Archivio del Tag ‘deflazione’
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Sapelli: la resa all’Ue ci farà spazzare via dalla recessione
«La resa del governo all’Ue ci farà spazzare via dalla recessione». Per il professor Giulio Sapelli, storico dell’economia, l’Italia è esposta alle peggiori bufere: da un lato subisce senza anestesia il rigore di Bruxelles, dall’altro starebbe per perdere anche la protezione a distanza finora assicurata dalla presidenza Trump, qualora il presidente Usa venisse sabotato dall’impeachment. Un indizio clamoroso, per Sapelli, è la decisione del Senato statunitense di sospendere lo storico appoggio militare all’Arabia Saudita, fornito dai tempi di Obama per condurre una spietata guerra contro lo Yemen, di cui i media non parlano mai. Su proposta dei democratici Bernie Sanders e Mike Lee (e il sostegno di Lindsey Graham), scrive Sapelli sul “Sussidiario”, il Senato ha deciso di approvare una risoluzione che chiede la fine del coinvolgimento americano nella campagna militare saudita contro lo Yemen e una mozione che dichiara il principe ereditario Mohammed Bin Salman responsabile dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Ahmad Khashoggi, assassinato lo scorso 2 ottobre nell’ambasciata saudita di Istanbul, in Turchia. «Si tratta del primo voto in 45 anni in cui il Senato fa riferimento al War Power Act, legge approvata dal Congresso Usa durante la presidenza Nixon per far ritirare le forze statunitensi dal Vietnam».Quella legge, del 1973 – aggiunge Sapelli – aveva dato ai deputati e ai senatori il potere di dichiarare guerra e ritirare le truppe nel caso di mancata autorizzazione, restringendo dunque l’autorità di un presidente, costretto a passare per il Parlamento. Legge poi scavlcata regolarmente da Obama, che per i finanziamenti e le armi ai sauditi aveva sempre bypassato l’aula. Tutto questo, spiega Sapelli, mette in crisi Trump, finora sostenitore del governo gialloverde contro l’oligarchia franco-tedesca che ha in pugno l’Ue. È stata la Cia a relazionare al Senato sulla tragedia umanitaria yemenita, e questa relazione «si aggiunge alla rottura esistente tra il segmento dell’establishment Usa favorevole a Trump e tutto il resto del Deep State nordamericano, che vede l’Fbi capofila nella richiesta di ritornare in fondo all’era Bush e Obama», cioè a un’epoca «di pericolosissimo unilateralismo, quando l’Occidente è stato diviso dalla guerra in Iraq con Francia e Germania che si rifiutarono di partecipare a quel disastroso intervento che segnò l’inizio del terrorismo di massa wahabita e jihadista e diede poi il fuoco alle polveri con il discorso di Obama al Cairo».Il bilateralismo di Trump e il suo tentativo di una “entente cordiale” internazionale per assicurare un “roll back” contro la Cina, «paese che si sta armando e che sta dilavando le fonti tecnologiche occidentali», secondo Sapelli «è stato messo in discussione da un ritorno, di fatto, alle ideologie dei seguaci di Leo Strauss, i “neocon”, che facevano dipendere le scelte di politica estera dai principi morali, secondo, del resto, una secolare tradizione Usa che risale ai padri fondatori». Trump rischia l’impeachment? «Sì, se ne farà un processo lungo e terribile». Tutto questo colossale sbandamento internazionale, aggiunge Sapelli, dipende sostanzialmente «dalle radici degli alberi della foresta Usa, ma altresì dalla savana dell’Unione Europea, che da circa trent’anni si dedica metodicamente a sradicare con la sua gramigna gli alberi europei, distruggendo con il principio della dipendenza monetaria funzionale da divieto del debito pubblico le fondamenta stesse della grandiosa foresta costruita nei secoli e nei secoli dagli europei dopo la morte di Carlo Magno e dopo il Trattato di Verdun dell’843».Di quella “foresta”, avverte Sapelli, non sta più rimanendo nulla: «Crolla con fragore in Francia, sotto la disgregazione sociale che fa seguito al potere verticale presidenziale che si trova incapace di adempiere ai principi auspicati con l’elezione di un presidente con il solo 26% degli aventi diritto al voto», ed evidenzia «una necessità di far saltare ogni parametro ordoliberista, alias Fiscal Compact». Di lì il disvelamento – storico, quanto la dichiarazione del Senato Usa – dei rapporti di potenza che la tecnocrazia eurocratica non riesce a nascondere. Sapelli si riferisce alle dichiarazioni del commissario Moscovici: «Un patriota francese che è occasionalmente commissario europeo e che dichiara candidamente che le regole che valgono per l’Italia rispetto al famoso debito non valgono per la Francia». Notizia che «non stupisce uno studioso serio e non prezzolato, che sa che il funzionalismo non ha fatto altro che nascondere e non eliminare gli squilibri di potenza nazionali». Questo fatto è forse «quello più rilevante dell’intero 2018, per coloro che vogliono ritornare all’analisi scientifica e non ideologica della realtà europea».In questo contesto, prosegue Sapelli nella sua analisi, emerge un altro evento importante: «La diffusività comprovata della capacità dell’ordoliberismo di cooptare seguaci, catturando ideologicamente per la pressione dell’ambiente gli “homines novi” dal basso per farli salire su su nella cuspide del potere». Il che avviene per effetto di motivi «non pecuniari, ma precipuamente culturali, ossia di “soft power”: è ciò che pare capiti ai primi ministri italiani con una continuità impressionante» Vengono sostanzialmente cooptati dall’egemonia neoliberista. «Il pericolo è che, nonostante le reazioni sempre più esplicite della borghesia nazionale contro la manovra (sbagliata perché troppo poco incentrata sulla creazione di capitale fisso e quindi sulla crescita), la compagine governativa italiana non ingaggi con Bruxelles la vera battaglia: quella della negoziazione dei parametri del Fiscal Compact (peraltro già scaduto, come trattato) e si abbandoni così alla tremenda ondata d’urto che verrà dalla prossima recessione per debito cinese e per debito “corporate” Usa». Recessione, assicura Sapelli, «che si unirà alla deflazione secolare e disgregherà ancor più il nostro sistema sociale».In questo “tramonto della ragione”, conclude Sapelli, non sorge «la stella polare che deve guidare ciò che rimane della borghesia nazionale: lavorare con le borghesie nazionali tedesche, convincere quelle classi politiche della necessità di rivedere le politiche economiche europee e riscrivere in tal modo la storia d’Europa». La Brexit, quella storia, «la sta già scrivendo da parte sua, dimostrando l’ignavia, l’ignoranza di una intera classe dominante politica e tecnocratica dell’Unione Europea, che invece di aprire un varco al primo ministro del Regno Unito lo stringe sempre più in un cul-de-sac per sgretolamento del sistema politico inglese». Domanda: «Dove sono finiti gli ammiratori sfegatati del modello Westminster?». Pervicace e violenta, la tecnocrazia europea «non è consapevole dei rischi che corre l’intero rapporto di potenza mondiale, se il Regno Unito entra in convulsione». Usa e Uk in crisi: «Una tragedia che il mondo, non l’Ue – non solo l’ Ue – non può permettersi, pena l’entropia. Ed è invece l’entropia mondiale che la cuspide del potere europeo sta producendo senza sosta in una pazzia inarrestabile».«La resa del governo all’Ue ci farà spazzare via dalla recessione». Per il professor Giulio Sapelli, storico dell’economia, l’Italia è esposta alle peggiori bufere: da un lato subisce senza anestesia il rigore di Bruxelles, dall’altro starebbe per perdere anche la protezione a distanza finora assicurata dalla presidenza Trump, qualora il presidente Usa venisse sabotato dall’impeachment. Un indizio clamoroso, per Sapelli, è la decisione del Senato statunitense di sospendere lo storico appoggio militare all’Arabia Saudita, fornito dai tempi di Obama per condurre una spietata guerra contro lo Yemen, di cui i media non parlano mai. Su proposta dei democratici Bernie Sanders e Mike Lee (e il sostegno di Lindsey Graham), scrive Sapelli sul “Sussidiario”, il Senato ha deciso di approvare una risoluzione che chiede la fine del coinvolgimento americano nella campagna militare saudita contro lo Yemen e una mozione che dichiara il principe ereditario Mohammed Bin Salman responsabile dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Ahmad Khashoggi, assassinato lo scorso 2 ottobre nell’ambasciata saudita di Istanbul, in Turchia. «Si tratta del primo voto in 45 anni in cui il Senato fa riferimento al War Power Act, legge approvata dal Congresso Usa durante la presidenza Nixon per far ritirare le forze statunitensi dal Vietnam».
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Bifarini: agonia Ue, elettori traditi. Unica chance, l’Italexit
Dopo la bocciatura definitiva della manovra da parte della Commissione Europea con la prospettiva dell’apertura della procedura d’infrazione contro l’Italia per deficit eccessivo, da più parti ci si chiede quale strada percorrere. Scendere a patti con Bruxelles, come sembrerebbe chiedere il ministro degli affari europei Paolo Savona, o andare avanti con il muro contro muro come chiedono invece Salvini e Di Maio? Ha senso cercare ancora un accordo con l’Unione Europea sulla manovra? Credo a questo punto che non ci siano più le condizioni. C’è un accanimento da parte dell’Unione Europea nei confronti dell’Italia che è motivato più da ragioni ideologiche e politiche che da questioni economiche. La spesa a deficit prevista da questa manovra è assolutamente in linea con quanto attuato dai governi precedenti, anzi anche inferiore. Il debito pubblico, dovuto al pagamento degli interessi sul debito stesso, è cresciuto con lo stesso Monti, a riprova che le misure di austerity non funzionano, così come con Letta, Gentiloni e Renzi. Ma mai come con la coalizione giallo-verde c’era stato un attacco così duro e ostinato da parte sia di Bruxelles che dei media e di tutta la potente macchina della propaganda.Siamo di fronte a un bivio: è giunto il momento di scelte coraggiose. Continuare a sottostare a regole e parametri infondati, assurti a dogmi, significa rinunciare per sempre alla propria sovranità economica e politica. Una perdita di democrazia inaccettabile per i cittadini, che alle urne hanno espresso la loro volontà di cambiamento. C’è uno scollamento troppo forte ormai tra le istanze delle popolazioni e quelle dei tecnocrati di Bruxelles, che non le rappresentano. Attraverso l’imposizione di parametri contabili si è creata una dittatura dei mercati che sta generando solo povertà e disoccupazione. L’unica possibile via d’uscita è recuperare la propria sovranità monetaria. Continuare a ‘trattare’ con l’Ue che ci somministra la pillola mortifera dell’austerity significa condannarsi a una lenta e dolorosa agonia. Nonostante il terrorismo creato dal mainstream, tornare a una nostra moneta – che si chiami lira o qualsiasi altro nome – non rappresenterebbe nulla di trascendentale. Al mondo, a parte l’Eurozona e le ex colonie francesi che adottano il franco Cfa, ogni paese ha la propria moneta. Non si verificherebbe nessuna delle catastrofi prospettate da chi fa volutamente terrorismo.Lo spauracchio dell’inflazione, ad esempio, è infondato, perché attualmente ci troviamo in una situazione di deflazione con crisi della domanda e alta disoccupazione. Così come la corsa agli sportelli, essendo nell’epoca delle transazioni elettroniche. Insomma, niente cavallette. Il ministro Paolo Savona dice che bisogna cambiare anche il governo, non soltanto la manovra? Pare che le dichiarazioni siano state smentite, o comunque ridimensionate. Sicuramente c’è nervosismo, vista la situazione di forte scontro con l’Ue. D’altra parte c’è una stampa e un apparato di comunicazione che tifa contro il governo e fa di tutto per ridicolizzarlo e delegittimarlo. Neanche ai tempi di Berlusconi c’era tanto accanimento. Questo tende a esacerbare lo scontro e a radicalizzare le posizioni, creando un clima per nulla favorevole.(Ilaria Bifarini, dichiarazioni rilasciate ad Americo Mascarucci per l’Intervista “Vi spiego perchè è il momento dell’Italexit”, pubblicata su “Lo Speciale” il 23 novembre 2018 e ripresa sul blog della Bifarini).Dopo la bocciatura definitiva della manovra da parte della Commissione Europea con la prospettiva dell’apertura della procedura d’infrazione contro l’Italia per deficit eccessivo, da più parti ci si chiede quale strada percorrere. Scendere a patti con Bruxelles, come sembrerebbe chiedere il ministro degli affari europei Paolo Savona, o andare avanti con il muro contro muro come chiedono invece Salvini e Di Maio? Ha senso cercare ancora un accordo con l’Unione Europea sulla manovra? Credo a questo punto che non ci siano più le condizioni. C’è un accanimento da parte dell’Unione Europea nei confronti dell’Italia che è motivato più da ragioni ideologiche e politiche che da questioni economiche. La spesa a deficit prevista da questa manovra è assolutamente in linea con quanto attuato dai governi precedenti, anzi anche inferiore. Il debito pubblico, dovuto al pagamento degli interessi sul debito stesso, è cresciuto con lo stesso Monti, a riprova che le misure di austerity non funzionano, così come con Letta, Gentiloni e Renzi. Ma mai come con la coalizione giallo-verde c’era stato un attacco così duro e ostinato da parte sia di Bruxelles che dei media e di tutta la potente macchina della propaganda.
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Sapelli: Brexit, l’Ue verso l’abisso. E la Germania ci stupirà
Ancora Brexit: è una disgregazione che pare non finire mai. Il governo inglese entra in una crisi profonda, che secondo lo storico dell’ecomomia Giulio Sapelli esprime bene quello che sta lentamente minando le basi socio-politiche dell’Europa, e da cui forse il Regno Unito non ha fatto in tempo a salvarsi. La deflazione secolare, scrive Sapelli sul “Sussidiario”, va di pari passo con la disgregazione delle subculture politiche europee, e ciò conduce all’emersione dei “cacicchi”, i capetti che già esistevano nei partiti, ma «erano messi in sonno dalla pesantezza dei legami territoriali e dal modello “rank and file” dell’organizzazione della partecipazione politica di massa». Ora quest’ultima ha trasformato il suo volto «per la digitalizzazione crescente delle relazioni virtuali», e così «l’angoscia politica si condensa non più nella ribellione oppure nell’astensione di massa, ma nell’emersione – appunto – dei capi politici solitari, alveolari». Sapelli li chiama “caciqui” citando Joacquin Costa, studioso dell’oligarchia spagnola di inizio Novecento. Ciò che caratterizza il “cacicco”, avverte Sapelli, è la lotta di tutti contro tutti, la battaglia in solitudine con pochi fedeli.Ora anche nel Regno Unito, continua Sapelli, la lotta è tra “Re nani”, che combattono da soli l’un contro l’altro armati: “Siamo ancora troppo succubi dell’Unione Europea, dobbiamo difendere i nostri territori”, gridano. E via di seguito, con le cantilene che conosciamo bene e che sono l’essenza del “nazionalismo dei poveri” e delle borghesie nazionali, opposte alle borghesie “vendidore”, mercantiliste. Di fronte a questo fenomeno, l’Europa «non tenta di costruire una via di uscita», aprendo le porte al dialogo, ma al contrario «si veste invece come una Erinni sempre in battaglia e scrive una bozza di trattato “in deroga”, ossia dà vita a un nuovo trattato di centinaia di pagine che ancor più infiamma gli animi dei “brexiters” e scalda il cuore degli scopritori delle ataviche virtù». Il tutto «mentre la crisi economica europea e mondiale avanza», e Mario Draghi «interpreta bene le paure nordamericane per una crisi europea senza fine». Infatti, la fine del Quantitative easing e il rialzo dei tassi, attesi invariati almeno fino a tutta l’estate 2019 – dice Draghi – potrebbero essere rimessi in discussione già a partire da dicembre a causa di un aumento meno mercato dei prezzi rispetto alle aspettative.«L’inflazione nell’Eurozona continua a oscillare intorno all’1% e deve ancora mostrare una tendenza al rialzo convincente», aggiunge Draghi. E quindi, deduce Sapelli, l’addio al Qe è rimandato. Il consiglio della Bce ha anche notato che «le incertezze sono aumentate». Solo a dicembre, con le nuove previsioni disponibili, la banca centrale sarà «in grado di fare una piena valutazione». Per Sapelli, si tratta di segnali assai chiari. Sul “Financial Times” il responsabile del centro studi della Deutsche Bank, David Folkerts-Landau, invoca «con parole inconsuete» una sorta di benevolenza, da parte dell’Ue, nei confronti dell’Italia: una nazione, dice, con un avanzo primario sempre attivo, una forza nel risparmio privato assai notevole e una situazione industriale tra le più invidiabili. «Evidentemente – annota Sapelli – il peso della crisi profonda in cui versa Deutsche Bank ispira le parole del capo dell’ufficio studi, che invia un messaggio chiaro ed eloquente ai falchi nazionalisti ordoliberisti polacchi e dell’Europa centrale, che non vedono l’ora di contendersi il primato di co-attori nella lotta che si sta scatenando nel sistema europeo nel tramonto del potere condizionante prevalente tedesco».Un tramonto che, secondo Sapelli, rischia di lasciare l’Europa senza un ancoraggio preciso. E se Berlino non è allegra, non ride nemmeno Parigi: «Anche la stella di Macron decade, e la pulsione imperiale della Francia – come hanno dimostrato le vicende libiche, che devono essere lette in stretta congiunzione con quelle europee – la trascinerà sempre più verso il dominio africano anziché nel cuore del suo destino europeo, che non può che essere antitedesco per una coazione a ripetere che è anche la salvezza dell’Europa, impedendo in tal modo un solo dominatore». Le conseguenze? Le abbiamo appena viste, dice Sapelli: ordoliberismo e deflazione. La Brexit? E’ un evento tragico, «che avviene tuttavia senza una tragedia che si rappresenti per quello che è: una catastrofe». Prevale invece «uno sbadiglio, il non assumersi tutte le responsabilità, un non cogliere il dramma di un abbandono definitivo dell’Europa da parte della patria culturale dell’umana libertà, della common law». Secondo Sapelli, «non si può continuare a far finta di niente e considerare la vicenda Brexit un incidente della storia», quando invece «è una vera e propria rivelazione della storia europea e dei limiti che ha qualsivoglia sua tentazione federalista o funzionalista come quella che le élites tecnocratiche hanno perseguito nell’ultimo mezzo secolo».E’ sempre lui, il Novecento, «quel secolo che non finisce mai». E’ alle spalle, «e che ora si chiude con il distacco della nazione più civile del globo terracqueo». Se sfidate, la tradizione e la storia si ribellano, sostiene Sapelli, citando Edmund Burke, umanista britannico del Settecento. «E dinanzi a tale ribellione che ricorda l’Ira dei miti, che, come dice la Bibbia, quando si rivela è terribile, dinanzi a tutto ciò la Commissione Europea si accanisce sull’Italia e discute di quanti errori si sarebbero fatti consentendo a essa un grado di “flessibilità” troppo elevato, emanando una condanna dei governi precedenti e non solo dell’attuale esecutivo italiano». Secondo Sapelli «non hanno fatto i conti – i Commissari vassalli — con la paura che sta invadendo l’Imperatore tedesco, che fa parlare ora i suoi banchieri e che forse si prepara a una mossa imprevista, per difender certo il suo impero, ma anche l’Europa, o meglio ciò che dell’Europa rimarrà dopo il dominio del neofiti dell’ordoliberismo che riescono a far peggio dei loro capi». In altre parole: «La crisi tedesca si avvicina, e allora si comprenderà veramente sul crinale di quale abisso siamo giunti. E la Germania ci stupirà».Ancora Brexit: è una disgregazione che pare non finire mai. Il governo inglese entra in una crisi profonda, che secondo lo storico dell’ecomomia Giulio Sapelli esprime bene quello che sta lentamente minando le basi socio-politiche dell’Europa, e da cui forse il Regno Unito non ha fatto in tempo a salvarsi. La deflazione secolare, scrive Sapelli sul “Sussidiario”, va di pari passo con la disgregazione delle subculture politiche europee, e ciò conduce all’emersione dei “cacicchi”, i capetti che già esistevano nei partiti, ma «erano messi in sonno dalla pesantezza dei legami territoriali e dal modello “rank and file” dell’organizzazione della partecipazione politica di massa». Ora quest’ultima ha trasformato il suo volto «per la digitalizzazione crescente delle relazioni virtuali», e così «l’angoscia politica si condensa non più nella ribellione oppure nell’astensione di massa, ma nell’emersione – appunto – dei capi politici solitari, alveolari». Sapelli li chiama “caciqui” citando Joacquin Costa, studioso dell’oligarchia spagnola di inizio Novecento. Ciò che caratterizza il “cacicco”, avverte Sapelli, è la lotta di tutti contro tutti, la battaglia in solitudine con pochi fedeli.
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Galloni: la lettera di Tria, il disavanzo e le bombe d’acqua
I cambiamenti climatici – non dovuti alle emissioni di anidride carbonica, ma all’attività solare – devono farci riflettere su due aspetti: come affrontarli; con quali risorse economiche. La sfida, oggi come domani, non consiste nella velleitaria resistenza ai cambiamenti (che ci sono sempre stati, non sono opera dell’uomo, ma adesso avvengono a fronte di un’antropizzazione ben diversa rispetto al passato), ma nella fattiva predisposizione di tutti gli strumenti disponibili. Da una parte occorre che la cementificazione non significhi la predisposizione di barriere che impediscono all’acqua di defluire; dall’altra che tutte le infrastrutture esistenti subiscano una manutenzione efficace e tempestiva. Ciò implica dei costi di cui la comunità deve farsi carico per non doverne affrontare di ben maggiori, quando le catastrofi – sempre più sovente – accadono: 1) si possono fare delle collette; 2) si possono raccogliere coattivamente delle tasse di vario genere; 3) lo Stato può spendere in disavanzo anche per fornire i mezzi monetari necessari alle istituzioni dedicate; 4) lo Stato può emettere una propria valuta nazionale non a debito che non è contemplata – né, quindi, impedita – dall’articolo 128 del Trattato di Lisbona che si occupa di banconote e di moneta avente corso legale nell’Unione.Delle prime due c’è poco da dire; della spesa in disavanzo – con debito, per di più, in moneta estera, l’euro – si sta parlando in questi giorni tra il nostro governo ed i vertici dell’Unione (sarebbe più esatto Disunione, ma lasciamo stare) e, quindi, cerchiamo di riassumere i termini della questione. I singoli Stati sono liberi di decidere le proprie politiche economiche, ma nel rispetto degli accordi e dei parametri concordati. Di fronte ad una crisi occupazionale, sociale ed ambientale senza precedenti, il “Pacta sunt servanda” viene sempre superato dal “Ad impossibilia nemo tenetur”: se ci fossero milioni di persone per strada a protestare energicamente, nessuno avrebbe dubbi; ma – a differenza di quanto accadeva fino a pochi decenni fa – sembra che, a parte qualche terremotino elettorale, le situazioni reggano… finchè reggono. La spesa pubblica in disavanzo è ed è stato lo strumento principe con cui i governi puntavano alla crescita economica: infrastrutture, scuole e università, welfare, ecc. poi si è riscontrato un indebolimento dello strumento senza, però, che nessun’altra misura l’abbia potuto sostituire.La riduzione delle tasse si è rivelata controproducente se ottenuta con una pari riduzione della spesa; sarebbe efficace e necessaria a parità di spesa: ma, con ciò, il deficit aumenterebbe. Orbene, la minore efficacia della spesa in deficit è stata dovuta a un indebolimento del moltiplicatore della spesa produttiva e per investimenti; il moltiplicatore è il valore – superiore ad 1 – per cui moltiplicare (di qui il nome) la spesa stessa per valutarne l’impatto sul Pil; per gli antikeynesiani – ad esempio il Fmi o la Banca Mondiale – che ne vogliono sminuire l’importanza, esso è 1,5; tempo fa esso era stato stimato, per le grandi infrastrutture, la ricerca, ecc. intorno a 3 e si posizionava tra il 2 e il 3 per quanto riguardava i sussidi di disoccupazione, le pensioni sociali, ecc. Adesso succede che esso non raggiunge il 2 per le grandi infrastrutture e, in generale, gli investimenti produttivi, perché l’intensità del lavoro – grazie alle tecnologie – si è molto ridotta; invece rimane elevato nelle prestazioni cosiddette assistenzialistiche purchè queste ultime raggiungano persone o famiglie attorno alle condizioni di povertà (quei milioni e milioni che non sono in grado nemmeno di garantirsi due pasti completi al giorno).Allora: la lettera che lunedì 22 ottobre mattina il ministro Tria ha inviato ai vertici economici di Bruxelles (e che il presidente Conte ha immediatamente appoggiato) prevede che, se la manovra italiana in corso non produrrà effetti adeguati sul Pil, onde non superare il 2,4 di deficit (rispetto al Pil), la spesa dovrà essere tagliata. In altri termini, questo governo – a differenza dei precedenti – dà priorità alla crescita del Pil (quello, peraltro, che ci chiedono i “mercati”) e non alla tenuta dei conti che, si badi, però, rimane un vincolo, non una variabile residuale. Ma, per far crescere il Pil occorre una spinta notevole; infatti, il rapporto tra spesa pubblica e Pil non è più lineare, ma complesso: se un grande aumento della spesa a deficit assicura un aumento più che proporzionale del Pil, un piccolo aumento può avere un effetto nullo, non un effetto proporzionato. Paradossalmente, come s’è già detto, avrà un effetto maggiore la spesa assistenziale invece che quella – si badi bene, necessaria, necessarissima – per le infrastrutture, l’ambiente, ecc. Siccome le previsioni internazionali per il 2019 non sono buone (si veda, anche il mio ultimo “L’inganno e la sfida, 2019: le ragioni di una crisi finanziaria”, il rischio è che tra qualche trimestre bisognerà ricominciare a tagliare la spesa pubblica.Invece, proprio per affrontare la crisi, occorrerebbe fare il contrario: lo Stato deve occuparsi dei poveri, dei giovani, delle buche, delle bombe d’acqua, degli ospedali, del territorio, delle scuole. Risorse si possono ricavare dalla valorizzazione del patrimonio esistente; ma perché ciò accada e non sia un’inutile svendita della ricchezza, occorrono investimenti anche in disavanzo, collaborazione coi partner privati e stranieri. In uno scenario di spinta alla valorizzazione del nostro immenso patrimonio semiabbandonato, il deficit spending deve spingersi fino al pieno riassorbimento di tutte le risorse disoccupate: tecniche, umane e finanziarie (si pensi che, in Italia, 1 milione e trecentomila persone detengono, oltre tutto il resto, più di 500mila euro inutilizzati nelle banche). Una tale misura dovrebbe valere per tutti i paesi dell’Unione e, quindi, varierebbe a seconda del rispettivo tasso di disoccupazione combinato con la capacità di proporre progetti di valorizzazione delle risorse stesse.Tale scenario non pregiudicherebbe gli interessi dei paesi più forti che, quindi, dovrebbero spendere meno e consentirebbe di superare la più grande remora verso l’Europa: vale a dire che le scelte deflazionistiche dei passati decenni abbiano consentito solo un maggiore impoverimento ed asservimento dei cittadini invece dell’obbiettivo contrario (per cui la politica si sarebbe dovuta battere con determinazione). Infine, ciascuno Stato può eserciate sovranità monetaria nazionale – per qualche punto di Pil, senza esagerare – in quanto tali mezzi avrebbero circolazione solo interna, non sarebbero convertibili, avrebbero, all’emissione, lo stesso segno algebrico delle imposte (quindi ridurrebbero il deficit) e, quindi, ritornerebbero all’emittente in pagamento delle tasse. Tale misura, un po’ più di deficit ed il ritorno a banche di credito legate al territorio ed agli investimenti produttivi, assicurerebbero maggiore occupazione, la crescita sostenuta del Pil ed un miglioramento dei conti pubblici.(Nino Galloni, “La lettera di Tria, la spesa pubblica e le bombe d’acqua”, da “Scenari Economici” del 22 ottobre 2018).I cambiamenti climatici – non dovuti alle emissioni di anidride carbonica, ma all’attività solare – devono farci riflettere su due aspetti: come affrontarli; con quali risorse economiche. La sfida, oggi come domani, non consiste nella velleitaria resistenza ai cambiamenti (che ci sono sempre stati, non sono opera dell’uomo, ma adesso avvengono a fronte di un’antropizzazione ben diversa rispetto al passato), ma nella fattiva predisposizione di tutti gli strumenti disponibili. Da una parte occorre che la cementificazione non significhi la predisposizione di barriere che impediscono all’acqua di defluire; dall’altra che tutte le infrastrutture esistenti subiscano una manutenzione efficace e tempestiva. Ciò implica dei costi di cui la comunità deve farsi carico per non doverne affrontare di ben maggiori, quando le catastrofi – sempre più sovente – accadono: 1) si possono fare delle collette; 2) si possono raccogliere coattivamente delle tasse di vario genere; 3) lo Stato può spendere in disavanzo anche per fornire i mezzi monetari necessari alle istituzioni dedicate; 4) lo Stato può emettere una propria valuta nazionale non a debito che non è contemplata – né, quindi, impedita – dall’articolo 128 del Trattato di Lisbona che si occupa di banconote e di moneta avente corso legale nell’Unione.
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Macron può sforare il deficit, noi no. E nessuno dice niente
A fine agosto il ministro delle finanze francese, Bruno Le Maire, ci avvisava che, dato che la crescita del Pil sarebbe stata inferiore alle previsioni iniziali, il deficit francese nel 2018 sarebbe stato il 2,5% e non il 2,3% del prodotto interno lordo, come inizialmente previsto. A quei numeri si doveva aggiungere un altro 0,1% per il consolidamento del debito delle ferrovie francesi. Nemmeno un mese dopo, anche il deficit previsto per il 2019 è stato “ritoccato”: dal 2,4% sale al 2,8% per permettere un piano di stimolo fiscale. «Apriamo le scommesse sulle possibili ulteriori revisioni che questo numero, il deficit per il 2019, avrà nei prossimi mesi», scrive Paolo Annoni sul “Sussidiario”: «Come nota di colore aggiungiamo che il ministro delle finanze francese è lo stesso che in data 8 settembre dichiarava con tono minaccioso: “Penso che tutti i leader politici italiani siano consci dei loro impegni”. C’è da sbellicarsi». Qualcuno, aggiunge Annoni, si è già precipitato a dire che la Francia può (e noi no) perché il nostro debito è più alto. «Siamo al ridicolo, e chi lo dice è in malafede totale». Il debito italiano ha fatto peggio di quello francese, negli ultimi anni «solo perché l’Italia ha fatto l’austerity nel 2012». Grazie a Monti e Letta, con la cortese collaborazione di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni.
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Savona all’Ue: più deficit salva-Stati e una Bce anti-spread
O l’Eurozona diventa una vera unione monetaria, con la Bce che garantisce sempre e comunque i debiti degli Stati membri, o la valuta comune rischia il collasso. Accusato di voler uscire dall’euro per l’aver sottolineato la necessità di una “exit strategy” qualora si materializzi lo scenario peggiore, il ministro agli affari europei ci tiene a chiarire una volta per tutte che la sua nomea di euroscettico è una distorsione e che, anzi, per lui «la moneta unica è indispensabile per il buon funzionamento di un mercato unico». Ma perché l’euro sopravviva, l’Europa deve cambiarne il funzionamento, traendo le opportune lezioni dal disastro greco. È questo il famoso “piano A” di Paolo Savona, che ha inviato a Bruxelles un documento dal titolo “Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa”. Politeia, termine che in greco antico indica la comunità di cittadini e il suo legame con lo Stato, non le pure e semplici istituzioni o le norme che esse applicano. Una parola scelta non a caso, per sottolineare la necessità di rinsaldare quel legame tra politica comunitaria e società che in questi anni si è lacerato fino a innescare un risorgere dei nazionalismi. Ma cosa significa in concreto?Savona, spiega “Milano Finanza”, chiede di «istituire un gruppo di lavoro ad alto livello, composto dai rappresentanti degli Stati membri, del Parlamento e della Commissione, che esamini la rispondenza dell’architettura istituzionale europea vigente e della politica economica con gli obiettivi di crescita nella stabilità e di piena occupazione esplicitamente previsti nei trattati», con lo scopo di «sottoporre al Consiglio Europeo, prima delle prossime elezioni, suggerimenti utili a perseguire il bene comune». Savona ha già le idee chiare sui mutamenti necessari. Bce prestatore di ultima istanza: «I divieti posti alla Bce di muoversi in aiuto degli Stati hanno creato condizioni favorevoli alla speculazione, che ha imperversato anche quando questi Stati si comportavano secondo gli impegni. Hanno fatto gravare sulle loro economie costi aggiuntivi in termini di interessi sul debito pubblico e sul credito. Se i poteri di intervento della Bce contro la speculazione fossero veramente pieni, gli spread tra rendimenti dei titoli sovrani si dovrebbero azzerare». Savona vuole in sostanza una banca centrale che, come ogni altra omologa a partire dalla Fed americana, abbia il potere illimitato di garantire il debito delle nazioni, evitando differenziali del costo del debito tra paesi che condividono la stessa valuta.Tetto del deficit non più fisso: «Le regole dei disavanzi pubblici non hanno previsto alcuna correzione strutturale delle bilance dei pagamenti correnti, privando il sistema europeo di una rilevante componente di domanda e aggravando la tendenza alla deflazione. Servono investimenti pubblici consistenti, a livello di Unione e di singoli Stati, rispettando una sola regola aurea: la percentuale di disavanzo del bilancio non deve essere superiore al saggio di crescita nominale del Pil che ne risulta». In sostanza, il tetto del massimo rapporto stabilito tra deficit e Pil non dovrà essere fissato al 3% ma oscillerà a seconda della crescita dell’economia. Ma se i paesi più virtuosi temessero così di dover pagare per chi sfora? «Esistono le soluzioni tecniche per garantire che ciò non avvenga. Si tratta di attivarle in pratica effettuando scelte politiche, come quella di concordare un piano di rimborsi a lunghissima scadenza e ai tassi ufficiali praticati, fornendo una garanzia alla Bce fino al rientro nel parametro del 60% rispetto al Pil, in contropartita di una ipoteca sul gettito fiscale futuro o di proprietà pubbliche in caso di mancato rimborso di una o più rate. Ovviamente tra le clausole di un siffatto accordo vi sarebbe anche quella che il disavanzo di bilancio pubblico si collochi in modo dinamico entro la regola indicata di coerenza rispetto al saggio di crescita nominale del Pil e quindi non comporti un nuovo superamento del rapporto debito pubblico/Pil».(“Savona ha presentato all’Europa il suo Piano-A”, dal sito dell’agenzia di stampa Agi; post editato il 13 settembre 2018).O l’Eurozona diventa una vera unione monetaria, con la Bce che garantisce sempre e comunque i debiti degli Stati membri, o la valuta comune rischia il collasso. Accusato di voler uscire dall’euro per l’aver sottolineato la necessità di una “exit strategy” qualora si materializzi lo scenario peggiore, il ministro agli affari europei ci tiene a chiarire una volta per tutte che la sua nomea di euroscettico è una distorsione e che, anzi, per lui «la moneta unica è indispensabile per il buon funzionamento di un mercato unico». Ma perché l’euro sopravviva, l’Europa deve cambiarne il funzionamento, traendo le opportune lezioni dal disastro greco. È questo il famoso “piano A” di Paolo Savona, che ha inviato a Bruxelles un documento dal titolo “Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa”. Politeia, termine che in greco antico indica la comunità di cittadini e il suo legame con lo Stato, non le pure e semplici istituzioni o le norme che esse applicano. Una parola scelta non a caso, per sottolineare la necessità di rinsaldare quel legame tra politica comunitaria e società che in questi anni si è lacerato fino a innescare un risorgere dei nazionalismi. Ma cosa significa in concreto?
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Malvezzi: Juncker ubriaco, emblema di un’Europa che crolla
Vedere quelle immagini produce tristezza. Un vecchio che oscilla, incapace di reggersi sulle proprie gambe, ridanciano e scomposto nei gesti, articolando parole che, immagino, siano sconnesse come i suoi pensieri. Ad alcuni, compresi primi ministri, provoca involontaria risata, soffocata dall’imbarazzo. Perché questo indecoroso spettacolo pubblico non è elargito da un barbone in una qualunque stazione dei treni italiana. Questa scena imbarazzante è proposta in mondo visione da un signore che, degli italiani, ha spesso formulato giudizi critici, sprezzanti, al limite dell’offesa e del buon gusto. Questo signore è il presidente della Commissione Europea, Juncker, cioè il vertice del governo che decide sulla vita di noi tutti, cittadini europei, italiani baffi neri e mandolino, mafia e spaghetti compresi. Quando tu, Juncker, dicevi ancora recentemente che gli italiani dovrebbero recuperare competitività, lavorare di più, essere meno corrotti e non accusare l’Europa dei propri mali, parlavi come presidente di tutti noi, sudditi spreconi della nostra vita. Ma noi non siamo tutti mafiosi e non balliamo come cicale aspettando che le operose formiche del nord Europa lavorino per noi. Se non altro, noi camminiamo eretti sulle nostre gambe, e non abbiamo bisogno di nessuno che ci sostenga.Ti ricordo, presidente, che il bilancio dell’Italia nei confronti dell’Unione Europea è a credito per decine di miliardi, a differenza di quanto la tua vergognosa narrazione (e quella dei tuoi tanti servili cortigiani) tende a far credere. Da creditore, pertanto, sono a dirti esattamente l’opposto di quanto affermi. L’Italia lavora in ore medie lavorate pro capite più di tanti altri paesi del nord, Germania compresa. La nostra inefficienza, te lo scrivo da economista, è dovuta a una moneta senza Stato, che in un sistema a cambi fissi e in un modello predatorio ha avvantaggiato gli uni e penalizzato altri. Ti dirò di più; è stato fatto per quello. Solo che questo popolo ora si è stancato di vedere imprenditori suicidarsi in onore delle vostre presunte “riforme”. Questo popolo si è stancato di tagliare le pensioni per far quadrare bilanci che non possono quadrare, perché sono gli interessi sul debito verso banche private e non più pubbliche a mangiarli. Questo popolo si è stancato di perdere posti di lavoro in onore della vostra “produttività”, che si dovrebbe chiamare come è: deflazione salariale.Questo popolo si è stancato di tagliare la spesa pubblica per gli anziani non autosufficienti, per i malati di cancro negli ospedali, per i posti di lavoro dei giovani disperati costretti ad emigrare, mentre voi organizzate spostamenti di massa tra continenti per abbassare la competitività salariale, con una lotta tra poveri. Questo popolo si è stancato di credere alla favola dello spread e dei “mercati”, perché ha capito che una banca centrale, se vuole, può metterli a tacere per il bene del popolo, comprando i titoli dello Stato oggetto di speculazione privata. E a chi mi dice che questa sia demagogia, caro signore, da economista rispondo con un garbato “vaffanculo”. Lo faccio in memoria degli imprenditori suicidi di Stato, dei risparmiatori truffati dal bail-in, dei poveri senza lavoro e speranza. Quella scena di te che oscilli tra i grandi delle Terra rimarrà indelebile nella memoria di milioni di persone. Quella resterà nei libri di storia, te lo dico oggi, come una pagina memorabile.Il tuo oscillare, dopo tanti anni di sicumera ed arroganza, dopo aver offeso un intero popolo, rimarrà ad imperitura memoria della caduta del vostro potere. Tu sei il simbolo cadente, Juncker, di un potere decadente. Ti possono sostenere membri della corte compiacenti, come nei penosi filmati che circolano in rete tutto il mondo ha potuto vedere. Non ti potranno sostenere in eterno, perché la rabbia del popolo oppresso è inarrestabile, e colma ne è la misura. La tua traballante camminata, su quel tappeto rosso, produce ilarità. Bene lo spiegava Pirandello – un grande italiano, sai? – nel fatto che l’imprevisto provoca il riso. Ma dopo quel riso, la riflessione è amara è ineluttabile. Tu sei il simbolo, insostenibile e indifendibile, della barcollante tenuta di un sistema oligarchico di potere che, irrispettoso del bene e del volere del popolo, lo ha oppresso per vent’anni. Potrete offenderci con le parole; potrete chiamarci demagoghi o populisti, retrogradi o qualunquisti, razzisti o nazionalisti. Non potrete fermare l’ineluttabilità degli eventi, come non si può sorreggere un corpo senza più energia dalla forza di gravità.L’Unione Europea dei burocrati, dei prevaricatori, dei legislatori che pretendono di sfuggire al giudizio popolare non potrà reggersi a lungo, perché priva delle gambe della moralità. Un’Europa che ha anteposto alla legge del cuore quella del portafoglio non può andare lontano. Un’Europa che si preoccupa più dei mercati che dei suoi cittadini non potrà coesistere con le loro speranze. Un’Europa che antepone la finanza alla morale non ha più futuro. Io ti dico oggi che la tua incerta e indecorosa camminata, in un traballante contesto ufficiale, non è altro che la simbolica anticipazione di un’ineluttabile caduta di un intero centro di potere illiberale, non democratico e oligarchico. Quel tipo di Europa cadrà, prima o poi. E io sarò lì a vederlo e a segnarlo sui libri di storia, come tanti miei concittadini italiani, donne e uomini dalle gambe salde e dal cuore puro. Ti manderemo un biglietto in tanti, quando quella Europa, la vostra e non certo la nostra, cadrà. Lo faremo ricordando un verso in endecasillabi di un altro grande Italiano, un poeta che ricordava che esiste l’inferno, ma poi c’è il paradiso. “E cadde come corpo morto cade”. Sul mittente di quella missiva leggerai: un italiano come tanti.(Valerio Malvezzi, “Quando l’Europa barcolla, spettacolo Juncker”, da “Scenari Economici” del 13 luglio 2018).Vedere quelle immagini produce tristezza. Un vecchio che oscilla, incapace di reggersi sulle proprie gambe, ridanciano e scomposto nei gesti, articolando parole che, immagino, siano sconnesse come i suoi pensieri. Ad alcuni, compresi primi ministri, provoca involontaria risata, soffocata dall’imbarazzo. Perché questo indecoroso spettacolo pubblico non è elargito da un barbone in una qualunque stazione dei treni italiana. Questa scena imbarazzante è proposta in mondo visione da un signore che, degli italiani, ha spesso formulato giudizi critici, sprezzanti, al limite dell’offesa e del buon gusto. Questo signore è il presidente della Commissione Europea, Juncker, cioè il vertice del governo che decide sulla vita di noi tutti, cittadini europei, italiani baffi neri e mandolino, mafia e spaghetti compresi. Quando tu, Juncker, dicevi ancora recentemente che gli italiani dovrebbero recuperare competitività, lavorare di più, essere meno corrotti e non accusare l’Europa dei propri mali, parlavi come presidente di tutti noi, sudditi spreconi della nostra vita. Ma noi non siamo tutti mafiosi e non balliamo come cicale aspettando che le operose formiche del nord Europa lavorino per noi. Se non altro, noi camminiamo eretti sulle nostre gambe, e non abbiamo bisogno di nessuno che ci sostenga.
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Sapelli: patriottismo laburista anti-Merkel, con l’aiuto Usa
«E’ bene dire sin da subito che l’unica speranza di sopravvivenza che questo governo possiede è quella di impugnare sin dall’inizio la bandiera di ciò che potremmo chiamare un “patriottismo laburista”». Parola di Giulio Sapelli, autorevole economista di formazione keynesiana. L’idea? Adottare la “mossa del cavallo” per agire sui due fronti, interno e internazionale, «provocando quella dissonanza cognitiva che ti fa vincere ogni partita di scacchi e quindi anche ogni battaglia politica». Per Sapelli, che affida la sua analisi al “Sussidiario”, il nuovo governo «sin da subito deve iniziare la negoziazione dei trattati europei». La Francia, del resto, si è già fatta avanti con la telefonata di Macron a Conte. «Una mossa anti-tedesca», anche se non bisogna farsi illusioni, dato che Parigi «ha mire annessionistiche sull’Italia in campo economico, come dimostra la storia recente e recentissima». Ma il governo Conte, sostiene Sapelli, ha un alleato prezioso contro l’austerity teutonica dell’ordoliberalismo: «Gli Usa prima di tutto, non lo si dimentichi mai. L’Alleanza atlantica è l’architrave della politica italiana e deve rimanerlo, agendo con intelligenza, come sempre storicamente si è fatto».Sapelli spera che – facendo leva sull’alleato americano, l’Italia possa comunque conservare «una sorta di limitata autonomia nei rapporti con la Russia al di là delle attuali, transitorie posizioni americane». Questo permetterebbe a Roma di reinterpretare la politica estera italiana già espressa durante la guerra fredda, «anche nei momenti più bui come la Guerra del Vietnam e il conflitto tra Israele e le organizzazioni palestinesi, e come si sta oggi verificando con la posizione degli Usa su Gerusalemme». Tradotto: l’Italia come attore mediterraneo, in grado di attutire i colpi e mediare tra le diverse posizioni. Nonostante le apparenze, osserva Sapelli, il momento potrebbe essere propizio: infatti, «non vi è mai stato un punto di flessione così acuto nelle relazioni tra Usa e Germania» come quello che si sta verificando in questi mesi, «a partire dal “diesel gate” per finire con il confronto sui dazi e e sul commercio estero in corso a livello mondiale». Per l’economista, «l’Italia può e deve dire la sua con due esponenti di spicco come Savona e Moavero Milanesi proprio sui temi che interessano in primo luogo i tedeschi e i francesi». In altre parole, «Roma deve parlare a voce chiara e distinta con la cancelliera Merkel e la figura oggi più importante della politica tedesca: il ministro degli interni Horst Seehofer, capo storico della Csu».La posta in palio è altissima: «Rinegoziare il Fiscal Compact, che non è nei trattati ma nei regolamenti». Per Sapelli «è possibile e si deve farlo subito, iniziando con contatti continui con Germania e Francia». Le ragioni, spiega, sono evidenti: «Nessun punto del programma “socialdemocratico” del governo Conte può reggersi con i vincoli di bilancio eurocratici esistenti, che debbono essere superati per creare crescita». L’elenco è pesante: eliminazione della legge Fornero, reddito di cittadinanza imperniato sull’agenzia del lavoro per far incontrare domanda e offerta e sulla qualificazione dei precari e dei disoccupati con offerte di lavoro non rifiutabili, riformulazione del carico fiscale con Flat Tax per le imprese e mantenimento della progressività dell’imposta sui redditi da lavoro. Sarà una lotta contro il tempo, sfoderando l’arte della mediazione: «La crescita può essere garantita, come ha affermato da sempre Pierluigi Ciocca, solo da una ripresa degli investimenti pubblici e privati, dall’edilizia alle nuove tecnologie. Non bisogna aver paura del progresso tecnico: è solo da esso che verrà l’occupazione sana, fondata sull’aumento dello stock di capitale e sulla ripresa della domanda interna, non dall’helicopter money e da vergognosi sgravi fiscali a pioggia». Inutile, aggiunge Sapelli, confidare solo nell’export, che alla lunga «ci uccide, noi e l’Europa».E’ questo, ribadisce l’economista, l’asse di intervento che ci consentirebbe di sopportare un aumento del debito «come hanno fatto sempre Francia, Germania e Spagna nei momenti di flessione del ciclo, senza preoccupare l’oligopolio finanziario internazionale», il quale peraltro «ha già ha dimostrato di apprezzare positivamente più la stabilità politica dell’austerity, che è ormai vista come un peste anche dalle cuspidi finanziarie che sanno che la deflazione è la morte dei profitti». Così, conclude Sapelli, «si potrà costruire una rete di alleanze per superare il Trattato di Dublino e instaurare una politica dell’accoglienza dei migranti fondata sempre sulla misericordia ma nel contempo sull’assunzione, anzi, la riassunzione da parte dello Stato (e nello Stato) delle politiche di sostenibilità migratoria». E’ questo l’atteggiamento che Sapelli chiama “patriottismo laburista”. Buono e giusto: «Può unire e non dividere le due anime del governo, ferme restando le differenze strutturali nella meccanica dei partiti e dei movimenti».«E’ bene dire sin da subito che l’unica speranza di sopravvivenza che questo governo possiede è quella di impugnare sin dall’inizio la bandiera di ciò che potremmo chiamare un “patriottismo laburista”». Parola di Giulio Sapelli, autorevole economista di formazione keynesiana. L’idea? Adottare la “mossa del cavallo” per agire sui due fronti, interno e internazionale, «provocando quella dissonanza cognitiva che ti fa vincere ogni partita di scacchi e quindi anche ogni battaglia politica». Per Sapelli, che affida la sua analisi al “Sussidiario”, il nuovo governo «sin da subito deve iniziare la negoziazione dei trattati europei». La Francia, del resto, si è già fatta avanti con la telefonata di Macron a Conte. «Una mossa anti-tedesca», anche se non bisogna farsi illusioni, dato che Parigi «ha mire annessionistiche sull’Italia in campo economico, come dimostra la storia recente e recentissima». Ma il governo Conte, sostiene Sapelli, ha un alleato prezioso contro l’austerity teutonica dell’ordoliberalismo: «Gli Usa prima di tutto, non lo si dimentichi mai. L’Alleanza atlantica è l’architrave della politica italiana e deve rimanerlo, agendo con intelligenza, come sempre storicamente si è fatto».
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Telegraph: l’Ue non si illuda, la sfida italiana comincia oggi
Prepariamoci: al di là dei sorrisi e dello strano “ottimismo dei mercati”, la vera battaglia comincia solo adesso. Da una parte il governo “gialloverde”, costretto ad allentare l’austerity Ue per attuare il suo programma, e dall’altra il Quirinale, probabilissimo “custode” dello staus quo fondato sul rigore euro-tedesco. Lo sostiene sul “Telegraph” l’inglese Ambrose Evans-Pritchard, eminente analista politico-finanziario e attento osservatore della crisi italiana, vera propria cartina di tornasole dello stato di coma politico ed economico dell’Unione Europea. Il nuovo ministro dell’ecomomia, Giovanni Tria, «è un sostenitore della reflazione fiscale e dello stampare moneta per salvare gli Stati europei con un alto debito, fatto che lo porterà su una rotta di collisione con le élite politiche di Bruxelles e della Germania», afferma Pritchard. «Dopo settimane di politica che si potrebbe definire di rischio calcolato, il radicale M5S e i nazionalisti della Lega sono riusciti in gran parte a imporre la loro scelta euroscettica all’establishment politico italiano». Il professor Tria? «E’ un critico moderato ma tenace del Fiscal Compact, imposto dall’Eurozona e dall’apparato dell’Emu per accentuare l’austerità e deflazionare il debito». La sue idee in economia «potrebbero rivelarsi altrettanto minacciose, per Berlino e il regime politico dell’euro, di quelle del precedente candidato bloccato dal veto presidenziale, Paolo Savona», anche se Tria «non parla apertamente di “Piano B” per lasciare l’euro né definisce l’Unione Monetaria una “gabbia tedesca”».Mentre sostiene che «non ha senso» uscire dall’euro, Giovanni Tria dice anche che è insensato insistere con la moneta unica se i leader dell’Ue si rifiutano di renderla praticabile, scrive Evans-Pritchard in un articolo tradotto da “Come Don Chisciotte”. Il vero rischio per l’unione monetaria «è l’implosione, piuttosto che l’uscita». Per ora i mercati finanziari stanno reagendo in modo euforico all’accordo in extremis fra i partiti “ribelli” e il presidente Sergio Mattarella, finito nella bufera per il veto su Savona. L’accordo raggiunto (su pressione Usa, a quanto pare) evita la prospettiva di una protesta politica di massa «contro un “governo tecnico” che nessuno ha eletto, seguito da un voto in tempi rapidi che avrebbe probabilmente portato alla vittoria schiacciante dei due gruppi “ribelli” e alla distruzione totale del centro politico italiano». Lorenzo Codogno, ex capo economista del Tesoro, avverte che discesa dello spread potrebbe essere una falso indizio: Codogno «teme una lunga guerra di trincea tra il governo “ribelle” e il presidente Mattarella, sull’Europa e sulla disciplina fiscale». A sua volta, per Silvia Ardagna (Goldman Sachs) l’esuberanza del mercato è «fuori luogo». La Ardagna pensa che «i lunghi mesi di confronto sulle regole di spesa riapriranno la questione dell’Italexit e del futuro dell’euro».Le proposte della coalizione guidata da Conte, ricorda Evans-Pritchard, ammontano ad un allentamento di bilancio pari al 6% del Pil. E quindi «sono fondamentalmente incompatibili con l’attuale architettura monetaria, d’ispirazione tedesca». Il “contratto” di governo comprende infatti Flat Tax e reddito di cittadinanza, nonché un costoso rinnovo della riforma Fornero delle pensioni e l’inversione dell’aumento dell’Iva. Se ne occuperà in primis proprio Giovanni Tria, «da sempre un fustigatore del mercantilismo tedesco». Il nuovo ministro dell’economia, spiega Evans-Pritchard, sostiene che Berlino abbia effettivamente usato l’Unione Monetaria per garantirsi un vantaggio competitivo strutturale, che ha portato a un permanente e illegale avanzo di conto corrente [bilancio delle partite correnti] pari all’8,5% del Pil, a scapito dei partner dell’Eurozona. Il meccanismo di autocorrezione è bloccato, e gli Stati debitori del Sud Europa sono intrappolati in un circolo vizioso. Il presunto rimedio della svalutazione interna per recuperare redditività porta a una distorsione di tipo restrittivo [decrescita] per l’Eurozona nel suo complesso e ha una fatale contraddizione: soffoca il Pil nominale di quelle economie che sono già in difficoltà e distorce ulteriormente la traiettoria del debito. Alla lunga, è sicuramente autodistruttivo.Nel saggio “Ripensare il tabù della monetizzazione dei disavanzi per salvare l’euro”, il professor Tria scrive che il tentativo di ripristinare la sostenibilità del debito attraverso l’austerità è fallito: «L’unica via d’uscita è un forte stimolo fiscale per aumentare la domanda e colmare il divario di produttività, accompagnato da condizionati e temporanei finanziamenti monetari a livello europeo». Negli ambienti delle banche centrali, osserva Evans-Pritchard, questa politica è conosciuta come “helicopter money”, ed è un anatema per la Bundesbank e per la cultura ordoliberista tedesca. «Il saggio attinge pesantemente al lavoro del britannico Adair Turner, un campione a livello globale del finanziamento monetario e controllato dei deficit, per i paesi caduti in una trappola di liquidità». Che il professor Tria e l’alleanza Lega-M5S stiano attivamente spingendo per l’Italexit – o “Libertalia”, come alcuni preferiscono dire – è una discussione finanche oziosa, scrive l’analuista inglese. «Entrambi accettano che in Italia un referendum sull’euro sia incostituzionale. Ma, avendo ben studiato ogni aspetto del fiasco in Grecia, sono passati a tattiche più sottili. Stanno preparando delle soluzioni per minare l’Unione Monetaria dall’interno, se l’Ue rifiutasse di accettare il fatto compiuto dei loro piani di bilancio». Il che sarebbe «un ricatto», secondo Clemens Fuest, direttore dell’istituto tedesco Ifo.Il piano Lega-M5S per la creazione di una valuta parallela, i Minibot, è ancora nel “contratto” per il governo. «La proto-lira può essere attivata in qualsiasi momento come mezzo di autodifesa qualora la Bce aumentasse la posta, limitando la liquidità del sistema bancario italiano o ricorrendo al pretesto delle garanzie collaterali per fermare il roll-over [rinnovo] dei titoli obbligazionari italiani». Il momento in cui il governo Conte emetterà questa valuta parallela «sarà quello della fine dell’euro», avverte il professor Costas Lapavitsas dell’università di Londra. Gli ottimisti pro-Europa hanno interpretato il consenso sui ministri da parte di Mattarella come un passo indietro della Lega e dei 5 Stelle, «ma potrebbe anche essere visto come una dissimulata marcia indietro dello stesso presidente, un residuo non eletto della “vecchia casta”, che stava operando in una zona grigia della sua autorità costituzionale», scrive Evans-Pritchard. «Si era ben presto reso conto, dalle reazioni viscerali che aveva causato, che stava giocando con il fuoco. Prima mettendo il veto al professor Savona e poi cercando d’imporre un regime tecnocratico privo del sostegno del Parlamento, impegnato in politiche espressamente rifiutate a marzo dalla grande maggioranza degli elettori italiani. Come ha detto Savona in una e-mail che è trapelata, il presidente non capiva che la nazione era “in ribellione”. Ma ora senz’altro l’ha capito».Per l’analista inglese, resta comunque «una strana ingenuità, fra gli insider dell’Ue e gli investitori stranieri, sull’identità politica dei ribelli Lega-Grillini». Pensano che Giancarlo Giorgetti sia un lealista pro-euro? Lo scorso settembre, in televisione, spiegava perché l’Italia dovrebbe abbandonare la moneta unica, «per evitare di essere ridotta a un deindustrializzato guscio vuoto». Lo stesso Di Maio, a dicembre, aveva accusato l’austerità imposta dalla Merkel per la chiusura di 573 aziende al giorno nel Sud. «Se non ci liberiamo dell’euro il Mezzogiorno italiano, diventerà una terra desolata e spopolata». Secondo Evans-Pritchard, «è un’ipotesi molto coraggiosa scommettere che l’alleanza Lega-grillini possa cambiare, come ha fatto Syriza in Grecia, abbandonando le sue fondamentali promesse elettorali per mantenere l’Italia nell’euro. L’Ue dovrebbe poterli incontrare a metà strada, se vuole evitare il disastro, accettando la fine del Fiscal Compact. Ma se lo fa – aggiunge il notista del “Telegraph” – rischia di perdere il consenso politico tedesco per il progetto dell’euro». Un gruppo di 154 economisti tedeschi avverte che la scivolata dell’Eurozona verso una “unione del debito” sta minando i poteri di bilancio del Bundestag e costituisce una crescente minaccia per la democrazia tedesca. L’Istituto Ifo vuole un meccanismo legale per permettere ad un qualsiasi paese di lasciare l’euro: e il presupposto è che la stessa Germania possa averne bisogno. «Se l’Ue consente agli italiani di fare ciò che vogliono sulla spesa, i tedeschi non lo accetteranno», prevede Lapavitsas: «L’euro morirebbe comunque, ma in un modo diverso. Sarebbe solo una morte più lenta».Prepariamoci: al di là dei sorrisi e dello strano “ottimismo dei mercati”, la vera battaglia comincia solo adesso. Da una parte il governo “gialloverde”, costretto ad allentare l’austerity Ue per attuare il suo programma, e dall’altra il Quirinale, probabilissimo “custode” dello staus quo fondato sul rigore euro-tedesco. Lo sostiene sul “Telegraph” l’inglese Ambrose Evans-Pritchard, eminente analista politico-finanziario e attento osservatore della crisi italiana, vera propria cartina di tornasole dello stato di coma politico ed economico dell’Unione Europea. Il nuovo ministro dell’ecomomia, Giovanni Tria, «è un sostenitore della reflazione fiscale e dello stampare moneta per salvare gli Stati europei con un alto debito, fatto che lo porterà su una rotta di collisione con le élite politiche di Bruxelles e della Germania», afferma Pritchard. «Dopo settimane di politica che si potrebbe definire di rischio calcolato, il radicale M5S e i nazionalisti della Lega sono riusciti in gran parte a imporre la loro scelta euroscettica all’establishment politico italiano». Il professor Tria? «E’ un critico moderato ma tenace del Fiscal Compact, imposto dall’Eurozona e dall’apparato dell’Emu per accentuare l’austerità e deflazionare il debito». La sue idee in economia «potrebbero rivelarsi altrettanto minacciose, per Berlino e il regime politico dell’euro, di quelle del precedente candidato bloccato dal veto presidenziale, Paolo Savona», anche se Tria «non parla apertamente di “Piano B” per lasciare l’euro né definisce l’Unione Monetaria una “gabbia tedesca”».
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Il Guardian: ha ragione l’Italia, il rigore farà esplodere l’Ue
William Hague una volta ha descritto l’euro come un edificio in fiamme senza uscite, e l’esperienza dell’Italia negli ultimi 20 anni ha dimostrato che il leader del partito conservatore aveva assolutamente ragione. L’adesione alla moneta unica è stata decisa alla fine degli anni ’90 come fosse una cosa facile. Uno dei paesi primi firmatari del Trattato di Roma, l’Italia voleva disperatamente entrare nella prima ondata dell’Unione monetaria. Ma non è stato condotto un vero esame sul fatto se un paese come l’Italia – con le sue tendenze inflazionistiche – potesse effettivamente far fronte ai rigori dell’adesione alla moneta unica. Non c’è stato nessun equivalente dei cinque criteri economici di Gordon Brown, criteri che l’allora cancelliere dello scacchiere (figura equivalente al Ministro delle Finanze in altri ordinamenti, ndt) aveva indicato (in aggiunta ai criteri di convergenza di Maastricht, ndt) al fine di valutare la possibilità della Gran Bretagna di unirsi all’Eurozona. Al contrario, quando è diventato chiaro che l’Italia non avrebbe rispettato i criteri di Maastricht, le regole sono state piegate per assicurarsi che il paese entrasse nell’euro. Il risultato: due decenni economici perduti in cui il tenore di vita è rimasto stagnante, motivo per cui l’Italia si è ora allontanata dalla politica mainstream.Un governo di coalizione di due partiti populisti ed euro-scettici – il Movimento 5 Stelle e la Lega – sembra imminente. Sebbene nessuno dei due partiti della coalizione abbia mai apprezzato l’euro, ora entrambi si sono resi pienamente conto di quanta verità sia contenuta nelle parole di Hague. Il loro progetto di accordo politico comprendeva la proposta che l’Ue stabilisse una procedura per l’uscita dall’euro per quei paesi che dimostrassero una “volontà popolare” in tal senso, ma ora questa proposta è stata abbandonata. Non è difficile capire perché. Se i mercati finanziari si convincessero che il nuovo governo populista è seriamente intenzionato ad abbandonare la moneta unica, i titoli di Stato italiani diventerebbero più rischiosi. Gli investitori richiederebbero un rendimento più elevato per detenerli e ciò comporterebbe un aumento dei tassi di interesse di mercato. La Banca Centrale Europea potrebbe correre in aiuto con l’acquisto di titoli italiani, ma sarebbe poco incentivata a venire incontro a un governo a Roma che mostrasse l’intenzione di minare – se non distruggere – l’Unione monetaria.Il nuovo governo si troverebbe coinvolto in una crisi finanziaria. Il sistema bancario traballante dell’Italia crollerebbe e il paese sprofonderebbe in una grave recessione. La disoccupazione aumenterebbe e il Movimento 5 Stelle e la Lega verrebbero incolpati per questo. I populisti diventerebbero rapidamente impopolari. Quindi il nuovo governo italiano si trova nella stessa posizione di tutti gli altri governi che il paese ha avuto negli ultimi due decenni: l’appartenenza alla moneta unica è una maledizione, ma il tentativo di abbandonare l’euro sarebbe ancora peggio. Come la Grecia, l’Italia sta scoprendo che è un po’ tardi per dire che sarebbe stato meglio dotare la costruzione dell’euro di una qualche via di fuga. In realtà è più facile per la Gran Bretagna – con la propria banca centrale e la propria valuta – lasciare l’Ue piuttosto che per l’Italia lasciare l’euro. Ma anche se l’Italia prende le distanze dall’indipendenza monetaria, il nuovo governo ha comunque dei piani fiscali e di spesa che rappresentano una sfida per il modo in cui l’Eurozona è stata gestita fino ad ora. Questi includono un nuovo reddito di cittadinanza, pensioni più generose e tasse più basse. Le stime suggeriscono che queste misure costeranno intorno ai 60 miliardi di euro all’anno – circa il 3,5% del Pil dell’Italia.Ciò farebbe saltare le regole fiscali dell’Eurozona, che impongono limiti severi alla misura in cui può essere concesso un deficit di bilancio. Inoltre, farebbe salire il rapporto debito-Pil dell’Italia – il volume del debito pubblico del paese in relazione alle dimensioni della sua economia – che passerebbe da poco più del 130% del Pil a circa il 150% del Pil. La prospettiva di un deciso allentamento della politica economica spaventa i mercati finanziari e non andrà bene alle altre capitali europee. Ma, in realtà, le politiche fiscali della coalizione hanno senso. Il vero problema risiede nelle assurde regole fiscali deflazionistiche dell’Eurozona. Come ha rilevato Dhaval Joshi della Bca Research, l’Italia è per certi versi simile al Giappone. Entrambi i paesi hanno incontrato difficoltà perché le loro banche in crisi si sono rivelate incapaci di prestare al settore privato. Il Giappone ha risolto questo problema facendo in modo che il settore pubblico concedesse prestiti, anche se ciò significava un forte aumento del suo rapporto debito-Pil. L’Italia è in una posizione peggiore, perché le regole fiscali della zona euro non permettono di gestire maggiori deficit di bilancio. L’Italia ha un indebitamento complessivo – privato e pubblico messi insieme – inferiore a Gran Bretagna, Francia e Spagna, ma per i vincoli fiscali dell’Ue solo il debito pubblico è rilevante. Osserva Joshi: «Di conseguenza, al governo italiano è stato impedito di ricapitalizzare il proprio sistema bancario e l’economia italiana ha ristagnato per un decennio».I responsabili della moneta unica sanno che, così com’è, l’euro è un progetto incompiuto. Potrebbe essere completato dal pacchetto di riforme proposto dal presidente francese Emmanuel Macron, che comporterebbe oltre all’unione monetaria anche l’unione fiscale, presieduta da un ministro delle finanze della zona euro. Non c’è la minima possibilità che Macron possa ottenere l’adesione al suo piano del nuovo governo di Roma, anche se potrebbe assicurarsi il sostegno a tutto campo della Germania. Un’alternativa allo schema di Macron è consentire ai membri della zona euro più libertà per gestire politiche fiscali che soddisfino le loro esigenze, che è ciò che sta chiedendo la coalizione populista italiana. Allo stato attuale, le regole significano che qualsiasi paese in difficoltà può rendersi più competitivo solo attraverso la deflazione interna – tagli di spesa e austerità. L’altra alternativa è lasciar andare alla deriva la situazione così com’è e sperare per il meglio. L’euro è sopravvissuto – a mala pena – a una crisi, ma non ne passerebbe un’altra. Il rischio non è che un paese salti fuori dall’edificio in fiamme, ma che l’edificio finisca per collassare con tutti dentro.(Larry Elliott, “Le politiche dell’Italia hanno senso, sono le regole dell’Eurozona ad essere assurde”, dal “Guardian” del 20 maggio 2018, articolo tradotto da “Voci dall’Estero”).William Hague una volta ha descritto l’euro come un edificio in fiamme senza uscite, e l’esperienza dell’Italia negli ultimi 20 anni ha dimostrato che il leader del partito conservatore aveva assolutamente ragione. L’adesione alla moneta unica è stata decisa alla fine degli anni ’90 come fosse una cosa facile. Uno dei paesi primi firmatari del Trattato di Roma, l’Italia voleva disperatamente entrare nella prima ondata dell’Unione monetaria. Ma non è stato condotto un vero esame sul fatto se un paese come l’Italia – con le sue tendenze inflazionistiche – potesse effettivamente far fronte ai rigori dell’adesione alla moneta unica. Non c’è stato nessun equivalente dei cinque criteri economici di Gordon Brown, criteri che l’allora cancelliere dello scacchiere (figura equivalente al Ministro delle Finanze in altri ordinamenti, ndt) aveva indicato (in aggiunta ai criteri di convergenza di Maastricht, ndt) al fine di valutare la possibilità della Gran Bretagna di unirsi all’Eurozona. Al contrario, quando è diventato chiaro che l’Italia non avrebbe rispettato i criteri di Maastricht, le regole sono state piegate per assicurarsi che il paese entrasse nell’euro. Il risultato: due decenni economici perduti in cui il tenore di vita è rimasto stagnante, motivo per cui l’Italia si è ora allontanata dalla politica mainstream.
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Magaldi: imbecilli a reti unificate minacciano Lega e 5 Stelle
Imbecilli: lasciano credere che il debito dello Stato sia come quello della tabaccheria sotto casa, esposta con la banca. Imbecilli pericolosi: perché scrivono sui giornali e parlano ogni sera in televisione. Somari in buona fede, disastrosamente ignoranti, o vecchi marpioni in malafede? «Non so cosa sia peggio», dice Gioele Magaldi: una persona intelligente puoi sempre persuaderla, mentre di fronte a un cretino non ci sono speranze. Gli imbecilli di turno? Quelli che cercano di spaventare gli italiani, bocciando le “mirabolanti promesse” dell’ipotetico governo gialloverde di Salvini e Di Maio. Lega e 5 Stelle, in realtà, stanno terrorizzando solo l’establishment: i professori della catastrofe, i notai dell’infame declino del paese. Le loro ricette hanno devastato l’Italia, eppure insistono: bisogna tagliare redditi e consumi, senza capire che – per quella strada, se il Pil non cresce – poi a esplodere è proprio il debito, inevitabilmente. «Arriva a comprenderlo anche un mediocre studente di economia, ma non gli imbecilli che ci parlano ogni giorno sui giornali e in televisione», dice Magaldi, in una diretta web-streaming su YouTube con Marco Moiso, in cui rilancia un nome fortissimo per Palazzo Chigi: quello dell’economista post-keynesiano Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt.
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Attali, rassegnati: è la tua Ue a far vincere Di Maio e Salvini
No, caro Attali, Matteo Salvini non è Marine Le Pen e Luigi Di Maio non è Jean-Luc Mélenchon. E soprattutto l’Italia non è la Francia. Riepiloghiamo a beneficio del lettore: Jacques Attali è uno degli uomini più potenti di Francia (è colui, tanto per intenderci, che si vanta pubblicamente di aver creato dal nulla Macron) ed è uno dei massimi rappresentanti dell’establishment globalista. Ieri era al Salone di Torino, intervistato, ça va sans dire, dal direttore di “Repubblica” Mario Calabresi e, ça va sans dire, ha criticato il (spero) nascente governo Lega-5 Stelle, ricorrendo a due classici dello spin, la demonizzazione personale e l’appello a imprecisati valori condivisi onde evitare lo spettro di una nuova guerra sul Vecchio Continente. Secondo l’illustre ospite francese la possibile alleanza Salvini-Di Maio, «in Francia e in Europa fa lo stesso effetto di un governo Le Pen-Melanchon a Parigi. Per questo l’Italia deve rapidamente rassicurare l’Europa sui programmi di governo. Per evitare di diventare il luogo in cui si scaricano le preoccupazioni del continente», ha affermato, aggiungendo che «siamo tornati al clima che si respirava in Europa nel 1913. Quando le innovazioni tecnologiche sembravano aprire un orizzonte positivo per l’umanità. Vinsero invece i particolarismi e un anno dopo scoppiò la guerra mondiale».Ma queste tecniche non funzionano più. Vede, caro Attali, oggi in Italia nessuno, a parte forse i lettori di “Repubblica”, vede Salvini come la Le Pen, bensì come un leader maturo, dalle idee chiare ma non estremiste, che non indossa più la felpa ma l’abito intero e che per questo è diventato rapidamente il leader di tutto il centrodestra; forte ma rassicurante. E Di Maio non ha proprio nulla in comune con Melenchon, non è un estremista di sinistra, ma il capo di un movimento che è diverso rispetto alle origini (secondo alcuni addirittura fin troppo) e che ha saputo occupare lo spazio lasciato gentilmente vuoto dal Partito democratico. E in Italia nessuno pensa che la difesa degli interessi nazionali rappresenti il prodromo di un nascente nazionalismo imperialista. Siamo seri: oggi né l’Italia né la Francia hanno ambizioni egemoniche e militari, che appartengono a un’altra epoca; nutrono, invece, l’ambizione, anzi la necessità, di costruire un futuro davvero migliore, di ritrovare stabilità economica, di ridare speranza alle nuove generazioni, di smettere di essere soffocati da un’imposizione fiscale stratosferica che negli ultimi 15 anni non solo non è servita a ridurre il debito pubblico, ma ha reso sempre più povero il paese fino a provocare la deflazione salariale.Siccome l’Unione Europea non ha saputo, né voluto, dare ascolto al crescente malessere delle masse, queste oggi cercano legittimamente nuove risposte. Io non so come andranno a finire le trattative, però anche in queste ore Lega e 5 Stelle stanno dando dimostrazione che è possibile una nuova politica. Quando mai si sono visti due partiti che, nella massima trasparenza, trascorrono ore seduti a un tavolo negoziale, non per spartirsi prioritariamente le poltrone, ma innazitutto per trovare concretamente e pragmaticamente soluzioni attuabili, di ragionevole compromesso? Che differenza rispetto a riti criptici come i Patti del Nazareno o alle regole opacissime della gestione del potere a Bruxelles, tanto care ad Attali, che proprio non capisce. Gli italiani guardano alla Lega e al Movimento 5 Stelle proprio perché questa Europa e i leader italiani che l’hanno rappresentata, finora sono stati ciechi, sordi, esasperatamente autorefenziali, come capita da sempre quando le élite al potere smarriscono il senso della realtà. Salvini e Di Maio piacciono non perché sono due pericolosi estremisti ma perché sanno offrire una parola sconosciuta all’establishment: la speranza, la voglia di sevire davvero il proprio paese, di offrire soluzioni davvero alternative rispetto a quelle retoriche e inefficienti reiterate in questi anni.No, caro Attali, Matteo Salvini non è Marine Le Pen e Luigi Di Maio non è Jean-Luc Mélenchon. E soprattutto l’Italia non è la Francia. Riepiloghiamo a beneficio del lettore: Jacques Attali è uno degli uomini più potenti di Francia (è colui, tanto per intenderci, che si vanta pubblicamente di aver creato dal nulla Macron) ed è uno dei massimi rappresentanti dell’establishment globalista. Ieri era al Salone di Torino, intervistato, ça va sans dire, dal direttore di “Repubblica” Mario Calabresi e, ça va sans dire, ha criticato il (spero) nascente governo Lega-5 Stelle, ricorrendo a due classici dello spin, la demonizzazione personale e l’appello a imprecisati valori condivisi onde evitare lo spettro di una nuova guerra sul Vecchio Continente. Secondo l’illustre ospite francese la possibile alleanza Salvini-Di Maio, «in Francia e in Europa fa lo stesso effetto di un governo Le Pen-Melanchon a Parigi. Per questo l’Italia deve rapidamente rassicurare l’Europa sui programmi di governo. Per evitare di diventare il luogo in cui si scaricano le preoccupazioni del continente», ha affermato, aggiungendo che «siamo tornati al clima che si respirava in Europa nel 1913. Quando le innovazioni tecnologiche sembravano aprire un orizzonte positivo per l’umanità. Vinsero invece i particolarismi e un anno dopo scoppiò la guerra mondiale».