Archivio del Tag ‘debito pubblico’
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Isis: demolire la Siria e poi far esplodere il Caucaso russo
Terza Guerra Mondiale, istruzioni per l’uso. Ne parla George Friedman sul newsmagazine “Strafor”: tra Ucraina e Iraq, si dipana la “Strategia nel Mar Nero”. «Mentre altri analisti scrivevano dei “valori europei” che dovrebbero prender piede in Ucraina, quali ad esempio la “democrazia” e la “società aperta”, Friedman si è invece dedicato al posizionamento strategico, alla pianificazione militare e alla politica del petrolio e del gas della Russia», prende nota Arkady Dziuba. Friedman «ammette apertamente» che gli Usa abbiano pilotato la crisi ucraina per «infliggere un colpo strategico alla sicurezza nazionale russa». Nel complesso, è una «geo-strategia volta a precipitare il mondo nel caos». Notizia: «Nelle élites degli Stati Uniti sta cambiando la percezione degli eventi, che cominciano ad essere interpretati come parte di una “guerra mondiale” in corso». Conferma Giulietto Chiesa: «I fronti si vanno moltiplicando giorno dopo giorno». La campagna contro l’Isis? «E’ di fatto un nuovo tentativo di abbattere Assad, scompaginando definitivamente la Siria». E stavolta «la Russia non può intervenire direttamente perché è sotto attacco».Erdogan, scrive Chiesa su “Facebook”, continua nella sua linea “ottomana”, «puntando a far fuori i curdi in primo luogo, ma sapendo benissimo che aiuta Israele e l’Arabia Saudita, entrambi con l’obiettivo di riprendere l’offensiva contro l’Iran». Attenzione: «La Cina si muove per ora lentamente, ma si muove». Esempio clamoroso, «le recenti esercitazioni congiunte nel Golfo Persico, tra Cina e Iran». Intanto, «la crisi ucraina è completamente aperta e il peggio deve ancora venire». Dettaglio: «Quasi nessuno connette tutti questi fili. Hong Kong è l’inizio dell’offensiva americana contro Pechino. Siamo già su un piano inclinato che va verso un conflitto di enormi dimensioni». Il termine “guerra mondiale” è impressionante, ammette Arkady Dziuba in un post su “Strategic Culture”, tradotto da “Come Don Chisciotte”, «ma non c’è niente di veramente nuovo nel pensare in questi termini: la precedente crisi economica mondiale, paragonabile per dimensioni a quella presente, è stata superata grazie ad una “guerra mondiale”».A ben vedere, «una “guerra mondiale” permette di ridisegnare la mappa del mondo, di accedere a nuovi mercati, di cancellare i vecchi debiti e di stabilire, infine, nuove regole del gioco negli affari internazionali. Ed è questo il fattore più importante per gli Stati Uniti». Aggiunge Dziuba: «Giocare secondo quelle regole che la stessa America aveva stabilito in passato non serve a mantenere la leadership mondiale, ma soltanto a cederla ad una Cina arrembante». Secondo George Friedman, il problema più critico per gli Usa è quello di creare un unico piano integrato, che tenga conto delle sfide più urgenti. «Potrebbe non essere possibile, operativamente, coinvolgere in contemporanea tutti gli avversari ma, concettualmente, è essenziale pensare nei termini di un coerente centro di gravità per tutte le operazioni». Per Friedman, è sempre più chiaro che questo centro di gravità è costituito dal Mar Nero. In senso militare sono attualmente attivi due teatri, entrambi dotati di un’ampia importanza potenziale. Uno è costituito dall’Ucraina, l’altro dalla regione posta fra Siria e Iraq, dove le forze dell’Isis hanno lanciato un’offensiva, progettata come minimo per controllare quei due paesi, e come massimo per dominare tutta l’area mediorientale, fino all’Iran. Due teatri connessi fra loro, attraverso il Caucaso russo.Mentre la Russia ha continui problemi nell’Alto Caucaso, allo stesso tempo alcuni report parlano di «consulenti ceceni che lavorano con lo “Stato Islamico”». Secondo Friedman, gli gli americani non useranno il loro potere militare su vasta scala: prevedono di raggiungere gli obiettivi a spese degli alleati regionali (Turchia e Romania costituiscono, in questo senso, due paesi-chiave). Per Thomas Donnelly, analista militare, la fase aerea non è assolutamente sufficiente e gli Stati Uniti saranno coinvolti in Iraq per più di dieci anni. Secondo Friedman, tuttavia, la combinazione di aviazione e forze speciali non comporterà l’eliminazione dello “Stato Islamico”. «Considerando che gli Stati Uniti non metteranno “gli stivali sul terreno” (dichiarazioni del presidente Obama), questo significa che qualcun altro dovrà inviare delle forze di terra al posto loro». L’alleato naturale sarebbe l’Iran, ma il fatto sarebbe inaccettabile per Washington. Così, se l’America resterà a guardare – limitandosi a bombardamenti isolati – l’Isis potrà «passare gradualmente nel Caucaso Settentrionale, facendo emergere le forze sotterranee presenti in quell’area e aprendo un nuovo fronte», ovviamente contro Mosca. Lo “Stato Islamico”, conclude Dziuba, ha già dichiarato che la Russia è il suo principale nemico. Uno dei leader dell’Isis, Omar al Shishani, è in effetti di etnia cecena. E Dmitry Yarosh, leader del partito neonazista ucraino “Pravy Sektor” (settore destro), tempo fa aveva invitato Doku Umarov, leader di “Imarat Kavkaz” (Emirato del Caucaso) a unirsi nella lotta contro la Russia, benché Umarov fosse morto due mesi prima. E’ la “Strategia del Mar Nero”: l’Iraq non è mai stato tanto vicino a Mosca, e per combattere contro la Russia a quanto pare c’è chi recluta anche i fantasmi.Terza Guerra Mondiale, istruzioni per l’uso. Ne parla George Friedman sul newsmagazine “Strafor”: tra Ucraina e Iraq, si dipana la “Strategia nel Mar Nero”. «Mentre altri analisti scrivevano dei “valori europei” che dovrebbero prender piede in Ucraina, quali ad esempio la “democrazia” e la “società aperta”, Friedman si è invece dedicato al posizionamento strategico, alla pianificazione militare e alla politica del petrolio e del gas della Russia», prende nota Arkady Dziuba. Friedman «ammette apertamente» che gli Usa abbiano pilotato la crisi ucraina per «infliggere un colpo strategico alla sicurezza nazionale russa». Nel complesso, è una «geo-strategia volta a precipitare il mondo nel caos». Notizia: «Nelle élites degli Stati Uniti sta cambiando la percezione degli eventi, che cominciano ad essere interpretati come parte di una “guerra mondiale” in corso». Conferma Giulietto Chiesa: «I fronti si vanno moltiplicando giorno dopo giorno». La campagna contro l’Isis? «E’ di fatto un nuovo tentativo di abbattere Assad, scompaginando definitivamente la Siria». E stavolta «la Russia non può intervenire direttamente perché è sotto attacco».
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Hollande molla la Merkel solo per vendere la Francia al Ttip
Hollande in rotta di collisione con l’austerity della Merkel? Per certi versi, avverte Piero Pagliani, è la riesumazione di alcune delle idee con le quali il socialista francese approdò all’Eliseo nel 2012. «All’epoca erano più o meno confezionate così: nei vincoli europei non deve essere conteggiata quella parte di deficit che serve a rilanciare lo sviluppo». Un programma «tenuto in sonno per due anni, nonostante la situazione economica in Francia peggiorasse in termini esponenziali». Ora, evidentemente, qualcosa è cambiato: «Gli Usa stanno stringendo i tempi della deglobalizzazione conflittuale. Il golpe nazista a Kiev ha contribuito a isolare la Ue, e in primis la Germania, dalla Russia». La Francia? «Interpreta con fedeltà la politica statunitense: i tempi di De Gaulle ormai appartengono ad altre epoche geologiche». Sicché, François Hollande «si è lanciato con entusiasmo nella tragica messa in scena della guerra all’Isis». E tutte le cancellerie europee sanno che «sta iniziando una nuova fase della crisi mondiale, che sarà condotta con feroci attacchi militari alla Siria (quindi alla Russia) con la scusa dell’Isis».Lo ha appena ammesso anche il principe Saud bin Faysal, ministro degli esteri saudita. Si attendono anche «atti di destabilizzazione in territorio russo», mentre quelli in Cina «sono già iniziati a tenaglia». Era difficile prevederlo? Proprio per nulla, scrive Pagliani su “Megachip”, ricordando il suo romanzo “Il punto fisso” (Mimesis), che prevedeva «l’inizio della deglobalizzazione». Dunque Hollande si agita e la Merkel sta a guardare perplessa e preoccupata? «La Germania è entrata in difficoltà e fa fatica a mantenere la barra europea di una politica di austerity. Dapprima le risultava vantaggiosa, ma ha infine iniziato a segare l’albero su cui era seduta, come era facilmente prevedibile». Lezione: «La sua strategia di resistere ai piani imperial-finanziari anglosassoni per via economico-finanziaria era destinata a fallire dopo aver procurato disastri politici, economici, sociali e umani impressionanti». Infine, «ci sono le difficoltà, più che ovvie, di tutti i governanti europei, che straparlano di nuovo sviluppo e di “riforme” (leggi “massacri sociali”)». In realtà «cercano, letteralmente, di barcamenarsi per non finire troppo presto nella pattumiera della storia, loro inevitabile destinazione».Di fronte alle nuove insofferenze di Hollande, secondo Pagliani, le «basi missilistiche finanziarie di New York» reagiranno «solo quanto basta per estorcere le “riforme”», dopodiché «Renzi seguirà Hollande e infine Draghi porterà gli affondi finali contro la Germania». Vero obiettivo? Confluire, docili, sotto l’ala del Ttip, il Trattato Transatlantico negoziato in segreto dalle multinazionali Usa per riscrivere le regole del business con l’Europa secondo gli interessi atlantici. «Lo “Sblocca Italia” anticipa le richieste del Ttip». Esito inevitabile, «a meno che intervengano i Brics con mosse finanziarie oggi difficili da prevedere». Da Monti in poi, passando per Draghi, Hollande e Obama, secondo Pagliani è stata condotta una “fronda” anti-tedesca «paradossalmente sotto la bandiera dell’austerity stessa». Infatti, quel conflitto «non escludeva l’utilizzo della crisi per “normalizzare” la società (una strategia che a Monti è sempre stata a cuore), cioè appiattirla in vista del disperato e disperante tentativo di estrarre tutto il plusvalore possibile e saccheggiare i beni comuni».Ora la sinistra esulta per la “ribellione” all’austerità e indica il “socialista” Hollande come esempio positivo, colui che ha avuto il coraggio di dire di no? Sarà solo «una vera e propria “rivoluzione colorata” anti-austerity e anti-tedesca, quel tipo di rivoluzione che più eccita le sinistre, incuranti dei “forti” che stanno dietro di esse». E il resto del mondo – cioè i sei miliardi su sette? «I paesi Brics, al contrario della Germania, hanno invece capito che possono parlare di Nuova Banca di Sviluppo e magari di Bancor (la soluzione per la moneta internazionale proposta da Keynes a Bretton Woods e rifiutata per questioni di potenza dagli Usa) solo se si è muniti adeguatamente di forze armate e di bombe atomiche. Questa è l’orrenda verità». D’altra, continua Pagliani, parte il “gold dollar standard” era nato da una guerra mondiale ed è stato confermato da due città incenerite dalle bombe atomiche, «che del gold-dollar standard sono state l’ostia della prima comunione: poi c’è chi crede che l’economia sia l’unica cosa che conti nel capitalismo!». Sempre secondo Pagliani, «l’imbelle rivoluzione colorata contro l’austerity imposta dalla Germania ha come scopo non unico, ma principale, quello di passare da un parziale a un totale infeudamento della Ue nelle politiche neoimperiali e di deglobalizzazione statunitensi».Le politiche di austerità sono un disastro? Certo, «ma è anche un disastro pensare che politiche “keynesiane” sic et simpliciter riportino all’age d’or del Dopoguerra». Non sarà così: «La Bce che compra titoli di Stato non è la Banca d’Italia degli anni Cinquanta che compra il debito italiano. E neppure se lo facesse oggi una rinata Banca d’Italia. Nemmeno lontanamente. Non sarebbe più una politica monetaria dopo un conflitto mondiale, all’ombra di una stabilità imperiale, in una fase di enorme espansione in presenza di un fortissimo movimento operaio. Sarebbe – ammesso che si possa realizzare – una politica obbligata da uno stato incipiente di guerra e nel pieno di una crisi e di un caos sistemici. Una politica dovuta al fatto che i mercati stanno dividendosi in aree geopolitico-economiche contrapposte». I profitti di una volta? «Semplicemente non ci sono più», perché ormai la coperta si è accorciata. La Germania? «E’ contraria alle linee di Draghi. Ma fino a quando si potrà opporre se sarà costretta ad adeguarsi agli embarghi e le sanzioni contro l’Est che le imporrà la Superpotenza che la occupa con 179 basi militari? Senza mercati di sbocco, che fine farà il suo famoso e famigerato mercantilismo?».Il timore di Pagliani è che la politica keynesiana, «che in molti, con speranza, vedono profilarsi all’orizzonte», di fatto «non sarà capace di riportare indietro le lancette della storia». Ovvero: «Non sarà in grado né di fermare l’impoverimento della società né di indurre un ribilanciamento della ricchezza». Dalla tragedia dell’euro, per esempio, ci si può affrancare «solo in una cornice politica nazionale e internazionale totalmente nuova». Previsioni: crisi nera, ancora e sempre, magari intrerrotta da «ripresine a singhiozzo», incapaci di invertire la rotta. «Se nuovo sviluppo capitalistico ci sarà in Occidente, ci sarà solo dopo una fase conclamata di guerra mondiale che inevitabilmente ne preparerà una quarta, a meno che non riduca fin da subito la Terra all’età della pietra», conclude Pagliani. «Oppure bisognerà cambiare registro, a livello internazionale: sul modo sociale ed ecologico di produrre e di consumare e quindi – e soprattutto – sui rapporti di potere, internazionali e nazionali».Hollande in rotta di collisione con l’austerity della Merkel? Per certi versi, avverte Piero Pagliani, è la riesumazione di alcune delle idee con le quali il socialista francese approdò all’Eliseo nel 2012. «All’epoca erano più o meno confezionate così: nei vincoli europei non deve essere conteggiata quella parte di deficit che serve a rilanciare lo sviluppo». Un programma «tenuto in sonno per due anni, nonostante la situazione economica in Francia peggiorasse in termini esponenziali». Ora, evidentemente, qualcosa è cambiato: «Gli Usa stanno stringendo i tempi della deglobalizzazione conflittuale. Il golpe nazista a Kiev ha contribuito a isolare la Ue, e in primis la Germania, dalla Russia». La Francia? «Interpreta con fedeltà la politica statunitense: i tempi di De Gaulle ormai appartengono ad altre epoche geologiche». Sicché, François Hollande «si è lanciato con entusiasmo nella tragica messa in scena della guerra all’Isis». E tutte le cancellerie europee sanno che «sta iniziando una nuova fase della crisi mondiale, che sarà condotta con feroci attacchi militari alla Siria (quindi alla Russia) con la scusa dell’Isis».
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Il Fmi vuole il nostro sangue, e Renzi glielo darà
Salari più bassi, meno assistenza, tagli alle pensioni. Il programma dei governi nazionali? Lo scrive la Troika, ed è stupefacente che qualcuno ancora ne dubiti, specie “a sinistra”. Così, ad ogni periodico report, sono i pilastri della stessa Troika a ricordarcelo: di recente è toccato al Fmi, che ha rivisto anche al ribasso le previsioni di crescita per l’Italia, ovvero di recessione: -0,1%, secondo l’istituto internazionale guidato da Christine Lagarde. Le previsioni per gli anni successivi (+1,1 nel 2015, + 1,3 nel 2016) «appartengono al “wishful thinking” più che alle stime scientifiche», secondo Claudio Conti, «perché è ormai chiaro che le variabili macro-globali sono fuori dal controllo di qualsiasi ente». Semplicemente, «nessuno sa come andrà: si incrociano le dita e si sparano “ricette” a seconda degli interessi che si rappresentano». Dato che il Fmi è una sorta di braccio armato del capitalismo finanziario multinazionale, con preponderanza anglo-statunitense, «se l’obiettivo è trasferire quote di ricchezza dalle popolazioni alla finanza multinazionale, ecco che i “consigli” del Fondo assumono toni granguignoleschi».La chiave di volta resta il debito pubblico, scrive Conti su “Contropiano”: la finanza globale ama soltanto quello privato, ovvero fondamentalmente il proprio debito, e si scaglia contro quello “pubblico”, pretendendo trasferimenti diretti verso le proprie casse. Il debito italiano, come ormai ammette anche il ministro Padoan, è destinato a salire anche a dispetto (o meglio, a causa) dei tagli di spesa: toccherà il 136,4% del Pil entro fine 2014, per poi scendere progressivamente, ma restando comunque sopra il 130% fino al 2017. «Trattandosi di una proporzione e non di una cifra assoluta – osserva Conti – se a un governo vengono “consigliate” manovre recessive, il risultato sarà una contrazione del Pil». Dunque, la relazione debito-Pil «resterà negativa anche tagliando alla grande il debito». Di conseguenza, sentenzia il Fmi, il tasso di disoccupazione in Italia è destinato a salire ancora: 12,6%, il più alto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.E qui arrivano i primi “complimenti” al governo Renzi, la cui “riforma del mercato del lavoro”, con tanto di precarizzazione universale e contrazione dei salari, «è vista come condizione ottimale per aumentare la quantità di persone da mettere al lavoro a salari da fame». Dunque la riforma Renzi «va nella giusta direzione», ma il premier deve «muoversi rapidamente sulle riforme». Bene anche l’idea di un «singolo contratto di lavoro», con «il 70% dei nuovi contratti a tempo determinato», nonché «ulteriore flessibilità». Tradotto: la precarietà è utile per le produzioni o le imprese “marginali” (piccole o piccolissime), ma l’attacco va condotto direttamente contro il nucleo centrale dell’occupazione «stabile e a tempo indeterminato», in modo da comprimere violentemente e una volta per tutte il costo del lavoro anche nei comparti-chiave dell’economia italiana.Benedizioni quindi anche per uno «strumento importante» come la “spendig review”, non a caso affidata a Carlo Cottarelli, un economista dello stesso Fmi, che ad ottobre rientrerà nei ranghi dell’organismo sovranazionale. Ma al Fondo sanno fare i conti, aggiunge “Contropiano”: per quanto si possa tagliare la spesa pubblica toccando le varie «sacche di inefficienza» o spreco, non si arriverà mai a sforbiciare abbastanza da riportare il debito pubblico entro quel 60% indicato dagli accordi di Maastricht. Come si può fare, allora? «Ulteriori risparmi saranno difficili senza affrontare l’elevata spesa per le pensioni» e anche la spesa sanitaria. «Bingo! Il Fmi dice fuori dai denti che è ora di far fuori un po’ di anziani, riducendo le loro “aspettative di vita” grazie a pensioni ancora più basse e minori prestazioni sanitarie», scrive Conti. «Non serve, insomma, “tagliare gli sprechi”, il Fondo consiglia (prescrive? ordina?) di tagliare la carne viva della gente fino all’osso e anche oltre». Viceversa, ammonisce il Fmi, l’Italia rimarrà «vulnerabile a una perdita di fiducia del mercato» e al «contagio finanziario», diventando «fonte di contagio per il resto del mondo».«Per tutte queste ragioni – continua “Contropiano”– il Fmi promuove “l’ambiziosa agenda di riforme” del governo Renzi, suscitando la poco divertente impressione del burattinaio che dice “bravo!” alla marionetta». Il Fondo Monetario non ha dubbi: «Attuare le riforme strutturali simultaneamente genererebbe significative sinergie di crescita». Quanto sia “invasiva” la logica del Fondo, osserva Conti, è dimostrato da una delle tante raccomandazioni non direttamente economche: il progetto di legge elettorale delineato dall’“Italicum” è considerato un’ottima idea, perché «aiuta il sostegno e l’attuazione delle riforme». Chiosa Claudio Conti: «Non servirebbe la traduzione, ma ve la diamo egualmente: un programma di “riforme” così sanguinose e infami non avrebbe alcuna possibilità di esser approvato anche elettoralmente; bene dunque l’idea di escludere che il parere dei cittadini possa rallentare – o, orrore!, “impedire” – l’attuazione del programma. La democrazia non serve più al capitale, ergo si può e si deve metterla da parte».Salari più bassi, meno assistenza sanitaria, tagli alle pensioni. Il programma dei governi nazionali? Lo scrive la Troika, ed è stupefacente che qualcuno ancora ne dubiti, specie “a sinistra”. Così, ad ogni periodico report, sono i pilastri della stessa Troika a ricordarcelo: di recente è toccato al Fmi, che ha rivisto anche al ribasso le previsioni di crescita per l’Italia, ovvero di recessione: -0,1%, secondo l’istituto internazionale guidato da Christine Lagarde. Le previsioni per gli anni successivi (+1,1 nel 2015, + 1,3 nel 2016) «appartengono al “wishful thinking” più che alle stime scientifiche», secondo Claudio Conti, «perché è ormai chiaro che le variabili macro-globali sono fuori dal controllo di qualsiasi ente». Semplicemente, «nessuno sa come andrà: si incrociano le dita e si sparano “ricette” a seconda degli interessi che si rappresentano». Dato che il Fmi è una sorta di braccio armato del capitalismo finanziario multinazionale, con preponderanza anglo-statunitense, «se l’obiettivo è trasferire quote di ricchezza dalle popolazioni alla finanza multinazionale, ecco che i “consigli” del Fondo assumono toni granguignoleschi».
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Caro Renzi, niente ripresa con moneta presa a credito
«Alla luce dei fallimenti sistematici degli ultimi governi rispetto alle loro promesse», secondo Marco Della Luna ogni premier dovrebbe pubblicamente svolgere un “compito in classe” di economia politica. E’ in grado di spiegare, Renzi, con quali misure sia possibile mantenere l’equilibrio finanziario di uno Stato nelle condizioni di quello italiano? Bollettino di guerra: il rifinanziamento del debito pubblico si avvale solo dei titoli di Stato e quindi dei mercati speculativi, il debito pubblico supera il 130% del Pil ed è in costante crescita, la spesa pubblica è oltre il 50% del prodotto interno lordo e anche la pressione fiscale è sopra il il 50. Senza contare la disoccupazione che galoppa superando il 12%, la situazione di declino economico pluriennale in accelerazione, il costo dell’energia e della pubblica amministrazione superiore ai paesi concorrenti, la fuga di imprese e capitali. Pesa come un macigno l’impossibilità di aggiustamento del cambio valutario, bloccato a livelli elevati grazie all’euro. Ha qualche idea, il signor Renzi?Domanda: come mai lo Stato stringe la cinghia ormai da diversi anni, anche se da un paio d’anni beneficia di bassi rendimenti sul suo debito pubblico e per giunta realizza costanti aumenti del gettito tributario? Come mai, nonostante questo, il debito pubblico continua a crescere? Quali sono le voci di spesa che lo gonfiano? Della Luna cita l’impegno per l’assistenza dei migranti, le spese per le indennità di disoccupazione, «generosamente concesse per mettere una toppa (che può reggere solo nel breve termine) alla scelta di lasciar costantemente aumentare la disoccupazione per effetto della deindustrializzazione e della desertificazione economica, frutto della indiscriminata apertura delle frontiere commerciali nonché del blocco dell’aggiustamento dei cambi». Che ne dice, Renzi? Spieghi, almeno, «come in questa situazione si possa “rilanciare” abolendo l’elettività del Senato e dei consigli provinciali, nonché di quel poco che resta dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (già sostanzialmente svuotato da Monti), o con la ventitreesima riforma del processo civile in 23 anni, o togliendo ai magistrati qualche settimana di vacanze».Al punto in cui siamo arrivati, aggiunge Della Luna, l’unico modo per fermare il disastro in tempi brevi – cioè far ritornare la fiducia azzerata e le imprese fuggite, e far davvero ripartire l’economia nazionale, «affrancandosi dai soldi che dovrebbero arrivare dall’estero» – sarebbe che lo Stato, «con l’Eurozona se ci sta, senza se non ci sta», si mettesse a stampare moneta senza indebitarsi. Emissione di moneta sovrana, dunque, «per far lavorare la gente e le imprese, per fare gli investimenti utili a innescare gli investimenti privati e la domanda interna, nonché per dimezzare la pressione fiscale e contributiva subito». Libera moneta, senza più debiti col mercato finanziario. Viceversa, nessuna soluzione funzionerà: «Chiunque dica di voler rimettere in corsa il paese senza fare ciò, non merita alcuna fiducia, ma calci nel sedere, perché o è un bugiardo o è uno stolto».«Alla luce dei fallimenti sistematici degli ultimi governi rispetto alle loro promesse», secondo Marco Della Luna ogni premier dovrebbe pubblicamente svolgere un “compito in classe” di economia politica. E’ in grado di spiegare, Renzi, con quali misure sia possibile mantenere l’equilibrio finanziario di uno Stato nelle condizioni di quello italiano? Bollettino di guerra: il rifinanziamento del debito pubblico si avvale solo dei titoli di Stato e quindi dei mercati speculativi, il debito pubblico supera il 130% del Pil ed è in costante crescita, la spesa pubblica è oltre il 50% del prodotto interno lordo e anche la pressione fiscale è sopra il il 50. Senza contare la disoccupazione che galoppa superando il 12%, la situazione di declino economico pluriennale in accelerazione, il costo dell’energia e della pubblica amministrazione superiore ai paesi concorrenti, la fuga di imprese e capitali. Pesa come un macigno l’impossibilità di aggiustamento del cambio valutario, bloccato a livelli elevati grazie all’euro. Ha qualche idea, il signor Renzi?
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Di finanza si muore: ed ecco la bolla finale della Bce
Le bolle finanziarie obbediscono a una legge ferrea: più crescono e più si avvicina la loro fine. Così, annunciando misure per sostenere la bolla, Mario Draghi ne ha appena avvicinato lo scoppio. Le misure annunciate sono la riduzione del tasso Bce allo 0,05%, un “Quantitative Easing” (Qe) nella forma di acquisti di cartolarizzazioni (“Asset-Backed Securities”) e di “covered bonds” da parte della Bce a cominciare dal quarto trimestre. Poi un’altra ondata di Ltro, prestiti di fatto gratis alle banche. L’ultima misura è chiamata “funding for lending” e dovrebbe servire ad aumentare il credito al settore produttivo. «In realtà fallirà l’obiettivo», secondo “Movisol”, «come lo ha fallito il modello originale, applicato in Gran Bretagna». L’intento della Bce è descritto con franchezza in uno studio di 104 pagine pubblicato dallo stratega di Deutsche Bank, Jim Reid, l’11 settembre: il sistema finanziario, scrive Reid, è un’unica, gigantesca bolla, che deve essere continuamente pompata per non collassare.«Negli ultimi due decenni, l’economia globale è passata da una bolla all’altra con eccessi che non sono mai stati pienamente rivelati. Invece, una politica aggressiva ha incoraggiato il rifinanziamento con nuove bolle. Ciò ha discutibilmente fatto del sistema finanziario moderno, così come lo conosciamo, una preoccupazione costante», si legge nel rapporto. La bolla è ora “migrata” nel mercato obbligazionario, ed è diventata «una condizione necessaria per mantenere in piedi il superindebitato sistema finanziario». Non c’è più un luogo dove migrare, visto che ora la bolla è nelle mani dei governi e delle banche centrali, i prestatori di ultima istanza, e perciò «pensiamo che questa bolla vada mantenuta per assicurare la solvibilità dell’attuale sistema finanziario». Prevedibilmente, azioni e obbligazioni sono salite dopo l’annuncio di Draghi. Secondo alcune fonti, non sono solo i privati a speculare, ma le stesse banche centrali starebbero acquistando “futures” e altri titoli derivati per sostenere direttamente il mercato.Mentre non è certo quale sarà la domanda di Ltro, il pezzo forte della Bce è il programma di acquisto di Abs. Il 12 settembre lo stesso Juncker ha dichiarato che una delle priorità della nuova Commissione Europea sarà rivitalizzare il mercato Abs. La Bce si è avvalsa della consulenza del colosso statunitense BlackRock, a sua volta grande possessore di titoli Abs, delineando quindi un «leggero conflitto di interessi». Ma la Bce, avverte “Movisol”, non vuole rischiare in proprio: «Sta già pensando di scaricare il peso degli Abs tossici sulle spalle del contribuente». Benoit Coeure, membro dell’esecutivo di Francoforte, ha chiarito: perché un programma di acquisti di Abs raggiunga tutto il suo potenziale, i governi devono garantire almeno parte del debito. «L’Europa si trova ad affrontare una scelta fondamentale se vuole muoversi verso un mercato Abs che abbia la stessa profondità e la liquidità del mercato americano», ha detto Coeure in un’intervista alla rivista “Risk”, distribuita dalla Bce.«Per raggiungere questo obiettivo», aggiunge Coeure, «il mercato delle cartolarizzazioni richiederà una quantità significativamente maggiore di sostegno pubblico di quella attuale». In altre parole, riassume “Movisol”, «la Bce pompa la bolla finale, in parte stampando soldi, in parte con soldi pubblici (i contribuenti), in una mossa futile e disperata che non impedirà alla bolla di scoppiare ma piuttosto ne accelererà la fine». Nel frattempo, «la recessione nell’Ue sta rivelandosi una depressione». Infatti, «la disoccupazione di massa ha raggiunto livelli da anni Trenta e in alcuni casi le istituzioni democratiche sono state compromesse irreversibilmente». E’ il “capolavoro” della moneta non-sovrana, che mette in crisi gli Stati e le economie nazionali, obbligandole a elemosinare credito presso il mercato finanziario internazionale attraverso il sistema bancario privato. E la Bce è il gestore dell’euro-regime, il braccio armato della grande crisi. «Liberiamoci del pilota pazzo ai comandi!», conclude “Movisol”.Le bolle finanziarie obbediscono a una legge ferrea: più crescono e più si avvicina la loro fine. Così, annunciando misure per sostenere la bolla, Mario Draghi ne ha appena avvicinato lo scoppio. Le misure annunciate sono la riduzione del tasso Bce allo 0,05%, un “Quantitative Easing” (Qe) nella forma di acquisti di cartolarizzazioni (“Asset-Backed Securities”) e di “covered bonds” da parte della Bce a cominciare dal quarto trimestre. Poi un’altra ondata di Ltro, prestiti di fatto gratis alle banche. L’ultima misura è chiamata “funding for lending” e dovrebbe servire ad aumentare il credito al settore produttivo. «In realtà fallirà l’obiettivo», secondo “Movisol”, «come lo ha fallito il modello originale, applicato in Gran Bretagna». L’intento della Bce è descritto con franchezza in uno studio di 104 pagine pubblicato dallo stratega di Deutsche Bank, Jim Reid, l’11 settembre: il sistema finanziario, scrive Reid, è un’unica, gigantesca bolla, che deve essere continuamente pompata per non collassare.
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Gros: scordatevi la ripresa, la Germania la impedirà
Non crediate di riuscire a risollevarvi: l’austerità ha vinto e il dogma tedesco che l’ha imposta, condannamdo il resto d’Europa, non sarà mai intaccato. La “voce del padrone” è quella di un economista leader a Berlino, Daniel Gros, direttore del “Centre for European Policy Studies”: dal suo think-tank, centro studi di politica europea, Gros ammette di fatto che è un solo paese – la Germania – a dettare le sue regole a tutti gli altri partner della cosiddetta Unione Europea. Regole che affliggono il continente, e che non cambieranno: gli Stati come l’Italia continueranno ad avere amputazioni alla spesa pubblica, destinate a sabotare il sistema-paese trasformandolo in terra di profughi economici e di salariati a basso costo, secondo uno schema funzionale soltanto al “made in Germany”. Per Gros, lo scambio a distanza tra Renzi il guardiano dell’austerità europea, il finlandese Jyrki Katainen, segna la fine del dibattito sulla flessibilità nei conti pubblici perché «sancisce la definitiva incomunicabilità fra le due scuole di pensiero che si fronteggiano in Europa».Non sarà mai sconfessata «la linea della Germania, di contrasto alla crisi del debito», prende nota il blog di Gad Lerner commentando l’intervista a “Repubblica” concessa da Gros all’indomani del vertice dell’Ecofin e dell’Eurogruppo a Milano il 13 settembre, riunioni caratterizzate dal duello tra il premier italiano e Katainen, vicepresidente in pectore della Commissone Europea presieduta dal lussemburghese Jean-Claude Juncker, nominato dalla Merkel. L’incontro di Milano sarà da ricordare, dice Gros, perchè «probabilmente rappresenta la fine delle speranze dell’Italia di ottenere questo sospirato allentamento da parte della Germania». La prova, secondo Daniel Gros, è la nuova manovra di bilancio approntata da Berlino: la grande coalizione tra Angela Merkel e i socialdemocratici dell’Spd ha ridotto gli investimenti pubblici per realizzare una finanziaria senza nuovi debiti, «un obiettivo condiviso praticamente da tutti i partiti tedeschi presenti al Bundestag, con l’eccezione della sinistra radicale», la Linke. Una manovra che «spegne le richieste di chi chiedeva a Berlino la maggior mobilitazione di risorse pubbliche al fine di stimolare la crescita nell’Eurozona».«Da questa posizione di ortodosso rispetto del rigore la Germania non si muoverà», osserva Lerner, e secondo Daniel Gros la composizione della nuova Commissione Juncker evidenzia come non è possibile attendersi alcuna svolta. «I toni concilianti dell’Ecofin sono poco credibili, almeno quanto le rassicurazioni italiane», dice il tecnocrate tedesco. «Certo, la Germania non ammette neanche un intervento d’emergenza, ma l’Italia, come la Francia che forse preoccupa anche di più, non aiuta con i comportamenti la comprensione reciproca». L’Italia ha un debito pubblico al 136%? «Non so come faccia a poter spendere di più: potrebbe anche smetterla di chiedere aperture o flessibilità”». Quanto al ricatto delle “riforme” neoliberiste, ispirate dal mercantilismo neoclassicista dell’export – massima competitività derivante dalla compressione salariale per tagliare i costi di produzione, sacrificando alla legge dell’export i consumi interni e il benessere sociale della nazione – per il dottor Gros si tratta di una speranza vana, perché il “no” della Germania non cambierebbe. «Non credo che la risposta di Berlino sarebbe diversa da quella di oggi. Il passato continuerebbe a pesare come un macigno. Per questo mi sembrano ipocriti tutti questi abbracci alla Spagna, un paese che ha il 25% di disoccupazione, solo per un paio di riforme fatte».Non crediate di riuscire a risollevarvi: l’austerità ha vinto e il dogma tedesco che l’ha imposta, condannando il resto d’Europa, non sarà mai intaccato. La “voce del padrone” è quella di un economista leader a Berlino, Daniel Gros, direttore del “Centre for European Policy Studies”: dal suo think-tank, centro studi di politica europea, Gros ammette di fatto che è un solo paese – la Germania – a dettare le sue regole a tutti gli altri partner della cosiddetta Unione Europea. Regole che affliggono il continente, e che non cambieranno: gli Stati come l’Italia continueranno ad avere amputazioni alla spesa pubblica, destinate a sabotare il sistema-paese trasformandolo in terra di profughi economici e di salariati a basso costo, secondo uno schema funzionale soltanto al “made in Germany”. Per Gros, lo scambio a distanza tra Renzi il guardiano dell’austerità europea, il finlandese Jyrki Katainen, segna la fine del dibattito sulla flessibilità nei conti pubblici perché «sancisce la definitiva incomunicabilità fra le due scuole di pensiero che si fronteggiano in Europa».
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Il mondo produce beni, loro dollari. O così, o è guerra
Nel 1974 Richard Nixon strinse un accordo con l’Arabia Saudita, che potremmo definire come la più grande truffa nella storia degli Stati Uniti. In cambio di armi e di protezione, i sauditi avrebbero dovuto vendere il loro petrolio in dollari, che poi avrebbero dovuto di nuovo investire negli Stati Uniti. Si trattava di una questione di vita o di morte per il dollaro, in quel momento. Nixon aveva chiuso la finestra del sistema aureo tre anni prima, e ne era seguita una massiccia svalutazione del dollaro. Garantirsi che tutte le merci che venivano scambiate nel mondo e che sarebbero state commerciate in dollari, pagate in dollari, era l’unico sistema in grado di poter veramente puntellare il valore della valuta. Guardando indietro, fu una mossa strategica estremamente brillante. Il resto dell’Opec seguì lo stesso sistema e questo fu l’affare che ha determinato la supremazia finanziaria, politica e militare degli Stati Uniti per decenni. Erano nati i petrodollari.Oggi, il petrolio resta il bene largamente più commercializzato in tutto il mondo. E dato che tutte le nazioni acquistano o vendono petrolio, questo significa che ogni nazione deve possedere dei dollari. Però, per comodità, le banche estere, i governi e le banche centrali, anziché starsene sedute a controllare montagne di banconote, hanno preferito comprare dei buoni del Tesoro Usa, cioè hanno comprato un pezzetto del debito degli Stati Uniti. Ma questo significa anche che il governo degli Stati Uniti ha una scorta quasi illimitata di stranieri che vogliono impegnarsi e comprare i suoi dollari, i suoi debiti e il suo deficit. Tutto il resto del mondo deve faticare per produrre qualcosa: lavorano nei campi, fabbricano prodotti industriali, estraggono petrolio o gas dal terreno. Gli Stati Uniti, invece dal canto loro, stampano dollari. E poi usano questa carta per scambiarla con la roba che gli stranieri hanno prodotto e per la quale hanno dovuto lavorare veramente.E’ una truffa incredibile. Si sarebbe tentati di pensare che il governo degli Stati Uniti dovrebbe essere grato, e dovrebbe inviare almeno un cesto di frutta a tutti i paesi stranieri del mondo, trattandoli come amici a cui dare sempre il benvenuto. Ma non è questo, quello che fanno. In modo arrogante, il governo degli Stati Uniti dà ordini a tutte le banche del mondo che devono far riferimento all’Irs, buttano le bombe, mandano i droni e invadono paesi stranieri. Spiano sia i loro nemici che gli alleati, congelano i beni gestiti fuori dal sistema bancario Usa e multano le banche straniere che si permettono di fare affari con paesi “non graditi”. E’ una cosa incredibilmente stupida, è un comportamento che praticamente implora gli stranieri di abbandonare il sistema del dollaro e degli Stati Uniti. E questo sta cominciando ad accadere, proprio davanti ai nostri occhi.Gli Stati Uniti hanno dimostrato di essere disposti ad andare in guerra pur di sostenere questo sistema basato sui petrodollari (Saddam Hussein ebbe il sostegno delle Nazioni Unite nei primi anni 2000 per vendere il suo petrolio in euro, ma poco dopo… se n’era andato). Quindi il fatto che in questo momento si cominci a intravedere un certo rilassamento della situazione è molto preoccupante, particolarmente se si considera che il campo di battaglia è già pronto in Ucraina.(Simon Black, “L’ultima volta che è successo, gli Usa entrarono in guerra per “difendere” i loro interessi”, da “Sovereign Man” del 6 settembre 2014, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Nel 1974 Richard Nixon strinse un accordo con l’Arabia Saudita, che potremmo definire come la più grande truffa nella storia degli Stati Uniti. In cambio di armi e di protezione, i sauditi avrebbero dovuto vendere il loro petrolio in dollari, che poi avrebbero dovuto di nuovo investire negli Stati Uniti. Si trattava di una questione di vita o di morte per il dollaro, in quel momento. Nixon aveva chiuso la finestra del sistema aureo tre anni prima, e ne era seguita una massiccia svalutazione del dollaro. Garantirsi che tutte le merci che venivano scambiate nel mondo e che sarebbero state commerciate in dollari, pagate in dollari, era l’unico sistema in grado di poter veramente puntellare il valore della valuta. Guardando indietro, fu una mossa strategica estremamente brillante. Il resto dell’Opec seguì lo stesso sistema e questo fu l’affare che ha determinato la supremazia finanziaria, politica e militare degli Stati Uniti per decenni. Erano nati i petrodollari.
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Piegare la Russia: prima con la finanza, poi con i missili
Solo un cretino può assistere allo spettacolo dell’America che aggredisce la Russia, senza capire che domani potrebbe toccare a noi, alleati-sudditi, pronti eventualmente anche a entrare in guerra. A spiegare l’aria che tira provvede un super-tecnocrate come Paul Roderick Gregory, consigliere internazionale della Scuola Economica di Kiev. Il piano è semplice: abbattere Putin per conquistare Mosca. Prima si prova col ricatto della finanza. Poi, se non basta, si procede con i missili. Questo “dottor Stranamore”, scrive Giulietto Chiesa, in una recente intervista su “Forbes” parla in modo diretto, e quindi «rappresenta bene la strategia, la tattica, le intenzioni dei gruppi “neocon” americani e di una parte importante di quelli europei». Dice cose illuminanti, lo Stranamore di Kiev, «pensate per distruggere il nemico prima ancora che cominci la guerra». Attenzione: «Siamo di fronte a un progetto che è molto più importante di una profezia». E quella di Gregory «è la voce di chi conta più di Obama». Purtroppo, il piano che enuncia – salvo modifiche di percorso imposte dalle circostanze – sarà il “film” che vedremo nei prossimi mesi.Invece di sanzioni più immediate, afferma Gregory, «che lavora a Kiev per conto dell’Occidente, che lo paga», l’Europa e gli Stati Uniti «devono orientarsi verso un’assistenza militare, letale, diretta contro l’invasione russa (perché chiamarla in altro modo?)». Usa e Ue devono «riesumare le installazioni della Iniziativa di Difesa Strategica in Polonia e in Repubblica Ceca, non come una punizione ma come una precauzione». Inoltre devono «rinvigorire la Nato, includendovi lo stazionamento di truppe nei paesi Nato che confinano con la Russia». Obama? «Deve approvare l’oleodotto Keystone e aprire più territori federali alle prospezioni petrolifere, approvare i terminali per l’esportazione di gas liquido, eliminare le restrizioni all’esportazione di petrolio, promuovere il “fracking” in Europa». Testualmente: «Obama deve condurre l’Europa, trascinandola per il naso, a una politica energetica collettiva e organica». Ed ecco il primo colpo finanziario da sferrare: «Noi abbiamo una opzione nucleare di cui pochi parlano: cacciare via le istituzioni finanziarie russe dal sistema “Swift” e guardarle mentre crollano».“Swift” è l’acronimo di “Society for Worlwide Interbank Financial Telecomunications”: è il centro – sotto controllo diretto Usa – attraverso cui passano e vengono registrate tutte le transazioni bancarie della globalizzazione americana. «Un collega – chiosa Gregory – ama ricordarmi che la sanzioni finanziarie sono oggi l’equivalente della diplomazia delle cannoniere del secolo XIX. Gli Stati Uniti hanno le cannoniere grazie al sistema del dollaro». Questo è senza dubbio il piano d’attacco, osserva Chiesa su “Megachip”: resta solo da vedere se funzionerà, ma si vede che non è campato in aria. Washington, infatti, ha armi di pressione molto potenti: «Essere entrati nella globalizzazione americana significa essersi messi un cappio al collo, che ora può essere stretto a piacimento dal suo padrone». Certo, nell’analisi di “Forbes” ci sono tutti i punti deboli di Mosca, mentre gli Usa e l’Europa sono presentati come in stato di euforica tranquillità: sappiamo che non è così. «Tuttavia, a Wall Street e alla City of London ci credono. Dunque dobbiamo assumere che si comporteranno di conseguenza, anche perché sappiamo che lo show-down ucraino è stato creato da loro».Tutto questo è ormai molto chiaro a Vladimir Putin e al suo più stretto entourage, continua Giulietto Chiesa, secondo cui però «a Mosca è pieno di gente, nei posti di comando, che ragiona nello stesso modo del Dottor Stranamore». Dunque, «questo è un momento cruciale per Putin e per la Russia». Ovvero, «è il momento in cui si deve capire cosa ha significato il passaggio al capitalismo americano realizzato da Boris Eltsin e Egor Gaidar: diventare ostaggi del mercato globale. E, quando è sorto il problema di difendere la propria nazione e i propri interessi, di scoprire che la propria libertà era stata comprata, per giunta per pochi copechi». Denaro, appunto. Proprio su questo si fonda la fase-1 del piano Usa, quella che precede la guerra. «La Russia ha un mercato di capitali esiguo. In questi anni circa la metà di quello che le serviva lo prendeva dall’estero. Se la si espelle dal mercato dei capitali – americano, giapponese, europeo – la si costringerà a fare appello a paesi che non sono stati assoggettati a sanzioni. In primo luogo alla Cina. Che ci riesca o meno è da vedere, ma per intanto le si renderà impossibile rifinanziare i debiti che scadono, stabilizzare il rublo, evitare il collasso degl’investimenti. Il primo passo obbligato sarà di intaccare le sue riserve in valuta; il secondo sarà di intaccare i fondi di riserva che Putin ha accumulato in questi ultimi anni, evidentemente in previsione di questi sviluppi».Secondo “Forbes”, nel 2013 il debito russo era a 47,2 miliardi di dollari. Dall’inizio della guerra in Ucraina, Mosca ha firmato contratti per prestiti di soli 1,5 miliardi di dollari. “Bloomberg” scrive che «non un solo dollaro, euro o yen è stato prestato a compagnie russe nel mese di luglio». Si aggiunga che, in queste condizioni, anche il costo del debito aumenta: «“Standard & Poor’s” ha fatto il suo dovere, portando il 25 aprile scorso il valore del debito russo solo un punto al di sopra dei titoli-spazzatura. Ciò ha costretto il ministero delle finanze russo a sospendere le aste delle emissioni di bond che aveva in programma», ricorda Chiesa. I dati aggregati ufficiali dicono che alla vigilia di “Euromaidan”, il golpe di Kiev, le imprese russe e le banche avevano un debito estero complessivo di 653 miliardi di dollari e un debito verso i risparmiatori russi di altri 650 miliardi. Ma il 24% del debito estero, quasi 16 miliardi, va a maturazione quest’anno. Idem per il 2015. Le sanzioni? «Servono per impedire alla Russia di pagare il debito o, come minimo, per infliggerle danni strategici rilevanti». È vero che le riserve valutarie russe sono di 468 miliardi e che il ministero delle finanze ha fondi di riserva per altri 173 miliardi, ma in queste condizioni si pensa che Mosca sarà costretta a ridurre le riserve valutarie del 22%.Certo, continua Chiesa, è sempre possibile (ma a Washington lo considerano remoto) che “qualcun altro” – leggi sempre la Cina e i paesi del Brics – tenti di aggirare i divieti degli Stati Uniti. Ma – considerando “Swift” e altri strumenti di controllo, come la Nsa – sarebbero facilmente individuabili e velocemente puniti. Inoltre, c’è il fenomeno della fuga di capitali, «su cui Putin sembra al momento impotente». La Bcr, banca centrale russa, giura che nel primo trimestre 2014 sono usciti “solo” 51 miliardi di dollari – cioè più di 100 miliardi in un anno? Secondo la Bce, invece, la “fuga da Mosca” è di ben altra entità: 221 miliardi nel solo primo trimestre di quest’anno. In arrivo una guerra di sbarramento contro l’esportazione illegale di capitali, «ma l’esperienza occidentale dice che con questi metodi non si ferma l’emorragia». I russi, aggiunge Giulietto Chiesa, si fidano di un’unica banca, la Sberbank, che vuol dire “cassa di risparmio”. «Ed è questo il motivo per cui Sberbank è stata subito messa all’indice delle sanzioni». Contromossa: «La Bcr ha alzato il tasso d’interesse sui depositi al 10,2%, ma è ancora da vedere se sia sufficiente a trattenere i capitali in Russia».Comunque, secondo questi calcoli, Washington è certa che Putin non potrà mantenere il livello di investimenti attuale anche se riuscisse a rifinanziare il debito. Gli investimenti esteri diretti si sono già dimezzati, 41 miliardi contro gli 80 del 2013. E i calcoli occidentali prevedono una riduzione secca degli investimenti, del 30-50%, tra il 2014 e il 2015. «Il tutto dovrebbe portare, nelle loro speranze, a un crollo del Pil russo attorno al 6-10%». E manca ancora un tassello, fondamentale: l’energia. «Metà delle entrate dello Stato russo derivano da petrolio e gas. Da esse dipende la tenuta economica (e sociale) del paese. E – si progetta a Washington – anche quella di Putin. Dunque si è deciso di colpire anche e soprattutto qui», scrive Giulietto Chiesa. «L’ideale sarebbe ripetere il giochetto con cui fu affondata l’Urss di Gorbaciov: cioè far scendere bruscamente il prezzo dell’energia». Questa, però, «è la scommessa meno sicura da vincere, rispetto alle precedenti». La tendenza, infatti, è a un aumento dei prezzi, sui quali Putin e la Russia possono contare per i prossimi anni. «Non resta allora che tagliare la testa al toro: impedire alla Russia di vendere il suo prodotto. La crisi Ucraina – costruita dagli Stati Uniti e appoggiata da una parte dell’Europa – è esattamente l’attuazione di questa parte del piano: prendere in mano il rubinetto del gas russo, a spese dell’Ucraina e dell’Europa, e chiuderlo».Il costo per la Russia è già stato calcolato: circa 100 miliardi di dollari all’anno. Non a caso, osserva Chiesa, lo stesso Obama è venuto per ben due volte in poco più d’un mese in Europa a vendere il suo “shale gas” in sostituzione di quello russo. «Il problema è che Obama questo gas non ce l’ha ancora, e forse non lo avrà mai, perché ha tutta l’aria di una meteora. Ma intanto il danno può essere inferto agli europei che ci hanno creduto e ci credono. E questo costringerà la Russia a rivolgere i suoi gasdotti a est». L’alternativa, per Mosca, è la Cina, che è assetata di energia: Pechino ha già risposto all’appello, e il nuovo sistema gasifero verso est è stato avviato con un investimento cinese di 50 miliardi di dollari, che verranno sborsati come pagamento anticipato del gas che verrà. «Dunque Putin avanza di un passo senza impiegare capitali», ragiona Chiesa, «ma i primi metri cubi passeranno in quei tubi solo tra quattro anni». Certo, Obama sa che di acquirenti del gas e del petrolio russo ce n’è molti: «Bisognerà dunque intimidirli, ricattarli, punirli se insistono, così come si sta cercando di fare con i prestatori di capitali troppo capricciosi. Purtroppo per Washington, non tutti sono ricattabili. La Cina non lo è, ed è l’acquirente maggiore di tutti gli altri messi insieme».Questo è dunque il piano di guerra, ideato e avviato dagli Stati Uniti. «Le armi previste stanno facendo male, molto male, alla Russia. Alcune sono imparabili e altre sono parzialmente parabili». In ogni caso la partita è aperta, visto che «l’America è pronta a andare anche oltre». C’è però un aspetto che a Washington non hanno calcolato bene: «La popolarità di Putin cresce invece che diminuire». Letteralmente, «i russi si sono “svegliati”, a partire dalla Crimea. E la sveglia, fortissima, si è trasferita nel Donbass e in tutta la Russia». Questo, secondo Chiesa, potrebbe essere l’errore più grosso della strategia americana, forse commesso «perché queste cose non si misurano con il metro di “Standard & Poor’s”». Ma c’è ancora una notazione da fare, e riguarda noi: «Questa “politica delle cannoniere” è applicabile verso chiunque. L’America è in crisi e non è disposta a pagare nulla. Domani, con gli stessi mezzi, potrebbe colpire chiunque». Oggi, Putin sta difendendo la sovranità russa. Quanto a noi europei, «quando saremo diventati più furbi capiremo che la nostra sovranità ci è già stata sottratta, mentre applaudivamo ai nazisti che prendevano il potere a Euromaidan».Solo un cretino può assistere allo spettacolo dell’America che aggredisce la Russia, senza capire che domani potrebbe toccare a noi, alleati-sudditi, pronti eventualmente anche a entrare in guerra. A spiegare l’aria che tira provvede un super-tecnocrate come Paul Roderick Gregory, consigliere internazionale della Scuola Economica di Kiev. Il piano è semplice: abbattere Putin per conquistare Mosca. Prima si prova col ricatto della finanza. Poi, se non basta, si procede con i missili. Questo “dottor Stranamore”, scrive Giulietto Chiesa, in una recente intervista su “Forbes” parla in modo diretto, e quindi «rappresenta bene la strategia, la tattica, le intenzioni dei gruppi “neocon” americani e di una parte importante di quelli europei». Dice cose illuminanti, lo Stranamore di Kiev, «pensate per distruggere il nemico prima ancora che cominci la guerra». Attenzione: «Siamo di fronte a un progetto che è molto più importante di una profezia». E quella di Gregory «è la voce di chi conta più di Obama». Purtroppo, il piano che enuncia – salvo modifiche di percorso imposte dalle circostanze – sarà il “film” che vedremo nei prossimi mesi.
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E Draghi si arrese a Keynes: lo Stato torni a spendere
Debito pubblico, spesa pubblica, deficit positivo. Tradotto: o lo Stato finanzia direttamente l’economia, o è la fine per tutti. Chi l’ha detto? John Maynard Keynes, ovviamente, il padre dell’economia democratica moderna. Ma la notizia bomba, rileva Paolo Barnard, è che la stessa identica verità l’ha finalmente ammessa l’uomo-simbolo dell’infinita austerity europea, il “signor no” per eccellenza, il massimo esponente della dottrina del rigore senza via di scampo: Mario Draghi, nientemeno. Una storica inversione di rotta, dice Barnard, esternata solo grazie a un cronista del “Wall Street Journal”: viceversa, «tutto questo non l’avremmo mai saputo, dai nostri quotidiani». La data “storica” è quella del 9 settembre, in cui Draghi ha presenziato all’Eurofi di Milano. Per dire, al giornalista statunitense, che – nonostante il dogma neoliberista ripetuto all’infinito, quello dell’autosufficienza del mercato – senza l’intervento dello Stato l’economia muore, come dimostra la crisi europea. «Mario, quanto ci hai messo! Ma come ci insegna il Figliol Prodigo… welcome fra noi».«Alla fine neppure lui ce l’ha fatta», scrive Barnard nel suo blog. Lui, Draghi, definito «’sto cadavere telecomandato dal neofeudalesimo e cresciuto a scudisciate neoliberiste», la scuola austriaca della destra economica europea, quella di Friedrich von Hayek (lasciare i poveri in miseria, aiutarli solo quel tanto che basta per evitare che la loro rabbia si trasformi in rivolta) e la dottrina iperliberista di Milton Friedman, altro nemico giurato dello Stato come fondamentale istituzione economica a guardia del benessere della comunità nazionale. Cattivi maestri, «da cui escono anche gli Alesina, Serra, Taddei, Boldrin o Giavazzi», vale a dire «gli unici tordi rimasti al mondo della serie “l’euro ha fatto tutto giusto, guai mollarlo”, cui seguono sbadigli e sghignazzi di Goldman Sachs, Jp Morgan, Krugman e altri principianti di questa sorta». Per una volta, il sovranista Barnard canta vittoria: «Draghi ha fatto outing, e si è strappato la camicia mostrando sul petto il tatuaggio di John Maynard Keynes. Ebbene sì!». L’ha fatto, aggiunge Barnard, perché ormai sconfitto dai numeri impietosi della recessione europea.Quello che di colpo sconfessa come un fallimento catastrofico dopo lunghi decenni di linea dura (e suicida), secondo Barnard è un Draghi «ormai fucilato alla schiena dalla Germania», che l’ha appena «bocciato a morte». Un Draghi «ormai sepolto da un’irrimediabile deflazione dell’Europa, cui non ha mezzi per rimediare». Un banchiere centrale «ormai umiliato come l’uomo che ha presidiato la distruzione di una civiltà economica». E a quanto pare si arrende all’evidenza, «senza più mezzi per fare nulla». Così, ha improvvisamente abbracciato Keynes, e insieme al grande economista inglese anche «la Mosler Economics, che è Keynes adattato al terzo millennio». Infatti, a Milano, Mario Draghi ha ammesso che «i governi devono agire con forza per incoraggiare gli investimenti, includendo garanzie di Stato per le piccole e medie imprese», riassume Barnard. «E, quando i conti glielo permettono, i governi devono spendere soldi di Stato», checché ne pensino i liberisti alla Giavazzi.Inoltre, aggiunge Barnard citando Draghi, «solo se le politiche monetarie saranno affiancate da politiche strutturali e da politiche economiche di spesa di Stato, vedremo gli investimenti tornare in Ue», perché la Bce «non può fare tutto da sola». E’ esattamente quanto affermano Barnard e gli attivisti della Mmt, la Modern Money Theory sintetizzata dallo statunitense Warren Mosler: «Senza politiche economiche di spesa di Stato, la politica monetaria non può fare niente». Da almeno trent’anni, agitando lo spauracchio dell’inflazione, il super-potere dell’élite economica europea ha imposto, attraverso la finanza e la tecnocrazia di Bruxelles, l’amputazione progressiva dello Stato, a cui è stato tolto il potere di sostenere l’economia. Oggi, di fronte allo sfacelo dell’Europa, persino Draghi alza bandiera bianca. Meglio tardi che mai, dice Barnard, sostenitore del ritorno alla sovranità monetaria come unica possibilità di risollevare l’economia, ripristinando l’interesse pubblico e la capacità di investimenti strategici mediante iniezioni di denaro: non alle banche ma all’economia reale, puntando alla piena occupazione.Debito pubblico, spesa pubblica, deficit positivo. Tradotto: o lo Stato finanzia direttamente l’economia, o è la fine per tutti. Chi l’ha detto? John Maynard Keynes, ovviamente, il padre dell’economia democratica moderna. Ma la notizia bomba, rileva Paolo Barnard, è che la stessa identica verità l’ha finalmente ammessa l’uomo-simbolo dell’infinita austerity europea, il “signor no” per eccellenza, il massimo esponente della dottrina del rigore senza via di scampo: Mario Draghi, nientemeno. Una storica inversione di rotta, dice Barnard, esternata solo grazie a un cronista del “Wall Street Journal”: viceversa, «tutto questo non l’avremmo mai saputo, dai nostri quotidiani». La data “storica” è quella del 9 settembre, in cui Draghi ha presenziato all’Eurofi di Milano. Per dire, al giornalista statunitense, che – nonostante il dogma neoliberista ripetuto all’infinito, quello dell’autosufficienza del mercato – senza l’intervento dello Stato l’economia muore, come dimostra la crisi europea. «Mario, quanto ci hai messo! Ma come ci insegna il Figliol Prodigo… welcome fra noi».
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Merkel, bugie e orrori Ue. E gli italiani? Non pervenuti
I governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi saranno ricordati come quelli che hanno dimostrato la maggiore incapacità nel governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi. Dal 2009 ad oggi il Pil è calato di dieci punti. Qualcosa come 160 miliardi sottratti ogni anno all’economia. L’industria ha perso un quarto della sua capacità produttiva. La produzione di autovetture sul territorio nazionale è diminuita del 65%. L’indicatore più scandaloso dello stato dell’economia, quello della disoccupazione, insieme con quelli relativi alla immensa diffusione del lavoro precario, ha raggiunto livelli mai visti. La scuola e l’università sono in condizioni vergognose. Sei milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà assoluta, il che significa che non sono in grado di acquistare nemmeno i beni e i servizi di base necessari per una vita dignitosa. Il rapporto debito pubblico-Pil sta viaggiando verso il 140%, visto che il primo ha superato i 2.100 miliardi.Questo fa apparire i ministri che si rallegrano perché nel corso dell’anno saranno di sicuro trovati tre o quattro miliardi per ridurre il debito dei tristi buontemponi. Ultimo tocco per completare il quadro del disastro, l’Italia sarà l’unico paese al mondo in cui la compagnia di bandiera ha i colori nazionali dipinti sulle ali, ma chi la comanda è un partner straniero. Si possono formulare varie ipotesi circa le origini del disastro. La più nota è quella avanzata da centinaia di economisti europei e americani sin dai primi anni del decennio. È un grave errore, essi insistono, prescrivere al cavallo maggiori dosi della stessa medicina quando è evidente che ad ogni dose il cavallo peggiora. La medicina è quella che si compendia nelle politiche di austerità, richieste da Bruxelles e praticate con particolare ottusità dai governi italiani. Essa richiede che si debba tagliare anzitutto la spesa pubblica: in fondo, a che cosa servono le maestre d’asilo, i pompieri, le infermiere, i ricercatori universitari? In secondo luogo bisogna privatizzare il maggior numero possibile di beni pubblici.Il privato, dicono i medici dell’austerità, è sempre in grado di gestire qualsiasi attività con superiore efficienza: vedi, per dire, i casi Ilva, Alitalia, Telecom. Infine è necessario comprimere all’osso il costo del lavoro, rendendo licenziabile su due piedi qualunque tipo di lavoratore. I disoccupati in fila ai cancelli sono molto più disposti ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione, se sanno che al minimo sgarro dalla disciplina aziendale saranno buttati fuori come stracci. Altro che articolo 18. Nell’insieme la diagnosi appare convincente. Le politiche di austerità sono un distillato delle teorie economiche neoliberali, una macchina concettuale tecnicamente agguerrita quanto politicamente misera, elaborata dagli anni 80 in poi per dimostrare che la democrazia non è che una funzione dell’economia. La prima deve essere limitata onde assicurare la massima espansione della libertà di mercato (prima di Draghi, lo hanno detto senza batter ciglio Lagarde, Merkel e perfino una grande banca, Jp Morgan).La mente e la prassi di tutto il personale che ha concorso a governare l’economia italiana negli ultimi anni è dominata sino al midollo da questa sofisticata quanto grossolana ideologia; non c’è quindi da stupirsi che essa abbia condotto il paese al disastro. Domanda: come mai, posto che tutti i governanti europei decantano e praticano i vantaggi delle politiche dell’austerità, molti dei loro paesi se la passano meglio dell’Italia? La risposta è semplice: perché al di sotto delle coperture ideologiche che adottano in pubblico, le iniziative che essi prendono derivano piuttosto da una analisi spregiudicata delle reali origini della crisi nella Ue. In Italia, non si è mai sentito un membro dei quattro “governi del disastro” proporre qualcosa di simile a una tale analisi, con la conseguenza che oltre a praticare ciecamente le politiche neoliberali, i nostri governanti ci credono pure. Facendo di loro il personale politico più incompetente della Ue.Si prenda il caso Germania; non a caso, perché la Germania è al tempo stesso il maggior peccatore economico d’Europa (copyright Flassbeck), e quello cui è meglio riuscito a far apparire virtuoso se stesso e peccatori tutti gli altri. Il motivo del successo tedesco è noto: un’eccedenza dell’export sull’import che col tempo ha toccato i 200 miliardi l’anno. Poco meno di due terzi di tale somma è dovuta ad acquisti da parte di altri paese Ue. Prodigio della tecnologia tedesca? Nemmeno per sogno. Prodigio, piuttosto, della formula “vai in malora te e il tuo vicino” (copyright Lapavitsas) ferreamente applicata dalla Germania a tutti i paesi Ue. Grazie alle “riforme” dell’Agenda 2010, dalla fine degli anni ‘90 i lavoratori tedeschi non hanno visto un euro in più affluire ai loro salari; il considerevole aumento complessivo della produttività verificatosi nello stesso periodo si è tradotto per intero nella riduzione dei prezzi all’esportazione.In un regime di cambi fissi come quello imposto dall’euro, questo meccanismo ha trasformato la Germania in un paese a forte surplus delle partite correnti e tutti gli altri paesi dell’Eurozona in paesi deficitari. Ha voglia la cancelliera Merkel di decantare le virtù della “casalinga dello Schlewig-Holstein”, che spende soltanto quel che incassa e non fa mai debiti. La virtù vera dei tedeschi è consistita, comprimendo i salari interni per favorire le esportazioni, nel diventare l’altezzoso creditore d’Europa, mettendo in fila tutti gli altri paesi come debitori spreconi. È vero che negli incontri ufficiali è giocoforza che ognuno parli la neolingua del regime neoliberale che domina la Ue. Invece negli incontri dove si decidono le cose serie bisognerebbe chiedere ai governanti tedeschi che anziché della favola della casalinga si discuta magari delle politiche del lavoro – quelle tedesche – che hanno disastrato la Ue. Potrebbe essere utile quanto meno per condurre trattative per noi meno jugulatorie. Tuttavia per fare ciò bisogna avere una nozione realistica della crisi, e non è chiaro se esiste un solo governante italiano che la possegga.Nei discorsi con cui verso metà agosto Matteo Renzi ha occupato gran parte delle reti tv, si è profuso in richiami alla necessità di guardare con coraggio alla crisi, di non lasciarsi prendere dalla sfiducia, di contare sulle risorse profonde del paese. Sarà un caso, o uno spin doctor un po’ più colto, ma questi accorati richiami alla fibra morale dei cittadini ricordano il discorso inaugurale con cui Franklin Delano Roosevelt inaugurò la sua presidenza nel marzo 1933. In Usa le conseguenze furono straordinarie. Ma non soltanto perché i cittadini furono rianimati di colpo dalle parole del presidente. Bensì perché nel giro di poche settimane Roosevelt creò tre agenzie per l’occupazione che in pochi mesi diedero un lavoro a quattro milioni di disoccupati, e attuò la più grande ed efficace riforma del sistema bancario che si sia mai vista in Occidente, la legge Glass-Steagall. Ci faccia vedere qualcosa di simile, Matteo Renzi, in tempi analoghi, e cominceremo a pensare che il suo governo potrebbe anche risultare meno disastroso di quanto oggi non sembri.(Luciano Gallino, “Quattro anni sprecati”, da “La Repubblica” del 19 agosto 2014, ripreso da “Megachip”).I governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi saranno ricordati come quelli che hanno dimostrato la maggiore incapacità nel governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi. Dal 2009 ad oggi il Pil è calato di dieci punti. Qualcosa come 160 miliardi sottratti ogni anno all’economia. L’industria ha perso un quarto della sua capacità produttiva. La produzione di autovetture sul territorio nazionale è diminuita del 65%. L’indicatore più scandaloso dello stato dell’economia, quello della disoccupazione, insieme con quelli relativi alla immensa diffusione del lavoro precario, ha raggiunto livelli mai visti. La scuola e l’università sono in condizioni vergognose. Sei milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà assoluta, il che significa che non sono in grado di acquistare nemmeno i beni e i servizi di base necessari per una vita dignitosa. Il rapporto debito pubblico-Pil sta viaggiando verso il 140%, visto che il primo ha superato i 2.100 miliardi.
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Rubarci acqua, luce e gas: ecco la riforma del Titolo V
Acqua, luce e gas: oggi la riscossione delle tariffe è italiana, domani potrebbe non esserlo più. Proprio i servizi vitali, che valgono «moltissimi miliardi» secondo il Tesoro, sono il vero bottino della grande privatizzazione, spacciata per “riforma”. Obiettivo per il quale sono stati all’opera, ininterrottamente, i tre governi messi in pista da Napolitano, senza elezioni: prima Monti, poi Letta, ora Renzi. Missione comune: svendere il paese, usando l’emergenza-spread e l’alibi del debito. Facilissimo: il boom del debito pubblico è la diretta conseguenza dell’austerity. Meno Pil, meno consumi, meno entrate fiscali. L’Italia, costretta a elemosinare gli euro attraverso i titoli di Stato filtrati dal sistema bancario che ha accesso alla Bce, va rapidamente in rosso. Col diktat del rigore, il debito pubblico esplode. Così il momento si fa propizio: il Giorno dello Sciacallo si avvicina. All’asta Poste Italiane e Telecom, poi si parla di Eni, Enel, Finmeccanica. Ma il boccone grosso è un altro: rete elettrica, acquedotti, gas. Reti e servizi da svendere. Prima, però, bisogna scipparli ai legittimi proprietari: Comuni e Regioni. Ed ecco in arrivo la “riforma” del Titolo V della Costituzione, cavalcata da Renzi.Tutto già denunciato, a suo tempo, dalla trasmissione “La Gabbia” condotta su “La7” da Gianluigi Paragone, molto prima del “Patto del Nazareno” che ha reso evidente il piano oligarchico Renzi-Berlusconi per archiaviare il “rischio” della democrazia, amputando il Senato e soprattutto varando una legge elettorale “ad personam”. Il blog “Senza Soste” segnala l’ottimo servizio realizzato a settembre 2013 da Filippo Barone: “Italia, un paese in svendita”. In tre minuti, il trucco delle “riforme” è svelato: «Siccome la svendita delle quote statali di Eni, Enel e Finmeccanica farebbe racimolare solo 12 miliardi di euro, il governo e i tecnici dei ministeri hanno individuato nelle “utilities”, cioè le società di proprietà di Comuni e Regioni che gestiscono beni comuni e vitali – acqua, luce e gas – come la vera miniera d’oro da vendere ai privati per fare cassa». Con la “riforma del Titolo V” della Costituzione, in poche parole, «lo Stato scipperebbe i territori della gestione di questi beni, da poter poi vendere: tutto questo sarà fatto da un governo illegittimo formato da persone non elette, grazie a Napolitano».Il video è fulminante. Parla l’economista ed ex banchiere centrale Fabrizio Saccomanni, allora ministro dell’economia del governo Letta. Saccomani, al G-20 del luglio 2013 a Mosca, è «impegnato a spiegare agli italiani che ci servono altri soldi, altri sacrifici, perché non sappiamo come reggere il debito». Lo intervista un giornalista dell’emittente finanziaria americana “Bloomberg”. Domanda al ministro: come pensate di ridurre il debito? «Stiamo anche considerando la possibilità di vendere le nostre partecipazioni in aziende controllate dallo Stato». Dunque Eni, Enel, Finmeccanica? «Sì, stiamo considerando questo». Quando, dopo alcuni minuti, la notizia arriva in Italia, il ministero si affretta a smentire. «Peccato che il video sia finito su Internet». Un paese in vendita ha bisogno di una vetrina dove esporre la mercanzia, riassume il reporter de “La Gabbia”. E allora, quale migliore occasione di una fiera? Bari, 14 settembre. Ci sono «rappresentanti del ministero dell’economia, il capo della Cassa Depositi e Prestiti (cassaforte del patrimonio italiano), esperti di fondi sovrani e rappresentanti di governi stranieri». Tutti d’accordo: svendere l’Italia è essenziale, urgente.«L’Italia è stata colpita dalla crisi più di altri paesi», dice Franco Bassanini, presidente della Cdp. «Quindi, in Italia, oggi si possono fare investimenti e finanziamenti a condizioni molto favorevoli: ci sono ottime opportunità di investimento, in Italia». Bassanini, un tempo esponente della sinistra “riformista” italiana, è oggi un super-tecnocrate passato armi e bagagli ai “signori del mercato”, ai quali propone «ottime opportunità di investimento». Dall’ufficialità del forum di Bari, il servizio de “La Gabbia” si trasferisce nel party organizzato in un circolo privato, «al riparo da occhi e orecchie indiscrete». Mentre l’Italia precipita, «si organizzano incontri con uomini d’affari e fondi sovrani per vendere il vendibile». E dato che l’appetito vien mangiando, dice il reporter Filippo Barone, ecco il gran galà ben nascosto nel cuore del porto pugliese. Ricompare Bassanini, impegnato a spolverare un piatto del buffet: «Io non mi appassiono alle privatizzazioni», confida il capo della Cassa Depositi e Prestiti. E ammette: «Le privatizzazioni vanno fatte con molta cautela, perché il rischio della svendita è altissimo». Domanda: la cessione di Finmeccanica, Eni ed Enel era solo una boutade di Saccomani oppure corrisponde ai piani del governo? E qui arriva il colpo del ko: la svendita delle migliori aziende di Stato non basta, bisognerà strappare acqua, luce e gas alla gestione pubblica, regionale e comunale, e poter vendere i servizi vitali, la vera preda a cui ambiscono i “mercati”.Nel chiaroscuro felpato del party, la risposta – chiarissima – arriva dal “numero uno” dei tecnici del ministero del Tesoro, Lorenzo Codogno. Le cessioni di Eni, Enel e Finmeccanica «hanno un senso», certamente, «ma il problema è che non prendi tantissimo, perché – ho fatto un calcolo un po’ di tempo fa – sono 12 miliardi, meno di 1 punto di Pil». Parola del responsabile della direzione analisi economico-finanziaria del dipartimento, ieri retto da Saccomanni e oggi da Padoan. Secondo Codogno, per abbattere il debito non bastano Finmeccanica, le altre maxi-imprese dello Stato, gli immobili pubblici. Serve, soprattutto, «il resto». E cioè «acqua, luce e gas», o meglio, le “utilities” che ogni Comune gestisce per i propri cittadini. «La vera risorsa – dice Codogno all’inviato de “La Gabbia” – sono le “utilities” a livello locale: lì sono veramente tanti, tanti miliardi».Il problema – aggiunge il tecnocrate – è che quei servizi «non sono nostri, dello Stato: sono dei Comuni, delle Regioni. E quindi bisogna cambiare il Titolo V della Costituzione, ed espropriare i Comuni e le Regioni». Letteralmente: “espropriare”. Conclude l’inviato di Paragone: «Sindaci, preparatevi. Le aziende di servizio devono finire in mano araba o cinese, poche storie». Gli italiani? Non protesteranno, non se ne accorgeranno nemmeno. A loro provvederà l’ottimismo di Matteo Renzi: servirà a presentare come “vecchiume da rottamare” anche il Titolo V della Costituzione, cioè il dispositivo legale che assegna agli enti locali l’autonomia finanziaria per creare e gestire le reti di distribuzione dei servizi pubblici vitali. Quelle che fanno così gola agli “investitori” esteri. Perché, come dice il dottor Codogno, valgono «tanti, tanti miliardi». Basterà gonfiare le tariffe, per incamerare utili stratosferici. E a quel punto, l’Italia – come Stato – sarà tecnicamente estinta. E i cittadini, in balia degli “usurai” di mezzo mondo, futuri padroni del paese.Acqua, luce e gas: oggi la riscossione delle tariffe è italiana, domani potrebbe non esserlo più. Proprio i servizi vitali, che valgono «moltissimi miliardi» secondo il Tesoro, sono il vero bottino della grande privatizzazione, spacciata per “riforma”. Obiettivo per il quale sono stati all’opera, ininterrottamente, i tre governi messi in pista da Napolitano, senza elezioni: prima Monti, poi Letta, ora Renzi. Missione comune: svendere il paese, usando l’emergenza-spread e l’alibi del debito. Facilissimo: il boom del debito pubblico è la diretta conseguenza dell’austerity. Meno Pil, meno consumi, meno entrate fiscali. L’Italia, costretta a elemosinare gli euro attraverso i titoli di Stato filtrati dal sistema bancario che ha accesso alla Bce, va rapidamente in rosso. Col diktat del rigore, il debito pubblico esplode. Così il momento si fa propizio: il Giorno dello Sciacallo si avvicina. All’asta Poste Italiane e Telecom, poi si parla di Eni, Enel, Finmeccanica. Ma il boccone grosso è un altro: rete elettrica, acquedotti, gas. Reti e servizi da svendere. Prima, però, bisogna scipparli ai legittimi proprietari: Comuni e Regioni. Ed ecco in arrivo la “riforma” del Titolo V della Costituzione, cavalcata da Renzi.
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Cremaschi: agonia-deflazione, il capolavoro dell’euro
Ha molto contribuito al disastro economico attuale un falso storico e ideologico. Quando in Italia e in Germania alla fine degli anni ‘70 si adottarono le politiche liberiste e si definì come prioritaria la lotta alla inflazione, fu spesso usato il monito che essa era all’origine del fascismo e soprattutto del nazismo. Falso. L’ascesa del fascismo da noi con l’inflazione non c’entra nulla e con quella del nazismo ancora meno. L’iper-inflazione degli anni ‘20 in Germania, usata come babau per giustificare tutto, persino lo statuto della Banca Centrale Europea, fu domata in pochi mesi dai governi di centrosinistra di quel paese e dal banchiere Schacht. Fu invece la disoccupazione di massa dopo la crisi del ‘29 a far crescere a dismisura il consenso ai nazisti, che fino ad allora era stato in percentuali bassissime. E quel consenso si alimentava del fatto che i governi democratici affrontavano la crisi con le politiche del rigore e dell’austerità, esattamente come oggi.Sulla base di questo falso storico le politiche deflazionistiche, che al massimo possono essere usate come emergenza per brevi periodi, sono diventate da più di trenta anni la politica economica ufficiale di tutti i paesi europei, Italia e Germania in testa. Da questo punto di vista, tutta la classe dirigente dovrebbe esultare per il fatto che ora l’obiettivo è stato raggiunto: l’inflazione è stata soppressa e al suo posto abbiamo la stagnazione o il calo dei prezzi. La separazione della Banca d’Italia dal Tesoro, per impedire allo Stato di stampare moneta per finanziarsi e per costringerlo a ricorrere al mercato, cioè in primo luogo alle banche, con il conseguente aumento a dismisura del debito e dei suoi vincoli. La distruzione del potere d’acquisto dei salari, avviata con la cancellazione della scala mobile e completata con l’euro. La precarizzazione e la flessibilità del lavoro, le privatizzazioni, tutte le politiche economiche e sociali attuate senza distinzioni da tutti i governi fino a quello attuale, son state giustificate nel nome della lotta all’inflazione. E ora abbiamo 6 milioni di disoccupati.Ora è immaginabile che parta il solito coro delle litanie auto giustificanti, mentre si continuerà a proporre in concreto la continuità di queste politiche trentennali, corretta solo dalla iniezione di un poco di liquidità nel sistema. Che fallirà nel proposito di far ripartire la crescita. Non si é sentito nessun effetto economico, ma non quello elettorale, degli 80 euro di Renzi. Draghi, che probabilmente aveva suggerito quella misura al presidente del Consiglio, ora fa capire che vuol introdurre liquidità nel sistema finanziario. Se glielo lasceranno fare il risultato sarà uguale a quello degli ottanta euro, zero. Perché alla base della crisi attuale sta proprio la continuità delle politiche liberiste e deflazionaste che durano da 35 anni. E se quelle non vengono messe in discussione alla radice, le iniezioni periodiche di liquidità sono acqua sparsa nel deserto. Qui però sta la difficoltà vera. Perché le classi dirigenti economiche, politiche e sindacali sono state selezionate in questi anni sulla base della priorità della lotta all’inflazione.Un’altra politica non la vogliono e neppure la sanno fare. Come ben dimostra l’ottusa tracotanza del ministro del Tesoro Padoan, che tranquillamente ha affermato di aver sbagliato tutte le previsioni, ma che ne sta preparando altre. Anche l’opinione pubblica è stata educata al tabù della lotta all’inflazione. Per cui oggi spera nelle riforme liberiste e autoritarie di Renzi, che, se realizzate effettivamente, aggraveranno la crisi. Per cambiare ci vuole una rottura di fondo. Ci vuole il ritorno alla gestione pubblica della moneta, con una banca centrale che la stampi invece che ricorrere alla finanza internazionale. Ci vogliono grandi investimenti pubblici in deficit e politiche di pubblicizzazione e non di privatizzazione. I salari devono crescere senza il vincolo-capestro delle produttività e della redditività d’impresa. Il lavoro deve riconquistare sicurezza e dignità rompendo la gabbia della precarietà.Queste sono le politiche non convenzionali necessarie, le stesse che presero gli Stati dopo gli anni Trenta del secolo scorso dopo il fallimento del rigore. Queste politiche romperebbero sicuramente gli equilibri e i poteri della globalizzazione, ma lo farebbero dal lato della pace. L’alternativa è che la globalizzazione salti per aria comunque, ma dal lato della guerra, come ci ricorda il Papa. Non c’è niente da fare, o si mettono in discussione i cardini della politica deflazionistica di questi decenni o la crisi si aggraverà sempre più, trasferendosi dal campo economico a quello sociale e da questo al campo della democrazia e della stessa convivenza, come la storia insegna a chi da essa vuole imparare.(Giorgio Cremaschi, “Il fallimento di trent’anni di deflazione”, da “Micromega” del 29 agosto 2014).Ha molto contribuito al disastro economico attuale un falso storico e ideologico. Quando in Italia e in Germania alla fine degli anni ‘70 si adottarono le politiche liberiste e si definì come prioritaria la lotta alla inflazione, fu spesso usato il monito che essa era all’origine del fascismo e soprattutto del nazismo. Falso. L’ascesa del fascismo da noi con l’inflazione non c’entra nulla e con quella del nazismo ancora meno. L’iper-inflazione degli anni ‘20 in Germania, usata come babau per giustificare tutto, persino lo statuto della Banca Centrale Europea, fu domata in pochi mesi dai governi di centrosinistra di quel paese e dal banchiere Schacht. Fu invece la disoccupazione di massa dopo la crisi del ‘29 a far crescere a dismisura il consenso ai nazisti, che fino ad allora era stato in percentuali bassissime. E quel consenso si alimentava del fatto che i governi democratici affrontavano la crisi con le politiche del rigore e dell’austerità, esattamente come oggi.