Archivio del Tag ‘democratici’
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“Cofferati, Kyenge, Spinelli e gli altri amici di Soros in Ue”
Il magnate ungherese George Soros ci sorprende ancora: la sua fondazione, la Open Society, ha appena pubblicato un file contenente i nomi degli “Alleati fidati nel Parlamento Europeo”. Il fascicolo, come riporta “Diario del Web”, si riferisce a 226 deputati (su 751) dell’Europarlamento che sono molto vicini a Soros e sposano le sue battaglie in giro per il mondo. Nella lista troviamo anche alcune vecchie conoscenze del Belpaese, tra cui l’ex sindacalista Cgil Sergio Cofferati, l’ex ministra Kashetu Kyenge e Barbara Spinelli, eletta con “L’altra Europa con Tsipras”, cioè con i voti della sinistra “radicale” italiana. Tra gli altri “amici fidati” di Soros a Strasburgo anche svariati esponenti del Pd come Daniele Viotti, Elena Gentile e Roberto Gualtieri. Secondo Maurizio Blondet, la lista dei “Soros friends” made in Italy fugurano anche altri europarlamentari eletti sempre con il Pd, come Alessia Mosca, Luigi Morgano, Elena Ethel “Elly” Schlein, Isabella De Monte, Brando Maria Benifei e Pier Antonio Panzieri. Il dossier, secondo Blondet, avvicinerebbe questi europarlamentari alle battaglie «radicali, globaliste, anti-sovraniste e anti-Russia» orchestrate da Soros.«Si nota anche come la Open Society sia molto attiva in Ungheria, dove sta mobilitando una spontanea “primavera” per rovesciare il governo di Viktor Orban», afferma Blondet, che aggiunge: «Molti siti di informazione ungheresi hanno ricevuto aiuti finanziari da Soros, fra cui “444.hu” che ha ricevuto 49.500 dollari». SorosLeaks, ovvero: retroscena sul ricchissimo super-speculatore ungherese, che “Diario del Web” definisce «il burattinaio dell’ordine mondiale». Gli “alleati” italiani di George Soros nel Parlamento Europeo? I loro nomi sono pubblicati da Open Society, «la fondazione-ombrello del magnate ungherese con la quale finanzia i suoi progetti “rivoluzionari” in giro per il mondo». Secondo gli hacker che recentemente hanno attaccato il sito della fondazione, aggiunge “Diario”, Soros sarebbe «l’architetto o il finanziatore di più o meno ogni rivoluzione o colpo di Stato degli ultimi 25 anni», compreso il golpe in Ucraina “truccato” da sommossa popolare. «Con i suoi soldi, il ricco ungherese avrebbe cercato più volte di influenzare e determinare il corso della storia».Oltre agli “italiani”, continua “Diario del Web”, altri 13 fedelissimi apparterrebbero al Gruppo di Visegrad. «Ma questo dato non sorprende più di tanto, visto che la Open Society di George Soros pare sia molto attiva in Ungheria», dove lavora per rovesciare il governo Orban, regolarmente eletto. Non sarebbe la prima volta: «Vale la pena ricordare che George Soros è diventato famoso per aver gettato sul lastrico la Banca d’Inghilterra e aver costretto la sterlina e la lira italiana a uscire dallo Sme nel 1992», scrive “Diario”. «Il 16 settembre di quell’anno mise in atto una gigantesca operazione speculativa vendendo una enorme quantità di sterline allo scoperto, e gettando nel caos sia la Gran Bretagna che l’Italia». I due paesi furono costretti a uscire dal Serpente Monetario Europeo, «mentre Soros guadagnava una fortuna». Ad oggi è una delle 30 persone più ricche del mondo: il suo patrimonio è stimato in circa 24,9 miliardi di dollari (dati aggiornati a maggio 2016). Soros ha cercato anche di favorire la candidata democratica Hillary Clinton alle presidenziali americane, ma questa volta – come sappiamo – le cose gli sono andate male.I documenti trafugati dalla sua fondazione dagli hacker, aggiunge “Diario del Web”, rivelano un costante impegno economico per campagne elettorali, fondazioni umanitarie, associazioni per i diritti umani e società di ricerca, «allo scopo di indirizzare il consenso dell’opinione pubblica (non solo americana) verso alcune questioni particolarmente care a Soros». Non sorprende, dunque, che il magnate ungherese «abbia finanziato anche Amnesty International, che recentemente ha rivolto un durissimo attacco nei confronti di alcuni leader mondiali ritenuti responsabili dall’associazione di una “retorica incendiaria”: Donald Trump, Recep Tayyip Erdogan, Viktor Orban. Guarda caso, tutti nemici giurati di Soros». E che dire del generoso finanziamento, sempre da parte della Open Society, verso il Poynter Institute che per Facebook si occuperà della “verifica delle notizie” attraverso un progetto di fact checking? «Il celebre social network avrebbe infatti deciso di dichiarare guerra alle “fake news”, ma è facile immaginare che l’informazione possa essere filtrata a favore degli “amici” più generosi». E questo punto, conclude il blog, «viene spontaneo chiedersi anche come e perché gli europarlamentari italiani siano stati inseriti da Soros nella lista dei suoi “fedelissimi”». E attenzione: tra i Soros-friends c’è anche Guy Verhofstadt, dell’Alde, il gruppo in cui Beppe Grillo ha cercato di far confluire gli europarlamentari 5 Stelle.Il magnate ungherese George Soros ci sorprende ancora: la sua fondazione, la Open Society, ha appena pubblicato un file contenente i nomi degli “Alleati fidati nel Parlamento Europeo”. Il fascicolo, come riporta “Diario del Web”, si riferisce a 226 deputati (su 751) dell’Europarlamento che sono molto vicini a Soros e sposano le sue battaglie in giro per il mondo. Nella lista troviamo anche alcune vecchie conoscenze del Belpaese, tra cui l’ex sindacalista Cgil Sergio Cofferati, l’ex ministra Kashetu Kyenge e Barbara Spinelli, eletta con “L’altra Europa con Tsipras”, cioè con i voti della sinistra “radicale” italiana. Tra gli altri “amici fidati” di Soros a Strasburgo anche svariati esponenti del Pd come Daniele Viotti, Elena Gentile e Roberto Gualtieri. Secondo Maurizio Blondet, la lista dei “Soros friends” made in Italy fugurano anche altri europarlamentari eletti sempre con il Pd, come Alessia Mosca, Luigi Morgano, Elena Ethel “Elly” Schlein, Isabella De Monte, Brando Maria Benifei e Pier Antonio Panzieri. Il dossier, secondo Blondet, avvicinerebbe questi europarlamentari alle battaglie «radicali, globaliste, anti-sovraniste e anti-Russia» orchestrate da Soros.
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Crolla la grande truffa della sinistra, che ha tradito il popolo
La sinistra non è solo allo sbando – è al completo collasso perché la classe operaia si è accorta del tradimento della sinistra e del suo abbandono della classe operaia per costruire ricchezza personale e potere. La fonte dell’angoscia rabbiosa che scuote il campo progressista del Partito Democratico non è il presidente Trump – è il completo collasso della sinistra a livello globale. Per capire questo crollo, dobbiamo rivolgerci (ancora una volta) alla comprensione profonda che Marx aveva dello Stato e del capitalismo. Non stiamo parlando del marxismo culturale che gli americani conoscono a livello superficiale, ma del nocciolo della sua analisi economica che, come notava Sartre, viene insegnata al solo fine di screditarla. Il marxismo culturale attinge anch’esso da Engels e Marx. Nell’uso moderno, il marxismo culturale indica l’aperto scardinamento dei valori tradizionali – la famiglia, la comunità, la fede religiosa, i diritti di proprietà e un governo centrale limitato – in favore di un cosmopolitismo senza radici e uno Stato centrale espansivo e onnipotente che sostituisce la comunità, la fede e i diritti di proprietà con meccanismi di controllo statalista che impongono la dipendenza dallo Stato stesso, e una mentalità secondo la quale l’individuo è colpevole di pensiero anti-statalista fino a prova contraria, determinata dalle regole dello Stato stesso.La critica di Marx al capitalismo è di natura economica: il capitale e il lavoro sono in eterno conflitto. Nell’analisi di Marx il capitale ha la meglio fino a che le contraddizioni interne del capitalismo non erodono dall’interno le sue capacità di controllo. Il capitale non domina solo il lavoro; domina anche lo Stato. Perciò la versione “statale” del capitalismo che domina a livello globale non è una coincidenza o un’anomalia – è l’unico esito possibile di un sistema nel quale il capitale è la forza dominante. Per contrastare il dominio del capitale sono sorti i movimenti politici socialdemocratici, per strappare alcune misure dalle mani del capitale e volgerle in favore del lavoro. I movimenti socialdemocratici sono stati ampiamente aiutati dal “quasi crollo” della prima versione del capitalismo statale [cartel capitalism] durante la Grande Depressione, quando la cancellazione del debito deteriorato avrebbe comportato la distruzione dell’intero sistema bancario e azzoppato la funzione principale del capitalismo, quella di far crescere il capitale stesso tramite un’espansione del debito.I padroni del capitale, decimati, capirono di avere un’unica scelta: resistere fino ad essere rovesciati dall’anarchismo o dal comunismo, oppure cedere un po’ della loro ricchezza e del loro potere ai partiti socialdemocratici in cambio di stabilità sociale, politica ed economica. In termini generali si direbbe che la sinistra favorisce il lavoro (i cui diritti sono protetti dallo Stato) mentre la destra favorisce il capitale (i cui diritti sono ugualmente protetti dallo Stato). Ma nel corso degli ultimi 25 anni di neoliberalismo globalizzato, i movimenti socialdemocratici hanno abbandonato il lavoro per abbracciare la ricchezza e il potere che gli venivano offerti dal capitale. L’essenza della globalizzazione è questa: il lavoro viene mercificato mentre il capitale mobile è libero di girare in qualsiasi angolo del mondo per cercare il costo del lavoro minore possibile. Al contrario del capitale, il lavoro è molto meno mobile, non è in grado di spostarsi fluidamente e senza frizioni come fa il capitale, alla ricerca di opportunità e di scarsità da sfruttare a proprio vantaggio.Il neoliberalismo – l’apertura dei mercati e delle frontiere – permette al capitale di schiacciare il lavoro senza alcuno sforzo. I socialdemocratici, nel momento in cui abbracciano l’idea dei “confini aperti”, istituzionalizzano l’apertura all’immigrazione; questa disintegra il valore della forza lavoro dato dalla sua scarsità sul mercato interno, e permette di abbassarne il prezzo grazie al lavoro degli immigrati, a tutto vantaggio del desiderio del capitale di abbattere i costi. La globalizzazione, la finanza neoliberale e le politiche di immigrazione determinano il crollo della sinistra e la vittoria del capitale. Ora è il capitale a dominare totalmente lo Stato e le sue strutture clientelari – i partiti politici, le lobby, i contributi alle campagne elettorali, le fondazioni di beneficienza che operano a pagamento, e tutte le altre strutture del capitalismo di Stato. Per nascondere il crollo della difesa economica del lavoro da parte della sinistra, i sostenitori della sinistra e la macchina delle pubbliche relazioni hanno sostituito i movimenti per la giustizia sociale alle lotte per acquisire sicurezza economica e capitale.Questo è riuscito alla perfezione, e decine di milioni di autoproclamati “progressisti” si sono bevuti la Grande Truffa della sinistra, secondo la quale le campagne di “giustizia sociale” in nome di gruppi sociali emarginati sarebbero la vera caratteristica distintiva dei movimenti progressisti e socialdemocratici. Questo giochetto da prestigiatore, questo abbraccio delle campagne per la “giustizia sociale” economicamente neutre, ha mascherato il fatto che i partiti socialdemocratici avevano intanto gettato il lavoro nel tritacarne della globalizzazione, dell’apertura all’immigrazione e della libera circolazione del capitale, che intanto era tutto contento dell’abbandono del lavoro da parte della sinistra. Nel frattempo i furboni della sinistra si sono ingozzati delle concessioni elargite dal capitale in cambio del loro tradimento. Vengono in mente i “guadagni” di Bill e Hillary Clinton per 200 milioni di dollari, e innumerevoli altri esempi di arricchimenti personali da parte di autoproclamati “difensori” del lavoro. La sinistra non è solo allo sbando – è al crollo totale – ora che la classe lavoratrice si è svegliata e si è resa conto del tradimento e dell’abbandono da parte di chi si è occupato solo del proprio interesse personale. Chiunque lo neghi non si è ancora reso conto della Grande Truffa della Sinistra.(Charles Hugh-Smith, “Crolla la grande truffa della sinistra”, dal blog “Of Two Minds” del 23 gennaio 2017, ripreso da “Voci dall’Estero”).La sinistra non è solo allo sbando – è al completo collasso perché la classe operaia si è accorta del tradimento della sinistra e del suo abbandono della classe operaia per costruire ricchezza personale e potere. La fonte dell’angoscia rabbiosa che scuote il campo progressista del Partito Democratico non è il presidente Trump – è il completo collasso della sinistra a livello globale. Per capire questo crollo, dobbiamo rivolgerci (ancora una volta) alla comprensione profonda che Marx aveva dello Stato e del capitalismo. Non stiamo parlando del marxismo culturale che gli americani conoscono a livello superficiale, ma del nocciolo della sua analisi economica che, come notava Sartre, viene insegnata al solo fine di screditarla. Il marxismo culturale attinge anch’esso da Engels e Marx. Nell’uso moderno, il marxismo culturale indica l’aperto scardinamento dei valori tradizionali – la famiglia, la comunità, la fede religiosa, i diritti di proprietà e un governo centrale limitato – in favore di un cosmopolitismo senza radici e uno Stato centrale espansivo e onnipotente che sostituisce la comunità, la fede e i diritti di proprietà con meccanismi di controllo statalista che impongono la dipendenza dallo Stato stesso, e una mentalità secondo la quale l’individuo è colpevole di pensiero anti-statalista fino a prova contraria, determinata dalle regole dello Stato stesso.
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Craig Roberts: golpe in vista, Trump è già un uomo morto
«Non c’è nulla che l’establishment politico non farà e nessuna bugia che non dirà, per mantenere il proprio prestigio e potere a carico vostro». Parola di Donald Trump, prima delle elezioni. Il guaio è che oggi, pochi mesi dopo il voto, Trump è “un uomo morto”. «Lo sforzo del popolo americano di portare il governo nuovamente sotto il proprio controllo tramite Trump è stato sconfitto dallo Stato Profondo», sentenzia Paul Craig Roberts, viceministro di Reagan negli anni ‘80, già sostenitore critico di “The Donald” e fiero avversario della “falsa sinistra” incarnata da Obama e Hillary, servitori del disegno “imperiale” del complesso militare-industriale, la “fabbrica della guerra”. Per John Schindler, ex spia della Nsa, Trump «morirà in carcere», vittima della «guerra nucleare» che lo “Stato Profondo” gli ha dichiarato. Cia, Pentagono, Wall Street, Fbi, industria degli armamenti. Il “grande nemico”, denunciato dal presidente Eisenhower nel suo ultimo discorso, avrebbe vinto ancora, secondo Craig Roberts: «Donald Trump ha sovrastimato il suo potere presidenziale? La risposta è sì. Steve Bannon, il principale consigliere di Trump, è politicamente inesperto? La risposta è sì». Trump ha sovrastimato le sue forze, ha sfidato il “mostro” e adesso pagherà un prezzo altissimo.Il “New York Times” riporta che «le agenzie di intelligence americane hanno cercato di capire se la campagna elettorale Trump era collusa con i russi sulla pirateria informatica o con altri sforzi per influenzare le elezioni». E’ l’offensiva del “Deep State”, che si sta riprendendo il potere. Trump in carcere? «E’ possibile che accadrà proprio questo», scrive Craig Roberts, in un post su “Sputnik News” tradotto da Costantino Ceoldo per “Come Don Chisciotte”. Il prestigioso analista americano, già “editor” del “Wall Street Journal”, ricorda che, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, il complesso militare e di sicurezza decise che «il flusso di profitti e potere derivante dalla guerra e dai pericoli di una guerra era troppo grande per essere ceduto», consegnato alla tranquillità di in un’era di pace. «Questo complesso ha manipolato un debole e inesperto presidente Truman in una gratuita guerra fredda con l’Unione Sovietica», basata sul nulla: «Fu creata la menzogna, accettata dal popolo americano credulone, che il comunismo internazionale voleva conquistare il mondo». Assurdo: Stalin aveva liquidato Trotskij e tutti gli alfieri della “rivoluzione permanente”, estesa a tutto il mondo, puntando invece sul “socialismo in un solo paese”.Ma l’establishment americano «ha abbozzato e contribuito all’inganno», gonfiando il super-potere dell’apparato militare-industriale fino a preoccupare Dwitght Eisenhower, che nel 1961 – nel suo ultimo discorso – mise in guardia il popolo contro la vocazione eversiva del business della guerra: «Tre milioni e mezzo di uomini e donne sono direttamente impegnati nell’apparato della difesa», disse. «Ogni anno spendiamo per la sicurezza militare più del reddito netto di tutte le società degli Stati Uniti. Questa congiunzione di un apparato militare immenso e di una grande industria degli armamenti è nuova, nell’esperienza americana. L’influenza totale – economica, politica, anche spirituale – si fa sentire in ogni città, ogni Parlamento, ogni ufficio del governo federale». Una necessità geopolitica con «gravi implicazioni», per Eisenhower: «Dobbiamo guardarci dall’acquisizione di una influenza ingiustificata, visibile o invisibile, da parte del complesso militar-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di un potere fuori luogo esiste e persisterà. Non dobbiamo mai lasciare che il peso di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i nostri processi democratici».E ancora: «Non dovremmo mai dare nulla per scontato. Solo una cittadinanza vigile e competente può costringere il corretto ingranamento del grande apparato industriale e militare di difesa con i nostri metodi e gli obiettivi pacifici, in modo che la sicurezza e la libertà possano prosperare insieme». Gli avvisi di Eisenhower, osserva Craig Roberts, erano centrati. «Tuttavia, erano basati su “una cittadinanza vigile e competente”, che gli Stati Uniti non hanno. La popolazione americana è in gran parte stupida e si sta dirigendo, in tutto lo spettro ideologico da sinistra a destra, all’autodistruzione». I media, stampa e televisione, che «servono da propagandisti per il potere del complesso militar-industriale e le élite di Wall Street», ormai «si accertano che gli americani non abbiano nulla se non informazioni false ed orchestrate: ogni famiglia e persona che accende la Tv o si legge un giornale è programmata per vivere in una realtà falsa ed orchestrata che serve quei pochi che comprendono l’apparato di governo». L’altro problema? «Trump ha sfidato questo apparato, senza rendersi conto che è più potente di un semplice presidente degli Stati Uniti».Durante il secondo mandato di Obama, la Russia e il suo presidente «sono stati demonizzati dal complesso militar-industriale e dai neoconservatori utilizzando i media “presstitute”», scrice Craig Roberts. «La demonizzazione ha facilitato la capacità dei media “presstitute” controllati, come il “New York Times”, il “Washington Post”, Cnn, Msnbc ed il resto, di associare il contatto con la Russia e gli articoli che mettevano in discussione le tensioni orchestrate tra Stati Uniti e Russia, con attività sospette, forse anche tradimento». Trump e i suoi consiglieri? «Erano troppo inesperti per rendersi conto che la conseguenza del licenziamento di Flynn è stata quella di validare questa associazione orchestrata della presidenza Trump con l’intelligence russa». E ora abbiamo «le puttane dei media e le puttane della politica» impegnate a porre la stessa domanda utilizzata per infangare il presidente Nixon e forzarne le dimissioni: “Che cosa sapeva il presidente e quando lo sapeva?”. Trump sapeva che il generale Flynn aveva parlato con l’ambasciatore russo settimane prima che Trump abbia detto che lo aveva fatto? Flynn ha fatto l’indicibile, parlare con un russo: perché Trump gli ha detto di farlo?I fornitori di false notizie, cioè i grandi media «bugiardi spregevoli», secondo Craig Roberts «stanno usando insinuazioni irresponsabili per intrappolare il presidente Trump in una rete di tradimento». Ecco il titolo del “New York Times”: «Gli assistenti della campagna di Trump hanno avuto contatti ripetuti con l’intelligence russa». Quello a cui stiamo assistendo, insiste l’analista, è una campagna da parte dello Stato Profondo, «che usa le sue puttane dei media per organizzare l’impeachment di Trump». In altre parole, «quelli al lavoro per ribaltare le elezioni presidenziali del 2016 sono così sicuri del loro successo che dichiarano pubblicamente la loro preferenza per un colpo di Stato sulla democrazia». Ad esempio, «il guerrafondaio neoconservatore sionista Bill Kristol ha espresso la sua preferenza per un colpo di Stato». Craig Roberts lo definisce «liberale progressista di sinistra, allineato con l’Uno Percento contro la “razzista, misogina, omofobica” classe operaia, i “deplorevoli” che hanno eletto Trump». In campo anche gli artisti, come «il musicista disinformato Moby», il quale «si è sentito in dovere di scrivere sciocchezze ignoranti su Facebook», per dire che «il dossier russo su Trump è reale», il presidente «è ricattato dal governo russo, non solo per essersi fatto pisciare addosso da prostitute russe, ma per cose molto più nefaste». In più, «l’amministrazione Trump è in collusione con il governo russo, e lo è stata fin dal primo giorno».Aggiunge Craig Roberts: «Ora che Trump è stato contaminato dalle “associazioni con lo spionaggio russo” i repubblicani idioti, secondo “Bloomberg”, si sono “uniti alle chiamate dei democratici per uno sguardo più approfondito sui contatti tra la squadra del presidente Trump e gli agenti dello spionaggio russo», cosa che «indica un crescente senso di pericolo politico all’interno del partito qualora emergessero nuovi rapporti su ampi contatti tra i due». Naturalmente – puntualizza Craig Roberts – non vi è alcuna prova di tali contatti: sono solo insinuazioni, su cui si basa la campagna per deporre Trump. Il licenziamento di Flynn, il generale “sacrificato” nel tentativo di placare le polemiche, ha solo peggiorato la situazione: viene presentato come un’ammissione di colpevolezza, mentre la Cia «continua a passare notizie false alle “presstitute”». Conclude Craig Roberts, amaramente: «Fin dall’inizio ho avvertito che Trump mancava dell’esperienza e delle conoscenze per scegliere un governo che gli stesse accanto e servisse la sua agenda. Trump ha ora licenziato l’unica persona su cui avrebbe potuto contare. La conclusione più ovvia è che Trump è carne morta».Negli Usa, «continua a guadagnare credibilità la tesi di Chris Hedges secondo la quale la rivoluzione è l’unico modo con cui gli americani possono rivendicare il proprio paese». Trump è stato crocifisso alle parole pronunciate alla vigilia delle elezioni, quando disse: «L’establishment di Washington, e le grandi aziende finanziarie e dei media che lo finanziano, esiste per una sola ragione: per proteggersi ed arricchirsi». Questo, aggiunse, «è un crocevia della storia della nostra civiltà che determinerà se noi, il popolo, recupereremo il controllo sul nostro governo». L’establishment politico, il Deep State: «Sta tentando di tutto per fermarci», disse Trump. Ed è «lo stesso gruppo responsabile per i nostri trattati commerciali disastrosi, la massiccia immigrazione illegale e le politiche estere che hanno fatto sanguinare questo paese fino a prosciugarlo». La classe politica «ha portato alla distruzione delle nostre fabbriche e dei nostri posti di lavoro, che fuggono in Messico, Cina e altri paesi in tutto il mondo». Un nemico potentissimo: «Si tratta di una struttura di potere globale che è responsabile per le decisioni economiche che hanno derubato la nostra classe operaia, spogliato il nostro paese della sua ricchezza e messo quei soldi nelle tasche di un pugno di grandi aziende ed entità politiche». Parole a cui oggi lo Stato Profondo sta inchiodando Trump, a colpi di finti scandali mediatici, verso l’impeachment.«Non c’è nulla che l’establishment politico non farà e nessuna bugia che non dirà, per mantenere il proprio prestigio e potere a carico vostro». Parola di Donald Trump, prima delle elezioni. Il guaio è che oggi, pochi mesi dopo il voto, Trump è “un uomo morto”. «Lo sforzo del popolo americano di portare il governo nuovamente sotto il proprio controllo tramite Trump è stato sconfitto dallo Stato Profondo», sentenzia Paul Craig Roberts, viceministro di Reagan negli anni ‘80, già sostenitore critico di “The Donald” e fiero avversario della “falsa sinistra” incarnata da Obama e Hillary, servitori del disegno “imperiale” del complesso militare-industriale, la “fabbrica della guerra”. Per John Schindler, ex spia della Nsa, Trump «morirà in carcere», vittima della «guerra nucleare» che lo “Stato Profondo” gli ha dichiarato. Cia, Pentagono, Wall Street, Fbi, industria degli armamenti. Il “grande nemico”, denunciato dal presidente Eisenhower nel suo ultimo discorso, avrebbe vinto ancora, secondo Craig Roberts: «Donald Trump ha sovrastimato il suo potere presidenziale? La risposta è sì. Steve Bannon, il principale consigliere di Trump, è politicamente inesperto? La risposta è sì». Trump ha sovrastimato le sue forze, ha sfidato il “mostro” e adesso pagherà un prezzo altissimo.
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Barnard: io e il vero Obama, criminale bugiardo e spietato
Nel gennaio del 2009 io mi trovai in un teatro di San Marino gremito a commentare l’elezione di Obama. Gli altri relatori erano il filosofo Marramao, Jacopo Fo, e una femminista che non ricordo. Il clima era il tripudio della sinistra italiana perché il cattivo Bush era caduto e il ‘compagno Obama’ aveva vinto. Io dissi a tutti che erano una manica d’idioti, dissi che Obama era il peggio. Furono fischi per me, buuuuuu dal pubblico, il Marramao a momenti muore di sincope a urlarmi che ero un pazzo di destra, il lume Jacopo Fo mi prese a risatine di sufficienza, la femminista strillava da gallina che io rovinavo la festa dei compagni. Mi odiarono tutti, ospiti e pubblico. In quelle stesse ore il neo eletto ‘compagno’ Obama stava negoziando con Israele in segreto. Gli disse: ok, potete bruciare vivi i palestinesi in Operazione Piombo Fuso fino al giorno prima della mia inaugurazione, ma non durante la mia inaugurazione (rivelò il “Washington Post” poi).Poi vennero i 13mila miliardi di dollari regalati da Obama alle mega banche, cioè il più colossale trasferimento dal 99% all’1% della storia dell’umanità, poi le sue leggi per soffocare l’attivismo, l’operazione Nsa spionaggio mondiale (Snowden), il programma di assassinio indiscriminato di musulmani coi Drones di John Ballinger, e stiamo sempre parlando di Obama il ‘compagno’, e gli 8 anni in cui Barack riuscì a essere così bestiale col suo popolo da distruggere il Partito Democratico come mai nessuno nella storia d’America e consegnarci Trump, solo per citare l’1% delle porcate di Obama.A San Marino nel 2009 io dissi che Obama era il peggio. Mi fischiarono, sberleffi e risatine. Ora leggete questo, da Norman Filkenstein (dicono le due frasi: “Mentre Bernie Sanders partecipa alla marcia delle donne a Washington, fa a pezzi la De Vos, si scontra con Ted Cruz sulla sanità, ecco intanto cosa sta facendo il Profeta…”. Poi nel tweet: “L’ex presidente Barack Obama fa kitesurf e va a cavallo con l’amicone miliardario Richard Branson (Virgin)”. Finkelstein chiama Obama il Profeta. Io chiamo me stesso il Profeta. Due profeti, ma con un pelo di differenza, cioè io ci presi, lui distrusse. No comment sui peti della sinistra italiana di cui sopra.Nel gennaio del 2009 io mi trovai in un teatro di San Marino gremito a commentare l’elezione di Obama. Gli altri relatori erano il filosofo Marramao, Jacopo Fo, e una femminista che non ricordo. Il clima era il tripudio della sinistra italiana perché il cattivo Bush era caduto e il ‘compagno Obama’ aveva vinto. Io dissi a tutti che erano una manica d’idioti, dissi che Obama era il peggio. Furono fischi per me, buuuuuu dal pubblico, il Marramao a momenti muore di sincope a urlarmi che ero un pazzo di destra, il lume Jacopo Fo mi prese a risatine di sufficienza, la femminista strillava da gallina che io rovinavo la festa dei compagni. Mi odiarono tutti, ospiti e pubblico. In quelle stesse ore il neo eletto ‘compagno’ Obama stava negoziando con Israele in segreto. Gli disse: ok, potete bruciare vivi i palestinesi in Operazione Piombo Fuso fino al giorno prima della mia inaugurazione, ma non durante la mia inaugurazione (rivelò il “Washington Post” poi).
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Rivoluzione colorata negli Usa, prove di golpe contro Trump
«Da qui alla fine di aprile, cioè alla fine dei cento giorni di Trump, sono da attendersi colpi: non solo colpi di scena», avverte Giulietto Chiesa. Se infatti sono in molti ad accusare il neopresidente di aver convogliato la rabbia “populista” verso un governo che, alla fine, si metterà d’accordo col Big Business, l’ala sconfitta dell’establishment sta facendo di tutto per confermare indirettamente il ruvido carisma di “The Donald”, accreditandolo come autentico uomo-contro. Uno che dovrà guardarsi le spalle, che rischia di essere deposto o, peggio, addirittura assassinato, come ipotizza Paul Craig Roberts. Per “Zero Hedge”, quella in corso negli Stati Uniti è una classica, sinistra “rivoluzione colorata”: un copione in tutto simile a quelli che, in Medio Oriente e in Ucraina, sono partiti da pacifiche proteste di piazza (meticolosamente orchestrate e accuratamente finanziate) per poi sfociate in scontri con morti e feriti, fino alla “resa” del presidente eletto, ucciso o costretto a scappare. Segnali inquietanti giungono proprio da Kiev, o meglio dalla frontiera ucraina orientale, dove – in barba di propositi di distensione annunciati dalla Casa Bianca, è ripresa l’offensiva contro le milizie del Donbass, sostenute da Mosca.«Escludo che i nazisti di Kiev e i loro amici prendano iniziative di loro spontanea iniziativa», scrive Giulietto Chiesa su “Megachip”. «Se attaccano è perché glielo ha ordinato la Cia. Dunque la Cia attacca non solo in Donbass ma anche a Washington. Obiettivo è il presidente Donald Trump». Secondo segnale, altrettanto inquietante: il regista Michael Moore, «esponente tra i più esagitati della canea liberal-liberista promossa dell’élite clintoniana», ora proclama in una trasmissione televisiva che «il nostro presidente è Obama», tra le ovazioni di Hollywood, Google, Facebook, Yahoo, Twitter, e di tutto il mainstream occidentale. «Tecnicamente è una dichiarazione eversiva», osserva Chiesa. «Non sarebbe inammissibile (come opinione) se contemporaneamente forze potenti, che hanno organizzato rivoluzioni colorate in tutto il mondo, non stessero facendo la stessa cosa negli Stati Uniti, con propaggini a Londra, Berlino e altrove».Ci stanno provando, eccome, a rovesciare il verdetto democratico delle urne. Ci si mette anche l’ex presidente Obama, che scende in campo in modo inedito. Obama «rompe tutte le consolidate convenzioni americane e critica duramente, apertamente, il suo successore». Di fatto, «si mette a capo degli sconfitti», i quali «tutto fanno, fuorché restare immobili». Altro segnale, gravissimo: «Le più importanti agenzie di spionaggio americane tengono sotto controllo il generale Michael Flynn (per le sue telefonate con l’ambasciatore russo). E lo rendono noto». Ma Flynn è l’uomo che Trump ha scelto per riorganizzare tutti i servizi di sicurezza degli Stati Uniti. Quindi «dovrebbe essere lui al comando». E invece: «Cruciali agenzie dello Stato americano si coalizzano contro l’amministrazione legalmente in carica: questo è un atto eversivo vero e proprio». Giulietto Chiesa aggiunge che «i servizi segreti Usa e Nato stanno riarmando i tagliagole in Siria e Iraq. I soldi sauditi e del Qatar sono in movimento vorticoso». Sicuri che fra cento giorni Donald Trump sarà ancora alla Casa Bianca?«Da qui alla fine di aprile, cioè alla fine dei cento giorni di Trump, sono da attendersi colpi: non solo colpi di scena», avverte Giulietto Chiesa. Se infatti sono in molti ad accusare il neopresidente di aver convogliato la rabbia “populista” verso un governo che, alla fine, si metterà d’accordo col Big Business, l’ala sconfitta dell’establishment sta facendo di tutto per confermare indirettamente il ruvido carisma di “The Donald”, accreditandolo come autentico uomo-contro. Uno che dovrà guardarsi le spalle, che rischia di essere deposto o, peggio, addirittura assassinato, come ipotizza Paul Craig Roberts. Per “Zero Hedge”, quella in corso negli Stati Uniti è una classica, sinistra “rivoluzione colorata”: un copione in tutto simile a quelli che, in Medio Oriente e in Ucraina, sono partiti da pacifiche proteste di piazza (meticolosamente orchestrate e accuratamente finanziate) per poi sfociare in scontri con morti e feriti, fino alla “resa” del presidente eletto, ucciso o costretto a scappare. Segnali inquietanti giungono proprio da Kiev, o meglio dalla frontiera ucraina orientale, dove – in barba di propositi di distensione annunciati dalla Casa Bianca – è ripresa l’offensiva contro le milizie del Donbass, sostenute da Mosca.
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Craig Roberts: gli uomini di Trump già si piegano al potere
«Uno dei motivi per cui la Russia ha salvato la Siria dai rovesci che voleva Washington è stato che la Russia ha compreso che il prossimo obiettivo di Washington sarebbe stato l’Iran; e che un terrorismo, sconfitto in Iran, si sarebbe spostato nella vicina Federazione Russa». Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan, lancia un allarme sulla demenziale propaganda anti-russa alla quale gli uomini di Trump si stanno piegando, forse anche solo in chiave tattica, per tranquilizzare la Cia e il Congresso, rassicurando l’establihsment sulla immutata vocazione “imperiale” della Casa Bianca. E’ comunque un errore grave, per Craig Roberts, quello commesso da Rex Tillerson e James Mattis: «Se il presidente della Exxon e un generale non sono in grado di tener testa a un Congresso imbecille, vuol dire che non sono adatti al compito che gli hanno assegnato». L’America non può scherzare col fuoco, perché «c’è un asse tra i paesi minacciati dagli Stati Uniti con il sostegno dato al terrorismo: Siria, Iran, Russia, Cina». Trump dice che vuole normalizzare le relazioni con la Russia, aprendo opportunità di business anziché conflitti? «Ma per normalizzare le relazioni con la Russia si devono anche normalizzazione i rapporti con l’Iran e con la Cina».A giudicare dalle dichiarazioni pubbliche, scrive Craig Roberts in un intervento su “Information Clearing House” che Bosque Primario ha tradotto per “Come Don Chisciotte”, il governo annunciato di Trump ha preso di mira l’Iran come paese da destabilizzare. «Tutti gli uomini nominati da Trump – il consigliere per la sicurezza nazionale, il segretario della difesa e il direttore della Cia – considerano l’Iran, in modo non corretto, uno Stato terrorista che deve essere rovesciato». Ma la Russia, aggiunge Craig Roberts, «non può permettere a Washington di rovesciare il governo di un Iran stabile, e non lo permetterà». E gli investimenti della Cina sul petrolio iraniano «portano alla conclusione che nemmeno la Cina permetterà un rovesciamento dell’Iran da parte di Washington». La Cina, ricorda Craig Roberts, ha già sofferto per i suoi investimenti persi nel petrolio libico, «come risultato del rovesciamento del governo libico fatto dal regime di Obama». Realisticamente parlando, quindi, «sembra che la presidenza Trump risulti già sconfitta dai suoi stessi uomini, indipendentemente dalla ridicola e incredibile propaganda mandata in giro dalla Cia e ritrasmessa da tutti i media negli Usa, nel Regno Unito e nel resto d’Europa».La “Reuters” riferisce che truppe americane composte da 2.700 soldati e da carri armati si stanno muovendo dalla Polonia verso il confine con la Russia. Il colonnello Christopher Norrie, comandante del 3° Armoured Brigade Combat Team, ha dichiarato: «L’obiettivo principale della nostra missione è deterrenza e prevenzione delle minacce». Una grossolana e pericolosa provocazione: l’Urss di Stalin fu colta di sorpresa ma seppe respingere il più grande esercito d’Europa, quello di Hitler, mentre «la Russia di Putin è pronta». Aggiunge Craig Roberts: «E’ incredibile che l’esercito americano stia portando avanti una esercitazione tanto provocatoria e tanto in contraddizione con la futura politica del presidente entrante. I militari americani, la Cia, e le loro puttane dei media Usa stanno anti-democraticamente seguendo una propria agenda, indipendente della politica che vorrà fare il presidente eletto». Secondo il quotidiano israeliano “Haaretz”, agenti dell’intelligence Usa hanno chiesto al governo israeliano di non condividere nessuna informazione di intelligence con l’amministrazione Trump, perché Putin avrebbe mezzi per far “pressione” su Trump e Trump dovrebbe svelare informazioni sensibili a Russia e Iran.«Possiamo vedere come tutto il complesso si muova per sabotare tutta la politica militare e della security di Trump», aggiunge Craig Roberts. «Accuse continue hanno costretto Trump a dire che forse i russi sarebbero stati coinvolti in un attacco che non c’è mai stato, né da parte della Russia né da parte di nessun altro». Il segretario di Stato designato, Tillerson, «ha dovuto dichiarare che la Russia è una minaccia nel corso della sua udienza di conferma per poter essere confermato». Idem il candidato di Trump al ruolo di segretario della difesa, Mattis: «Ha dovuto dire nella sua udienza di conferma che gli Stati Uniti devono essere pronti a confrontarsi militarmente con la Russia». Solo “un osso” gettato alla Cia? «E’ chiaro che il Congresso degli Stati Uniti è in balia dei soldi che vengono dalle donazioni del complesso militare e della security», da qui “l’obbligo” di decretare Russia “una minaccia”. Male: «L’establishment che domina gli Usa sta facendo perdere la speranza e sta mettendo dei dubbi nello stesso governo russo». Ma, si domanda Craig Roberts, dov’è finita la coscienza morale della sinistra “liberal”? «Per quale motivo questa sinistra liberale sta aiutando il complesso militare e la security pur di delegittimare Trump e di incastrarlo in modo che la sua agenda sia già morta in partenza e che la guerra termonucleare rimanga comunque una possibilità?».In altre parole: Trump è già finito? «Stiamo già perdendo fiducia, se non (ancora) in lui, in quelli che ha scelto per comporre il suo governo, ancora prima che si insedi ufficialmente». Gravissime, per Craig Roberts, le dichiarazioni di Tillerson, futuro ministro degli esteri, sulla Cina, identiche a quelle rese, a suo tempo, da Hillary Clinton, quando dichiarava che il Mar Cinese Meridionale è una zona di dominio degli Stati Uniti. Nella sua audizione di conferma, Rex Tillerson ha detto che l’accesso della Cina al proprio Mar Cinese Meridionale non sarà permesso: «Dobbiamo mandare alla Cina un chiaro segnale che, per prima cosa, devono fermare le loro costruzioni sulle isole e poi che nemmeno l’accesso a quelle isole sarà tollerato», ha detto. La risposta della Cina? Immediata, e a tono: «Tillerson – ha replicato il governo cinese – non dovrebbe essere indotto a pensare che Pechino avrà paura delle sue minacce. Se la diplomazia di Trump continuerà a mantenere i futuri rapporti tra gli Stati Uniti e la Cina a livello attuale, sarà meglio che le due parti si preparino a uno scontro militare». Nel qual caso, «Tillerson farebbe meglio a cercare di capire cosa significhi strategia nucleare, se vuol provare a far ritirare una grande potenza nucleare dai propri territori».Così, scrive Craig Roberts, Trump non è nemmeno arrivato al suo insediamento che «un idiota che ha nominato segretario di Stato ha già creato un rapporto di animosità con due potenze nucleari capaci di distruggere completamente tutto l’Occidente per l’eternità». Forse, conclude l’analista statunitense, queste dichiarazioni non sono altro che fumo negli occhi: enunciano azioni che non saranno messe in atto. Ma perché piegarsi al Congresso, rinunciando completamente alle proprie idee, se diverse da quelle esposte? «Il fatto che non sappiano stare in piedi da soli – dice Craig Roberts degli uomini scelti dal neopresidente – è una chiara indicazione che non hanno quella forza di cui Trump ha bisogno, se vuole imporre un cambiamento dall’alto». E il pericolo è reale: «Se Trump non sarà in grado di cambiare la politica estera americana, una guerra termonucleare e la distruzione della Terra sono inevitabili».«Uno dei motivi per cui la Russia ha salvato la Siria dai rovesci che voleva Washington è stato che la Russia ha compreso che il prossimo obiettivo di Washington sarebbe stato l’Iran; e che un terrorismo, sconfitto in Iran, si sarebbe spostato nella vicina Federazione Russa». Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan, lancia un allarme sulla demenziale propaganda anti-russa alla quale gli uomini di Trump si stanno piegando, forse anche solo in chiave tattica, per tranquillizzare la Cia e il Congresso, rassicurando l’establihsment sulla immutata vocazione “imperiale” della Casa Bianca. E’ comunque un errore grave, per Craig Roberts, quello commesso da Rex Tillerson e James Mattis: «Se il presidente della Exxon e un generale non sono in grado di tener testa a un Congresso imbecille, vuol dire che non sono adatti al compito che gli hanno assegnato». L’America non può scherzare col fuoco, perché «c’è un asse tra i paesi minacciati dagli Stati Uniti con il sostegno dato al terrorismo: Siria, Iran, Russia, Cina». Trump dice che vuole normalizzare le relazioni con la Russia, aprendo opportunità di business anziché conflitti? «Ma per normalizzare le relazioni con la Russia si devono anche normalizzazione i rapporti con l’Iran e con la Cina».
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La guerra segreta di Trump contro chi comanda da 30 anni
E’ sempre più interessante questo momento politico negli Usa. Non solo per le polemiche politiche quanto, soprattutto, per la capacità di Trump di spiazzare l’establishment, di rompere le regole non scritte che hanno accomunato dagli anni Ottanta a oggi il partito democratico e quello repubblicano. Ho già spiegato in altre occasioni come funziona la democrazia americana: la rivalità tra i due partiti sui temi che contano – difesa, politica estera, finanza, globalizzazione – è più apparente che reale. Il sistema presidenziale ha funzionato in modo tale da garantire che alla fine si affrontassero due candidati – uno di destra e uno di sinistra – che, a dispetto dell’apparente fortissima rivalità, in realtà condividevano le scelte di fondo e l’appartenenza al ristretto establishment che governa davvero l’America e che funziona come una sorta di “Rotary”: che vincesse il candidato progressista o quello conservatore poco importava, entrambi erano membri dello stesso club. Le elezioni del 2016, invece, hanno segnato una rottura con questo schema perché alle primarie sono emersi ben due candidati in grado di strappare la nomination: Sanders tra i democratici e Trump tra i repubblicani.Sanders sono riusciti a fermarlo con i brogli, che hanno costretto alle dimissioni il presidente del partito Debbie Wasserman Schultz; con Trump hanno fallito, sebbene abbiano tentato in ogni modo di farlo deragliare. Ed è significativo che molti leader repubblicani si fossero schierati con Hillary Clinton durante l’ultima fase della campagna, a cominciare dalla famiglia Bush. Di fronte al rischio di perdere la Casa Bianca, l’establishment ha fatto saltare le apparenze: anche la destra “mainstream” era per Hillary. Come tutte le celebrities di Hollywood. Come tutta la stampa. Demonizzare Trump, distruggere la sua immagine, attaccare la persona prima ancora delle idee, screditarlo in ogni modo. Questo era lo schema, peraltro già usato in passato e non solo negli Stati Uniti. Ma non è bastato. Trump ha vinto. E non sembra intenzionato a recedere dai propri propositi. E’ un uomo che spiazza sempre. Lo ha fatto esternando la sua ammirazione per Putin per non aver risposto all’espulsione dei 35 diplomatici; ha continuato a ritenere non credibili le accuse di ingerenza russe nella campagna elettorale, smontando e relativizzando le insinuazioni provenienti dall’amministrazione Obama e dalla Cia.Nell’ambito di questa polemica ha dimostrato un’ottima conoscenza delle tecniche di spin dentro le istituzioni, che è la forma più insidiosa di manipolazione delle notizie; perché viola un concetto fondamentale in democrazia: quello dell’autorevolezza e dell’attendibilità delle fonti che provengono dall’istituzione stessa. O meglio: abusa di questa autorevolezza per diffondere informazioni che hanno l’aura della veridicità, che appaiono comprovate, e che invece sono strumentali, parziali e talvolta totalmente inventate. Quando scrive in un tweet “Chiederò ai capi delle commissioni di Camera e Senato di indagare sulle informazioni top secret condivise con l’Nbc”, facendo riferimento al rapporto d’intelligence per il presidente Barack Obama sugli attacchi hacker russi, a cui “Nbc News” ha avuto accesso in anticipo, in plateale violazione del segreto di Stato, accende un faro su una tecnica di spin doctoring diffusa e molto insidiosa. Chi conosce come viene gestita la comunicazione alla Casa Bianca, sa che questi non sono scoop giornalistici ma fughe pilotate e concordate al massimo livello. A cui Trump dice basta, rompendo ancora una volta la tacita consuetudine bipartisan, che induceva i due partiti a non indagare mai su quelle che talvolta erano vere e proprie frodi, come le motivazioni della guerra in Iraq.Rapporto d’intelligence che, peraltro, ha non lo convince come afferma pubblicamente, parlando di “caccia alle streghe” e rompendo un altro tabù: mai nella storia recente americana un presidente si era permesso di mettere in dubbio il lavoro dei vertici dei servizi segreti, di cui non si fida e che intende ridimensionare nei primissimi mesi della propria presidenza. Salteranno tante teste e la struttura dell’intelligence verrà completamente rivista. E’ un’operazione di un’audacia senza precedenti e che spiega il grande nervosismo di Obama e della ristretta élite che ha governato fino ad oggi l’America e il mondo. Non è un caso che proprio quell’establishment abbia tentato nelle ultime settimane di imporre la censura su Internet e sui social media, lanciando una campagna coordinata in più Stati, inclusa l’Unione Europea e Italia, sempre prontissime nel recepire i desiderata di Washington o meglio della Washington che sta uscendo di scena. Il web ha permesso a Trump (e prima di lui al britannico Farage) di scardinare un sistema che sembrava perfetto e intramontabile. Per questo l’establishment globalista tenta, con un colpo di coda, di silenziare l’informazione alternativa online, usando qualunque pretesto: gli hacker russi, l’Isis, le fake news. Non può riuscirci, non deve riuscirci.(Marcello Foa, “La guerra segreta di Trump contro chi governa davvero l’America”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 7 gennaio 2017).E’ sempre più interessante questo momento politico negli Usa. Non solo per le polemiche politiche quanto, soprattutto, per la capacità di Trump di spiazzare l’establishment, di rompere le regole non scritte che hanno accomunato dagli anni Ottanta a oggi il partito democratico e quello repubblicano. Ho già spiegato in altre occasioni come funziona la democrazia americana: la rivalità tra i due partiti sui temi che contano – difesa, politica estera, finanza, globalizzazione – è più apparente che reale. Il sistema presidenziale ha funzionato in modo tale da garantire che alla fine si affrontassero due candidati – uno di destra e uno di sinistra – che, a dispetto dell’apparente fortissima rivalità, in realtà condividevano le scelte di fondo e l’appartenenza al ristretto establishment che governa davvero l’America e che funziona come una sorta di “Rotary”: che vincesse il candidato progressista o quello conservatore poco importava, entrambi erano membri dello stesso club. Le elezioni del 2016, invece, hanno segnato una rottura con questo schema perché alle primarie sono emersi ben due candidati in grado di strappare la nomination: Sanders tra i democratici e Trump tra i repubblicani.
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Dietro i sorrisi di Obama, un’eredità di menzogne e di morte
Alla vigilia del passaggio di poteri alla Casa Bianca, il 2017 si apre con la strage terroristica in Turchia, due settimane dopo l’assassinio dell’ambasciatore russo ad Ankara, compiuto il giorno prima dell’incontro a Mosca tra Russia, Iran e Turchia per un accordo politico sulla Siria. Incontro da cui erano esclusi gli Stati uniti. Impegnati, negli ultimi giorni dell’amministrazione Obama, a creare la massima tensione possibile con la Russia, accusata addirittura di aver sovvertito, con i suoi “maligni” hacker e agenti segreti, l’esito delle elezioni presidenziali che avrebbe dovuto vincere Hillary Clinton. Ciò avrebbe assicurato la prosecuzione della strategia neocon, di cui la Clinton è stata artefice durante l’amministrazione Obama. Questa termina all’insegna del fallimento dei principali obiettivi strategici: la Russia, messa alle corde dalla nuova guerra fredda scatenata col putsch in Ucraina e dalle conseguenti sanzioni, ha colto Washington di sorpresa intervenendo militarmente a sostegno di Damasco.Ciò ha impedito che lo Stato siriano fosse smantellato come quello libico e ha permesso alle forze governative di liberare vaste aree controllate per anni da Isis, Al Nusra e altri movimenti terroristici funzionali alla strategia Usa-Nato. Riforniti di armi, pagate con miliardi di dollari da Arabia Saudita e altre monarchie, attraverso una rete internazionale della Cia (documentata dal “New York Times” nel marzo 2013) che le faceva arrivare in Siria attraverso la Turchia, avamposto Nato nella regione. Ora però, di fronte all’evidente fallimento dell’operazione, costata centinaia di migliaia di morti, Ankara se ne tira fuori aprendo un negoziato con l’intento di ricavarne il massimo vantaggio possibile. A tal fine ricuce i rapporti con Mosca, che erano giunti al punto di rottura, e prende le distanze da Washington. Uno smacco per il presidente Obama. Questi, però, prima di passare il bastone di comando al neoeletto Trump, spara le ultime cartucce.Nascosta nelle pieghe dell’autorizzazione della spesa militare 2017, firmata dal presidente, c’è la legge per «contrastare la disinformazione e propaganda straniere», attribuite in particolare a Russia e Cina, la quale conferisce ulteriori poteri alla tentacolare comunità di intelligence, formata da 17 agenzie federali. Grazie anche a uno stanziamento di 19 miliardi di dollari per la “cybersicurezza”, esse possono mettere a tacere qualsiasi fonte di «false notizie», a insindacabile giudizio di un apposito “Centro” coadiuvato da analisti, giornalisti e altri «esperti» reclutati all’estero. Diviene realtà l’orwelliano Ministero della Verità che, preannuncia il presidente del parlamento europeo Martin Schultz, dovrebbe essere istituito anche dalla Ue.Escono potenziate dall’amministrazione Obama anche le forze speciali, che hanno esteso le loro operazioni coperte da 75 paesi nel 2010 a 135 nel 2015. Nei suoi atti conclusivi l’amministrazione Obama ha ribadito il 15 dicembre il proprio appoggio a Kiev, di cui arma e addestra le forze, compresi i battaglioni neonazisti, per combattere i russi di Ucraina. E il 20 dicembre, in funzione anti-russa, il Pentagono ha deciso la fornitura alla Polonia di missili da crociera a lungo raggio, con capacità penetranti anti-bunker, armabili anche di testate nucleari. Del democratico Barack Obama, Premio Nobel per la Pace, resta ai posteri il suo ultimo messaggio sullo Stato dell’Unione: «L’America è la più forte nazione sulla Terra. Spendiamo per il militare più di quanto spendono le successive otto nazioni combinate. Le nostre truppe costituiscono la migliore forza combattente nella storia del mondo».(Manlio Dinucci, “L’eredità del democratico Barack Obama”, da “Il Manifesto” del 3 gennaio 2017).Alla vigilia del passaggio di poteri alla Casa Bianca, il 2017 si apre con la strage terroristica in Turchia, due settimane dopo l’assassinio dell’ambasciatore russo ad Ankara, compiuto il giorno prima dell’incontro a Mosca tra Russia, Iran e Turchia per un accordo politico sulla Siria. Incontro da cui erano esclusi gli Stati Uniti. Impegnati, negli ultimi giorni dell’amministrazione Obama, a creare la massima tensione possibile con la Russia, accusata addirittura di aver sovvertito, con i suoi “maligni” hacker e agenti segreti, l’esito delle elezioni presidenziali che avrebbe dovuto vincere Hillary Clinton. Ciò avrebbe assicurato la prosecuzione della strategia neocon, di cui la Clinton è stata artefice durante l’amministrazione Obama. Questa termina all’insegna del fallimento dei principali obiettivi strategici: la Russia, messa alle corde dalla nuova guerra fredda scatenata col putsch in Ucraina e dalle conseguenti sanzioni, ha colto Washington di sorpresa intervenendo militarmente a sostegno di Damasco.
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Ciao Ue, pure i francesi di sinistra voteranno Marine Le Pen
La prossima mazzata che l’Unione Europea riceverà sarà dalla Francia: il paese è in crisi nera, i socialisti sono vicini all’estinzione e l’ultra-liberismo annunciato da François Fillon, alfiere del centrodestra, regalerà un trionfo al Front National. «Con la sua politica economica thatcheriana – scrive Fried Siegel sul “City Journal” – Fillon spingerebbe senza dubbio un gran numero di sindacalisti francesi del settore pubblico – e ciò che resta degli elettori della classe lavoratrice industriale – tra le braccia di Marine Le Pen, che potrebbe di fatto trasformarsi nel candidato di sinistra (se una tale definizione ha ancora un senso)». Facile previsione: «I molti milioni di persone che lavorano per il settore pubblico o che ricevono sussidi potrebbero silenziosamente sostenere il nazionalismo della Le Pen piuttosto che rischiare di perdere i loro privilegi». Chiunque sia il vincitore, in ogni caso, «la malnata Unione Europea riceverà un altro shock». Come i democratici americani «hanno marciato a ranghi serrati di sconfitta in sconfitta», ormai «anche le élite europee non danno segno di imparare alcunché». Fillon vuole «cancellare lo stato sociale, licenziare i lavoratori ed aumentare i giorni lavorativi?». Ed è così che Marine Le Pen diventa «la candidata della “sinistra” francese».Anche la Francia, dunque, sta per presentare il conto di «una globalizzazione avvenuta a rotta di collo», con un “politicamente corretto” «imposto aggressivamente e dall’arroganza delle élite». Qualcosa sta franando, scrive Siegel in una riflessione proposta da “Voci dall’Estero”, se è vero che i sondaggisti non ne azzeccano più una, dalla Brexit a Trump. Non sono nemmno riusciti a prevedere che l’ex primo ministro François Fillon avrebbe vinto le primarie per diventare il candidato conservatore alle elezioni presidenziali del prossimo aprile in Francia. Con le sue idee «conservatrici in ambito sociale ma liberiste in campo economico», Fillon «rappresenta un allineamento di opinioni che non si vedeva dagli anni ’40 dell’Ottocento». Tutto sta cambiando, e non se n’è accorto neppure Jean-Claude Juncker, «lussemburghese sconosciuto ai più», ormai «diventato il pubblico zimbello durante il periodo precedente al voto sulla Brexit». Fillon ha detto ai francesi che vuole “ridare al paese la sua libertà”. E come? «Ha promesso di tagliare mezzo milione di posti di lavoro nel settore pubblico, di mettere fine alla settimana lavorativa di 35 ore e di ridurre la corposa regolamentazione del lavoro francese da 3.000 ad appena 150 pagine». Sarebbe una sorta di rivoluzione, scrive Siegel: «La Francia moderna non si è mai sottoposta alle riforme liberiste che hanno ravvivato le economie di Gran Bretagna, Canada, Svezia e Germania».In Francia, continua Siegel, la spesa pubblica rappresenta oggi il 57% dell’economia, «e come negli Stati Uniti – ma peggio – il libero mercato è stato strangolato da uno statalismo fuori controllo». Lo scrittore cattolico George Marlin, di New York, ha descritto come gli elettori cattolici della “Rust Belt”, la fascia degli Stati Uniti centrali dove si collocano le maggiori capitali industriali, oggi in declino, sono «infuriati per l’atrofia economica e per il “politicamente corretto” del liberalismo sociale», e quindi si sono orientati verso Donald Trump, determinandone la vittoria. Qualcosa di simile è successo in Francia, scrive Siegel: «Nell’aprile 2017 Fillon, anglofilo e cattolico praticamente, potrebbe verosimilmente contrapporsi a Marine Le Pen, la leader anti-islamista del Front National, nel ballottaggio delle elezioni presidenziali francesi». Se ciò accade, «gli espertoni scopriranno che la loro mappa mentale è resa del tutto obsoleta da un conflitto tra due candidati entrambi “conservatori”». E questo è avvenuto «perché la classe lavoratrice francese, una volta rivendicata dalla “sinistra”, è stata abbandonata dai socialisti, così come è avvenuto con la loro controparte in America».I socialisti «si sono dissolti nella ricerca di una incoerente alleanza tra elettori gay, islamici e femministi». Ben li rappresenta il presidente François Hollande, che «ha governato con così tanta inettitudine da raccogliere oggi appena il 4% dei consensi». Al confronto, Hillary Clinton se l’è cavata piuttosto bene con gli uomini della classe lavoratrice bianca, ottenendo il 38% dei voti. «I socialisti francesi sono ritornati alla posizione marginale che avevano nell’Ottocento», scrive ancora Siegel, che ricorda che nel 2001 il padre di Marine Le Pen, Jean-Marie Le Pen, sostenitore della Francia di Vichy, scosse il mondo arrivando secondo alla prima tornata elettorale delle elezioni presidenziali francesi, scavalcando il socialista Lionel Jospin. Il 16% dei voti raccolto da Jospin fu quasi raggiunto da «un confuso assortimento da museo di comunisti, maoisti e trotskisti». Messi assieme, i partiti estremisti della destra e della sinistra avevano raccolto circa un terzo dei voti. Ma poi, nelle elezioni generali, i partiti mainstream si unirono per sostenere Jacques Chirac, che batté Jean-Marie Le Pen con l’82% dei suffragi. Ma il 2016 è diverso, avverte Siegel: «La Francia è demoralizzata. È scossa dall’aggressione musulmana. Si è trascinata per decenni con meno dell’1% di crescita annuale. Il suo tasso di disoccupazione è vicino alla doppia cifra, la disoccupazione giovanile al 24% spinge schiere di giovani verso Londra, Berlino e New York». A rivendicare le parole d’ordine della sinistra – lavoro, diritti, sovranità – è rimasta solo Marine Le Pen.La prossima mazzata che l’Unione Europea riceverà sarà dalla Francia: il paese è in crisi nera, i socialisti sono vicini all’estinzione e l’ultra-liberismo annunciato da François Fillon, alfiere del centrodestra, regalerà un trionfo al Front National. «Con la sua politica economica thatcheriana – scrive Fried Siegel sul “City Journal” – Fillon spingerebbe senza dubbio un gran numero di sindacalisti francesi del settore pubblico – e ciò che resta degli elettori della classe lavoratrice industriale – tra le braccia di Marine Le Pen, che potrebbe di fatto trasformarsi nel candidato di sinistra (se una tale definizione ha ancora un senso)». Facile previsione: «I molti milioni di persone che lavorano per il settore pubblico o che ricevono sussidi potrebbero silenziosamente sostenere il nazionalismo della Le Pen piuttosto che rischiare di perdere i loro privilegi». Chiunque sia il vincitore, in ogni caso, «la malnata Unione Europea riceverà un altro shock». Come i democratici americani «hanno marciato a ranghi serrati di sconfitta in sconfitta», ormai «anche le élite europee non danno segno di imparare alcunché». Fillon vuole «cancellare lo stato sociale, licenziare i lavoratori ed aumentare i giorni lavorativi?». Ed è così che Marine Le Pen diventa «la candidata della “sinistra” francese».
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Sfatiamo un mito: i Rothschild e Big Pharma ci temono
Attenti all’Uomo Nero: se lo fate diventare un’ossessione, potreste arrivare a crederlo invincibile, proprio come vuole lui. Ma la realtà è un’altra: persino i super-campioni del massimo potere sono vulnerabili. E’ per questo che si affannano tanto a controllarci: i loro immensi privilegi non sono affatto al sicuro. Ci temono, gli Uomini Neri, anche se noi non ce ne rendiamo conto. Lo sostiene Paolo Barnard, autore di devastanti denunce proprio contro l’oligarchia planetaria: libri, reportage, inchieste, saggi taglienti e profetici come “Il più grande crimine”, che mette a fuoco – con largo anticipo sulla cronaca – la genesi europea della “dittatura” tecnocratica dell’euro, progettata dalla destra economica in combutta con la sinistra “rinnegata”, reclutata segretamente dall’élite per demolire la democrazia sociale in Occidente. Lo stesso Barnard, oggi, avverte: «Nell’immaginario di tanto pubblico c’è un errore tragico, che peraltro devasta le reali possibilità delle opinioni pubbliche di migliorare la propria vita. Si pensa, infatti, che gli agglomerati della ricchezza privata siano padroni del mondo. I Rothschild! Le multinazionali! I big media! Balle. Non lo sono».Naturalmente i grandi poteri «ci provano a esserlo», padroni incontrastati del pianeta. Ci provano eccome, «e con ogni sorta di lobby, ricatto, corruzione». Ma, per il giornalista, la verità fondamentale rimane un’altra. Questa: «I governi glielo permettono». Ma attenzione: «Se vogliono, i governi sono ancora i padroni del mondo. E questo può ancora salvare noi persone». Non ci credete? «Chiedetelo alla GlaxoSmithKline, quel tirannosauro da 24 miliardi di dollari all’anno, tutti in farmaci». Domanda: «Perché questa nozione è di fondamentale importanza da tenere a mente? Perché i governi sono sempre dipendenti dalle opinioni pubbliche, anche se queste troppo spesso se lo dimenticano, per viltà». Se ne deduce, «senza ombra di dubbio», che – visto che i governi sono ancora «i padroni del mondo» – di fatto «risponderebbero alle opinioni pubbliche, se queste si facessero sentire». E allora «è vero che l’uomo e la donna della strada», teoricamente e tecnicamente, «hanno il potere ultimo, in realtà». Solo che «non lo vogliono esercitare», convinti come sono che «il padrone del globo è Rothschild, cioè il potere privato».Il barone Jacob Rotschild? «Potentissimo», certo, «ma neppure lui è riuscito a bloccare la mano dei politici, quando nel trattato sovranazionale che creò la Bce, cioè il Tefu, scrissero quel codicillo maledetto che mette nelle mani della Bce il potere di bloccare qualsiasi mega-banca in Europa». Quel codicillo si chiama “risk control framework”. Risultato: in Europa, oggi, le grandi banche «hanno una mina in pancia che le può far saltare da un momento all’altro per volere politico» (in Europa «ma poi anche in Usa, per leggi diverse»). Il mitico Rotschild «di certo può influenzare Mario Draghi, ma il bottone rosso non ce l’ha». E chi potrebbe riscriverlo, quel codicillo? «I governi». Che, fino a prova contraria, sono ancora organismi elettivi. Lo dimostra il caso della Glaxo, dice Barnard: la “onnipotente” multinazionale del farmaco è stata letteralmente strapazzata dai governi, a cominciare da quello cinese. Se vogliono, sono ancora loro a comandare. E non c’è nessun Uomo Nero che possa impedirlo.«Tutto parte da un Tweet di Bernie Sanders, l’ex candidato alla Casa Bianca, che in ’sti giorni si è messo a bersagliare i giganti del farmaco», racconta Barnard, ricostruendo il caso. «Bernie si sveglia la mattina e scrive un Tweet dove critica ad esempio la multinazionale Eli Lilly, e le azioni di questa crollano. Qualche giorno fa ha sparato contro la GlaxoSmithKline e di nuovo crash in Borsa di questa». Ma su Glaxo pesano spettacolari retroscena. «La Glaxo è un colosso, abituata a fare il bullo nel mondo da sempre. Si presenta ai governi, agli amministratori sanitari, ai singoli medici, e corrompe, impone terapie, ma fa anche di peggio, come tutte le sue colleghe multinazionali». Un giorno la Glaxo arriva in Cina e, come al solito, distribuisce mazzette. «Ma a Londra il N.1 della Glaxo, Andrew Witty, fa l’errore della sua vita, cioè non studia geopolitica, e non si accorge che la Cina sta cambiando immensamente». Ovvero: «Xi Jinping, il presidente, non scherza per un cazzo. E allora ecco che iniziano i guai. Tutto parte dal “whistleblower” di turno, un anonimo hacker che spedisce sia al governo di Pechino che a Witty a Londra delle mail con una storia di corruzione da parte della Glaxo in Cina che fa vomitare». E cioè: «I top manager del colosso inglese in Cina pagavano mazzette ad amministratori, a medici, attraverso prestanome in agenzie di viaggio, se la spassavano con prostitute, e tutto a spese degli ammalati come al solito».E qui la forbice si divarica, continua Barnard: «Mentre gli uomini di Xi Jinping quatti quatti si leggono le mail, quel fesso di Witty e il consiglio d’amministrazione a Londra se ne fottono, anzi». La Glaxo «prova di tutto per insabbiare la cosa, assolda un investigatore privato per depistare le prove, e non smette affatto di corrompere, anzi, corrompe per comprare il silenzio dei cinesi». Errore madornale. «Sono le 5 del mattino di un giorno d’agosto del 2013, le porte dei lussuosi appartamenti dei top manager della Glaxo a Shanghai o Pechino vengono sfondate, gli inglesi gettati a terra e scaraventati in pochi minuti in fetide celle, fra cui il notorio palazzo 803 dove vengono interrogati i dissidenti. La notizia arriva a bomba a Witty a Londra, panico totale». I cinesi di Xi Jinping fanno sul serio, «le prove ci sono ancor prima di interrogare sia i manager britannici che l’investigatore privato, poi le confessioni degli arrestati vengono trasmesse in Tv, live». Una catastrofe: «Le prove sono così schiaccianti che Witty piega immediatamente la testa con una conferenza stampa dove, letteralmente, ’sto ultra-potente amministratore di un gigante mondiale, bela pietà e scuse».Conseguenze: 500 milioni di dollari di multa alla Glaxo; espulsione di alcuni manager fra sputacchi pubblici, e altri a marcire in galera. «La Glaxo corre, sudando ghiaccio, a riscrivere tutti i suoi codici di condotta in Cina, e abbassa i prezzi dei suoi farmaci per Pechino». A cascata: «Gli altri colossi mondiali come Pfizer o Novartis immediatamente ripuliscono i loro affari con la Cina». Ma non finisce qui: «Microsoft drizza le orecchie perché messa sotto inchiesta dai cinesi; Disney trema; la Apple corre ad autodenunciarsi per evasione fiscale in Cina». Ma peggio: «Sull’onda del pugno duro del governo cinese, anche quello americano ha trovato la forza di prendere a calci in culo i super-colossi del farmaco, come Pfizer, Eli Lilly e di nuovo la Glaxo, che si è vista arrivare un verbale da Washington della bellezza di 3 miliardi di dollari per condotte improprie». Aggiunge Barnard: «Penso che Andrew Witty sia passato nell’arco di pochi mesi da tronfio ‘Rothschild del farmaco’ a una pecora zoppa che suda freddo la notte e, come lui, altri amministratori delegati delle più potenti multinazionali del mondo».Ora, si potrebbe argomentare che «la Cina è ormai un tale mostro di potere che, assieme agli Usa, il suo governo si può permettere di sottomettere anche l’imperatore dell’universo». Errore: «Anche la Svezia poteva fare esattamente ciò che ha fatto Pechino, e per due motivi chiari». Primo: oggi, «se gli scandali vengono resi pubblici», succede che «vanno a impattare mostruosamente sugli investitori, che non ci pensano un attimo a fottere le mega-aziende o le mega-banche in Borsa». Basta vedere i “rimbalzi” dopo il Tweet di Bernie Sanders. Secondo motivo: «Con sovranità monetaria il governo della Svezia, come la Cina, non teme il ricatto economico tipico della multinazionale – che è “se mi tocchi ritiro gli investimenti” – semplicemente perché non esiste al mondo un potere economico di alcun tipo che possa avere il potere di fuoco di una banca centrale in coordinamento col ministero del Tesoro». In altre parole: in condizioni di sovranità monetaria, la banca centrale di un paese benestante «può, schiacciando un bottone, distruggere in un pomeriggio la rivalità di Apple, Microsoft, Volkswagen, Jp Morgan, Goldman Sachs e Toyota messi assieme». Quindi, un governo che lo volesse «potrebbe schiacciare qualsiasi Rotschild di qualsiasi potere privato, punto». Perché non lo fanno più spesso? «Troppa poca pressione dalle opinioni pubbliche». E allora, conclude Barnard, «possiamo forse prendercela col quarto barone Jacob Rothschild? Macché, siamo noi, fessi vili orde di ebeti che sediamo su una miniera d’oro e pensiamo che sia un bidè».Attenti all’Uomo Nero: se lo fate diventare un’ossessione, potreste arrivare a crederlo invincibile, proprio come vuole lui. Ma la realtà è un’altra: persino i super-campioni del massimo potere sono vulnerabili. E’ per questo che si affannano tanto a controllarci: i loro immensi privilegi non sono affatto al sicuro. Ci temono, gli Uomini Neri, anche se noi non ce ne rendiamo conto. Lo sostiene Paolo Barnard, autore di devastanti denunce proprio contro l’oligarchia planetaria: libri, reportage, inchieste, saggi taglienti e profetici come “Il più grande crimine”, che mette a fuoco – con largo anticipo sulla cronaca – la genesi europea della “dittatura” tecnocratica dell’euro, progettata dalla destra economica in combutta con la sinistra “rinnegata”, reclutata segretamente dall’élite per demolire la democrazia sociale in Occidente. Lo stesso Barnard, oggi, avverte: «Nell’immaginario di tanto pubblico c’è un errore tragico, che peraltro devasta le reali possibilità delle opinioni pubbliche di migliorare la propria vita. Si pensa, infatti, che gli agglomerati della ricchezza privata siano padroni del mondo. I Rothschild! Le multinazionali! I big media! Balle. Non lo sono».
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Hayek, il profeta dell’élite che ha rottamato la democrazia
Le origini dell’ascesa di Trump, ovvero: come una rete spietata di ideologi super-ricchi ha ucciso il potere di scelta e distrutto la fede della gente nella politica. «L’uomo che ha affondato la candidatura di Hillary Clinton alla presidenza non è stato Donald Trump. È stato suo marito», Bill Clinton. Lo afferma l’analista inglese George Monbiot, secondo cui Clinton è stato l’ultimo epigono dell’aberrante visione del mondo proposta dal pensatore austriaco neo-aristocratico Frederick von Hayek, sinistro profeta della dittatura dell’élite finanziaria in nome di presunti valori. «La serie di eventi che ha portato all’elezione di Donald Trump è iniziata in Inghilterra nel 1975», sostiene Monbiot. Durante un incontro pochi mesi dopo che Margaret Thatcher era diventata leader del partito conservatore, uno dei suoi colleghi stava esponendo quelli che secondo lui erano i valori fondanti del conservativismo, o almeno questo è ciò che si dice. Lei aprì di scatto la sua borsetta, tirò fuori un libro consumato, e lo sbatté sul tavolo. «Questo è ciò che noi crediamo», disse. «Era appena iniziata una rivoluzione politica che sarebbe dilagata in tutto il mondo. Il libro era “The Constitution of Liberty” di Frederick Hayek».La sua pubblicazione nel 1960 segnò la transizione da una filosofia rispettabile, anche se estrema, ad un caos totale, scrive Monbiot, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. Quella filosofia era chiamata neoliberalismo. «Considerava la competizione come la caratteristica distintiva delle relazioni umane. Il mercato avrebbe trovato la sua naturale gerarchia di vincitori e perdenti, e ne sarebbe risultato un sistema più efficiente di quanto sarebbe stato possibile attraverso la programmazione o la progettazione». Attenzione: «Qualsiasi cosa impedisse tale processo, come tasse sostanziose, regole, attività sindacali o incentivi statali, era controproducente. L’imprenditorialità senza restrizioni avrebbe prodotto una ricchezza con effetti positivi a cascata su tutti». Quando Hayek iniziò a scrivere “The Constitution of Liberty”, «la rete di lobbisti e pensatori che aveva creato stava ricevendo generosi finanziamenti da parte di multi-milionari che vedevano questa dottrina come un modo per difendere se stessi dalla democrazia». Hayek inizia il libro suggerendo la concezione più semplice possibile di libertà: l’assenza di coercizione. Rifiuta nozioni come libertà politica, diritti universali, uguaglianza degli esseri umani e distribuzione equa della ricchezza.Tutti concetti che, limitando il campo d’azione di ricchi e potenti, si interpongono tra loro e l’assoluta libertà dai vincoli a cui ambiscono. La democrazia, al contrario, «non è un valore supremo o gradito a tutti». Infatti, la libertà consiste nell’impedire che la maggioranza abbia potere decisionale sulla direzione che la politica e la società decidono di prendere. Hayek «giustifica questa visione delineando una narrativa epica di estrema prosperità», e identifica l’élite economica «con un gruppo di pionieri della filosofia e della scienza che spenderanno il loro denaro in modi nuovi». Così come il filosofo politico dovrebbe essere libero di “pensare l’impensabile”, allo stesso modo «chi è molto ricco dovrebbe essere libero di tentare l’infattibile, senza vincoli posti dall’interesse collettivo o dall’opinione pubblica». E allora i super-ricchi diventano «esploratori» che «sperimentano nuovi stili di vita», tracciando la strada che il resto della società seguirà. Il progresso della società «dipende dalla libertà di questi “indipendenti” di guadagnare tutto il denaro che vogliono e di spenderlo come meglio credono. Tutto ciò che è buono e utile, quindi, deriva dall’ineguaglianza». Non ci dovrebbe essere connessione tra merito e ricompensa, nessuna distinzione tra guadagni giusti e immeritati e alcun limite agli affitti che possono far pagare.Inoltre, la ricchezza ereditata è socialmente più utile di quella guadagnata: «Il ricco indolente», che non deve lavorare per denaro, può dedicarsi a influenzare «aree di pensiero e opinione, gusti e idee». Anche quando sembra che spenda soldi solo per uno «sfoggio senza senso», sta in realtà agendo da avanguardia della società. Tutto ciò che il ricco fa è, per definizione, positivo. Hayek ammorbidì l’opposizione ai monopoli e irrigidì quella verso i sindacati. Criticò la tassazione progressiva e ogni tentativo da parte dello Stato di elevare il benessere generale dei cittadini. Insistette che ci fossero «argomentazioni schiaccianti contro la sanità pubblica gratuita per tutti» e respinse l’idea della salvaguardia delle risorse naturali (non stupisce che abbiano dato il Nobel per l’economia). Sicché, «quando la signora Thatcher sbatté il suo libro sul tavolo, si era già formata su entrambe le rive dell’Atlantico una vivace rete di think tank, lobbisti e accademici che promuovevano la dottrina di Hayek, abbondantemente finanziata da alcune delle persone e compagnie più ricche del pianeta, compresi DuPont, General Electric, la società di birrificazione Coors, Charles Koch, Richard Mellon Scaife, Lawrence Fertig, il William Volcker Fund e la Earhart Foundation».Usando in modo geniale la psicologia e la linguistica, continua Monbiot, i pensatori sponsorizzati da queste persone trovarono le parole e le argomentazioni necessarie per trasformare l’inno all’élite di Hayek in un programma politico plausibile. Il Thatcherismo e il Reaganismo? Due facce del medesimo neoliberismo: «L’imponente taglio alle tasse per i ricchi, l’attacco ai sindacati, la riduzione degli alloggi popolari, la liberalizzazione, privatizzazione, delocalizzazione e la concorrenza nei servizi pubblici erano già stati teorizzati da Hayek e dai suoi discepoli». Ma il vero trionfo di questo network, sottolinea Monbiot, non fu la sua “innovativa” concezione del diritto, bensì «la conquista di partiti che un tempo erano schierati a favore di tutto ciò che Hayek detestava», cioè le formazioni politiche “di sinistra”, che furono completamente “colonizzate”. Bill Clinton e Tony Blair «estrapolarono alcuni elementi di ciò che un tempo i loro partiti avevano creduto, lo combinarono con idee prese in prestito dai loro oppositori, e da questa improbabile combinazione diedero vita alla “terza via”. Era inevitabile che lo sfavillante e rivoluzionario entusiasmo del neoliberalismo avrebbe esercitato una forza di attrazione più potente della stella morente della democrazia sociale».Dovunque, allora, si poteva assistere al trionfo di Hayek: dall’ampliamento della Private Finance Initiative di Blair alla revoca da parte di Clinton del Glass-Steagal Act, che regolava il settore finanziario. «Nonostante le sue lodevoli intenzioni, nemmeno Barack Obama aveva una narrativa politica ben definita (eccetto la “speranza”), e lentamente è stato cooptato da coloro che detenevano migliori mezzi di persuasione». Il risultato di tutto ciò è stato «prima l’indebolimento del potere e poi la privazione dei diritti civili». Se l’ideologia dominante consiglia ai governi di non garantire più la giustizia sociale, «essi non possono più rispondere ai bisogni dell’elettorato», e così «la politica diventa irrilevante per le vite dei cittadini». Al che, il cittadino defraudato dei propri diritti «si rivolge verso un’astiosa anti-politica, dove fatti e ragionamenti vengono sostituiti da slogan». Il risultato di oggi è paradossale, dice Monbiot: proprio la sollevazione popolare contro la “dittatura” del neoliberismo «ha portato al successo proprio quel tipo di uomo che Hayek mitizzava», cioè Donald Trump, ovvero un uomo «che non ha una visione politica coerente, non è un neoliberale classico, ma è la perfetta rappresentazione dell’“indipendente” di Hayek: è il beneficiario di una fortuna ereditata, non assoggettato ai comuni limiti della moralità, le cui rozze inclinazioni aprono nuove strade che altri potrebbero seguire».I pensatori neoliberali adesso «brulicano intorno a questo uomo vacuo, a questo vaso vuoto che aspetta di essere riempito da coloro che sanno bene cosa vogliono». Il probabile risultato «sarà la demolizione di tutto ciò che ancora ci fa onore, a cominciare dall’accordo sulla limitazione del riscaldamento globale». Conclude Monbiot: «Coloro che raccontano storie governano il mondo. La politica è fallita a causa della mancanza di narrative valide. La sfida principale adesso è raccontare una storia nuova, quella di cosa significhi “umanità” nel ventunesimo secolo». Un nuovo “racconto”, dunque, che «deve essere tanto seducente per coloro che hanno votato Trump e lo Ukip, quanto per i sostenitori di Hillary Clinton, Bernie Sanders o Jeremy Corbyn». La psicologia e le neuroscienze riconoscono che gli esseri umani, rispetto ad altri animali, sono al tempo stesso fortemente sociali e fortemente egoisti? Certo, e «l’atomizzazione e il comportamento cinico che il neoliberalismo promuove va contro quasi tutto ciò che caratterizza la natura umana. Hayek ci ha detto chi siamo, e si sbagliava. Il primo passo da compiere è riappropriarci della nostra umanità».Le origini dell’ascesa di Trump, ovvero: come una rete spietata di ideologi super-ricchi ha ucciso il potere di scelta e distrutto la fede della gente nella politica. «L’uomo che ha affondato la candidatura di Hillary Clinton alla presidenza non è stato Donald Trump. È stato suo marito», Bill Clinton. Lo afferma l’analista inglese George Monbiot, secondo cui Clinton è stato l’ultimo epigono dell’aberrante visione del mondo proposta dal pensatore austriaco neo-aristocratico Frederick von Hayek, sinistro profeta della dittatura dell’élite finanziaria in nome di presunti valori. «La serie di eventi che ha portato all’elezione di Donald Trump è iniziata in Inghilterra nel 1975», sostiene Monbiot. Durante un incontro pochi mesi dopo che Margaret Thatcher era diventata leader del partito conservatore, uno dei suoi colleghi stava esponendo quelli che secondo lui erano i valori fondanti del conservativismo, o almeno questo è ciò che si dice. Lei aprì di scatto la sua borsetta, tirò fuori un libro consumato, e lo sbatté sul tavolo. «Questo è ciò che noi crediamo», disse. «Era appena iniziata una rivoluzione politica che sarebbe dilagata in tutto il mondo. Il libro era “The Constitution of Liberty” di Frederick Hayek».
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Thomas Mann e il prossimo Hitler invocato da noi umiliati
Il romanziere tedesco Thomas Mann era «cittadino di un popolo che nel 1925 ancora rappresentava un apice della civiltà e della cultura mondiale». Solo vent’anni dopo, «divenne uno degli abomini della civiltà mondiale». Cosa lo trasfigurò a tal punto? La crisi. Che è sempre “indotta” e trasferisce immense ricchezze nelle mani di pochi, impoverendo tutti gli altri. Dopo la Brexit e l’exploit di Trump, Paolo Barnard invita a rileggere il Thomas Mann che rievocava «la follia dell’iperinflazione tedesca», capace di tracciare «una linea diretta» verso il Terzo Reich: «In quei giorni la negoziante che senza battere un ciglio chiedeva 100 milioni di marchi per un uovo, dimostrava che nulla più al mondo l’avrebbe potuta scioccare». Fu durante la crisi, aggiunge Mann, che «i tedeschi persero la capacità di confidare in se stessi, e impararono ad aspettarsi ormai qualsiasi cosa dalla politica, dallo Stato, dal destino». Milioni di cittadini, «rapinati dei loro stipendi e risparmi, divennero le masse su cui lavorò Goebbels». Oggi ci risiamo? Deflagra «la furia sommessa di centinaia di milioni di occidentali», verso l’avvento del prossimo Hitler: «Trump, Le Pen, Hofer, Orbán, Petry o Wilders sono per adesso solo il primo tratto di quella linea».La crisi della Repubblica di Weimar, scrive Barnard nel suo blog, insegna che «quando i popoli si sentono traditi e abbandonati proprio dalle classi politiche che avrebbero dovuto proteggerli», finisce che «si gettano per esasperazione nelle mani del vendicatore, quello che poi fa l’Apocalisse». La negoziante tedesca citata da Thoman Mann oggi «rappresenta i milioni di noi», ormai rassegnati «alla morte dei redditi, delle pensioni, di ogni singolo diritto che fino a ieri sembrava scontato», consapevoli che i bambini «saranno servi delle gleba, letteralmente», e che «dei milionari non-eletti sono il loro vero governo», mentre «il politico di casa non può più neppure parlare, senza il permesso di cento cravatte blu a Bruxelles o a Manhattan». I cittadini «si lamentano, disperati»? Vengono «tranciati a metà da parole come razzista, fascista, retrogrado, nemico della modernità, ignorante bifolco» che non capisce le “riforme”. Sono centinaia di milioni, oggi, quelli ridotti come la negoziante tedesca di Thomas Mann: «Lo siamo, e ormai siamo impossibili da scioccare, non spostiamo più un gomito». Però «siamo furenti, come lo erano i tedeschi allora».Ieri come oggi, la crisi priva i cittadini di ogni «capacità di confidare in se stessi». Anche la crisi di Weimar, da cui nacque la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale, fu innescata «dalla consapevole follia predatoria delle potenze, senza la minima considerazione dei costi sugli esseri umani». Nel 1919, ricorda Barnard, un giovane brillante economista della delegazione inglese al Trattato di Versailles – dove i vincitori della Prima Guerra Mondiale decisero le sanzioni e la spoliazione della Germania – rassegnò le dimissioni orripilato. Scrisse un volume storico chiamato “Le Conseguenze Economiche della Pace”, dove denunciò la follia predatoria degli Alleati, denunciò che nulla veniva fatto per l’occupazione in Europa, e avvertì che il popolo tedesco sarebbe stato schiacciato delle austerità impostegli. Predisse il peggio, e indovinò tutto. Era John Maynard Keynes, il maggior economista del ‘900. Siamo di nuovo lì: la finanza-barracuda «non ha un secondo di considerazione per i costi umani sui popoli, sulle classi medie ormai divenute straccioni, sugli anziani, sugli ammalati, sui bambini».Oggi, come allora, l’espressione “piena occupazione” è scomparsa anche dai sindacati, non solo da Washington o da Bruxelles. Entrambe le crisi sono «alimentate dalla pervicace insistenza delle potenze nel ripetere gli errori micidiali e il sadismo sociale». L’economista americano Randall Wray, sempre nel parallelo fra Weimar e oggi, scrive: «Il Trattato di Versailles fu una follia sanguinaria dei vincitori, ma ci ricorda adesso il comportamento della Germania della Merkel ai danni del Sud Europa». Pervicace insistenza nell’errore, appunto: «Guardate oggi cosa gracchiano la Ue o ancora i democratici americani dopo Brexit e Trump», sono «recidivi fino al crimine contro l’umanità». E’ un’Europa che, «invece di capire il ‘Quarto Reich’ in arrivo, fa le riunioni per punire Brexit e Trump, tutti a culo in aria di fronte al volto deforme di Angela Merkel». E Obama? Dopo aver «distrutto la vita di milioni di americani», ancora fa lezioncine contro “il nazionalismo populista”, applaudito dal solito codazzo italiano («De Benedetti, Pd, Benigni, Saviano, Severgnini, Travaglio, Vincenzo Boccia, il “Sole 24 Ore”»), mentre intanto «la furia sommessa di oceani umani cresce», avvicinando «l’Apocalisse di un nuovo Hitler». E’ un vecchio film: «Abbiamo già visto a cosa poi si abbandonano i milioni di furenti, impoveriti, esclusi, ridicolizzati e ignorati quando arriva l’uomo forte. Si abbandonano alla “politica della mannaia”, quella che li vendica, certo, ma mozza teste, diritti, ricchezza, intelligenza, compassione e civiltà senza più distinguere nulla».Il romanziere tedesco Thomas Mann era «cittadino di un popolo che nel 1925 ancora rappresentava un apice della civiltà e della cultura mondiale». Solo vent’anni dopo, «divenne uno degli abomini della civiltà mondiale». Cosa lo trasfigurò a tal punto? La crisi. Che è sempre “indotta” e trasferisce immense ricchezze nelle mani di pochi, impoverendo tutti gli altri. Dopo la Brexit e l’exploit di Trump, Paolo Barnard invita a rileggere il Thomas Mann che rievocava «la follia dell’iperinflazione tedesca», capace di tracciare «una linea diretta» verso il Terzo Reich: «In quei giorni la negoziante che senza battere un ciglio chiedeva 100 milioni di marchi per un uovo, dimostrava che nulla più al mondo l’avrebbe potuta scioccare». Fu durante la crisi, aggiunge Mann, che «i tedeschi persero la capacità di confidare in se stessi, e impararono ad aspettarsi ormai qualsiasi cosa dalla politica, dallo Stato, dal destino». Milioni di cittadini, «rapinati dei loro stipendi e risparmi, divennero le masse su cui lavorò Goebbels». Oggi ci risiamo? Deflagra «la furia sommessa di centinaia di milioni di occidentali», verso l’avvento del prossimo Hitler: «Trump, Le Pen, Hofer, Orbán, Petry o Wilders sono per adesso solo il primo tratto di quella linea».