Archivio del Tag ‘democrazia’
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L’ambigua grandezza di Pannella, rottamatore neoliberista
Più ombre che luci nella grandezza politica di Marco Pannella, protagonista indiscutibile del settantennio repubblicano. «Il personaggio ha meriti, e non piccoli», premette Aldo Giannuli, «come le battaglia per il divorzio, per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare, e più in generale per i diritti civili, per la legalizzazione della cannabis, la denuncia della degenerazione partitocratica, di cui gli va dato atto lealmente». Ma attenzione: Pannella «ha avuto anche colpe somme come il sostegno all’ondata neoliberista, la banalizzazione della politica ridotta a celebrazione del leader (di cui fu il primo assertore) e a virtuosismo comunicativo privo di reali contenuti». E poi «l’allineamento servile agli Usa, le disgustose giravolte fra centrosinistra e centrodestra, sempre alla ricerca di spazi istituzionali», senza contare «le ambiguità sul terreno della lotta alla mafia, dove spesso il garantismo sfociava in una sorta di para-fiancheggiamento». Secondo il politologo dell’ateneo milanese, Pannella «ha espresso una visione della democrazia come competizione fra ristrette élites, sostenute da branchi di acritici attivisti».Nel leader radicale, Giannuli vede «un sostanziale rifiuto della dimensione strategica della politica, surrogata dalla totale delega all’estro momentaneo del leader (massima negazione del principio di democrazia, tanto diretta quanto rappresentativa) e dalla sua abilità nel manipolare le folle». Soprattutto, Pannella «ha colpe imperdonabili sul piano dell’involuzione costituzionale del paese: a lui (e a Occhetto e Segni) dobbiamo il colpo di Stato del 1993, quando la fine del sistema elettorale proporzionale ha aperto la strada allo sventramento della Costituzione e, paradossalmente alla definitiva deriva oligarchica del regime: il Parlamento dei nominati ha la sua premessa logica nella battaglia pannelliana per il maggioritario uninominale». Con questo, Pannella «è stato l’alfiere di un ceto politico senza qualità, l’élite senza merito». E la “questione morale”? «Fu un gran fustigatore dei costumi, durissimo accusatore delle greppie di regime, ma la sua battaglia contro i fondi neri dell’Eni, a metà anni Sessanta, ebbe come sbocco la costituzione della Radoil, titolare di due pompe di benzina generosamente concesse da Cefis e che a lungo provvidero alla sopravvivenza del Pr e sua personale».Quale sia il giudizio che se ne voglia dare, continua Giannuli sul suo blog, Pannella ha attraversato gran parte della storia della Repubblica, con una stagione di notevole fortuna fra gli ultimissimi anni ‘60 e i primi ‘90. «Un ventennio in cui esercitò un ruolo politico il cui peso fu sempre superiore alle magre percentuali elettorali che raccoglieva: e che mai raggiunsero il 4%, con l’eccezione unica ed effimera delle europee 1999». Secondo Giannuli, «molto di quel che è diventato questo paese oggi, nel bene, ma più ancora nella degenerazione e nella decadenza, è dovuto a Pannella: l’Italia è diventata, in parte per la sua opera, un paese più laico, più moderno, ma anche più cinico, più “americanizzato”, più oligarchico, meno industriale e più povero, diciamolo: più squallido». Gli eredi? Personaggi della statura di Rutelli, Giachetti, Della Vedova, Elio Vito. «Un esame storico puntuale e documentato richiederebbe molte pagine», conclude Giannuli. «Si impone un giudizio equilibrato, che rimandiamo a meno frettolosa occasione. Qui ci basta un giudizio breve e sintetico che vede le ombre prevalere sulle luci».Più ombre che luci nella grandezza politica di Marco Pannella, protagonista indiscutibile del settantennio repubblicano. «Il personaggio ha meriti, e non piccoli», premette Aldo Giannuli, «come le battaglia per il divorzio, per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare, e più in generale per i diritti civili, per la legalizzazione della cannabis, la denuncia della degenerazione partitocratica, di cui gli va dato atto lealmente». Ma attenzione: Pannella «ha avuto anche colpe somme come il sostegno all’ondata neoliberista, la banalizzazione della politica ridotta a celebrazione del leader (di cui fu il primo assertore) e a virtuosismo comunicativo privo di reali contenuti». E poi «l’allineamento servile agli Usa, le disgustose giravolte fra centrosinistra e centrodestra, sempre alla ricerca di spazi istituzionali», senza contare «le ambiguità sul terreno della lotta alla mafia, dove spesso il garantismo sfociava in una sorta di para-fiancheggiamento». Secondo il politologo dell’ateneo milanese, Pannella «ha espresso una visione della democrazia come competizione fra ristrette élites, sostenute da branchi di acritici attivisti».
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Siamo pronti a morire per Erdogan? Ce lo chiede la Nato
So che il titolo di questo post apparirà ad alcuni paradossale ma in realtà non lo è. La Turchia è membro della Nato e l’articolo 5 del Patto Atlantico prevede solidarietà e assistenza militare tra i suoi membri, secondo questi termini: “Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica”. Dopo la caduta del Muro di Berlino, l’articolo 5 pareva di fatto in disuso, venendo a mancare un nemico del calibro dell’Unione Sovietica, ma i recenti avvenimenti nel Vicino Oriente e, soprattutto, la follia di Erdogan lo rende di nuovo, se non attuale, perlomeno plausibile.Qualche mese fa la Turchia si è spinta a un passo dalla guerra con la Russia, scongiurata solo dal sangue freddo di Putin, mentre negli ultimi tempi l’ambiguo attivismo di Ankara in Siria fa aumentare le possibilità di una nuova escalation militare nella regione. Non è assurdo ipotizzare che la Turchia entri in guerra e, presentandosi (naturalmente) quale vittima, invochi la solidarietà atlantica. Dunque i soldati italiani, così come quelli francesi o spagnoli, potrebbero essere chiamati a morire per Erdogan. Ne deduco due riflessioni, anzi due domande. La prima: è accettabile che la Nato abbia tra i suoi membri un leader come Erdogan, che promuove l’islamizzazione della Turchia, ha sostenuto l’Isis e sta trasformando il suo paese in una dittatura? La mia risposta potete facilmente intuirla. La seconda riguarda la natura stessa della Nato. Di solito a interrogarsi sulla necessità del Patto Atlantico sono pensatori o partiti di sinistra, ma da qualche tempo anche alcuni osservatori liberali davvero indipendenti, avanzano più di un dubbio.In tal senso mi ha colpito la riflessione di Michele Moor, che nella Confederazione elvetica ha i gradi di colonnello ed è ex presidente della Società Svizzera degli Ufficiali. Un conservatore, insomma; il quale in un articolo pubblicato qualche giorno fa sul “Corriere del Ticino” affermava: «A 67 anni dalla sua fondazione (4 aprile 1949), il patto militare che aveva l’obiettivo di arrestare l’avanzata del comunismo sovietico e di garantire la difesa dei paesi aderenti, ha progressivamente mutato la propria strategia, rendendola sempre più aggressiva e offensiva. Non è un caso che gli Stati Uniti detengano la sovranità assoluta dell’organizzazione – le più alte cariche militari della Nato sono sempre riservate a ufficiali statunitensi – e che i cosiddetti paesi alleati offrano supinamente le proprie basi territoriali, nel Mediterraneo e nell’Est europeo, agli interessi strategici della superpotenza».E ancora: «Nello scacchiere geopolitico del Sud, la guerra contro l’Isis è diventata lo specchietto per le allodole, destinato a garantire agli Usa l’espansione nell’Egeo e sulla Libia, territorio nel quale si è pensato di avviare un’operazione militare, ufficialmente guidata dall’Italia. Questa avanzata potrebbe coinvolgere prima o poi anche i paesi dell’asse asiatico, in primis la Cina, per evitare che diventino partner economici della Russia. Dietro l’intenzione, più volte dichiarata, di voler difendere l’Europa dalle aggressioni della Russia, si cela in realtà la volontà di espansionismo interventista che ha provocato la crisi in Ucraina». Parole durissime che vanno dritto al punto. La Nato ha cambiato pelle e da quando intervenne in Kosovo da associazione prettamente difensiva è diventata anche offensiva – vedi Afghanistan e Libia – assecondando i disegni strategici di Washington. Da qui la seconda domanda: la Nato ha ancora senso? Questa Nato è davvero nell’interesse degli europei?(Marcello Foa, “Italiani, siete disposti a morire per Erdogan? Ve lo chiede la Nato”, dal blog “Il Cuore del Mondo” su “Il Giornale” del 1° maggio 2016).So che il titolo di questo post apparirà ad alcuni paradossale ma in realtà non lo è. La Turchia è membro della Nato e l’articolo 5 del Patto Atlantico prevede solidarietà e assistenza militare tra i suoi membri, secondo questi termini: “Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica”. Dopo la caduta del Muro di Berlino, l’articolo 5 pareva di fatto in disuso, venendo a mancare un nemico del calibro dell’Unione Sovietica, ma i recenti avvenimenti nel Vicino Oriente e, soprattutto, la follia di Erdogan lo rende di nuovo, se non attuale, perlomeno plausibile.
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Dopo Kissinger, ecco Hillary: è la dea della prossima guerra
In caso dovessero persistere dubbi sul fatto che, una volta eletta presidente degli Stati Uniti, Hillary Clinton si comporterà, saggezza a parte, come una Minerva imbottita di steroidi, ecco la prova regina, tratta da una delle sue discussioni con Bernie Sanders prima della “Battaglia di New York”: «Resterò nella Nato. Resterò nella Nato, e continueremo a cercare missioni e altri tipi di programmi da sostenere. Non dimentichiamo che la Nato era dalla nostra in Afghanistan. La maggior parte dei paesi che ne fanno parte ha anche perso soldati e civili in Afghanistan. La Nato è accorsa in nostra difesa dopo l’11 Settembre. Questo significa molto. Vero, dobbiamo stabilire gli aspetti finanziari della cosa, ma teniamo a mente ciò che realmente accade. Ora che la Russia si fa più aggressiva, con azioni intimidatorie di ogni genere nei confronti dei paesi Baltici; abbiamo potuto assistere a ciò che ha fatto nell’Ucraina orientale e sappiamo che vuole cambiare la faccia dell’Europa. Questo non è nel nostro interesse. Dobbiamo pensare a quanto costerebbe se l’aggressione russa non fosse scoraggiata dal fatto che la Nato è lì, in prima linea, a dimostrare che la Russia non si può spingere oltre».Tracciando un abile collegamento tra l’11 Settembre e “l’aggressione russa”, che presumibilmente sta cambiando la faccia dell’Europa, qui c’è tutto, incluse due delle cinque principali minacce all’esistenza degli Usa secondo il Pentagono: la prima (la Russia) e l’ultima (il terrorismo); le altre sono la Cina, la Corea del Nord e l’Iran (si noti che Hillary ha sempre accusato Teheran di “terrorismo”). “Continueremo a cercare missioni” dovrebbe essere decrittografato come “altre guerre” e implica, senza – mai – ammetterlo che la Libia e la Siria sono stati notevoli disastri nella politica estera degli Usa. In effetti, Hillary si spinge persino oltre, affermando di non aver finito con il Medio Oriente e di essere pronta a continuare la sua “missione” di imporre la democrazia con qualsiasi mezzo necessario, dai droni alla R2P (“responsibility to protect” [responsabilità di proteggere])… grazioso eufemismo per imperialismo umanitario. È inutile che i cittadini europei manifestino choc e timore reverenziale; in fin dei conti, hanno a che fare con un falco della guerra che è arrivato ad ammettere, ufficialmente, per la prima volta durante la sua campagna presidenziale, di essere realmente un falco della guerra. Per quanto riguarda la “nazione indispensabile” (copyright del mentore di Hillary, Madeleine Albright), sarà come al solito un affare… come la ricerca di guerre senza fine. Quindi, basta con l’immagine, coltivata con cura dai pr, di una gentile, innocua, vecchia nonnina: qui abbiamo piuttosto Hillary che apre l’argine al Kissinger che ha dentro di sé.Il consolato americano di Bengasi era essenzialmente la copertura di una linea clandestina usata dalla Cia per contrabbandare armi ai “ribelli moderati” che si battevano contro Damasco. Seymour Hersh è stato tra coloro che lo hanno rivelato: «L’amministrazione di Obama non ha mai ammesso pubblicamente il proprio ruolo nella creazione di quella che la Cia chiama la “linea dei ratti“, un canale clandestino che portava dritto in Siria. La “linea dei ratti”, autorizzata agli inizi del 2012, era usata per convogliare armi e munizioni all’opposizione partendo dalla Libia e passando per la Turchia fino ad attraversare il confine con la Siria. Molti dei siriani che alla fine ricevevano le armi erano jihadisti, alcuni dei quali collegati ad al-Qaeda». Ora, immaginate il segretario di Stato Hillary Clinton che agevola la spedizione di missili antiaerei terra/aria Sa-7 e di granate a propulsione missilistica a dei jihadisti collegati ad al-Qaeda. È decisamente qualcosa che non si può volere nel proprio curriculum, soprattutto nel mezzo di una feroce campagna presidenziale.Hillary sta già combattendo una battaglia per la credibilità per quanto riguarda il suo server sotterraneo di e-mail. Celate nella sua crociata personale per la privatizzazione di dati dal Dipartimento di Stato degli Usa, ci potrebbero essere almeno tre gravissime infrazioni: distruzione, alterazione, o falsificazione di documenti; convertire a proprio uso proprietà di un Dipartmento degli Usa; raccogliere, trasmettere o perdere dati relativi alla difesa. L’intera nazione attende di sapere se il procuratore generale degli Usa, Loretta Lynch, che risponde al suo capo, il presidente Obama, deciderà di perseguire l’ex segretario di Stato a causa di tali infrazioni. Come se la suspense non bastasse, l’ex capo della Cia, Robert Gates, fonte credibile e in buona fede, ha messo in discussione, pubblicamente, il “buon senso” di Hillary e la sua mancanza di investigazione e approfondimento dei dati nel disastro della Libia, praticamente dichiarando che Hillary è una mina vagante.Gates ha rivelato quello che nell’ambiente governativo è un segreto di Pulcinella: che Hillary era completamente concentrata su un cambiamento di regime in Libia: «Il presidente mi ha detto che si è trattato di una delle decisioni più difficili che si sia mai trovato a prendere, una specie di 51 a 49, e sono certo che non avrebbe preso quella decisione se il segretario di Stato Clinton non l’avesse sostenuta». Gates più tardi ha ricordato la domanda di Obama: «Posso portare a termine le due guerre in cui sono già coinvolto prima che voi ne andiate a cercare una terza?». Gates ha aggiunto che il colonnello Gheddafi «non rappresentava affatto una minaccia per noi. Rappresentava una minaccia per il suo popolo, tutto qui». Nemmeno essere il principale architetto di una Libia “liberata”, che si è trasformata in un covo di terrorismo aperto a tutti è una descrizione del proprio operato che si possa volere nel proprio Cv nel mezzo di una feroce campagna presidenziale.Le affermazioni di Gates riguardano fatti in qualche modo già trapelati nel marzo 2011: il famoso incontro notturno a Parigi tra Hillary e il “ribelle” libico Mahmoud Jibril. Uomo decisamente ammaliante, istruito negli Usa, Jibril aveva messo nel sacco Hillary dicendo «tutte le cose giuste sul fatto di sostenere la democrazia e l’inclusività e di creare istituzioni libiche, alimentando una certa speranza sul fatto che saremmo stati in grado di farcela», stando a Philip H. Gordon, uno degli aiutosegretari della Clinton. «Ci hanno detto quello che volevamo sentire. E si tende a voler credere». Ed ecco il punto conclusivo: si tratta di quello che un’amministrazione degli Usa “vuole credere”. Hillary ne era stata immediatamente convinta, senza minimamente far seguire la retorica a una stima, così come deve essere fatta secondo l’Abc dei servizi segreti americani.Questa versione, in quanto catalizzatore decisivo del cambiamento di regime in Libia, è più pertinente del fantasioso racconto francese sul fatto che il piccolo Napoleone Nicolas Sarkozy abbia preso il comando incitato da un patetico filosofo con l’immancabile camicia bianca aperta sul suo microscopico plesso solare. Così la Libia è diventata la guerra di Hillary, proprio come quella dell’Iraq nel 2003 era stata la guerra del regime neo-conservatore di Cheney. Obama, come presidente, incitato dal suo segretario di Stato, si è addentrato in Libia senza un piano B, senza un piano di azioni da intraprendere successivamente, senza nessuna meta strategica di politica estera a lunga scadenza. Eppure nessuno in Europa si dovrebbe aspettare che la dea della guerra spieghi le proprie mete strategiche… che siano portate avanti con l’uso di droni, sovversione, sanzioni, bombardamenti con fini liberatori o R2P. Che siano in Libia, o facciano parte di tutte queste “missioni” una volta che lei diventerà presidente.(Pepe Escobar, “Hillary Clinton, della della guerra”, da “Occhi della guerra” del 2 maggio 2016).In caso dovessero persistere dubbi sul fatto che, una volta eletta presidente degli Stati Uniti, Hillary Clinton si comporterà, saggezza a parte, come una Minerva imbottita di steroidi, ecco la prova regina, tratta da una delle sue discussioni con Bernie Sanders prima della “Battaglia di New York”: «Resterò nella Nato. Resterò nella Nato, e continueremo a cercare missioni e altri tipi di programmi da sostenere. Non dimentichiamo che la Nato era dalla nostra in Afghanistan. La maggior parte dei paesi che ne fanno parte ha anche perso soldati e civili in Afghanistan. La Nato è accorsa in nostra difesa dopo l’11 Settembre. Questo significa molto. Vero, dobbiamo stabilire gli aspetti finanziari della cosa, ma teniamo a mente ciò che realmente accade. Ora che la Russia si fa più aggressiva, con azioni intimidatorie di ogni genere nei confronti dei paesi Baltici; abbiamo potuto assistere a ciò che ha fatto nell’Ucraina orientale e sappiamo che vuole cambiare la faccia dell’Europa. Questo non è nel nostro interesse. Dobbiamo pensare a quanto costerebbe se l’aggressione russa non fosse scoraggiata dal fatto che la Nato è lì, in prima linea, a dimostrare che la Russia non si può spingere oltre».
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Il capo è nervoso: sa che ormai tutti cercano un sostituto
Attenti, il “capo” è nervoso: sa perfettamente che, se è ancora al suo posto, è solo perché nessun altro è ancora pronto a sostituirlo. Ma la voglia di rottamarlo sta crescendo velocemente. Lo scrive Sergio Cararo su “Contropiano”: che Matteo Renzi sia diventato molto nervoso lo testimoniano «la quantità di contestazioni (e di manganellate della polizia) che lo inseguono ovunque vada». E’ nervoso, il boss del Pd, «perché sa di aver fatto parecchio del lavoro sporco che gli era stato richiesto contro lavoratori, pensionati, risparmiatori». La famigerata lettera della Bce firmata da Draghi e Trichet il 5 agosto del 2011? E’ stata applicata, appunto, “alla lettera”. Eppure, i suoi “mandanti” non sono ancora contenti. Non lo è l’Unione Europea, «che mal sopporta le sue rodomontate così come non sopportava le stramberie di Berlusconi». E non lo è Confindustria, «oggi pesantemente ipotecata dalle aziende di cui il governo è azionista». Gli industriali vogliono «rendere strutturali e non congiunturali gli sgravi contributivi», con «mano libera alle imprese nel licenziare o assumere con salari da fame».Non è contento di Renzi neppure un potere forte come la magistratura, che «mostra forti segni di fastidio verso un premier che, come Berlusconi, ritiene che la legalità vada bene per tutti tranne che per i suoi uomini e donne ripetutamente beccati con le mani nella marmellata». Renzi è contrariato: «Gli indicatori economici sull’andamento della recessione smentiscono ogni sua fanfaronata sulla disoccupazione, i redditi, i consumi, il risparmio, la fiducia sul futuro», continua Cararo. L’unica carta su cui può ancora contare il capo del Pd? Non ci sono alternative, al momento: «Le classi dominanti non hanno ancora trovato un “leader” di ricambio con cui sostituirlo senza ricorrere alle elezioni», esattamente come venne fatto con Berlusconi (piazzando Monti a Palazzo Chigi) o con «il povero Letta», messo alla porta dall’ambizioso fiorentino. Renzi può anche mascherare il suo nervosismo «ricorrendo a Tweet sferzanti e a interviste televisive con giornalisti in ginocchio», ma è talmente inquieto che «ha anticipato di mesi le nomine ai vertici di polizia, servizi segreti, guardia di finanza, per cercare di legare a sé gli apparati coercitivi dello Stato che gli stanno salvando il culo dalle contestazioni nella strade e nelle città italiane». Come contropartita, aggiunge “Contropiano”, hanno però preteso che Carrai, l’amico di Renzi, venisse tenuto fuori dai servizi di sicurezza.La verità è sotto gli occhi di tutti: un cittadino su tre è andato a votare al referendum contro le trivelle, anche se il premier gli aveva “consigliato” di stare a casa. E l’aria che tira per le elezioni comunali nella grandi città vede i suoi candidati in serissima difficoltà. In più, «ogni volta che annuncia che andrà a casa, se perde», come nel caso del prossimo referendum sulle controriforme costituzionali, «non c’è nessuno che cerchi di dissuaderlo». Bella occasione, quella di ottobre, per mandarlo a casa davvero: «Le tensioni con Confindustria, magistratura e Unione Europea si stanno accumulando pericolosamente», ma un’altra “deposizione” come quella di Berlusconi non passerebbe facilmente. Quello di ottobre, insiste Cararo, sarà un referendum decisivo: non solo per impedire che la Costituzione diventi carta straccia, «ma per dare una spallata ad un capo nervoso e pericoloso». Chi auspica di “spacchettare” i quesiti, per votare in modo differenziato, non comprende la portata epocale della sfida: «Lo scontro sul referendum di ottobre è uno spartiacque: o con Renzi (e la Troika) o con la democrazia».Attenti, il “capo” è nervoso: sa perfettamente che, se è ancora al suo posto, è solo perché nessun altro è ancora pronto a sostituirlo. Ma la voglia di rottamarlo sta crescendo velocemente. Lo scrive Sergio Cararo su “Contropiano”: che Matteo Renzi sia diventato molto nervoso lo testimoniano «la quantità di contestazioni (e di manganellate della polizia) che lo inseguono ovunque vada». E’ nervoso, il boss del Pd, «perché sa di aver fatto parecchio del lavoro sporco che gli era stato richiesto contro lavoratori, pensionati, risparmiatori». La famigerata lettera della Bce firmata da Draghi e Trichet il 5 agosto del 2011? E’ stata applicata, appunto, “alla lettera”. Eppure, i suoi “mandanti” non sono ancora contenti. Non lo è l’Unione Europea, «che mal sopporta le sue rodomontate così come non sopportava le stramberie di Berlusconi». E non lo è Confindustria, «oggi pesantemente ipotecata dalle aziende di cui il governo è azionista». Gli industriali vogliono «rendere strutturali e non congiunturali gli sgravi contributivi», con «mano libera alle imprese nel licenziare o assumere con salari da fame».
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Zanotelli: acqua ai privati, tradimento di Stato firmato Renzi
Quello che è avvenuto il 21 aprile alla Camera dei Deputati è un insulto alla democrazia. Quel giorno i rappresentanti del popolo italiano hanno rinnegato quello che 26 milioni di italiani avevano deciso nel referendum del 12-13 giugno 2011 e cioè che l’acqua deve uscire dal mercato e che non si può fare profitto su questo bene. I deputati invece hanno deciso che il servizio idrico deve rientrare nel mercato, dato che è un bene di “interesse economico”, da cui ricavarne profitto. Per arrivare a questa decisione (beffa delle beffe!), i rappresentanti del popolo hanno dovuto snaturare la legge d’iniziativa popolare (2007) che i Comitati dell’acqua erano finalmente riusciti a far discutere in Parlamento. Legge che solo lo scorso anno (con enorme sforzo dei comitati) era approdata alla Commissione Ambiente della Camera, dove aveva subito gravi modifiche, grazie agli interventi di Renzi-Madia. Il testo approvato alla Camera obbliga i Comuni a consegnare l’acqua ai privati. Ben 243 deputati (Partito Democratico e Destra) lo hanno votato, mentre 129 (Movimento Cinque Stelle e Sinistra Italiana) hanno votato contro. A nulla è valsa la rumorosa protesta in aula dei pentastellati.Ora il popolo italiano sa con chiarezza sia quali sono i partiti che vogliono privatizzare l’acqua, ma anche che il governo Renzi è tutto proteso a regalare l’acqua ai privati. «L’obiettivo del governo Renzi – afferma giustamente Riccardo Petrella – è il consolidamento di un sistema idrico europeo, basato su un gruppo di multiutilities su scala interregionale e internazionale, aperte alla concorrenza sui mercati europei e mondiali, di preferenza quotate in Borsa, e attive in reti di partenariato pubblico-privato». Sappiamo infatti che Renzi vuole affidare l’acqua a quattro multiutilities italiane: Iren, A2A, Hera e Acea. Infatti sta procedendo a passo spedito l’iter del decreto Madia (Testo unico sui servizi pubblici locali) che prevede l’obbligo di gestire i servizi a rete (acqua compresa) tramite società per azioni e reintroduce in tariffa “l’adeguatezza della remunerazione del capitale investito” (la dicitura che il referendum aveva abrogato!). Tutto questo è di una gravità estrema, non solo perché si fa beffe della democrazia, ma soprattutto perché è un attentato alla vita. E’ infatti Papa Francesco che parla dell’acqua come “diritto alla vita” (un termine usato in campo cattolico per l’aborto e l’eutanasia).L’acqua è Vita, è la Madre di tutta la Vita sul pianeta. Privatizzarla equivale a vendere la propria madre! Ed è una bestemmia! Per cui mi appello a tutti in Italia, credenti e non, ma soprattutto alle comunità cristiane perché ci mobilitiamo facendo pressione sul Senato dove ora la legge sull’acqua è passata perché lo sgorbio fatto dai deputati venga modificato. Inoltre mi appello: al presidente della Repubblica, perché ricordi ufficialmente al Parlamento di rispettare il referendum; alla Corte Costituzionale, perché intervenga a far rispettare il voto del popolo italiano; alla Conferenza Episcopale Italiana (Cei), perché si pronunci, sulla scia dell’enciclica “Laudato Si’”, sulla gestione pubblica dell’acqua; ai parroci e ai sacerdoti, perché nelle omelie e nelle catechesi, sensibilizzino i fedeli sull’acqua come “diritto essenziale, fondamentale, universale” (Papa Francesco); ai Comuni e alle città, perché ritrovino la volontà politica di ripubblicizzare i servizi idrici come Napoli (penso a città come Trento, Messina, Palermo, Reggio Emilia).Il problema della gestione dell’acqua è oggi fondamentale: è una questione di vita o di morte per noi, ma soprattutto per gli impoveriti del pianeta, per i quali, grazie al surriscaldamento del pianeta, l’acqua sarà sempre più scarsa. Se permetteremo alle multinazionali di mettere le mani sull’acqua, avremo milioni e milioni di morti di sete. Per questo la gestione dell’acqua deve essere pubblica, fuori dal mercato e senza profitto, come sta avvenendo a Napoli, unica grande città italiana ad aver obbedito al referendum. Diamoci tutti da fare perché vinca la Madre, perché vinca la Vita: l’Acqua.(Alex Zanotelli, “Acqua, tradimento di Stato”, da “Coscienze in Rete” del 2 maggio 2016).Quello che è avvenuto il 21 aprile alla Camera dei Deputati è un insulto alla democrazia. Quel giorno i rappresentanti del popolo italiano hanno rinnegato quello che 26 milioni di italiani avevano deciso nel referendum del 12-13 giugno 2011 e cioè che l’acqua deve uscire dal mercato e che non si può fare profitto su questo bene. I deputati invece hanno deciso che il servizio idrico deve rientrare nel mercato, dato che è un bene di “interesse economico”, da cui ricavarne profitto. Per arrivare a questa decisione (beffa delle beffe!), i rappresentanti del popolo hanno dovuto snaturare la legge d’iniziativa popolare (2007) che i Comitati dell’acqua erano finalmente riusciti a far discutere in Parlamento. Legge che solo lo scorso anno (con enorme sforzo dei comitati) era approdata alla Commissione Ambiente della Camera, dove aveva subito gravi modifiche, grazie agli interventi di Renzi-Madia. Il testo approvato alla Camera obbliga i Comuni a consegnare l’acqua ai privati. Ben 243 deputati (Partito Democratico e Destra) lo hanno votato, mentre 129 (Movimento Cinque Stelle e Sinistra Italiana) hanno votato contro. A nulla è valsa la rumorosa protesta in aula dei pentastellati.
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Democratizzare l’Ue? Idea morta col tradimento di Tsipras
In Austria il “Partito della libertà” (Fpo) ha ottenuto uno strepitoso risultato elettorale. Il suo candidato per la carica di Presidente Norbert Hofer ha raccolto il 35,1% dei suffragi, staccando di gran lunga gli sciapi candidati proposti dai partiti etero-diretti dal politburo di Bruxelles, popolari e socialisti in testa. Al ballottaggio il candidato del partito che fu di Jorg Haider dovrà vedersela con il verde Alexander Van der Bellen, fermo al 21,3% dei consensi. E’ molto probabile che il prossimo presidente austriaco sia quindi un acceso nemico dei nazisti tecnocratici che ora devastano il Vecchio Continente secondo le linee dettate dal duo Obama-Merkel. L’Austria è l’ennesima nazione nella quale i cittadini esprimono democraticamente e nelle urne sdegno e indignazione per le pietose condizioni nelle quali versa l’Europa, tenuta in ostaggio da una masnada di impuniti e terrificanti personaggi sprovvisti di qualsivoglia legittimazione dal basso. Ogni volta i pifferai al servizio del sistema ricorrono alle stesse logore immagini per demonizzare l’avanzata dei partiti non funzionali al rafforzamento della dittatura in atto, sempre diffamati e attaccati in automatico poiché presuntivamente “xenofobi e populisti”.Da Farage in Inghilterra a Marine Le Pen in Francia, da Iglesias in Spagna a Kaczinski in Polonia, da Tsipras in Grecia alla coppia Salvini/Grillo in Italia, dovunque si voti la musica non cambia: o vincono i servi di Mario Draghi (orwellianamente “moderati” e “responsabili”), o i giornali di regime cominciano a lanciare in tutte le lingue del mondo strali contro “l’avanzare del populismo”. Si tratta di un disco che, oggettivamente, ha stancato alquanto. Come avevamo previsto con un certo anticipo, la piroetta con la quale Tsipras si è infine piegato agli ordini piovuti dall’alto ha ucciso nella culla la possibilità di salvare l’Europa “da sinistra”. Alla prova dei fatti le “sinistre alternative”, incapaci di mettere in discussione la moneta unica, finiscono con il legittimare la prosecuzione della status quo. Cosa è cambiato con “Syriza” al potere? Nulla. Rigore, austerità e privatizzazioni continuano a farla da padroni, mentre le condizioni di vita della povera gente diventano di giorno in giorno più drammatiche.Di fronte ad una evidenza tanto tragica, tutti quelli che non intendono rassegnarsi a vivere per sempre sotto il tallone di un manipolo di burocrati autoreferenziali al servizio del binomio Alta Loggia/Alta Finanza, non possono far altro che guardare a quelle forze che offrono il grimaldello della “difesa dell’identità” per smontare il mostro luciferino e mondialista ora dominante. L’avanzare di partiti di “estrema destra”, così bollati da un mainstream servile e senza fantasia, sono diretta conseguenza di due certezze oramai metabolizzate da una fetta rilevante di opinione pubblica continentale: 1) la Ue attuale è una dittatura feroce di stampo tecnonazista; 2) le forze di sinistra “alternativa” non sono in grado di liberare i popoli dalla schiavitù dell’euro. Cosa faranno “gli occulti manovratori” per contenere questa nuova marea montante? Proveranno a metterci il cappello sopra. Fino a quando sarà possibile gestire i diversi parlamenti nazionali architettando da nord a sud governi di “grande coalizione”, le forze cosiddette “antisistema” continueranno ad essere mediaticamente demonizzate e bastonate; quando i “padroni del vapore” si accorgeranno però di avere finito le cartucce di carta, ovvero quando capiranno che la propaganda, per quanto incessante, produce infine risultati perfino controproducenti, avrà allora inizio il piano B.E cosa prevede il piano B? Prevede la “normalizzazione” di quelle stesse realtà prima violentemente colpite, da dipingere ora come “finalmente incanalate sulla via della maturità politica e della responsabilità, qualità indispensabili per aspirare al governo del Paese”. Che tradotto significa: obbedite pure voi come obbedivano i burattini di prima, divenuti inservibili e perciò scaricati, e così vedrete che tutti ne trarremo gli opportuni vantaggi. Questo tipo di tattica, in Italia, è già partita. Avete notato come i media controllati dai “soliti noti” comincino a veicolare una immagine rassicurante di Luigi Di Maio, già incoronato a reti unificate come sicuro candidato premier del Movimento 5 Stelle? E avete notato come il “Corriere della Sera” di oggi, a pagina 4, definisca “pacato” Norbert Hofer, probabile presidente dell’Austria che verrà? “Pacato” somiglia molto a “moderato”, termiche che nella neolingua usata dai “maghi neri” nascosti nella cabina di comando rappresenta il non plus ultra dell’affidabilità. “Se non puoi batterli, fatteli amici”, recita un vecchio adagio. Questo schema, se applicato con successo, contempla un solo sconfitto: il popolo, da ingannare sempre e comunque senza soluzione di continuità.Se la memoria avesse un valore, i nuovi politici rampanti scanserebbero come veleno le lusinghe di quelli che prima li calunniavano; così come gli stagionati politicanti, mollati poi come vecchie calzette per fare spazio a più verdi maggiordomi, coltiverebbero un sano senso di rivalsa da indirizzare contro gli inamovibili burattinai anziché puntare il dito nei confronti dei nuovi burattini. Semmai dovesse accadere una cosa del genere – semmai cioè si saldassero le ragioni di vecchie e nuove classi dirigenti allo scopo di respingere gli assalti dei soliti perfidi manipolatori – la politica tornerebbe ad esercitare quel primato che le spetta, lasciando per una volta con le pive nel sacco i plutocrati che, gestendo “gli opposti” con metodo e costanza, restano sempre a galla.(Francesco Maria Toscano, “L’idea di democratizzare l’Europa è morta con il tradimento di Tsipras, passa per la riscoperta delle singole identità nazionali la sconfitta dei tecno-nazisti di Bruxelles?”, dal blog “Il Moralista” del 26 aprile 2016).In Austria il “Partito della libertà” (Fpo) ha ottenuto uno strepitoso risultato elettorale. Il suo candidato per la carica di presidente Norbert Hofer ha raccolto il 35,1% dei suffragi, staccando di gran lunga gli sciapi candidati proposti dai partiti etero-diretti dal politburo di Bruxelles, popolari e socialisti in testa. Al ballottaggio il candidato del partito che fu di Jorg Haider dovrà vedersela con il verde Alexander Van der Bellen, fermo al 21,3% dei consensi. E’ molto probabile che il prossimo presidente austriaco sia quindi un acceso nemico dei nazisti tecnocratici che ora devastano il Vecchio Continente secondo le linee dettate dal duo Obama-Merkel. L’Austria è l’ennesima nazione nella quale i cittadini esprimono democraticamente e nelle urne sdegno e indignazione per le pietose condizioni nelle quali versa l’Europa, tenuta in ostaggio da una masnada di impuniti e terrificanti personaggi sprovvisti di qualsivoglia legittimazione dal basso. Ogni volta i pifferai al servizio del sistema ricorrono alle stesse logore immagini per demonizzare l’avanzata dei partiti non funzionali al rafforzamento della dittatura in atto, sempre diffamati e attaccati in automatico poiché presuntivamente “xenofobi e populisti”.
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Addio Primo Maggio, serve un Mandela dei lavoratori
Mai come questa volta, devo essere sincero, ho trovato difficoltà nel riflettere sul senso di questa ricorrenza. Difficoltà che deriva non solo dall’aver contratto il morbo di una stanca rassegnazione, ma anche dall’amarezza di osservare il radicale mutamento genetico di quello che, un tempo, era un valore fondante della società democratica. Viene alla mente un tragico parallelismo, in questi giorni di rievocazione della tragedia di Chernobyl: l’espansione della nube radioattiva i cui effetti, anno dopo anno, stanno alterando i corpi dei viventi è analoga alla diffusione del neoliberismo le cui tossine, negli ultimi decenni, hanno radicalmente trasformato il corpo sociale. Chi guardasse al lavoro oggi, a distanza di trent’anni, non ne riconoscerebbe più l’aspetto, ormai totalmente deformato. L’“esplosione legislativa” prodotta dal pensiero unico dominante negli ultimi decenni, infatti, ne ha indelebilmente segnato i tratti. Non più diritto “ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa” (art. 36 Cost.) ma lavoro povero, insufficiente a garantire la fine del mese e sempre più spesso sinonimo di debito: costante compagna della retribuzione è la “cessione del quinto”, nuova forma di corvee ai signori delle finanziarie.Non più valore, espressione di realizzazione individuale e di collettiva partecipazione al “progresso materiale o spirituale della società” (art. 4 comma 2 Cost.) ma, al contrario, plasmabile materia nelle mani di un’iniziativa economica privata ormai priva di qualsiasi limite: ecco servito il “mutamento di mansioni”, ovvero il diritto al demansionamento. Non più fondamento di una società democratica ed egualitaria, ma motore primo di radicali e multiformi diseguaglianze tra occupati e disoccupati, tra precari e stabilizzati, tra “tutele obbligatorie”, “tutele reali” e “tutele crescenti”, tra italiani e immigrati, tra lavoratori in regola, in nero o in grigio, e via discorrendo in un elenco di disparità che non ha fine. Inquieta, del resto, osservare come l’unico baluardo normativo a questa esondazione produttivista sia oggi l’art. 2087 del codice civile con la sua particolare sensibilità verso “l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, ovvero una norma coniata nell’ “anno di grazia” 1942, sotto l’egida di un folle regime totalitario.Così come lascia francamente perplessi l’atteggiamento conformista di una parte sempre maggiore della magistratura del lavoro che, in numerose pronunce, quasi fosse una “clausola di stile”, cita l’art. 41 della Costituzione, secondo cui “l’iniziativa economica privata è libera”, per giustificare l’insindacabilità di numerose – e spesso discutibili – decisioni dei datori di lavoro. La libertà dell’ iniziativa economica privata, oggi, sta diventando il “grande paravento” dietro cui si nascondono, con la garanzia dell’insindacabilità giudiziaria, anche le operazioni imprenditoriali più dubbie e spericolate. Dinanzi a questo sconfortante panorama, dunque, cosa dovrebbero fare i Cipputi di tutto il mondo? Forse rinfrancarsi pensando alle gesta del Leicester dei miracoli vicino all’incredibile conquista della Premier League o al piccolo Lugano di Zdenek Zeman ad un passo dalla conquista della coppa Svizzera, allegorie post-moderne della classe operaia che cerca di raggiungere il paradiso, nonostante e contro i giganti dell’oligarchia calcistica?Forse è meglio scolorire i fulgidi sogni e riprendere le parole pronunciate dal capo Meligqili, figlio di Dalindyebo, nel giorno della solenne festa del passaggio all’età adulta: «Qui siedono i nostri figli: giovani, sani, belli, il fiore della tribù xhosa, l’orgoglio della nostra nazione. Da poco li abbiamo circoncisi, con un rito che promette di introdurli nel mondo degli uomini; io sono qui a dirvi che questa è una promessa vuota, vana, una promessa che non potrà mai essere mantenuta… Noi siamo schiavi nel nostro paese, siamo inquilini sul nostro suolo. Non abbiamo la forza, non abbiamo il potere, non abbiamo il controllo del nostro destino nella terra sulla quale siamo nati. Questi figli andranno nelle città, a vivere nelle baracche e a bere alcool di qualità scadente, perché noi non possiamo offrire loro una terra sulla quale vivere e prosperare…».«Le capacità, l’intelligenza, il potenziale di questi giovani andranno sperperati nello sforzo di guadagnarsi da vivere svolgendo i servizi più umili, più semplici… I doni che abbiamo offerto oggi non sono niente, se non possiamo offrire loro il dono più grande, che è l’indipendenza, la libertà». Queste dolenti parole, ascoltate da un giovane Nelson Mandela, furono il primo motore dell’indignazione e della lotta di liberazione dalla schiavitù dell’apartheid. Che in questo primo maggio, giorno di mesta riflessione e non di festa, risuonino analoghe parole: chissà mai che, nascosti tra la folla, i giovani Mandela del nuovo millennio prendano coscienza del lungo cammino che, oggi, ci separa dalla perduta libertà.(Domenico Tambasco, “Primo Maggio, un lungo cammino verso la perduta libertà”, da “Micromega” del 1° maggio 2016).Mai come questa volta, devo essere sincero, ho trovato difficoltà nel riflettere sul senso di questa ricorrenza. Difficoltà che deriva non solo dall’aver contratto il morbo di una stanca rassegnazione, ma anche dall’amarezza di osservare il radicale mutamento genetico di quello che, un tempo, era un valore fondante della società democratica. Viene alla mente un tragico parallelismo, in questi giorni di rievocazione della tragedia di Chernobyl: l’espansione della nube radioattiva i cui effetti, anno dopo anno, stanno alterando i corpi dei viventi è analoga alla diffusione del neoliberismo le cui tossine, negli ultimi decenni, hanno radicalmente trasformato il corpo sociale. Chi guardasse al lavoro oggi, a distanza di trent’anni, non ne riconoscerebbe più l’aspetto, ormai totalmente deformato. L’“esplosione legislativa” prodotta dal pensiero unico dominante negli ultimi decenni, infatti, ne ha indelebilmente segnato i tratti. Non più diritto “ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa” (art. 36 Cost.) ma lavoro povero, insufficiente a garantire la fine del mese e sempre più spesso sinonimo di debito: costante compagna della retribuzione è la “cessione del quinto”, nuova forma di corveè ai signori delle finanziarie.
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Stiglitz: inglesi, scappate dall’Ue e non firmate il tossico Ttip
Per la Gran Bretagna sarebbe meglio lasciare l’Unione Europea, se il Trattato Transatlantico sul commercio e gli investimenti entrerà in vigore: lo ha dichiarato l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz. Lo riferisce il sito di “Russia Today”, citando l’intervento di Stiglitz a un recente seminario organizzato a Londra da John McDonnell, “cancelliere-ombra” del Labour Party. «Penso che le restrizioni imposte dal Ttip sarebbero talmente di ostacolo all’attività del governo, che questo mi farebbe riflettere nuovamente se davvero l’adesione all’Ue sia stata una buona idea», ha detto Stiglitz, secondo cui il Trattato Transatlantico rappresenta «una generale riscrittura delle regole in assenza di discussione pubblica», per cui «i pericoli per la nostra società sono molto significativi». Il Ttip creerà la più grande zona di libero scambio al mondo, abbattendo tariffe doganali: mentre chi lo propone sostiene che l’accordo incoraggerà gli investimenti e creerà posti di lavoro, i suoi critici mettono in guardia sul fatto che consentirà alle aziende di fare causa ai governi stranieri che minacciano i loro profitti.Punto centrale dell’accordo commerciale Usa-Ue, scrive “Voci dall’Estero”, è infatti la “Clausola di risoluzione delle controversie tra investitore e Stato” (Isds), che darebbe alle aziende il potere di citare in giudizio i governi quando i politici introducono norme che potrebbero far diminuire i loro profitti. «I dettagli di queste clausole sono spesso avvolti nel segreto, e messi a punto in sessioni clandestine». Zero trasparenza: il Ttip interferisce con il diritto dei governi sovrani di governare nell’interesse pubblico, e potrebbe legare le mani a chi deve stabilire le regole. Dati delle Nazioni Unite rivelano che le imprese statunitensi hanno già rastrellato miliardi di dollari facendo causa ai governi nazionali, fino ad oggi: «Solo a partire dal 2000, le aziende americane hanno fatto causa agli Stati in base ad accordi di libero scambio in 130 distinte occasioni». La Philip Morris ha citato in giudizio l’Australia e l’Uruguay perché avevano fatto inserire avvertenze sui rischi per la salute sui pacchetti di sigarette. «Ogni volta che fate approvare un regolamento contro l’amianto o qualsiasi altra cosa, potete essere citati in giudizio», avverte Stiglitz.Non è detto però che, fuori dall’Ue, la Gran Bretagna sia al riparo dal Ttip: lo sostiene Nick Dearden, direttore del think-tank inglese “Global Justice Now”. «Non c’è dubbio che questo accordo commerciale tossico cucinato a Bruxelles stia spingendo molti a ritenere che il Regno Unito starebbe meglio fuori dall’Ue, ma niente suggerisce che la Brexit impedirebbe a qualcosa di peggio di prendere il suo posto». Cameron, ricorda Dearden, è stato uno dei più grandi sostenitori del Ttip e il Regno Unito «ha firmato una serie di spietati accordi commerciali bilaterali di libero mercato che contengono “Isds” con molti altri paesi – quindi è perfettamente possibile che nel Regno Unito ci sarebbe una spinta a creare un equivalente del Ttip tra Regno Unito e Stati Uniti, perfino peggiore». Finora, in Europa, milioni di persone si sono mobilitate contro il trattato, «per sfidare la presa di potere da parte delle aziende legata al Ttip». A spaventare i cittadini, gli obiettivi principali del trattato: e cioè privatizzare sanità pubblica, istruzione e fornitura di acqua in tutta Europa.Gli attivisti, continua “Voci dall’Estero”, sono preoccupati anche del programma di “convergenza normativa” del Ttip, che cercherà di rendere le norme Ue in materia di sicurezza alimentare più simili a quelle osservate negli Stati Uniti. «Dato che le normative statunitensi sono generalmente meno rigide rispetto alle loro equivalenti europee», si teme che vengano allentati gli standard di sicurezza e qualità alimentare in Europa: «Il mercato europeo potrebbe essere invaso da prodotti geneticamente modificati e cibi pieni di ormoni e pesticidi». Intanto, mentre i negoziati sul Ttip continuano a svolgersi (scandalosamente) a porte chiuse, si pensa che la City di Londra stia muovendosi per “ammorbidire” i regolamenti bancari in vigore negli Stati Uniti, che dopo il 2008 sono più severi di quelli osservati in Gran Bretagna. «Gli attivisti per la finanza etica temono che il Ttip rottamerà queste misure e restrizioni, restituendo così il potere ai banchieri». Paura anche per la perdita di posti di lavoro: «L’anno scorso, Bruxelles ha ammesso che il Ttip potrebbe causare notevoli livelli di disoccupazione. E ha dato consigli ai membri dell’Ue su come affrontare un aumento dei livelli di disoccupazione dopo l’entrata in vigore del Ttip».Per la Gran Bretagna sarebbe meglio lasciare l’Unione Europea, se il Trattato Transatlantico sul commercio e gli investimenti entrerà in vigore: lo ha dichiarato l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz. Lo riferisce il sito di “Russia Today”, citando l’intervento di Stiglitz a un recente seminario organizzato a Londra da John McDonnell, “cancelliere-ombra” del Labour Party. «Penso che le restrizioni imposte dal Ttip sarebbero talmente di ostacolo all’attività del governo, che questo mi farebbe riflettere nuovamente se davvero l’adesione all’Ue sia stata una buona idea», ha detto Stiglitz, secondo cui il Trattato Transatlantico rappresenta «una generale riscrittura delle regole in assenza di discussione pubblica», per cui «i pericoli per la nostra società sono molto significativi». Il Ttip creerà la più grande zona di libero scambio al mondo, abbattendo tariffe doganali: mentre chi lo propone sostiene che l’accordo incoraggerà gli investimenti e creerà posti di lavoro, i suoi critici mettono in guardia sul fatto che consentirà alle aziende di fare causa ai governi stranieri che minacciano i loro profitti.
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Luciano Canfora: attacco alla Costituzione, una lunga storia
L’attacco alla Costituzione partì già quasi all’indomani del suo varo. Il 2 agosto 1952 Guido Gonella, all’epoca segretario politico della Democrazia cristiana, chiedeva – in un pubblico comizio – di riformare la Costituzione italiana, entrata in vigore appena tre anni e mezzo prima, il 1 gennaio 1948. Si trattava di un discorso tenuto a Canazei, in Trentino, e la richiesta di riforma mirava – come egli si espresse – a «rafforzare l’autorità dello Stato», ad eliminare cioè quelle «disfunzioni della vita dello Stato che possono avere la loro radice nella stessa Costituzione». E concludeva, sprezzante: «la Costituzione non è il Corano!» (Il nuovo Corriere, Firenze, 3 agosto 1952). Nello stesso intervento, il segretario della Dc, richiamandosi più volte a De Gasperi, chiedeva di modificare la legge elettorale, che – essendo proporzionale – dava all’opposizione (Pci e Psi) una notevole rappresentanza parlamentare. L’idea lanciata allora, in piena estate, era di costituire dei «collegi plurinominali», onde favorire i partiti che si presentassero alle elezioni politiche «apparentati» (Dc e alleati).Come si vede, sin da allora l’attacco alla Costituzione e alla legge elettorale proporzionale (la sola che rispetti l’articolo 48 della Costituzione, che sancisce il «voto uguale») andavano di pari passo. Pochi mesi dopo, alla ripresa dell’attività parlamentare fu posto in essere il progetto di legge elettorale (scritta da Scelba e dall’ex-fascista Tesauro, rettore a Napoli e ormai parlamentare democristiano) che è passata alla storia come «legge truffa». Imposta, contro l’ostruzionismo parlamentare, da un colpo di mano del presidente del senato Meuccio Ruini, quella legge fu bocciata dagli elettori, il cui voto (il 7 giugno 1953) non fece scattare il cospicuo «premio di maggioranza» previsto per i partiti «apparentati». L’istanza di cambiare la Costituzione al fine di dare più potere all’esecutivo divenne poi, per molto tempo, la parola d’ordine della destra, interna ed esterna alla Dc, spalleggiata dal movimento per la «Nuova Repubblica» guidato da Randolfo Pacciardi (repubblicano poi espulso da Pri), postosi in pericolosa vicinanza – nonostante il suo passato antifascista – con i vari movimenti neofascisti, che una «nuova Repubblica» appunto domandavano.La sconfitta della «legge truffa» alle elezioni del 1953 mise per molto tempo fuori gioco le spinte governative in direzione delle due riforme care alla destra: cambiare la Costituzione e cambiare in senso maggioritario la legge elettorale proporzionale. Che infatti resse per altri 40 anni. Quando, all’inizio degli anni Novanta, la sinistra, ansiosa di cancellare il proprio passato, capeggiò il movimento – ormai agevolmente vittorioso – volto ad instaurare una legge elettorale maggioritaria, il colpo principale alla Costituzione era ormai sferrato. Ammoniva allora, inascoltato, Raniero La Valle che cambiare legge elettorale abrogando il principio proporzionale significava già di per sé cambiare la Costituzione. (Basti pensare, del resto, che, con una rappresentanza parlamentare truccata grazie alle leggi maggioritarie, gli articoli della Costituzione che prevedono una maggioranza qualificata per decisioni cruciali perdono significato). Ma la speranza della nuova leadership di sinistra (affossatasi più tardi nella scelta suicida di assumere la generica veste di partito democratico) era di vincere le elezioni al tavolo da gioco. Oggi è il peggior governo che l’ex-sinistra sia stata capace di esprimere a varare, a tappe forzate e a colpi di voti di fiducia, entrambe le riforme: quella della legge elettorale, finalmente resa conforme ad un tavolo da poker, e quella della Costituzione.Ma perché, e in che cosa, la Costituzione varata alla fine del 1947 dà fastidio? Si sa che la destra non l’ha mai deglutita, non solo per principi fondamentali (e in particolare per l’articolo 3) ma anche, e non meno, per quanto essa sancisce sulla prevalenza dell’«utilità sociale» rispetto al diritto di proprietà (agli articoli 41 e 42). Più spiccio di altri, Berlusconi parlava – al tempo suo – della nostra Costituzione come di tipo «sovietico»; il 19 agosto 2010 il “Corriere della Sera” pubblicò un inedito dell’appena scomparso Cossiga in cui il presidente-gladiatore definiva la nostra costituzione come «la nostra Yalta». E sullo stesso giornale il 12 agosto 2003 il solerte Ostellino aveva richiesto la riforma dell’articolo 1 a causa dell’intollerabile – a suo avviso – definizione della Repubblica come «fondata sul lavoro». E dieci anni dopo (23 ottobre 2013) tornava alla carica (ma rimbeccato) chiedendo ancora una volta la modifica del nostro ordinamento: questa volta argomentando «che nella stesura della prima parte della Costituzione – quella sui diritti – ebbe un grande ruolo Palmiro Togliatti, l’uomo che avrebbe voluto fare dell’Italia una democrazia popolare sul modello dell’Urss». Di tali parole non è tanto rimarchevole l’incultura storico-giuridica quanto commovente è il pathos, sia pure mal riposto.Dà fastidio il nesso che la Costituzione, in ogni sua parte, stabilisce tra libertà e giustizia. Dà fastidio – e lo lamentano a voce spiegata i cosiddetti «liberali puri» convinti che finalmente sia giunta la volta buona per il taglio col passato – che la nostra Costituzione sancisca oltre ai diritti politici i diritti sociali. Vorrebbero che questi ultimi venissero confinati nella legislazione ordinaria, onde potersene all’occorrenza sbarazzare a proprio piacimento, come è accaduto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. La coniugazione di libertà e giustizia era già nei principi generali della Costituzione della prima Repubblica francese (1793): «La libertà ha la sua regola nella giustizia». Ed è stata poi presente nelle costituzioni – italiana, francese della IV Repubblica, tedesca – sorte dopo la fine del predominio fascista sull’Europa: fine sanguinosa, cui i movimenti di resistenza diedero un contributo che non solo giovò all’azione degli eserciti (alleati e sovietico) ma che connotò politicamente quella vittoria. Nel caso del nostro paese, è ben noto che l’azione politico-militare della Resistenza fu decisiva per impedire che – secondo l’auspicio ad esempio di Churchill – il dopofascismo si risolvesse nel mero ripristino dell’Italia prefascista magari serbando l’istituto monarchico.La grande sfida fu, allora, di attuare un ordinamento, e preparare una prassi, che andassero oltre il fascismo: che cioè tenessero nel debito conto le istanze sociali che il fascismo, pur recependole, aveva però ingabbiato, d’intesa coi ceti proprietari, nel controllo autoritario dello Stato di polizia, e sterilizzato con l’addomesticamento dei sindacati. La sfida che ebbe il fulcro politico-militare nell’insurrezione dell’aprile ‘45 e trovò forma sapiente e durevole nella Costituzione consisteva dunque – andando oltre il fascismo – nel coniugare rivoluzione sociale e democrazia politica. Perciò Calamandrei parlò, plaudendo, di «Costituzione eversiva» (1955), e perciò la vita contrastata di essa fu regolata dai variabili rapporti di forza della lunga «guerra fredda» oltre che dalle capacità soggettive dei protagonisti. C’è un abisso tra Palmiro Togliatti e il clan di Banca Etruria. Va da sé che l’estinguersi dei «socialismi» con la conseguente deriva in senso irrazionalistico-religioso delle periferie interne ed esterne all’Occidente illusoriamente vittorioso hanno travolto il quadro che s’è qui voluto sommariamente delineare. La carenza di statisti capaci e la autoflagellazione della fu sinistra non costituiscono certo il terreno più favorevole alla pur doverosa prosecuzione della lotta.(Luciano Canfora, “Attacco alla Costituzione, una lunga storia”, da “Il Manifesto” del 24 aprile 2015).L’attacco alla Costituzione partì già quasi all’indomani del suo varo. Il 2 agosto 1952 Guido Gonella, all’epoca segretario politico della Democrazia cristiana, chiedeva – in un pubblico comizio – di riformare la Costituzione italiana, entrata in vigore appena tre anni e mezzo prima, il 1 gennaio 1948. Si trattava di un discorso tenuto a Canazei, in Trentino, e la richiesta di riforma mirava – come egli si espresse – a «rafforzare l’autorità dello Stato», ad eliminare cioè quelle «disfunzioni della vita dello Stato che possono avere la loro radice nella stessa Costituzione». E concludeva, sprezzante: «la Costituzione non è il Corano!» (Il nuovo Corriere, Firenze, 3 agosto 1952). Nello stesso intervento, il segretario della Dc, richiamandosi più volte a De Gasperi, chiedeva di modificare la legge elettorale, che – essendo proporzionale – dava all’opposizione (Pci e Psi) una notevole rappresentanza parlamentare. L’idea lanciata allora, in piena estate, era di costituire dei «collegi plurinominali», onde favorire i partiti che si presentassero alle elezioni politiche «apparentati» (Dc e alleati).
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I doni di Draghi, un mago nero (più pericoloso di Schaeuble)
“Timeo Danaos et dona ferentes” (temo i Greci anche quando portano doni). Con queste parole un lungimirante Laocoonte tentava invano di convincere i Troiani a non fare entrare il famoso “cavallo di Troia” all’interno della città (Virgilio, Eneide, libro II, 49). Come andò a finire la faccenda è storia abbastanza nota. Allo stesso modo, e fatte le dovute proporzioni (Draghi è molto più feroce e cinico dei Greci di allora), gli uomini che conservano un po’ di sale in zucca dovrebbero guardare con estremo sospetto alle recenti mosse del banchiere centrale europeo, improvvisamente accortosi del perdurare di una crisi che ha già “distrutto intere generazioni”. Dopo avere egregiamente avallato la fase del “solve”, ovvero dopo avere promosso, pianificato, diretto e realizzato uno sterminio su larga scala mascherato da “crisi economica”, il mago nero Mario Draghi sente che è quasi giunta l’ora del “coagula”, ovvero della cristallizzazione di un nuovo equilibrio che, una volta raggiunti i risultati voluti in premessa, pacifichi un Vecchio Continente attraversato da crescenti tensioni e insofferenze.La bravura del “mago” non consiste tanto nell’evocare “spiriti” di paura, di ribellione, di odio, di risentimento o di riconoscenza; quanto nel dominarli sempre per scongiurare il rischio di emulare le tristi gesta del famoso dott. Frankenstein. Detta in termini più semplici. Il veleno dell’austerità, la soppressione della democrazia sostanziale e l’aumento di paure e povertà in tutta Europa (fase del “solve”) sono fenomeni – nell’ottica dei padroni occulti – funzionali al consolidamento di un Superstato europeo dominato riservatamente da una invisibile élite del denaro, tappa decisiva per la successiva e finale implementazione di un governo mondiale – calibrato su base federale – in grado di trasferire su un piano politico e materiale quel modello sincretista già trionfante su un piano eminentemente religioso e spirituale. Alla crisi, “solve”, si risponde con più Europa, “coagula”. Questo tipo di pietanze, cucinate dentro “laboratori riservati”, vengono poi portate sulla tavola dei profani da maggiordomi d’élite alla Eugenio Scalfari, non a caso lesto nel chiedere la rapida istituzione di un ministro dell’economia per l’intera eurozona (votato solo da Scalfari, magari).La bravura del mago, come dicevamo, consiste nel dosare gli elementi. In questa fase, mentre cioè il riemergere dei nazionalismi mette in discussione dalle fondamenta l’architettura comunitaria, Draghi sa di dover addolcire la retorica dei “sacrifici amari ma indispensabili” per non correre il rischio di spezzare la corda dopo averla tirata troppo. L’ostinazione invece con la quale Schaeuble e quelli come lui insistono nel mostrarsi feroci fino in fondo, nasconde a mio avviso il perseguimento – per ora sotterraneo – di un obiettivo dissimulato e diverso, palesato però ingenuamente dallo stesso Schaeuble che, nel fare finta di rivolgersi retoricamente a Draghi, si è lasciato sfuggire una excusatio non petita che parla direttamente alla sua lurida coscienza: «Il signor Draghi sarà contento di avere favorito l’exploit del partito Alternative fur Deutschland con le sue scellerate politiche monetarie», ha dichiarato di recente il “falco” (in questo caso più simile ad un asino) del governo Merkel.Non ci vuole un indovino per capire come Schaeuble, prigioniero di una sindrome proiettiva che tradisce un intimo sentimento di timore, attribuisca a Draghi “colpe” (o “meriti” a seconda dei punti di vista) che sono tutte sue. Tutti sanno come esista un rapporto di causa ed affetto tra le politiche di austerità – imposte dall’Ecofin capeggiato da Schaeuble – e il rafforzamento ovunque in Europa di partiti dichiaratamente antieuropeisti. Il Qe varato da Draghi non incide affatto su simili dinamiche politiche, limitandosi a riempire le tasche di quei grandi banchieri che l’ex direttore generale del Tesoro italiano – dimostrando invero una certa coerenza – serve da sempre con riconosciuto zelo, scrupolo e obbedienza. A questo punto chiediamoci: vista dalla visuale di tutti quelli che sperano di potersi un giorno liberare dalla dittatura invisibile e luciferina che opprime e violenta i nostri tempi, quale condotta è potenzialmente più pericolosa? Quella di Draghi o quella di Schaeuble? Io vi dico mille volte quella di Draghi, punta di diamante di un progetto lucido che può infine trionfare solo alternando con sapienza schiaffi (molti) e carezze (poche e solo quando non si può farne a meno). Schaeuble, invece – oramai è chiaro – non avendo il coraggio né la forza di combattere apertis verbis il meraviglioso “fogno europeo” (copyright Alberto Bagnai), prova a farlo fallire in via indiretta, esacerbando cioè un odio fra le nazioni per mezzo delle politiche del rigore; odio che dovrebbe infine generare un nuovo “caos” (dettato dal crescere esponenziale dei diversi nazionalismi in tutti i paesi dell’area euro) dal quale fare nascere un definitivo e diverso “ordine”, che, nella mente di Schaeuble e compari non dovrà somigliare affatto a quello immaginato da Draghi e rispettivi danti causa.Al punto in cui siamo, in sintesi, è meglio che le tensioni divampino fino ad esplodere completamente, consentendo agli eventi di prendere una direzione molto diversa rispetto a quella vagheggiata dal principio da “maghi neri” alla Mario Draghi, retrocessi infine al ruolo ridicolo di “apprendisti stregoni” agli occhi del mondo intero. Naturalmente questo tipo di ragionamento non rivaluta per nulla la figura di Wolfang Schaeuble, che era e resta materia d’inferno. Ma come si evince dalla lettura del “libro di Giobbe”, la benevolenza di Dio può trionfare anche per mezzo dell’opera del male. L’importante è mantenere sempre la forza e la lucidità di sapere che il “male” va tenuto costantemente in una posizione “strumentale” e “servente”, per mezzo di quella saldezza d’animo e atarassia della mente che rappresentano i doni più importanti con i quali lo “spirito” assiste e gratifica chi opera nel mondo mosso da un amore autentico, incondizionato, disinteressato e celeste.(Francesco Maria Toscano, “Mario Draghi è molto più pericoloso di Wolfgang Schaeuble”, dal blog “Il Moralista” del 21 aprile 2016).“Timeo Danaos et dona ferentes” (temo i Greci anche quando portano doni). Con queste parole un lungimirante Laocoonte tentava invano di convincere i Troiani a non fare entrare il famoso “cavallo di Troia” all’interno della città (Virgilio, Eneide, libro II, 49). Come andò a finire la faccenda è storia abbastanza nota. Allo stesso modo, e fatte le dovute proporzioni (Draghi è molto più feroce e cinico dei Greci di allora), gli uomini che conservano un po’ di sale in zucca dovrebbero guardare con estremo sospetto alle recenti mosse del banchiere centrale europeo, improvvisamente accortosi del perdurare di una crisi che ha già “distrutto intere generazioni”. Dopo avere egregiamente avallato la fase del “solve”, ovvero dopo avere promosso, pianificato, diretto e realizzato uno sterminio su larga scala mascherato da “crisi economica”, il mago nero Mario Draghi sente che è quasi giunta l’ora del “coagula”, ovvero della cristallizzazione di un nuovo equilibrio che, una volta raggiunti i risultati voluti in premessa, pacifichi un Vecchio Continente attraversato da crescenti tensioni e insofferenze.
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#Ciaone a tutti, purché restiate sempre all’oscuro dei fatti
Considerato il fatto che in questioni di principio raramente mi sono trovata dalla parte dei vincenti, se c’è una cosa che ho capito della politica è che l’unica sconfitta davvero seria non è quando non si vince, ma quando non si impara. Chi grida all’inutilità del referendum perché non si è raggiunto il quorum non ha imparato che da Leonida in poi le battaglie che hanno un senso lo mantengono a prescindere dal loro risultato, e quella sul modello di sviluppo energetico è sicuramente una di queste. A chi invece, colto da preoccupazioni ragionieristiche, mi fa il conto di quanti milioni è costata la consultazione referendaria, ricordo che la dittatura, avendo eliminato tutte le consultazioni, secondo il criterio della spesa risulterebbe il sistema più economico di tutti.Chi afferma che “ha vinto la democrazia” non ha capito che “democrazia” è quella cosa che si realizza quando tutti coloro che sono chiamati a partecipare a una scelta possiedono le informazioni per valutare o almeno la possibilità di acquisirle. Se ci fossero dei dubbi sul fatto che in Italia questa possibilità è mancata, forse è bene sapere che nella settimana precedente quella della consultazione il Tg1 – la fonte di informazione principale della maggioranza degli italiani – ha dedicato al referendum 13 minuti. Tredici minuti. In una settimana. Davvero c’è di che compiacersi?I sistemi di governo in cui l’ignoranza dei fatti è il requisito di base del perfetto cittadino si chiamano regimi. In democrazia i risultati raggiunti negando a chi deve scegliere l’accesso alle informazioni essenziali si possono definire in molti modi, tranne vittorie. Per questo chi ha gioito dell’astensione, chi ieri ha fatto del #ciaone la sua cifra civica, non ha un problema: è il problema. Delle trivelle in un modo o nell’altro ci libereremo, se non altro perché a un certo punto gli idrocarburi finiranno. La mamma del #ciaone invece è sempre incinta.(Michela Murgia, “#Ciaone, costruttori di regimi”, dalla pagina Facebook della scrittrice sarda; testo ripreso da “Megachip” il 18 aprile 2016).Considerato il fatto che in questioni di principio raramente mi sono trovata dalla parte dei vincenti, se c’è una cosa che ho capito della politica è che l’unica sconfitta davvero seria non è quando non si vince, ma quando non si impara. Chi grida all’inutilità del referendum perché non si è raggiunto il quorum non ha imparato che da Leonida in poi le battaglie che hanno un senso lo mantengono a prescindere dal loro risultato, e quella sul modello di sviluppo energetico è sicuramente una di queste. A chi invece, colto da preoccupazioni ragionieristiche, mi fa il conto di quanti milioni è costata la consultazione referendaria, ricordo che la dittatura, avendo eliminato tutte le consultazioni, secondo il criterio della spesa risulterebbe il sistema più economico di tutti.
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Tutti a casa, aspettando che finiscano di sfasciare il mondo
Cosa sta succedendo? Ovvero: che portata hanno le trasformazioni epocali che sta vivendo attualmente il mondo, a cominciare dall’Occidente? Gli sconvolgimenti planetari in corso – crisi, migrazioni, guerre – sono a dir poco spettacolari e, in apparenza, senza soluzione. Una costante riguarda l’informazione: il sistema mainstream, divenuto totalizzante, evita accuratamente di riferire le notizie principali e le spiegazioni sulle cause degli eventi che determinano le rilevantissime modificazioni nella vita sociale ed economica di oggi, quindi l’avvenire delle prossime generazioni. L’enormità degli avvenimenti suscita clamore sul web e nei blog, ma coglie impreparati molti degli osservatori ufficiali, intellettuali, economisti, scrittori, accademici. La situazione economica in Europa si è fatta catastrofica. Per la prima volta, dopo 70 anni di sviluppo ininterrotto, i figli crescono sapendo che avranno una vita meno facile di quella dei loro genitori. Il livello di disoccupazione è desolante, e non si vedono vie d’uscita: non ci sono alternative sul tappeto.La “buona politica” di cui si avverte disperatamente il bisogno, semplicemente, non esiste: tutto il personale politico in campo, nonostante movimenti anche recenti, è sostanzialmente allineato al dogmatismo del mainstream neoliberale e neo-feudale, che – dopo le violente campagne anti-casta degli anni e decenni scorsi – predica l’erosione dell’interesse pubblico e la sparizione progressiva dello Stato come soggetto strategico, sociale ed economico. In Eurozona, il miglior governo che venisse eletto sarebbe di fatto impotente, costretto a limitare la propria spesa strategica al 3% del Pil. Impossibile utilizzare, come in passato, la leva monetaria: in un paese come l’Italia, il debito pubblico ha permesso di realizzare colossali investimenti sociali e infrastrutturali che hanno determinato il boom economico degli anni ‘60 e poi i mini-boom degli anni ‘80 e ‘90. Oggi, senza più sovranità statale, fiscale, economica, finanziaria e monetaria, questo scenario non è più ripetibile.A livello geopolitico, la situazione sta assumendo caratteristiche da incubo. Un crescendo di instabilità e orrori, a partire dal collasso dell’Urss: Jugoslavia, Somalia, Cecenia; poi, dopo l’11 Settembre, la drammatica accelerazione degli ultimi 15 anni, con le guerre in Iraq, Afghanistan, Libia, Yemen, Ucraina, Siria. In tutti questi teatri, gli Usa sono passati all’offensiva, allo scopo di destabilizzare interi continenti, prima che la Cina potesse assumere una leadership pericolosa per il monopolio americano, anche l’attraverso l’asse con la Russia di Putin. L’Europa è travolta dalla tempesta profughi e terremotata dal terrorismo pilotato dall’intelligence occidentale, utilizzando la falsa bandiera dell’Isis, che ha preso il posto di Al-Qaeda. Uno dei principali obiettivi è proprio l’Europa: prima lo scandalo Volkwagen, poi il caso Bnp-Paribas, quindi l’attacco al segreto bancario svizzero, ora la vicenda Panama. Sul tappeto resta il trattato segreto Ttip, che trasferirà potere giuridico direttamente alle multinazionali, scavalcando leggi e Stati. Il trattato resta segreto, e nessuno ne parla. Il governo dell’Ue non tenta neppure di inscenare la ritualità di una democrazia formale.Il terrorismo è l’altra grande leva dell’operazione eversiva in corso. Sorretto da settori della Cia e del Pentagono, Daesh è finanziato da Arabia Saudita, Qatar, Turchia e altri paesi del Golfo. Proprio le stragi di Parigi, Charlie Hebdo e 13 novembre, e ora quella di Bruxelles, hanno spinto alcuni esponenti della massoneria ad effettuare denunce clamorose, rimaste escluse dal mainstream ma circolate sul web. La tesi riguarda l’ispirazione massonica degli attentati e il loro contenuto simbolico nascosto utilizzato come “firma”, a partire dallo stesso acronimo Isis, che corrisponde alla dea Iside, il cui secondo nome è Hathor – e Hathor Pentalpha, secondo Gioele Magaldi, è il nome della famigerata superloggia fondata dai Bush negli anni ‘80, cui avrebbero aderito Blair, Sarkozy e lo stesso Erdogan, cioè gli uomini che hanno promosso le guerre in Iraq, in Libia e in Siria, dopo aver ideato gli attentati dell’11 Settembre.Un’intera narrazione sta crollando, giorno per giorno, sotto i colpi delle rivelazioni che illuminano i retroscena della cronaca: il mainstream continua a proporla, l’informazione ufficiale, ma non riscuote più la fiducia della maggioranza dei cittadini, sempre più scettici, tentati dall’astensionismo (convinti che votare sia ormai inutile) e in ogni caso diffidenti di fronte alle notizie sfornate a ciclo continuo. In parallelo, si assiste a clamorose rivelazioni in serie: prima Julian Assange e Wikileaks, poi lo scandalo dello spionaggio di massa targato Nsa, denunciato da Edward Snowden. Sul piano culturale, in Italia e non solo, è parallelo il percorso di uno studioso isolato come Mauro Biglino, che propone la (sconcertante) traduzione letterale della Bibbia: lo Jahwè dell’Antico Testamento non è affatto una divinità, ma un feroce guerriero venuto da non si sa dove e impegnato – insieme ad alcuni “colleghi” – a instaurare un dominio di tipo coloniale in Palestina, peraltro sul Sapiens che, secondo la Genesi, sarebbe stato creato in laboratorio, mediante clonazione genetica. La teologia della creazione? Pura fantasia, di cui nella Bibbia non c’è traccia.Secondo l’ex avvocato Paolo Franceschetti, autore di contro-indagini clamorose su alcuni misteri della cronaca italiana, dalle Bestie di Satana al Mostro di Firenze (l’intuizione della spaventosa realtà dei delitti rituali compiuti da sette occulte, affollate da potentissimi insospettabili) il bicchiere mezzo pieno consiste nel fatto che, se certi orrori si sono sempre verificati, oggi finalmente se ne comincia a parlare. Un altro osservatore come Fausto Carotenuto, già analista strategico dei servizi segreti italiani, sostiene che la crescente violenza cui stiamo assistendo corrisponda all’inquietudine dell’élite al potere, che sa di aver perso il consenso di almeno il 20-30% della popolazione e quindi preme sull’acceleratore della paura per condizionare la parte restante, quella che ancora è facilmente manipolabile. Lo afferma anche un massone come Gianfranco Carpeoro, grande esperto di codici esoterici e simbolici: la strategia della tensione come arma estrema, da parte di chi pensa di non avere più altri strumenti per condizionare le masse.L’arma più antica – il terrore – per tentare di portare a compimento il grande disegno emerso negli ultimi decenni, ben illustrato da Paolo Barnard nel saggio “Il più grande crimine”: la riduzione in schiavitù del cittadino occidentale, affrancatosi dal feudalesimo con la Rivoluzione Francese, per farlo retrocedere al rango di suddito, senza più uno Stato democratico che lo tuteli. Il progetto della globalizzazione neoliberista è semplice, aggiunge Carpeoro: allineare tutti noi al livello degli abitanti del terzo mondo, cioè lavoratori pre-moderni e senza diritti. Il piano procede inesorabilmente: con le crisi finanziarie, le guerre, le bombe, le menzogne quotidiane sfornate dal “pensiero magico”, la suprema manipolazione cui ricorre il massimo potere, sempre impegnato a costruire nemici artificiali che il popolo dovrà odiare, evitando di farsi le domande giuste. Che può fare, il cittadino comune? Ricordarsi di esistere, risponde Erri De Luca: per esempio, la partecipazione al referendum contro le trivellazioni è un grido contro “l’anestesia delle coscienze”. Sapendo però che di ben altra “rianimazione” ci sarebbe bisogno, in un paese che ancora accetta l’euro, considera una sciagura il debito sovrano e pensa che, dopo Bruxelles, sarà bene avere meno libertà in cambio di più sicurezza.Cosa sta succedendo? Ovvero: che portata hanno le trasformazioni epocali che sta vivendo attualmente il mondo, a cominciare dall’Occidente? Gli sconvolgimenti planetari in corso – crisi, migrazioni, guerre – sono a dir poco spettacolari e, in apparenza, senza soluzione. Una costante riguarda l’informazione: il sistema mainstream, divenuto totalizzante, evita accuratamente di riferire le notizie principali e le spiegazioni sulle cause degli eventi che determinano le rilevantissime modificazioni nella vita sociale ed economica di oggi, quindi l’avvenire delle prossime generazioni. L’enormità degli avvenimenti suscita clamore sul web e nei blog, ma coglie impreparati molti degli osservatori ufficiali, intellettuali, economisti, scrittori, accademici. La situazione economica in Europa si è fatta catastrofica. Per la prima volta, dopo 70 anni di sviluppo ininterrotto, i figli crescono sapendo che avranno una vita meno facile di quella dei loro genitori. Il livello di disoccupazione è desolante, e non si vedono vie d’uscita: non ci sono alternative sul tappeto.