ancor meno eletta della Commissione Ue». Risultato: una bocciatura del Parlamento Europeo varrebbe zero. Lo conferma l’inconsistenza assoluta, fisiologica, dell’assemblea elettiva di Strasburgo. Le leggi Ue, prodotte dalla Commissione, «ficcano il naso dappertutto, dagli omogeneizzati alle regole d’accesso alle comunicazioni satellitari». Spiegano «come devono essere fatte le lampade al neon, definiscono «cos’è la cioccolata», delimitano la privacy e stabiliscono come irrigare un campo. «Ma ciò che questa Europa ha portato di più devastante sulla più bella e democratica Costituzione del mondo, la nostra, sono i trattati», scrive Barnard. Già, perché le leggi teoricamente impugnabili dai parlamentari sono soltanto quelle secondarie, mentre quelle primarie sono proprio i trattati: da Maastricht a Lisbona, fino al devastante Fiscal Compact che ha sfigurato la Costituzione italiana imponendovi il pareggio di bilancio, cioè la distruzione del potere sovrano di spesa (e quindi dell’equità sociale).Ecco perché, secondo Barnard, chiedere voti per alzare la voce all’Europarlamento «è una colossale presa per il culo». L’europarlamentare è neutralizzato persino sulle leggine, e quindi conta zero sui trattati che regolano «la spesa di Stato per le nostre vite, malattie, lavoro, pensioni o giovani». Ecco come stanno le cose: il Trattato di Lisbona, con l’articolo 48 Tfeu, sancisce che per modificare un trattato europeo ci sono quattro procedure. In tutte e quattro, sottolinea Barnard, il ruolo del Parlamento Europeo è limitatissimo. Tre sono le vie fondamentali: procedura ordinaria, procedura semplificata e “passerelle” (in francese). «Vi garantisco che non esiste un premier in tutt’Europa che sappia cosa siano», dice Barnard, «perché sono procedure più complesse della fisica teorica: vi basti sapere quanti attori, a livello Ue, devono essere tutti insieme coinvolti, pluri-consultati, coordinati, informati e infine convinti, per cambiare un Trattato». L’elenco è sconfortante: attraverso un iter ultra-bizantino, praticamente folle, vanno convinti tutti i 28 governi nazionali (e anche solo uno di loro può porre il veto, bloccando tutto). Poi occorre avere con sé la Commissione Ue, il Consiglio Europeo, il Consiglio dei ministri, la cosiddetta Convenzione Europea. Ancora: la Conferenza Intergovernativa, la Bce e, in ultimo, il Parlamento Ue.«E qualcuno crede ancora che i futuri “salvinici” o “orbanici” eroi, a Strasburgo, potranno dire be’ sui trattati?». Ma poi, è vero che a maggio i populisti euroscettici vinceranno? «Non diciamo cretinate», scrive Barnard: «Basta guardare i numeri dei 9 gruppi parlamentari europei per capire che i populisti euroscettici dovrebbero centuplicare i loro consensi per dominare il Parlamento, e gli altri perderne il 90% di botto. Una cosa sembra certa dai sondaggi: su 12 partiti cosiddetti populisti in Europa, oggi solo la Lega otterrà un certo successo, gli altri aumenteranno di 2 o 3 o forse 4 seggi». Tutto qui. Insiste Barnard: «Vi hanno mentito su tutto». Chi? Di Maio, cioè Casaleggio, e naturalmente Salvini, «coi suoi due economisti con 10 chiili di Vinavil fra culo e poltrona politica» (Borghi e Bagnai, ormai silenti di fronte alla retromarcia gialloverde dopo le minacce Ue sul deficit). «Hanno calato le braghe di fronte a Bruxelles in 5 minuti, con una spesa pubblica che è un insulto alla storia italiana», conclude Barnard. «I padani si sono rimangiati la Eurexit perché “eh, abbiamo beccato solo il 17% e quindi sticazzi le promesse elettorali, ma la poltrona ce la teniamo”, mentre Salvini mandava emissari anonimi da “Bloomberg” a dirgli “rassicurate i mercati! Staremo nei ranghi”». Barnard li chiama “cialtroni”: «Oggi vi dicono che a maggio sbaraccheranno tutta l’Europa? Una balla, da vomitare».Votare per un Parlamento i cui legislatori non possono fare le leggi e in più devono lottare come matti se vogliono opporsi a potentissime leggi fatte da tecnocrati che nessuno ha mai eletto – cioè votare alle elezioni per il Parlamento Europeo – significa «rendersi complici intenzionali di una dittatura». Lo sostiene Paolo Barnard, nella sua “Guida alla vergogna delle elezioni europee”: un riassunto spietato dell’euro-farsa di maggio. «La gran massa di quelli che oggi vi stanno dicendo che una rimonta populista euroscettica alle prossime europee sarà esplosiva contro la bieca autocratica Ue di Bruxelles, è così ripartita: il 2% sono consapevoli falsari, il 98% sono inconsapevoli cretini», premette Barnard. «Se la mattina del 27 maggio 2019 il più potente burocrate d’Europa, Martin Selmayr, vedrà su “Sky News” il faccione raggiante di Salvini “che non lo tiene più nessuno”, scrollerà le spalle e penserà: “Vabbè, una rogna in più”. Mica altro, perché la sua Europa verrà solo di un poco infastidita». Il Parlamento Europeo, infatti, conta niente: è il più demenziale, tragicomico baraccone mai concepito nella storia politica umana. Credere che, dall’interno di un carrozzone impantanato come questo, un’eventuale fronte anti-Bruxelles possa iniziare a sparare cannonate micidiali fin dalla mattina del 27 maggio, «è da fessi», dice Barnard, «o da falsari come Salvini, Bannon, il 5 Stelle e i loro soci in Ue».
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Orsetti: morire a 33 anni per un ideale, la libertà dei curdi
«Era un forte idealista, affascinato dalla realtà dei curdi: hanno saputo creare uno Stato unico nel Medio Oriente, una democrazia dove le donne hanno pari diritti. Non era lì solo per combattere, il suo desiderio era vivere in questa sorta di realtà inedita». Così Fausto Biloslavo, inviato di guerra del “Giornale”, ricorda Lorenzo Orsetti, il trentatreenne fiorentino ucciso in Siria dall’Isis, contro cui combatteva da quasi due anni come “foreign fighter”. «Abbiamo ucciso un crociato», ha sentenziato Daesh il 18 marzo, diffondendo anche una foto del suo corpo senza vita. Orsetti è morto nella battaglia che dura da settimane a Baghuz, l’ultima roccaforte dello Stato Islamico, dove si concentrano gli ultimi miliziani: una battaglia difficile da chiudere, perché nella zona si trovano anche moltissimi civili. Biloslavo – racconta Paolo Vites, che l’ha intervistato per il “Sussidiario” – aveva conosciuto personalmente Orsetti in Siria: «Era da tempo con i curdi e aveva intenzione di restare molto a lungo, se non addirittura per sempre», racconta Biloslavo.«L’ho incontrato l’ultima volta lo scorso mese, reduce dai combattimenti a Baghuz perché questi combattenti fanno turni di un mese. Faceva parte di questa brigata antifascista internazionale composta da persone di tutto il mondo che si sono innamorate della causa curda». Orsetti era un veterano, non certo un novellino: aveva anche combattuto anche contro i turchi. «Diceva sempre che non era un eroe, preferiva indicare così i curdi». Racconta Biloslavo: «Mi mostrò il proiettile che teneva in tasca, dicendomi che l’avrebbe usato contro se stesso piuttosto che cadere vivo nelle mani dell’Isis». Molti combattenti internazionali sono stati uccisi dai miliziani jihadisti: «I loro corpi fatti a pezzi, tutto messo su Internet, la solita tattica propagandistica dell’orrore». Orsetti «era di sinistra», lo ricorda il reporter del “Giornale”: «Pensava con ragione di combattere dalla parte giusta, contro una minaccia che è contro il mondo intero: e su questo aveva ragione». Laggiù, spiega Bisloslavo, gli italiani come lui sono pochi: sono arrivati in Siria negli ultimi due anni, quando è cominciato l’assedio di Raqqa. Una trentina di persone, tra cui anche delle donne. «Il grosso di questa brigata è fatto da inglesi, francesi e americani».La brigata internazionale filo-curda si è formata all’inizio della grande battaglia di Raqqa, la capitale storica dello Stato Islamico, poi liberata dall’esercito siriano con l’appoggio della Russia, di reparti speciali dell’Iran e dei combattenti libanesi di Hezbollah, anch’essi in prima linea per liberare il Medio Oriente dall’orrore dell’Isis. «Tra gli italiani – racconta Biloslavo – c’erano anarchici e NoTav, e mi raccontavano stupiti di trovarsi gomito a gomito con ex legionari francesi ed ex marines. Tutta gente che pensa che quella dei curdi sia una causa giusta». Erano stupiti, i volontari italiani, di questa strana fratellanza internazionale. «Ma come dicevo – aggiunge Biloslavo – le bandiere nere sono una minaccia per il mondo intero: era questa idea a muoverli». Come si possono definire: degli eroi romantici? «Chiamiamoli foreign fighters dalla parte giusta», risponde Biloslavo. Sicuramente, aggiunge, Lorenzo Orsetti era molto idealista, «uno che ha detto: metto a disposizione anche la vita, oltre alle idee. Non lo faceva certo per i soldi, al massimo queste persone hanno qualche soldo per le sigarette».Da due anni, aggiunge il reporter del “Giornale”, i curdi combattono con l’appoggio americano il loro vero nemico, che è la Turchia. «Orsetti aveva combattuto a Erin contro i turchi e mi diceva che era come il Vietnam, città rase al suolo dai caccia turchi, bombardamenti selvaggi. I turchi a loro volta li considerano dei terroristi perché hanno naturalmente legami con il Pkk». La scelta di Lorenzo Orsetti, aggiunge Biloslavo, non era solo quella di prendere le armi: aveva anche una passione per il mondo che i curdi hanno creato nel nord-est della Siria. «A Lorenzo piaceva la loro democrazia, l’uguaglianza con le donne che combattono e comandano, l’idea un po’ rivoluzionaria di un mondo che i curdi sono riusciti a creare in una zona della Siria anche piuttosto vasta».«Era un forte idealista, affascinato dalla realtà dei curdi: hanno saputo creare uno Stato unico nel Medio Oriente, una democrazia dove le donne hanno pari diritti. Non era lì solo per combattere, il suo desiderio era vivere in questa sorta di realtà inedita». Così Fausto Biloslavo, inviato di guerra del “Giornale”, ricorda Lorenzo Orsetti, il trentatreenne fiorentino ucciso in Siria dall’Isis, contro cui combatteva da quasi due anni come “foreign fighter”. «Abbiamo ucciso un crociato», ha sentenziato Daesh il 18 marzo, diffondendo anche una foto del suo corpo senza vita. Orsetti è morto nella battaglia che dura da settimane a Baghuz, l’ultima roccaforte dello Stato Islamico, dove si concentrano gli ultimi miliziani: una battaglia difficile da chiudere, perché nella zona si trovano anche moltissimi civili. Biloslavo – racconta Paolo Vites, che l’ha intervistato per il “Sussidiario” – aveva conosciuto personalmente Orsetti in Siria: «Era da tempo con i curdi e aveva intenzione di restare molto a lungo, se non addirittura per sempre», racconta Biloslavo.
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Ma Greta è antica come Malthus, l’infelice profeta dell’élite
Siamo stati “creati” da antiche divinità o invece “fabbricati” dagli Elohim biblici come Yahvè, dunque “clonati” da entità forse extraterrestri? L’unica certezza è che, intanto, siamo qui a giocarcela: sta a noi provare a raddrizzare il mondo, anzitutto cercando di scoprire come ci siamo capitati. La teoria dell’evoluzione? Non spiega tutto, neppure quella. Ma viene usata nel modo peggiore, da chi ha rimpiazzato la Bibbia con Darwin per instaurare una nuova dominazione, quella del forte che prevale sul debole, con l’alibi della selezione naturale. Bisogna che qualcuno lo spieghi, alla giovanissima attivista svedese Greta Thunberg, trasformata in icona planetaria della mobilitazione culturale contro il cambiamento climatico, presentato come calamitoso prodotto delle sole, irresponsabili attività umane. Tutto comincia alla fine del ‘700 con l’economista e demografo inglese Thomas Robert Malthus: nel suo “Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società”, Malthus sostiene che l’incremento demografico produrrà penuria di cibo, dato che l’umanità – questa la sua tesi – cresce più in fretta della disponibilità di alimenti. Vero o falso?Rigido pastore anglicano, Malthus raccomandava il controllo delle nascite, mediante il ricorso alla “castità”. Oggi la popolazione mondiale è esplosa: siamo sette miliardi e mezzo, eppure buttiamo via il 43% del cibo e dei beni che produciamo. Non siamo mai stati così ricchi, eppure ci stiamo impoverendo. Cosa manca? Non le risorse, ma la loro ragionevole distribuzione, se è vero che 800 milioni di persone soffrono la fame. Malthus non poteva sospettare che saremmo stati così abili nel rivoluzionare i mezzi di produzione con la tecnologia, riducendo in modo impensabile il consumo proporzionale delle materie prime. Dieci anni fa, l’allarmismo ecologista evocava l’incubo del “picco del petrolio”, di cui non si parla più dopo che sono stati scoperti immensi giacimenti. Scienziati russi sostengono che il petrolio non sia affatto una risorsa non rinnovabile, ma che si generi costantemente in tempi rapidi. Carlo Rubbia, Premio Nobel per la Fisica, avverte che la Terra negli ultimi anni si sta addirittura raffreddando. Quanto alla CO2, responsabile solo in minima parte dell’effetto serra, Rubbia propone di risolvere il problema attingendo alla nuovissima tecnologia che permette di usare il gas naturale a impatto zero, senza alcun residuo di anidride carbonica.La verità più scomoda di tutte, spiega l’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, è che nel secolo scorso siamo definitivamente usciti dal paradigma della scarsità: al punto da svincolare la moneta dalla zavorra del “gold standard”, il valore dell’oro – metallo prezioso perché raro – imposto come limite per evitare l’inflazione, cioè l’eccesso di valuta circolante rispetto alla quantità di merci disponibili. «Si assaltavano i forni perché mancava il pane, non essendovi abbastanza grano. Scenari oggi impensabili, impossibili – dice Galloni, su “ByoBlu” – perché la scarsità è stata storicamente sconfitta». Tranne che per un aspetto: la moneta. E’ detenuta da pochi, ed elargita col contagocce per nutrire l’usura finanziaria, da cui derivano le attuali sofferenze sociali. Ecco il punto, sottolinea Gioele Magaldi, che del Movimento Roosevelt è il presidente: è sempre meglio pesare con cautela le parole di chi predica sciagure imminenti. Non che l’atmosfera terrestre non sia fortemente alterata, o che quella dell’ecologia non sia una reale emergenza. Ma siamo sicuri che la soluzione sia proprio il freno ai consumi (cioè il taglio del welfare e del benessere diffuso) anziché invece, anche qui, l’acceleratore esponenziale della tecnologia, che poi è quello che ci ha permesso – in barba a Malthus – di crescere dieci volte tanto, imparando a produrre a bassissimo costo quantità immense di beni e merci, che infatti finiamo per gettare nella spazzatura?Beninteso, sappiamo perfettamente che le risorse dell’ecosistema-Terra non sono illimitate, precisa Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Ma siamo certi che sia davvero la piccola Greta a doverci spiegare dove stia, esattamente, il punto di non ritorno, ammesso che esista? Un consiglio: la problematica ecologica, a partire dall’inquinamento generato dalle fonti energetiche “sporche” come il petrolio e il carbone, è materia complessa: «Forse è il caso di adottare un approccio un po’ più serio». Le manifestazioni di massa? «Fa piacere vedere l’impegno di tanti giovani». Ma il punto è un altro: c’è qualche proposta precisa, sul tappeto, che non sia la decrescita infelice del 99% dell’umanità, a fronte dell’imperterrita super-crescita (felicissima) dell’élite planetaria che ha innescato tutti i nostri disastrosi squilibri, sociali e ambientali, fino a imbarcare disperati su carrette del mare verso le nostre coste? Tutti migranti che poi scoprono, amaramente, che in Italia e in Europa oggi si vive molto peggio di vent’anni fa, essendo scomparsa la mobilità sociale su cui era basata la grande prosperità di un intero continente, alimentata anche dalla scandalosa razzia coloniale a spese della stessa Africa.Quello che Greta non sa, probabilmente, è che il baby-retropensiero di cui è imbevuta non è attuale, è addirittura antico. Un presupposto ideologico completamente sbagliato, smentito nel modo più clamoroso già nell’800 dal filosofo statunitense Ralph Waldo Emerson, che scrisse: «Affermando che le bocche si moltiplicano geometricamente e il cibo solo aritmeticamente, Malthus dimenticò che la mente umana era anch’essa un fattore nell’economia politica, e che i crescenti bisogni della società sarebbero stati soddisfatti da un crescente potere di invenzione». E’ per questo, in fondo, che siamo ancora qui, e che siamo così tanti. Vogliamo dichiararci sconfitti? Tornare indietro, come propone Greta? Il dibattito è vasto: persino l’invincibile Impero Romano un bel giorno crollò, ricorda Giuletto Chiesa, autore di saggi spesso basati sulle previsioni catastrofistiche dell’influente Club di Roma. Siamo sicuramente a un bivio, sostiene anche Magaldi: ma il problema non è se crescere o decrescere. Seriamente: siamo stati noi, negli ultimi decenni, a decidere le sorti del mondo? Ci siamo espressi con dei referendum per approvare questa globalizzazione forsennata e per mettere in piedi l’attuale, orrenda Disunione Europea? No, certo. E allora perché saltare l’ostacolo, fingendo di poter incidere sul destino climatico della Terra, senza prima essere riusciti a ristabilire innanzitutto la democrazia a casa nostra, dove persino i bilanci vengono imposti dalle “divinità” di Bruxelles, che nessuno ha mai eletto?Spiegate a Greta che il darwinismo sociale, quello che spinge il povero alla rassegnazione di fronte al potere “fisiologico” del ricco, è il più grande veleno mentale che sia stato immesso nella nostra società neoliberista, sintetizza Magaldi, che propone un antidoto chiamato John Maynard Keynes. Era il maggiore economista del ‘900, e ispirò il New Deal con il quale Roosevelt tirò fuori l’America dalla Grande Depressione, facendone la superpotenza mondiale che conosciamo. Come riuscì nella storica impresa? Tagliando le unghie alle banche speculative, padrone della “scarsità di moneta”, e spingendo lo Stato a investire fiumi di dollari, a deficit, per creare lavoro. Dai tempi di Nixon, la moneta – svincolata dall’oro – è tecnicamente illimitata, virtualmente a costo zero. Ma nel 1999 fu il “progressista” Bill Clinton a restituire a Wall Street l’antico potere, abrogando il Glass-Steagall Act, cioè la legge con la quale Roosevelt aveva separato le banche d’affari da quelle al servizio dell’economia reale. Da allora, è esplosa la follia finanziaria: secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, il debito finanziario (titoli tossici) è 54 volte il Pil mondiale. E facciamo le pulci all’Italia perché il suo debito pubblico è 1,3 volte il suo prodotto interno lordo?C’è scienza, in questo delirio. E ha un nome odioso: si chiama dominio. Ha idea, la piccola Greta, di come uscirne? O pensa che, schioccando le dita e cantando “Bella Ciao” in inglese, gli ex cittadini (e ora sudditi, italiani e non) possano davvero cambiare di una virgola il futuro del pianeta, addirittura nella certezza teologica che persino il clima – mutato più volte, catastroficamente, dall’età della pietra – dipenda davvero al 100% dalla demenziale comunità umana? Gioele Magaldi non teme neppure di misurarsi con la parola consumismo, distinguendo: perché mai condannare quello dei poveri, fingendo che non esista quello dei ricchissimi? Inoltre: se fin qui ci ha sospinto l’innovazione, per quale motivo dovremmo escludere che la tecnologia possa arginare sensibilmente anche i guai dell’effetto serra? Lo dicono economisti autorevoli: continuiamo a chiamare “rifiuti” quelle che sono risorse riciclabili. Il problema? L’economia circolare è abbondanza, distrugge l’idea di scarsità di moneta con cui il potere ci incatena tuttora. Ma Malthus sta per perdere un’altra volta, di fronte all’avvento della rivoluzione cibernetica: anziché strapparci i capelli perché i robot cancelleranno vecchi mestieri, dice Magaldi, perché non pensare che avremo più tempo per inventare nuovi lavori, meno pesanti e ripetitivi? A una condizione: prima, bisogna tornare sovrani. E non sarà una passeggiata. Ma non si scappa: senza la riconquista della democrazia, potremo solo intonare “Bella Ciao” insieme a Greta.Siamo stati “creati” da antiche divinità o invece “fabbricati” dagli Elohim biblici come Yahvè, dunque “clonati” da entità forse extraterrestri? L’unica certezza è che, intanto, siamo qui a giocarcela: sta a noi provare a raddrizzare il mondo, anzitutto cercando di scoprire come ci siamo capitati. La teoria dell’evoluzione? Non spiega tutto, neppure quella. Ma viene usata nel modo peggiore, da chi ha rimpiazzato la Bibbia con Darwin per instaurare una nuova dominazione, quella del forte che prevale sul debole, con l’alibi della selezione naturale. Bisogna che qualcuno lo spieghi, alla giovanissima attivista svedese Greta Thunberg, trasformata in icona planetaria della mobilitazione culturale contro il cambiamento climatico, presentato come calamitoso prodotto delle sole, irresponsabili attività umane. Tutto comincia alla fine del ‘700 con l’economista e demografo inglese Thomas Robert Malthus: nel suo “Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società”, sostiene infatti che l’incremento demografico produrrà penuria di cibo, dato che l’umanità – questa la sua tesi – cresce più in fretta della disponibilità di alimenti. Vero o falso?
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La fantasia al potere, per davvero: cent’anni fa, a Fiume
Vi propongo la trama di un film per celebrare un fantasioso centenario. Un poeta rimasto orbo, reduce da imprese eroiche e spettacolari come la trasvolata su Vienna o la Beffa di Buccari, marcia su Fiume con poeti, letterati, musicisti, donne e soldati. Il mondo lo osserva curioso. Lui progetta la marcia su Fiume dalla casetta rossa di Venezia, dove riceve donne e ufficiali, e poi arriva in Istria nel settembre del 1919 con un’auto scoperta, il monocolo e i legionari al seguito. La compagnia che lo segue è di personaggi straordinari. Giovani letterati come Giovanni Comisso, Henri Furst, Raffaele Carrieri, ufficiali come l’ebreo russo polacco Leòn Kochnitsky, di nascita belga, nordico affascinato dalla solarità mediterranea, musicista e letterato; o un ufficiale che ha compiuto imprese folli come Guido Keller che lanciò in una trasvolata un pitale su Montecitorio e fiori sul Vaticano e per la regina sul Quirinale; vive nudo e sfrenato a Fiume, defeca da un albero, ha una dieta assurda, fa amore di gruppo. A Fiume nasce lo Yoga, associazione trasgressiva di spiriti liberi, tra ladri, prostitute, tossicomani. Ha come simbolo la svastica ma nel verso tradizionale, opposta a quella che sarà poi del nazismo. E progetta il castello d’Amore, dove simulare feste medievali con donne e soldati.Il rituale politico-cameratesco annuncia il fascismo ma Mussolini è freddo e scettico sull’impresa fiumana perché la considera velleitaria; e il poeta lo attacca sul suo stesso “Popolo d’Italia”, lo accusa d’avere paura e di tradire la Vittoria. A Fiume arrivano un po’ tutti, Guglielmo Marconi a bordo del suo bianco yacht Elettra, e poi torna per divorziare, consigliato da Mussolini, perché a Fiume è facile separarsi: Toscanini con la sua orchestra fa concerti devolvendo gli incassi ai poveri; Filippo Tommaso Marinetti, accolto trionfalmente, si produce in vari discorsi show; arrivano ufficiali giapponesi, belgi e ungheresi che diventano legionari fiumani. Difende Fiume anche Gramsci da chi lo presenta come «un luogo di bestialità, prepotenza, possesso di donne»; anche Lenin è affascinato da Fiume. Per la prima volta partecipano all’impresa alcune donne, come Fiammetta, pseudonimo di una nobildonna milanese, Margherita Besozzi; o donna Ninetta, splendida moglie dell’aviatore Casagrande, bionda ed elegante contessa; ragazze in grigioverde e qualche prostituta. A Fiume si svolgono convegni suggestivi notturni al chiarore delle fiaccole, baccanali in spiaggia, feste dionisiache con vino, donne, sesso e cocaina, “la polvere folle” del Poeta.Battaglie simulate, orge in costume, soldati inghirlandati, che danzano e vestono in modo stravagante, si fanno crescere barba e capelli o se li rasano a zero, e fondano la Congregazione del Pelo. Lui guerrafondaio inventa lo slogan pacifista “mettete dei fiori nei vostri cannoni”, infilando un fiore nel moschetto e parlando di fiori e libero amore. Ci sono gli animalisti, un ufficiale gira con una volpe al guinzaglio, Keller vive con un’aquila e si presenta alla mensa con un pappagallo sul petto; una volta carica sul velivolo un asino… Spopola a Fiume un romanzo futurista, “L’isola dei baci”, ambientato a Capri, di Corra e Marinetti, dove si immagina il primo gay pride, un congresso di omosessuali il cui motto è “raffinati di tutto il mondo unitevi”. Importanti sono i diari fiumani, come quello di Comisso che descrive Fiume come «una città in amore», in cui «tutti si diedero a un godimento irruente». Il Comandante rimprovera gli eccessi sessuali dei legionari, ma ha varie avventure erotiche a Fiume (si auto-definì “porco con le ali”, antesignano di Lidia Ravera).Da una porticina segreta faceva entrare una canzonettista chiamata Lilì di Montresor, che poi ripartiva con ben 500 lire in borsetta; o una donna sensuale e selvaggia chiamata Barbarella nei suoi Taccuini, una quindicenne per lui 53enne, “Bianca, la piccola”, “Gr, Bruna e molle”, una maestrina di Merano. Nella sala del comando, racconta Nino d’Aroma, passarono «molte donne di tutta Europa, vecchi amori, spente fiamme e nuove conquiste». Leggendaria la nascita del profilattico a Fiume battezzato Habemus Tutorem, poi noto come Hatù (ma un’altra versione attribuisce il nome nientemeno che al cardinal Nasalli Rocca). Arrivano a Ronchi pure i frati modernisti, che disobbediscono alla chiesa per seguire il patriottismo del Comandante, espongono alla finestra del monastero il motto dannunziano “Hic manebimus optime” e alla fine sette cappuccini abbandonano il saio. L’amministratore apostolico di Fiume, don Celso Costantini, accusa il poeta di paganesimo. La reggenza del Carnaro, col sindacalista Alceste de Ambris, dura sedici mesi, da settembre al Natale dell’anno dopo. Poi sarà cannoneggiata.Provano prima con le trattative e le promesse – c’è anche Badoglio, mandato dal presidente del consiglio Nitti, detto dal Poeta il “Cagoja” – poi sarà Giolitti a far bombardare Fiume e costringere alla resa. L’ultimo discorso del Comandante a Fiume si conclude con un Viva l’Amore. Quasi un promo del ’68, degli hippy e un riassunto delle rivoluzioni, da quella fascista a quella sovietica, che allora il Vate ammirava (sognava un comunismo senza dittatura, libertario, aristocratico, anarchico e nazionalista). Insomma un microcosmo-manicomio di utopisti, sognatori e velleitari. Un film d’immaginazione, ma la storia è vera, come il mitico Comandante-Poeta. Cent’anni fa la fantasia andò davvero al potere, ma non vi restò molto. Ps: il poeta in questione, l’avrete capito, è Gabriele d’Annunzio, su cui ieri si è aperta una mostra al Vittoriale. Sulla sua impresa fiumana uscirà tra un paio di settimane un’opera ponderosa di Giordano Bruno Guerri. Anni fa Tinto Brass e Pasquale Squitieri mi proposero di scrivere la sceneggiatura di un film dedicato a D’Annunzio a Fiume. Eccone l’abbozzo postumo…(Marcello Veneziani, “La fantasia al potere, cent’anni fa”, da “La Verità” del 10 marzo 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani. Nell’appendice storiografica del romanzo “Il volo del pellicano”, pubblicato da Melchisedek nel 2016, Gianfranco Carpeoro svela la profonda motivazione dell’impegno civile di D’Annunzio, grande poeta e fine letterato: è stato il terz’ultimo “Ormùs” – gran maestro – dei Rosa+Croce, leggendaria confraternita sapienziale di natura iniziatica; i successori di D’Annunzio sarebbero stati l’artista francese Jean Cocteau e poi il genio surrealista spagnolo Salvador Dalì; poi i Rosa+Croce si sarebbero eclissati, in realtà per effetto di una decisione programmata già dai tempi della conferenza di Yalta, dove emersero i germi della futura guerra fredda e del conflitto israelo-palestinese, concepito per colonizzare militarmente il Medio Oriente petrolifero. L’ispirazione “rosacrociana” è evidente nella Carta del Carnaro, in vigore nell’effimera reggenza dannunziana di Fiume: a detta degli storici resta la Costituzione più avanzata – la più moderna, democratica e rivoluzionariamente libertaria che sia mai stata varata, nel mondo. Non è strano, sottolinea Carpeoro: i Rosa+Croce sono i progenitori culturali del socialismo, avendo “firmato” già nel ‘600 opere come “Christianopolis” di Johann Valentin Andreae, “Utopia” di Tommaso Moro e “La Città del Sole” di Tommaso Campanella, tutte ispirate dal sogno di un mondo più giusto).Vi propongo la trama di un film per celebrare un fantasioso centenario. Un poeta rimasto orbo, reduce da imprese eroiche e spettacolari come la trasvolata su Vienna o la Beffa di Buccari, marcia su Fiume con poeti, letterati, musicisti, donne e soldati. Il mondo lo osserva curioso. Lui progetta la marcia su Fiume dalla casetta rossa di Venezia, dove riceve donne e ufficiali, e poi arriva in Istria nel settembre del 1919 con un’auto scoperta, il monocolo e i legionari al seguito. La compagnia che lo segue è di personaggi straordinari. Giovani letterati come Giovanni Comisso, Henri Furst, Raffaele Carrieri, ufficiali come l’ebreo russo polacco Leòn Kochnitsky, di nascita belga, nordico affascinato dalla solarità mediterranea, musicista e letterato; o un ufficiale che ha compiuto imprese folli come Guido Keller che lanciò in una trasvolata un pitale su Montecitorio e fiori sul Vaticano e per la regina sul Quirinale; vive nudo e sfrenato a Fiume, defeca da un albero, ha una dieta assurda, fa amore di gruppo. A Fiume nasce lo Yoga, associazione trasgressiva di spiriti liberi, tra ladri, prostitute, tossicomani. Ha come simbolo la svastica ma nel verso tradizionale, opposta a quella che sarà poi del nazismo. E progetta il castello d’Amore, dove simulare feste medievali con donne e soldati.
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Magaldi: Grillo in declino, senza idee. Orfano di Casaleggio
Bei tempi, quando Beppe Grillo attraversava a nuoto lo Stretto di Messina. Grande performance da sempre, lo spettacolo del vitalismo anche fisico del leader, come già Mao nello Yangtze. Era il 12 ottobre 2010, e l’autoironico Vaffa-man aveva 64 anni. Poco prima, ai NoTav “assediati” dalla polizia in valle di Susa, aveva detto: «Un bel giorno, un pugno di cinesi si misero in marcia e alla fine la vinsero, la loro rivoluzione. Bene, ascoltate: voi oggi siete quei cinesi». Era il Grillo che nel 2008 aveva tentato di concorrere alle primarie del Pd, rimediando le pernacchie del profetico Fassino: «Se vuol fare politica, Grillo si accomodi: può sempre fondare un suo partito». Detto fatto: l’ha fondato, ha battuto il Pd nel 2013 alla Camera e adesso, dopo l’alluvione di voti del 2018, è addirittura al governo (dopo aver sfrattato Fassino persino dal Comune di Torino). Ma a quanto pare, l’unica traccia della ventilata rivoluzione, ben poco “cinese”, è la lealtà dei 5 Stelle verso i NoTav, contro la grottesca Torino-Lione. Tutto il resto è evaporato nello zero-virgola del governo gialloverde, dopo le roboanti promesse della vigilia. Ecco perché oggi Grillo deve affrontare la peggiore delle nemesi, con gli ex supporter che bruciano le bandiere grilline davanti al teatri dove l’ex comico si esibisce. Tradimento? Questione di termini. Ma come chiamarla, la burla del finto reddito di cittadinanza, il sussidio nel quale il Sud aveva creduto in massa? L’altro guaio è che il nuotatore dello Stretto è rimasto solo, dopo aver perso Gianroberto Casaleggio.Tra chi se l’aspettava, la grigia parabola pentastellata, c’è il presidente del Movimento Roosevelt, Gioele Magaldi, osservatore privilegiato della scena italiana e autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014) che fotografa l’identità supermassonica dei peggiori globalizzatori. Una cupola reazionaria, che ha fondato l’attuale oligarchia del denaro chiamata neoliberismo: pochi ricchissimi, a spese della classe media che si sta impoverendo ovunque. O si cambia radicalmente paradigma, riesumando Keynes – con lo Stato che torna a investire massicciamente, non certo con deficit ridicoli come quello messo insieme dal governo Conte – o prima o poi assisteremo a una ribellione turbolenta e pericolosa. E a bruciare bandiere potrebbero non essere più solo i grillini delusi. In diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Magaldi evoca scenari cupi: dato che in Europa la maggioranza della popolazione sta sempre peggio, precarizzata e terremotata dalle politiche di rigore, è impensabile che si continui così, cioè raccontando – all’infinito – che lo Stato deve “risparmiare”. Prendiamo l’Italia, in avanzo primario da anni: il governo toglie ai cittadini (con le tasse) più soldi di quanti ne conceda in servizi (spesa pubblica). Il saldo, per i contribuenti, è negativo. Risultato: disoccupazione record, Pil crollato, perso il 25% del potenziale industriale. Di fronte a questo, valgono poco i minuetti di Di Maio e le ciance bellicose e velleitarie di Di Battista.Solo teatro, per canalizzare il dissenso dirottandolo verso obiettivi innocui? Secondo Magaldi, la storia poteva finire diversamente se Gianroberto Casaleggio non fosse prematuramente scomparso, nel 2016. L’ideologo grillino aveva quello che agli altri manca: una visione. Era persino riuscito a convertire al messianismo del web un uomo come Grillo, che un tempo – nei suoi show – fracassava i computer. Non è il caso di santificarlo, Casaleggio senior: aveva i suoi difetti, ammette Magaldi. Per esempio: lo slogan fondante dell’identità grillina, l’idolatria dell’onestà, «ricorda da vicino la “questione morale” agitata dal Berlinguer che convise gli operai a ingoiare l’austerità, la rinuncia ai loro diritti sociali». Per intenderci: «L’onestà non può essere un valore politico: chi ruba deve vedersela coi magistrati, prima che con gli elettori». Una falsa pista, che avvelena l’aria: «La pretesa “diversità morale” dei comunisti italiani, sempre pronti a presentarsi come gli unici onesti in un mondo politico corrotto – dice Magaldi – rivela il vizio storico di quel comunismo che poi, ovunque sia salito al potere, ha creato oligarchie autoritarie e antidemocratiche».Se non altro, al di là delle fascinazioni berlingueriane – aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt – Casaleggio si sforzava di proiettare l’oggi nel domani, sulla base di una precisa visione del futuro. Fino a “fabbricare” da zero una nuova leva della politica italiana, spinta da speranze pulite. E’ un fatto innegabile, e si è verificato grazie al coraggio dello stesso Grillo, pronto a sparare i suoi “vaffa”– in assoluta solitudine – contro una casta impresentabile e decadente, avvinghiata ai propri privilegi mentre il paese scivolava verso il baratro della crisi. Poi, però, alla prova dei fatti, l’alternativa ha rivelato giorno per giorno la sua inconsistenza. Programmi deboli, poche idee, città come Roma amministrate in modo inguardabile. Idem il governo: ordinaria amministrazione, sotto la scure di Bruxelles. Cos’è mancato? «Un impianto ideologico solido, alternativo al dogma neo-aristocratico del neoliberismo». Casaleggio avrebbe potuto cambiare il corso delle cose? Forse sì, sostiene Magaldi, anche in base a un indizio rivelatore: «Aveva disposto che il mio saggio, “Massoni”, venisse presentato col massimo risalto sul web grillino. Obiettivo: insegnare ai pentastellati a distinguere tra massoni corretti e massoni sleali, senza sparare nel mucchio. Oggi invece il Movimento 5 Stelle demonizza la massoneria nel suo insieme, con una discriminazione che è pure incostituzionale. E lo fa in modo spregevolmente ipocrita: sa benissimo, infatti, che il governo gialloverde pullula di massoni, sia tra i ministri che tra i sottosegretari».Per inciso: era massone anche Gianroberto Casaleggio, spiega Magaldi, che in un libro di prossima uscita dettaglierà l’identità massonica dell’ideologo pentastellato. «Il problema – dice – è che la massonofobia è indice di fragilità: se sei debole, cioè senza veri argomenti, hai paura del massone, perché temi che sia più forte di te, in quanto dotato di una maggiore solidità ideologica». E non è vero nemmeno questo: «Oggi, purtroppo, le obbedienze massoniche italiane sono piene di “peones” confusi, che non rappresentano un pericolo per nessuno». La vera massoneria che conta è quella delle Ur-Lodges sovranazionali, che colonizzano le istituzioni italiane, europee e mondiali. Nel suo libro, Magaldi ne smaschera le trame, facendo nomi e cognomi e mettendo alla berlina i supermassoni neo-feudali. E questo, a Gianroberto Casaleggio piaceva: «Ebbi con lui uno scambio breve ma intenso», rivela l’autore. «Resto convinto che sarebbe stato proficuo, il nostro incontro, a partire dal banco di prova delle elezioni comunali di Roma, dove avevamo proposto di affiancare, al gruppo di Virginia Raggi, l’esperienza e la capacità di un economista post-keynesiano come Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt». Forse ci sarebbe stato il tempo di arrivare alle politiche 2018 con programmi meno volatili e con basi economiche assai più solide, da contrapporre all’ordoliberismo disonesto di Bruxelles, incarnato dai tecnocrati della Disunione Europea, tutti al servizio di inconfessabili interessi privatistici.Invece siamo arrivati al rogo delle bandiere grilline, in Puglia: «Piuttosto ovvio, se avevi promesso un vero reddito di cittadinanza. Cioè, tecnicamente: soldi che lo Stato dovrebbe assegnare a chiunque, a prescindere dal reddito». Una selva di contraddizioni: «Al Sud è molto rilevante l’economia sommersa: il sussidio elargito da Di Maio potrebbe finire a famiglie che campano di lavoro nero, a scapito di famiglie – magari meno abbienti – che invece le tasse le pagano». Meglio, sostiene Magaldi, l’alternativa proposta dal Movimento Roosevelt: il diritto al lavoro sancito per legge dalla Costituzione. Ovvero: lo Stato sarebbe obbligato ad assorbire la disoccupazione. Si parlerà anche di questo, il 30 marzo a Londra, al convegno internazionale promosso alla Westminster University. Tra i relatori lo stesso Galloni, accanto a Ilaria Bifarini, Antonio Maria Rinaldi, Danilo Broggi, Guido Grossi. «Ci sarà anche Pino Cabras, deputato 5 Stelle», annuncia Magaldi: «Storico collaboratore di Giulietto Chiesa, Cabras fece un’ottima presentazione del libro “Massoni” in Sardegna. Qualcuno, nel Movimento 5 Stelle, lo ha dissuaso dal partecipare all’evento di Londra. Ma lui ha la schiena diritta, e sa bene che vale la pena misurarsi con noi: insieme a svariati interlocutori europei, nella capitale britannica avremo modo di mettere a fuoco un vero piano per l’uscita strutturale dall’euro-crisi, che viene presentata come economica e invece è interamente politica».C’è bisogno di tutte le forze spendibili, insiste Magaldi, per rompere l’incantesimo della paura: la demonizzazione del deficit porta direttamente al declino, attraverso l’austerity. Il che è folle, in un mondo che non è mai stato così ricco di risorse e tecnologie. Quello che serve è “un New Deal rooseveltiano per l’Europa”, ispirato a Keynes: è il modello che – espandendo la spesa strategica – ha storicamente prodotto benessere diffuso, in tutto l’Occidente. Passaggio obbligato: trovare il coraggio politico di dire “no” al pensiero unico che ha inquinato cancellerie, ministeri e tecnocrazie, trasformando la governance europea in un incubo orwelliano fondato sulla post-verità. Verrà il giorno, dice Magaldi, in cui gli oligarchi soccomberanno. «E alla fine ci ringrazieranno – aggiunge – perché, senza un’inversione di rotta, la situazione sociale in tutta Europa si farà insostenibile», come dimostrano in modo squillante gli stessi Gilet Gialli in Francia. Certo, la rivoluzione della trasparenza ha un costo: ne sapeva qualcosa il leader svedese Olof Palme, assassinato a Stoccolma nel 1986. Voleva un’Europa libera e socialdemocratica, con pari opportunità per tutti. Valori fondanti: come il socialismo liberale di Carlo Rosselli, assassinato dai fascisti e detestato dai comunisti, e il sovranitarismo panafricano per il quale perse la vita Thomas Sankara, leader rivoluzionario del Burkina Faso, portavoce della ribellione contro la schiavitù neo-coloniale del debito.Rosselli, Palme e Sankara sono le tre icone che il Movimento Roosevelt ha scelto di illuminare, al convegno in programma il 3 maggio col patrocinio del Comune di Milano, alla vigilia delle europee: un’occasione – anche – per pesare le intenzioni dei candidati dei vari schieramenti politici in rotta verso Strasburgo. A che punto è la notte del neoliberismo? Lo capisce, il Pd zingarettiano, che per aiutare l’Italia deve buttare a mare 25 anni di fallimentare centrosinistra? Si rende conto, la Lega di Salvini, che non basta alzare dighe contro i disperati che arrivano dall’Africa? E i 5 Stelle, a loro volta, che intenzioni hanno? In Europa pensano di fare la stessa melina che stanno inscenando a Roma – ottenendo il falò delle loro bandiere e il tracollo dei consensi alle regionali – o comprendono che è il caso di compiere un drastico cambio di passo, come forse lo stesso Casaleggio avrebbe raccomandato? Magaldi ha idee terribilmente chiare: serve un network trasversale di politici “bonificati” dalla bugia neoliberista. Un’Europa democratica, sovrana, liberalsocialista. Investimenti robusti, epocali, per relegare il fantasma dello spread nella spazzatura della storia. Come ci si può arrivare? Formando politici nuovi, in tutta Europa. La consapevolezza del cambiamento crescerà in modo inesorabile, sostiene Magaldi. Fino al bel giorno in cui qualcuno dovrà mandare a stendere i signori di Bruxelles. Con ben altro coraggio che quello sin qui dimostrato dal governo Conte, e dai 5 Stelle smarriti e orfani di Casaleggio.Bei tempi, quando Beppe Grillo attraversava a nuoto lo Stretto di Messina. Grande performance da sempre, lo spettacolo del vitalismo anche fisico del leader, come già Mao nello Yangtze. Era il 12 ottobre 2012, e l’autoironico Vaffa-man aveva 64 anni. Poco prima, ai NoTav “assediati” dalla polizia in valle di Susa, aveva detto: «Un bel giorno, un pugno di cinesi si misero in marcia e alla fine la vinsero, la loro rivoluzione. Bene, ascoltate: voi oggi siete quei cinesi». Era il Grillo che nel 2008 aveva tentato di concorrere alle primarie del Pd, rimediando le pernacchie del profetico Fassino: «Se vuol fare politica, Grillo si accomodi: può sempre fondare un suo partito». Detto fatto: l’ha fondato, ha battuto il Pd nel 2013 alla Camera e adesso, dopo l’alluvione di voti del 2018, è addirittura al governo (dopo aver sfrattato Fassino persino dal Comune di Torino). Ma a quanto pare, l’unica traccia della ventilata rivoluzione, ben poco “cinese”, è la lealtà dei 5 Stelle verso i NoTav, contro la grottesca Torino-Lione. Tutto il resto è evaporato nello zero-virgola del governo gialloverde, dopo le roboanti promesse della vigilia. Ecco perché oggi Grillo deve affrontare la peggiore delle nemesi, con gli ex supporter che bruciano le bandiere grilline davanti al teatri dove l’ex comico si esibisce. Tradimento? Questione di termini. Ma come chiamarla, la burla del finto reddito di cittadinanza, il sussidio nel quale il Sud aveva creduto in massa? L’altro guaio è che il nuotatore dello Stretto è rimasto solo, dopo aver perso Gianroberto Casaleggio.
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Come ci stanno appiattendo il cervello, a nostra insaputa
Da quando esiste Internet la gente si sta facendo più sveglia, ma insieme alla presa di coscienza collettiva, ci sono anche molte persone che vivono alcune paure che prima non conoscevano. Molti temono, ad esempio, l’appropriazione indebita delle nostre informazioni personali da parte di Big Data. Altri temono che la teoria gender finirà per annullare le differenze fra il mondo maschile e quello femminile. Altri ancora temono che verremo tutti microchippati, con conseguente perdita della libertà individuale. Eccetera eccetera. Ma tutte queste sono paure grossolane, palesemente visibili, e in quanto tali relativamente facili da fronteggiare: basta stare attenti a non mettere in giro i propri dati personali, uno pensa, ed ecco che il problema della privacy è risolto. Basta stare attenti a non farsi influenzare dalle ridicolaggini della teoria gender, uno pensa, e dentro di me non riusciranno mai a cancellare la differenza tra maschile e femminile. Basta rifiutarsi di farsi mettere i microchip, uno pensa, e la porta di casa mia continuerò ad aprirla con la vecchia chiave della serratura. Ma queste, come dicevo, sono battaglie grossolane, visibili, che servono magari a tenerci impegnati su un fronte più tangibile, ma magari meno importante.C’è invece battaglia molto più sottile e invisibile – ma molto più importante – che si sta combattendo oggi nel mondo: è la battaglia per ottenere l’appiattimento progressivo del nostro cervello. Questa battaglia, sottile e strisciante, mira ad annullare qualunque asperità di pensiero che si opponga in qualche modo al trionfo del pensiero dominante. E’ una battaglia che è iniziata insieme a Internet, nel senso che nel momento stesso in cui il potere si è accorto di aver messo un’arma micidiale nelle mani della popolazione, ha anche sentito il bisogno di contrastare la diffusione di quest’arma con una equivalente forma di repressione del libero pensiero. Non a caso, i primi sintomi di questa battaglia sono stati avvertiti proprio dopo l’11 Settembre. In quel periodo era in piena esplosione l’utilizzo di Internet, e fu proprio tramite Internet che iniziarono a diffondersi le prime teorie alternative sugli attentati delle Torri Gemelle. Non dimenticherò mai il giorno in cui George W. Bush disse in televisione: «Non tollereremo queste assurde e vergognose teorie del complotto».Era quello il segnale, mandato universalmente ai media di tutto il mondo, per iniziare a reprimere in ogni modo possibile qualunque obiezione alla versione ufficiale dei fatti.Tramite la derisione e l’isolamento del pensiero diverso, si iniziava a creare quella cesura insanabile fra il mondo dei giusti – di quelli che “credono nelle istituzioni” – e il mondo dei “paranoici complottisti”, gente da evitare come la peste. In altre parole, man mano che crescevano le capacità critico-analitiche della popolazione, il potere sentiva il bisogno di reprimere questa crescita con una spinta verso l’omologazione e il condizionamento ad un pensiero unificato, isolando nel contemnpo il diverso e il pericoloso. Oggi siamo arrivati al punto che un popolare conduttore televisivo di Tg possa permettersi di dare tranquillamente dei “babbei” a quelli che non credono ai viaggi sulla Luna, con l’autorità di colui che sta dalla parte dei giusti e con l’automatica relegazione “dietro la lavagna” di tutti coloro che non si adeguano al pensiero unico. Inoltre, questo esercizio di appiattimento del pensiero collettivo ha trovato uno splendido partner nel politically correct. E grazie a questo abbinamento si tende ormai ad annullare qualunque elemento, nel pubblico discorso, che possa in qualunque modo richiedere un intervento critico da parte degli individui.Pensate che in Inghilterra stanno mettendo degli avvisi nei libri classici della loro letteratura: prima di mettersi a leggere una tragedia di Shakespeare, ci toccherà leggere un avviso che dice: “Attenzione, questo testo contiene immagini violente che non sono adatte ad un pubblico troppo sensibile”. Addirittura, c’è una proposta al Parlamento americano per rimuovere digitalmente tutte le sigarette dalla bocca degli attori degli anni ‘40-’70. Siccome fumare è “out”, allora ci toccherà vedere sullo schermo Humphrey Bogart che tiene le dita divaricate davanti alla bocca, mentre aspira la fresca aria di montagna. Ma il problema più grosso è che questo senso di colpevolizzazione che colpisce chiunque la pensi in modo diverso dal mainstream sta arrivando ormai a lambire i nostri rapporti quotidiani con gli altri esseri umani. Quando – per fare un esempio qualunque – ti trovi a parlare di vaccini con il tuo farmacista, e magari freni le tue parole (per non dire quello che sai veramente sui vaccini, “per paura che gli altri ti possano sentire e ti possano guardar male”), è a questo punto che hai capito che la battaglia sta per essere definitivamente persa. Il target dell’appiattimento totale del pensiero collettivo è ormai molto vicino. Se non ci ribelliamo – se ciascuno di noi esseri pensanti non si ribella, in modo sistematico e con tenacia irriducibile – a queste sottili onde di conformismo che tendono a coprire quotidianamente tutto ciò che facciamo, presto per noi la battaglia sarà perduta per sempre.(Massimo Mazzucco, “Target: encefalogramma piatto”, dal blog “Luogo Comune” del 28 febbraio 2019).Da quando esiste Internet la gente si sta facendo più sveglia, ma insieme alla presa di coscienza collettiva, ci sono anche molte persone che vivono alcune paure che prima non conoscevano. Molti temono, ad esempio, l’appropriazione indebita delle nostre informazioni personali da parte di Big Data. Altri temono che la teoria gender finirà per annullare le differenze fra il mondo maschile e quello femminile. Altri ancora temono che verremo tutti microchippati, con conseguente perdita della libertà individuale. Eccetera eccetera. Ma tutte queste sono paure grossolane, palesemente visibili, e in quanto tali relativamente facili da fronteggiare: basta stare attenti a non mettere in giro i propri dati personali, uno pensa, ed ecco che il problema della privacy è risolto. Basta stare attenti a non farsi influenzare dalle ridicolaggini della teoria gender, uno pensa, e dentro di me non riusciranno mai a cancellare la differenza tra maschile e femminile. Basta rifiutarsi di farsi mettere i microchip, uno pensa, e la porta di casa mia continuerò ad aprirla con la vecchia chiave della serratura. Ma queste, come dicevo, sono battaglie grossolane, visibili, che servono magari a tenerci impegnati su un fronte più tangibile, ma magari meno importante.
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Galloni: se non sconfessa il rigore, il Pd resterà minoranza
A cosa può ancora servire, il Pd? Forse a correggere le ruvidità del sovranismo populista. A una condizione, anzi due: che scelga di stare col popolo, e non più con l’élite finanziaria, e che capisca che il tempo del rigore è finito. Lo afferma Nino Galloni, economista post-keynesiano e vicepresidente del Movimento Roosevelt, esaminando su “Scenari Economici” l’elezione di Nicola Zingaretti, al termine di una consultazione elettorale interna che ha coinvolto 1,7 milioni di italiani. «Quello che non è sfuggito a nessuno – premette Galloni – consiste nell’elevata partecipazione di cittadini alle primarie del Pd», addirittura doppia rispetto alle aspettative degli stessi candidati, vincitore compreso. «Ciò significa che, mentre le forze antisovraniste si stanno organizzando in tutto il mondo, aumentano attivismo e partecipazione in nome di una impostazione egualitaria e antirazzista». Impostazione, annota Galloni, che è «l’erede della grande stagione della democrazia, culminata sul finire degli anni ‘70 con la scissione tra eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale, quando la sinistra maggioritaria ha abbandonato le grandi masse popolari per scegliere la difesa di minoranze in vario modo identificabili».Se infatti la legislazione sviluppatasi nel dopoguerra, condizionata dalla sinistra, aveva portato a grandi conquiste sociali, la stessa sinistra poi ha cambiato orientamento, passando al servizio dei poteri forti della globalizzazione privatizzata. Così, nella sua ultima stagione, la sinistra «ha distretto la difesa della democrazia sostanziale alle minoranze (vari orientamenti sessuali, immigrati», e l’ha fatto «in base al presupposto del rispetto di quella formale», o dei diritti fondamentali degli esseri umani. Abbandonate a se stesse sotto i colpi della crisi neoliberista, a quel punto «le maggioranze si sono orientate verso quelle destre che prospettavano soluzioni efficaci dei sempre più gravi problemi sociali». E questo, «anche a costo di sacrificare i grandi progressi del diritto formale e dei principi fondamentali». Ora, per Galloni, «è importante avviare la soluzione dei problemi materiali della stragrande maggioranza della popolazione», ma attenzione: «Non a costo di compromettere i difficili principi fondamentali della democrazia».Quindi, conclude Galloni, la funzione delle forze democratiche è quella di difendere i principi-base della convivenza civile. Questo potrà portare il Pd di Zingaretti «a combattere, a scendere in piazza, a organizzarsi e riunirsi – ma non a vincere le elezioni», almeno finché non avrà capito «che il tempo della scarsità è finito e che, ad esempio, un reddito di dignità per tutti è possibile». Reddito da introdurre assolutamente, per aumentare i consumi, visto che «nella nostra produzione, le straordinarie tecnologie di cui oggi disponiamo rimangono scarsamente occupate, a causa di una domanda insufficiente». Tutto ciò è necessario, sottolinea Galloni, per «ricomporre il quadro delle rivendicazioni», riallineando democrazia sostanziale e democrazia formale. «Finché ciò non accade, il compito delle forze come il Pd sarà quello di evitare che le rivendicazioni sostanziali travolgano i principi fondamentali della democrazia formale». Troppo poco, per sperare di contribuire a rimettere in piedi il paese.A cosa può ancora servire, il Pd? Forse a correggere le ruvidità del sovranismo populista. A una condizione, anzi due: che scelga di stare col popolo, e non più con l’élite finanziaria, e che capisca che il tempo del rigore è finito. Lo afferma Nino Galloni, economista post-keynesiano e vicepresidente del Movimento Roosevelt, esaminando su “Scenari Economici” l’elezione di Nicola Zingaretti, al termine di una consultazione elettorale interna che ha coinvolto 1,7 milioni di italiani. «Quello che non è sfuggito a nessuno – premette Galloni – consiste nell’elevata partecipazione di cittadini alle primarie del Pd», addirittura doppia rispetto alle aspettative degli stessi candidati, vincitore compreso. «Ciò significa che, mentre le forze antisovraniste si stanno organizzando in tutto il mondo, aumentano attivismo e partecipazione in nome di una impostazione egualitaria e antirazzista». Impostazione, annota Galloni, che è «l’erede della grande stagione della democrazia, culminata sul finire degli anni ‘70 con la scissione tra eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale, quando la sinistra maggioritaria ha abbandonato le grandi masse popolari per scegliere la difesa di minoranze in vario modo identificabili».