Archivio del Tag ‘debito pubblico’
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Euro-barbarie, Zanni: incostituzionale è l’Unione Europea
Se c’è qualcosa di “incostituzionale” è proprio l’Unione Europea. Si spera quindi che la frana dell’Eurozona diventi una valanga nel 2017, con elezioni che protrebbero “pensionare” i politici che finora hanno sostenuto l’euro-follia, da Parigi a Berlino. Non c’è mai stata cooperazione, ma solo una competizione giocata con armi illecite, alla quale sopravvivrà solo il più forte, la Germania. «Come è possibile – si domanda Marco Zanni – che istituzioni sovranazionali come quelle dell’Ue non siano dichiarate incostituzionali perché incompatibili con l’articolo 11 della nostra Costituzione, che delimita chiaramente i confini entro cui lo Stato italiano può partecipare a organizzazioni internazionali?». E infine: «Perché i nostri governi non rifiutano le distruttive e insensate regole europee quando queste creano pericolose asimmetrie e ledono i diritti fondamentali dei propri cittadini?». L’attuale classe politica italiana, e in particolare la sinistra, ha «svenduto il paese, i diritti dei cittadini e quelli dei lavoratori al capitale finanziario, che ha agito incontrollato nella distruzione di quanto di buono fatto in Europa dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale». Ergo, «non potranno essere loro a portarci fuori dal baratro».Tuttavia, «è ormai chiaro che il castello di carta crollerà sotto la fragilità delle sue stesse fondamenta: il 2017 sarà un anno fondamentale, perché dopo la Brexit e Trump potranno esserci sorprese in Italia, Olanda, Francia e Germania», scrive Zanni nel suo blog. L’Eurozona non è riformabile e quindi collasserà, perché politicamente insostenibile, anche se «molti ancora non vogliono capirlo, perché interessati a mantenere questo stato di perenne agonia in cui aumentano le diseguaglianze tra i più ricchi (sempre meno e sempre più ricchi) e i poveri (sempre di più e sempre più poveri)». Una costruzione «tecnicamente e politicamente irriformabile», che quindi «imploderà sotto i colpi della sua stessa insostenibilità». L’obiettivo dell’Ue, esplicitato dal Trattato di Maastricht fondativo dell’euro: «Una restaurazione liberista che ha smontato a colpi di “crisi telecomandate” e “ce lo chiede l’Europa” lo stato sociale e le tutele dei lavoratori tipiche delle Costituzioni nazionali democratiche degli Stati della periferia europea, operando, attraverso anche una deregolamentazione finanziaria spinta alla follia, una redistribuzione dei redditi dal lavoro al capitale».In questo scenario, continua Zanni nel suo blog, la Germania è stata abile nell’imporre il suo modello di sviluppo socio-economico, l’ordoliberismo mercantilista, creando un set di regole asimmetriche per punire “le cicale del Sud Europa” che “si indebitano” e “vivono al di sopra delle proprie possibilità”. Maastricht, Patto di Stabilità, Fiscal Compact, unione bancaria, Six-Pack e Two-Pack. Stesso obiettivo: «Per curare le asimmetrie andavano puniti severamente gli Stati in deficit», dimenticando che, «se c’è un deficit da una parte, dall’altra c’è un surplus (il gioco è a somma zero)», e quindi «se c’è qualcuno che è tanto irresponsabile da essersi indebitato troppo, dall’altra parte c’è un creditore altrettanto irresponsabile che gli ha prestato i soldi». E invece, nell’Eurozona «le regole sono state costruite e interpretate sempre per far ricadere il peso degli aggiustamenti sugli Stati in deficit e sui loro cittadini». E se l’Ue ha provato timidamente a far notare che la colpa delle “asimmetrie” è anche dei creditori, «l’egemone Stato tedesco ha preso a schiaffi Bruxelles e ha ributtato violentemente la palla dall’altra parte, infischiandosene di quelle regole che invece con tanto zelo impone ai partner europei».In un sistema a cambi fissi come quello dell’Eurozona, continua Zanni, i differenziali d’inflazione tra gli Stati membri causano perdita di competitività, squilibri della bilancia commerciale e indebitamento estero, soprattutto nel settore privato dei paesi in deficit, non potendo aggiustare la situazione con il cambio. La Germania, paese in costante surplus commerciale e fiscale, dovrebbe inflazionare (quindi alzare la spesa pubblica e alzare il livello dei salari), mentre la periferia dovrebbe deflazionare, come sta facendo, al prezzo della distruzione della propria economia. Regole sempre asimmetriche: «La periferia è stata costretta a deflazionare, con austerità e contenimento dei salari, mentre la Germania se n’è infischiata delle regole e ha continuato a mantenere inflazione vicina allo zero, a registrare surplus fiscali di bilancio e ad aumentare il suo surplus commerciale, sfruttando il suo tasso di cambio reale pesantemente sottovalutato, come fatto notare anche dal Fondo Monetario Internazionale e dall’Ocse». Dopo il 2013, anche su sollecito dell’Italia, la Commissione Europea ha segnalato a Berlino il mancato rispetto delle regole da parte dei tedeschi, chiedendo alla Germania di aumentare la sua spesa pubblica e di alzare i salari, «ricevendo puntualmente la porta in faccia».Questa è l’essenza dell’Eurozona, sottolinea Zanni: «Un sistema asimmetrico, in cui i più forti interpretano le regole a loro favore, non le rispettano e in cui si creano vincitori e vinti a un prezzo altissimo, in barba a quella cooperazione socio-economica tra gli Stati membri scritta a chiare lettere nei Trattati». Bruxelles è appena tornata alla carica chiedendo alla Germania una sterzata per il 2017, ma la risposta di Wolfgang Schaeuble non è cambiata: Berlino si appella al pareggio di bilancio inserito in Costituzione, fornendo ai tedeschi un vantaggio competitivo che la Germania si è costruita «plasmando a suo favore le regole europee e soffocando gli Stati europei più minacciosi per la propria sopravvivenza e prosperità», Italia in primis. «Invece che rispettare i precetti della cooperazione socio-economica sancita nei trattati», i tedeschi «hanno preferito seguire la più semplice filosofia del “mors tua vita mea”. La Germania – aggiunge Zanni – se ne fregherà delle regole europee, farà registrare il quarto bilancio pubblico consecutivo in surplus e continuerà con la sua politica di ricatto e soppressione del vicino, anche a costo di danneggiare e soffocare i “cugini” europei».Dando per scontato che a farlo non saranno politici come Hollande e Merkel, chi dovrà gestire la transizione dovrà arrivare estremamente preparato, perché non sappiamo se sarà un processo soft o turbolento. Obiettivo: risollevare l’economia dei paesi devastati dalle politiche imposte dall’euro. Misure sovraniste, quindi. La prima, ovvia: il ripristino della flessibilità dei cambi con una valuta controllata dalla banca centrale nazionale. E in parallelo, una riforma di Bankitalia «che dovrà eliminarne l’indipendenza e il divieto di finanziamento del deficit pubblico, facendola tornare sotto l’egida pubblica e operare in sintonia con il Ministero del Tesoro per non lasciare in mano ai mercati finanziari il destino del nostro debito pubblico e la determinazione dei tassi d’interesse che paghiamo su di esso». Zanni evoca anche il ripristino del Glass-Stegall Act abolito da Bill Clinton, cioè «il ripristino della separazione tra banche d’affari e banche commerciali». Quindi, misure keynesiane: «Un massiccio piano di investimenti pubblici in ricerca e sviluppo, in riqualificazione energetica degli edifici, con la messa in sicurezza del patrimonio pubblico e del suolo contro il rischio sismico e le catastrofi ambientali, finanziato attraverso la monetizzazione del deficit da parte della banca centrale».Zanni propone anche più controlli sulla libera circolazione dei capitali e il ripristino di una stringente regolamentazione dei mercati finanziari, da riportare «a supporto dell’economia reale». Corollario: una imponente riforma sociale, che azzeri che “riforme” degli ultimi decenni. E cioè: «Il ripristino di tutte le tutele ai lavoratori e alle altre categorie di cittadini come previste dalla Costituzione italiana del 1948», perché «il lavoro deve rimanere un diritto costituzionalmente garantito». L’Europa? «Rapporti con i partner europei sulla base del rispetto reciproco e della cooperazione verso obiettivi comuni di prosperità, sempre però nel rispetto delle democrazie nazionali e dei precetti costituzionali». In altre parole, si tratterebbe di una rivoluzione copernicana. Attuata da quali forze politiche? Non è dato saperlo, per ora. Quella che Zanni auspica, in ogni caso, è una svolta epocale, necessaria per «ricostruire le macerie di un paese raso al suolo dall’adesione incondizionata al folle progetto» dell’Eurozona. «Ma la cosa più importante – aggiunge – sarà tener vivo nelle generazioni future il ricordo di queste scempio e delle cause che hanno portato alla più grande recessione economica della storia moderna».Se c’è qualcosa di “incostituzionale” è proprio l’Unione Europea. Si spera quindi che la frana dell’Eurozona diventi una valanga nel 2017, con elezioni che protrebbero “pensionare” i politici che finora hanno sostenuto l’euro-follia, da Parigi a Berlino. Non c’è mai stata cooperazione, ma solo una competizione giocata con armi illecite, alla quale sopravvivrà solo il più forte, la Germania. «Come è possibile – si domanda Marco Zanni, europarlamentare grillino – che istituzioni sovranazionali come quelle dell’Ue non siano dichiarate incostituzionali perché incompatibili con l’articolo 11 della nostra Costituzione, che delimita chiaramente i confini entro cui lo Stato italiano può partecipare a organizzazioni internazionali?». E infine: «Perché i nostri governi non rifiutano le distruttive e insensate regole europee quando queste creano pericolose asimmetrie e ledono i diritti fondamentali dei propri cittadini?». L’attuale classe politica italiana, e in particolare la sinistra, ha «svenduto il paese, i diritti dei cittadini e quelli dei lavoratori al capitale finanziario, che ha agito incontrollato nella distruzione di quanto di buono fatto in Europa dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale». Ergo, «non potranno essere loro a portarci fuori dal baratro».
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Regalare l’Italia ai suoi predatori, fingendo di difenderla
Il piano era semplice: «Creare euforia e consenso legati alle riforme di Renzi per trasformare l’Italia in un paese governabile, “marionettando” un solo uomo», cioè il capo del Pd. Corollario: rendere costituzionale «la subordinazione di Roma a Berlino e Parigi», e soprattutto «completare il trasferimento-svendita» del paese, con le aziende strategiche (inclusa Bankitalia) affidate al controllo di banche straniere. Renzi? E’ stato solo l’ultimo atto di una tragica farsa che risale agli anni ‘80, scrive Marco Della Luna nel suo blog, in cui denuncia il pericolo di brogli che incomberebbe sul referendum del 4 dicembre, dato l’altissimo rischio che Renzi lo perda, costringendo i suoi padroni occulti a rallentare l’assalto all’Italia. «Al governo e ai potentati che esso serve – scrive Della Luna – non resta che puntare su brogli massicci per vincere il referendum e insieme prepararsi a guidare gli sviluppi, in caso che perdano, mediante i soliti strumenti dei premi e dei ricatti finanziari e giudiziari». Niente di nuovo: «La principale occupazione dei governanti italiani, perlomeno da Andreatta in poi, è stata quella di trasferire, senza che l’opinione pubblica capisse che cosa facevano, il risparmio, le risorse finanziarie, le migliori aziende, le imprese strategiche, tra cui soprattutto la Banca d’Italia, a multinazionali finanziarie straniere».Una colossale spoliazione, che la “casta” al potere ha consentito «in cambio di carriera assicurata», in patria ma anche «in Europa, o nelle grandi banche saccheggiatrici che essi hanno servito, secondo il noto schema delle “porte girevoli”». Questo, aggiunge Della Luna, «è il regime che predica tanto su corruzione ed evasione, e presenta il supergarante Cantone». Guardiamo ai fatti: «Il governo Monti, solo per citarne uno, ha raccolto 57 miliardi di tasse in più dagli italiani, affondando il settore immobiliare ed esasperando così la recessione, per dare aiuti alle decotte banche greche e non solo, con cui pagassero alle banche franco-tedesche i loro illeciti profitti ottenuti con prestiti predatori precedentemente concessi». Im pratica, «fu un enorme aiuto di Stato a banche private, imposto dall’“Europa”», la stessa Europa che oggi «non consente al governo italiano di aiutare le proprie banche in crisi». Motivo del divieto: «Devono essere spolpate da Jp Morgan e soci, il cui uomo di fiducia, Morelli, è già stato messo da Renzi a capo di Mps».Questi governi, continua Della Luna, «sopravvivono solo perché e finché la Bce continua ad assicurare artificialmente l’acquisto dei loro titoli pubblici». Nel regime dell’Eurozona non puiò che essere così: è la Bce a tenerli in vita in questo modo, «per evitare che collassino mentre procede il programma di espianto e trasferimento all’estero delle risorse italiane: capitali, cervelli, aziende, mercati». Matteo Renzi paladino degli interessi nazionali? Ma mi faccia il piacere, direbbe Totò. «A parte gli effetti provvisori e già scemati della costosa decontribuzione, il Jobs Act ha ridotto i diritti del lavoro e non ha aumentato strutturalmente gli impieghi», sottolinea Della Luna. «Le promesse di superare l’austerity merkeliana ed europea si sono dissolte o sono rinviate sine die di fronte al “nein” di chi comanda in Europa». Inevitabilmente, quindi, «malgrado le mancette degli 80 euro», la festa è finita subito: «L’euforia si è sgonfiata e consensi per Renzi sono fortemente scesi dal 40% iniziale dovuto al marketing e all’effetto novità». I sondaggi dicono che vincerà il No: «Salvo un loro errore clamoroso, il piano è fallito». La “riforma” renziana? L’ennesimo tassello del grande piano, che «mira ad abolire lo Stato di diritto, la rappresentanza democratica, la possibilità di opposizione e alternanza interna al sistema giuridico», quindi «l’obbedienza dell’Italia a Berlino e Parigi via Ue, dietro la simulata polemica con la Commissione Europea e il governo Merkel».Il piano era semplice: «Creare euforia e consenso legati alle riforme di Renzi per trasformare l’Italia in un paese governabile, “marionettando” un solo uomo», cioè il capo del Pd. Corollario: rendere costituzionale «la subordinazione di Roma a Berlino e Parigi», e soprattutto «completare il trasferimento-svendita» del paese, con le aziende strategiche (inclusa Bankitalia) affidate al controllo di banche straniere. Renzi? E’ stato solo l’ultimo atto di una tragica farsa che risale agli anni ‘80, scrive Marco Della Luna nel suo blog, in cui denuncia il pericolo di brogli che incomberebbe sul referendum del 4 dicembre, dato l’altissimo rischio che Renzi lo perda, costringendo i suoi padroni occulti a rallentare l’assalto all’Italia. «Al governo e ai potentati che esso serve – scrive Della Luna – non resta che puntare su brogli massicci per vincere il referendum e insieme prepararsi a guidare gli sviluppi, in caso che perdano, mediante i soliti strumenti dei premi e dei ricatti finanziari e giudiziari». Niente di nuovo: «La principale occupazione dei governanti italiani, perlomeno da Andreatta in poi, è stata quella di trasferire, senza che l’opinione pubblica capisse che cosa facevano, il risparmio, le risorse finanziarie, le migliori aziende, le imprese strategiche, tra cui soprattutto la Banca d’Italia, a multinazionali finanziarie straniere».
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Lo Spiegel: ormai a rischio-povertà 118 milioni di europei
Mentre gran parte della stampa nazionale fa di tutto per gonfiare in maniera propagandistica qualsiasi dato possa far gridare alla “ripresa”, il quotidiano tedesco “Der Spiegel” commenta uno sconcertante studio sul crescente rischio di povertà in Europa. Secondo la ricerca del “Social Justice Index”, la crescita degli impieghi a basso salario è alla base di questa inquietante statistica. Lo segnala “Voci dall’Estero”, che evidenzia il servizio dello “Spiegel”: la mappa del pericolo investe con particolare rilievo i paesi del Sud Europa, cioè quelli più colpiti dalle politiche di rigore imposte dall’Eurozona a guida tedesca. Parlano i numeri, dimostrando che la “svalutazione interna”, indispensabile per “reggere” l’euro, sta falcidiando – come ampiamente previsto – il sistema socio-produttivo, costretto ai tagli per poter sostenere la concorrenza, non potendo più ricorrere a nessuna forma di investimento pubblico. La novità, semmai, sta nelle dimensioni del disastro: a rischio-povertà, secondo lo studio, sarebbero ormai 118 milioni di cittadini europei, su cui si è abbattuta la mannaia dell’austerity imposta dalla moneta unica “privatizzata”.«È in costante crescita il numero di cittadini europei che, nonostante abbiano un impiego a tempo pieno, sono a rischio povertà», precisa lo “Spiegel”. Sono le conclusioni del recente studio del “Social Justice Index 2016”, finanziato dalla Fondazione Bertelsmann. Il peggioramento sta galoppando: lo scorso anno questa percentuale è salita al 7,8%, mentre tre anni fa era al 7,2 per cento. «Ciò significa che milioni di persone nell’Ue sono sottoposte a un reale rischio di povertà, pur potendo contare su un’occupazione a tempo pieno». Anche se alcuni paesi dell’Uunione Europea stanno mostrando una lenta ripresa rispetto alle conseguenze della crisi economica e finanziaria, «lo stesso non si può dire dell’impatto che i mutamenti del mercato del lavoro hanno avuto sulla vita delle persone». Anche perché la decantata “ripresa” è sempre ferma a decimali irrisori, del tutto irrilevanti rispetto ai numeri veri dell’economia: secondo l’Istat, l’Italia ha perso 73 miliardi in soli tre anni, grazie all’effetto del governo Monti. In fumo oltre 650.000 posti di lavoro, a causa del fallimento di oltre 15.000 aziende (dati Ocse). Una catastrofe, impossibile da recuperare con le “ripresine”. E il peggio è che, ormai, è a rischio anche chi un lavoro ce l’ha: lo stipendio è troppo magro. Così stanno crollando gli standard del benessere medio in Europa.Sulla base di 35 criteri, i ricercatori di “Social Justice Index” analizzano ogni anno sei aree di studio, tra cui povertà, istruzione, occupazione, salute e giustizia intergenerazionale. «Secondo il documento – scrive lo “Spiegel” – un cittadino europeo su quattro è alle soglie della povertà o a rischio di una qualche forma di esclusione sociale: in totale si parla di oltre 118 milioni di persone. Per i ricercatori le ragioni vanno ricercate in particolare nella crescita dei settori a basso salario». L’aumento dei cosiddetti “lavoratori poveri”, ovvero delle persone con un’occupazione ma a rischio di povertà, preoccupa moltissimo gli autori della ricerca. «Una crescente percentuale di persone alle quali non basta un lavoro per vivere è qualcosa che mina l’intera legittimità del nostro ordine economico e sociale», afferma il presidente della Fondazione Bertelsmann, Aart De Geus. E’ il corollario della crisi sistemica indotta dalla perdita di sovranità finanziaria: meno investimenti uguale meno lavoro e meno redditi, meno Pil, più tassazione ma minori entrate, e quindi più debito pubblico. Una spirale perfetta, dalla quale – alle attuale condizioni, coi bilanci gestiti da Bruxelles e dalla Bce – non è possibile uscire.Non è solo la povertà a essere identificata come una delle problematiche fondamentali: nella stessa Germania, secondo gli autori della ricerca, pesa anche «la scarsa permeabilità sociale prodotta dal sistema educativo». Il numero di persone «occupate a tempo pieno ma sulla soglia della povertà» è aumentato dal 5,1% del 2009 al 7,1% del 2015. «Questo pone la Germania al settimo posto in Europa, nonostante la Repubblica Federale sia la più grande potenza economica del vecchio continente». Il primo posto è occupato dalla Svezia (che non ha l’euro) mentre il fanalino di coda resta la Grecia, massacrata proprio dalla politica di rigore imposta da Berlino. In particolare, aggiunge lo “Spiegel”, nell’Europa meridionale sono i giovani a rischiare di essere lasciati indietro: in tutta l’Unione Europea, «il 27% dei minori (sotto i 18 anni) sono a rischio di povertà o esclusione sociale». Uno scenario ormai drammatico: «In Grecia, Italia, Spagna e Portogallo addirittura un bambino su tre è a rischio di povertà».Mentre gran parte della stampa nazionale fa di tutto per gonfiare in maniera propagandistica qualsiasi dato possa far gridare alla “ripresa”, il quotidiano tedesco “Der Spiegel” commenta uno sconcertante studio sul crescente rischio di povertà in Europa. Secondo la ricerca del “Social Justice Index”, la crescita degli impieghi a basso salario è alla base di questa inquietante statistica. Lo segnala “Voci dall’Estero”, che evidenzia il servizio dello “Spiegel”: la mappa del pericolo investe con particolare rilievo i paesi del Sud Europa, cioè quelli più colpiti dalle politiche di rigore imposte dall’Eurozona a guida tedesca. Parlano i numeri, dimostrando che la “svalutazione interna”, indispensabile per “reggere” l’euro, sta falcidiando – come ampiamente previsto – il sistema socio-produttivo, costretto ai tagli per poter sostenere la concorrenza, non potendo più ricorrere a nessuna forma di investimento pubblico. La novità, semmai, sta nelle dimensioni del disastro: a rischio-povertà, secondo lo studio, sarebbero ormai 118 milioni di cittadini europei, su cui si è abbattuta la mannaia dell’austerity imposta dalla moneta unica “privatizzata”.
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Addavenì Roosevelt, ma per ora ci sono i padroni di Matteo
Sarà anche meno simpatico di prima, però è stato bravo, Matteo. Li ha messi tutti nel sacco: Bersani, Letta, Berlusconi. Poi ha fatto il Jobs Act, rottamando quel che restava dei diritti del lavoro, in un paese devastato dal rigore indotto dall’Eurozona. Quindi ha regalato a BlackRock metà di Poste Italiane, società che andava benissimo e fruttava ogni anno quasi mezzo miliardo, allo Stato. E adesso rilancia: più potere al governo, una sola Camera, o me o il diluvio. Ma è solo un esecutore, Matteo. Un esecutore ambizioso, certo, dotato di talento narrativo: è riuscito a far credere di lavorare davvero per l’Italia, anziché per i soliti grandi manovratori, da cui dipende il suo avvenire. Come Jamie Dimon, boss della Jp Morgan, quello che “la Costituzione italiana è oblsoleta, tutela ancora troppo i diritti sociali”. Dimon e Larry Fink, di BlackRock. E Michael Ledeen, super-falco dell’ultradestra americana, suo consigliere-ombra per la politica estera. E il fido Marco Carrai, legato a Israele come Yoram Gutgeld, “mente” economica del Pd renziano ridotto a cinghia di trasmissione dei supremi poteri. “Doveva” vincere, Matteo, contro il timido Letta, l’esausto Silvio, l’increscioso Bersani che consegnò l’Italia a Mario Monti, sottoscrivendo l’operazione internazionale affidata, per la regia italiana, a Giorgio Napolitano.Tutti a sparare contro Gelli, dice Gioele Magaldi, e nessuno che dica – a parte lui – che nello stesso anno in cui Berlusconi entrava nella P2, Napolitano veniva affiliato alla “Three Eyes”, la potentissima Ur-Lodge plasmata da personaggi come Kissinger e Rockefeller. Proprio alla “Three Eyes”, dice sempre Magaldi (massone progressista), il giovane Matteo sta tuttora “bussando”, sperando di essere accolto – nella “Three Eyes”, faro storico della destra massonica mondiale, ma anche presso altri «circuiti massonici neo-aristocratici, segnatamente quelli di cui è protagonista Mario Draghi», come le superlogge “Pan-Europa”, “Edmund Burke”, “Compass Star-Rose” e “Der Ring”, il cui venerabile maestro è il ministro delle finanze tedesco, il terribile Wolfgang Schaeuble. Sono informazioni ormai accessibili al pubblico: Magaldi le ha inserite nel suo libro “Massoni”, edito da Chiarelettere, che i media mainstream hanno evitato di recensire. «Non c’è la documentazione di quanto si afferma», ha detto qualcuno. Magaldi ha sempre risposto prontamente: «Ho a disposizione 6.000 pagine di documenti, se qualcuno dubita della veridicità di quanto ho lo scritto me lo dica, gli dimostrerò che si sbaglia». Silenzio assoluto, naturalmente.Tornando a Matteo: ha avuto buon gioco nel liquidare Letta («che è un esponente dell’Opus Dei», dichiara un altro analista di appartenenza massonica, Gianfranco Carpeoro, autore del dirompente saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, pubblicato da Uno Editori). Lo stesso Carpeoro aggiunge: quei “salotti” non lo vogliono, Renzi, perché allarmati – persino loro – dalla straordinaria disinvoltura del fiorentino, troppo privo di scrupoli (“Enrico stai sereno”) persino per i super-squali del massimo potere. Fatto fuori brutalmente Letta, Renzi ha illuso anche Berlusconi, facendosi credere disponibile a condividere il ridisegno strutturale del paese, dalla Costituzione alla legge elettorale. E, prima ancora, aveva bruciato sul traguardo il pessimo Bersani, inchiodato da Grillo alla “non-vittoria” del 2013. Bersani, ovvero: l’emblema della sinistra “politically correct” che ha dato a intendere agli italiani, per vent’anni, che il problema del paese era Berlusconi, e non la svendita dell’Italia ai super-padroni stranieri che manovrano i tecnocrati di Bruxelles, utilizzando l’abortita Unione Europea per svalutare le economie del Sud Europa, deindustrializzare, delocalizzare, demolire i diritti, far crollare il Pil, far esplodere il debito, ridurre l’ex classe media all’esasperazione che sta dietro al successo di Marine Le Pen e Donald Trump.I tempi stanno per cambiare? Forse, e non solo negli Usa. Lo disse, mesi fa, una delle più importanti eminenze grigie del “back office” super-massonico del potere americano, Zbigniew Brzezinki, già consigliere di Carter e stratega della globalizzazione. Ammonì Obama e la Clinton: basta provocazioni, è tempo di un accordo stabile con Russia e Cina. Su un altro piano, a queste dichiarazioni fa ora eco un altro super-potente, il francese Jacques Attali, già braccio destro di Mitterrand e “maestro” di Massimo D’Alema. L’epoca dell’austerity è finita, ha detto, ed è stata una catastrofe per l’Europa. Serve un nuovo Roosevelt che cambi faccia al vecchio continente, tornando a investire sulla spesa pubblica per produrre posti di lavoro. Sembra di sognare: nato come socialista, Attali divenne uno dei massimi artefici della politica neo-conservatrice che ha devastato l’Europa, da Maastricht in poi, precipitando nella crisi i paesi dell’Eurozona. Ora Attali ci ripensa: abbiamo sbagliato tutto, ammette. Nel suo piccolo ha sbagliato tutto anche Matteo, ultimamente, facendosi benedire dal tandem morente Obama-Hillary.Si mette male, per il referendum renziano? Chi può dirlo. Certo è che non esiste ancora un piano-B. Da una parte la Merkel e Juncker a puntellare la tecnocrazia della crisi, dall’altra l’esplosione dei cosiddetti populismi. Al povero Matteo, gli italiani credono sempre meno – e a milioni correranno a votare, anche solo per cancellargli dalla faccia il suo trionfalismo ipocrita e provinciale, ormai grottesco. Ma dov’è l’alternativa? Dov’è il nuovo Roosevelt di cui parla l’anziano Attali? Secondo un sondaggio commissionato dalla “Stampa”, due italiani su tre hanno paura di abbandonare sia l’euro che l’Unione Europea, non riconoscendo né l’uno né l’altra come le vere cause del disastro che subiscono, tra aziende chiuse, lavoratori a spasso, super-tassazione, erosione dei risparmi, zero futuro. Di fronte c’è un Everest praticamente invalicabile, la disinformazione sistemica: il debito pubblico è visto ancora come una colpa, anziché una leva di sviluppo. Le élite ci hanno lavorato per decenni: media, università, libri. Sfugge, al cittadino comune, il valore decisivo della sovranità statale. Non gliel’hanno spiegato né i sindacati né la sinistra di Bersani e quella di D’Alema, che andava a scuola da Attali quando ques’ultimo progettava l’annientamento dell’Europa. Restano i 5 Stelle, dice qualcuno. I 5 Stelle, appunto. Il nuovo Roosevelt può attendere.Sarà anche meno simpatico di prima, però è stato bravo, Matteo. Li ha messi tutti nel sacco: Bersani, Letta, Berlusconi. Poi ha fatto il Jobs Act, rottamando quel che restava dei diritti del lavoro, in un paese devastato dal rigore indotto dall’Eurozona. Quindi ha regalato a BlackRock metà di Poste Italiane, società che andava benissimo e fruttava ogni anno quasi mezzo miliardo, allo Stato. E adesso rilancia: più potere al governo, una sola Camera, o me o il diluvio. Ma è solo un esecutore, Matteo. Un esecutore ambizioso, certo, dotato di talento narrativo: è riuscito a far credere di lavorare davvero per l’Italia, anziché per i soliti grandi manovratori, da cui dipende il suo avvenire. Come Jamie Dimon, boss della Jp Morgan, quello che “la Costituzione italiana è oblsoleta, tutela ancora troppo i diritti sociali”. Dimon e Larry Fink, di BlackRock. E Michael Ledeen, super-falco dell’ultradestra americana, suo consigliere-ombra per la politica estera. E il fido Marco Carrai, legato a Israele come Yoram Gutgeld, “mente” economica del Pd renziano ridotto a cinghia di trasmissione dei supremi poteri. “Doveva” vincere, Matteo, contro il timido Letta, l’esausto Silvio, l’increscioso Bersani che consegnò l’Italia a Mario Monti, sottoscrivendo l’operazione internazionale affidata, per la regia italiana, a Giorgio Napolitano.
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Ma perché votare No, se poi comanda la mafia euro-Ue?
«L’orrenda verità è che qui in Italia ci possono lasciare un Senato, due, otto, o toglierlo e farne uno di bambù, o possono farne uno coi Sette Nani, Totti e la Blasi, ma qui in Italia non cambia nulla». Per Paolo Barnard, l’unico No che avrebbe senso, il 4 dicembre, «sarebbe quello di un’Italia dove la cittadinanza poi si fa sentire, sia dalla Camera che dal Senato, per riprendersi i suoi diritti», che ci sono stati “scippati”, nell’ultimo quarto di secolo, da governi e Parlamenti sostanzialmente d’accordo sul grande piano: rottamare l’Italia, asservendola al super-potere del business imposto da Bruxelles con la revoca della sovranità nazionale. Se si capisce questo, perché mai votare? «Per mantenere un sistema bicamerale che dal 1992 a oggi ha solo firmato la distruzione d’Italia? E’ questo il sistema bicamerale che volete mantenere?», si domanda Barnard. Senza un vero No al regime Ue e all’Eurozona, ogni altro voto è perfettamente inutile, sostiene il giornalista, autore del saggio “Il più grande crimine”, nel quale mostra come l’Italia sia stata “terminata”, per volere dell’élite finanziaria, col pieno consenso dei politici al potere, di destra e di sinistra.La lista degli eventi catastrofici è sterminata: «Governi tecnici fino all’ultimo D’Alema, poi Monti e Letta», quindi «le 14, diventate poi più di 36, nuove flessibilità sul lavoro dal ‘Baffetto’ in poi», senza contare «gli interventi militari», cioè «crimini contro l’umanità» in Kosovo, Afghanistan, Iraq, poi «l’appoggio italiano al disastro libico». Ma anche «i salvataggi bancari da Tremonti in poi, per ben oltre 110 miliardi di euro». E soprattutto: «I Trattati di Maastricht, Lisbona, Europact, Six Pack, Fiscal Compact, Pareggio di Bilancio in Costituzione». E ancora: l’Efsf, il Mes, l’European Semester e tutto l’impianto dell’Eurozona, «che certificarono la più indicibile perdita di sovranità monetaria, parlamentare e costituzionale della storia d’Italia, e lo sprofondamento del paese nei Piigs», da cui «lo scannatoio-pensioni della riforma Fornero/Modigliani, l’attacco all’articolo 18 e la finanziarizzazione del diritto di pensionamento, il Jobs Act e il resto dell’abominio della nano-economia di Renzi», con in mezzo «le spending review di Cottarelli e Grilli, il massacro civile dei Patti di Stabilità dei Comuni».Barnard denuncia anche «la violazione di 17 articoli della Costituzione italiana per mano dei governi Monti e Letta col benestare di Napolitano», nonché «la continuata umiliazione di Roma che bela pietà a Bruxelles prima di poter passare una legge di bilancio, o per poter spendere 10 euro per i cataclismi naturali o per l’arrivo dei migranti, mentre Francia e Germania se ne sbattono il cazzo di Bruxelles dal primo giorno dell’entrata in Eurozona». Da segnalare anche «la mancata regolamentazione delle più fallite banche di tutta Europa con 360 miliardi di euro di buchi contabili», e poi «gli aumenti di Iva proiettati al 24% e una pressione fiscale oscillante dal 44 al 72% reali, la seconda più alta al mondo». E chi ha votato questo abominio? Chi non vi si è opposto? «Risposta: una Camera dei Deputati, e un Senato, italiani. E adesso mi si viene a dire che l’apocalisse della democrazia italiana è l’eliminazione di quel Senato? Ah, perché prima invece ci tutelava?». Per Barnard, mantenere un Senato in Italia, «dopo la sua vomitevole performance degli ultimi 24 anni», ha un senso «solo e la cittadinanza capisce che non è una questione di avere Camere, Senati, sgabuzzini e tinelli», ma sovranità vera.La questione, insiste Barnard, è «avere una cittadinanza che capisca cosa pretendere da Camere e Senati, e che pretenda subito: via dall’Eurozona dell’economicidio, via dall’Europa dei tecnocrati, dal mostro di Bruxelles». Bisogna «riprendersi tutte le sovranità: legislative, monetarie, costituzionali». Occorre «capire le operazioni monetarie per ottenere la piena occupazione, il dominio pubblico sul sistema finanziario e la supremazia dell’interesse pubblico sui profitti del settore privato», e cioè «espandere il deficit di Stato a moneta sovrana, fino alla rinascita del paese». Ma Barnard è ultra-pessimista: «Nulla mai cambierà, per noi, anche con una o due Camere, due o cinque Senati, perché quell’opinione pubblica che capisca cosa pretendere da un Parlamento non ce l’abbiamo». In Gran Bretagna c’è un bicameralismo ‘snello’ che ha una specie di Senato, i Lords, che costano la metà del nostro Senato e non possono bocciare le leggi della Camera. «Ma di chi è il merito della più grande rivoluzione europea dal 1848, quella esplosa il 23 giugno con Brexit? Non certo del loro bicameralismo ‘snello’. E’ dei britannici, che si sono fatti sentie dalla politica sul tema vitale per il loro paese, ovvero la fuga dall’Unione Europea dell’economicidio». Da noi invece c’è solo Grillo, conclude Barnard: un «buffone stellato», che agli speculatori non fa nessuna paura.«L’orrenda verità è che qui in Italia ci possono lasciare un Senato, due, otto, o toglierlo e farne uno di bambù, o possono farne uno coi Sette Nani, Totti e la Blasi, ma qui in Italia non cambia nulla». Per Paolo Barnard, l’unico No che avrebbe senso, il 4 dicembre, «sarebbe quello di un’Italia dove la cittadinanza poi si fa sentire, sia dalla Camera che dal Senato, per riprendersi i suoi diritti», che ci sono stati “scippati”, nell’ultimo quarto di secolo, da governi e Parlamenti sostanzialmente d’accordo sul grande piano: rottamare l’Italia, asservendola al super-potere del business imposto da Bruxelles con la revoca della sovranità nazionale. Se si capisce questo, perché mai votare? «Per mantenere un sistema bicamerale che dal 1992 a oggi ha solo firmato la distruzione d’Italia? E’ questo il sistema bicamerale che volete mantenere?», si domanda Barnard. Senza un vero No al regime Ue e all’Eurozona, ogni altro voto è perfettamente inutile, sostiene il giornalista, autore del saggio “Il più grande crimine”, nel quale mostra come l’Italia sia stata “terminata”, per volere dell’élite finanziaria, col pieno consenso dei politici al potere, di destra e di sinistra.
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Sondaggio-choc: 2 italiani su 3 vogliono tenersi euro e Ue
Buonanotte, Italia. Nonostante tutto – la devastazione ininerrotta dell’economia, la condanna al declino – la maggioranza degli italiani vuole restare nell’Unione Europea. Lo conferma un sondaggio che il quotidiano “La Stampa” ha commissionato a Community Media Research, in collaborazione con Intesa Sanpaolo. L’economista tedesco Heiner Flassbeck conferma che l’Italia è sabotata dalla “concorrenza sleale” della Germania e dai vincoli politici ed economici imposti dell’Ue e dall’Eurozona? Analisi non pervenuta: l’oligarchia tecnocratica di Bruxelles va ancora bene, a quasi 6 italiani su 10, malgrado Monti e legge Fornero, il rigore estremo, il pareggio di bilancio, il Fiscal Compact e tutti i drammatici tagli imposti dalla moneta comune, che hanno azzoppato l’industria italiana a vantaggio di quella tedesca, facendo crollare il Pil e quindi esplodere il debito pubblico. Da Bruxelles sono scappati persino gli inglesi, che nell’Ue stavano a condizioni provilegiate e senza neppure la maledizione dell’euro. Ma da noi non se ne parla neppure, anche se non mancano politici che chiedono una rottura con l’Ue dell’austerity. La maggioranza silenziosa preferisce tenersi i vincoli europei: pensa (ancora) che siano superabili, che non siano letali.«Nel nostro paese non mancano esponenti politici e partiti che criticano ferocemente la burocrazia europea, fino ad auspicare un’uscita dall’Unione emulando i britannici o l’abbandono della moneta unica», precisa Daniele Marini sul quotidiano torinese, presentado il sondaggio reso pubblico il 21 novembre. Molti fattori oggettivi “remano contro” l’Ue, ma fino a che punto la popolazione esprime un sentimento anti-europeista? La ricerca demoscopica appena realizzata «racconta di un orientamento generale certamente non entusiasta verso l’Europa, con aree non marginali di criticità, ma sicuramente non incline a prospettive di abbandono». Al contrario: «Si chiede al governo un maggiore e rinnovato impegno nel cambiamento dell’Ue volto al suo rafforzamento». Gli autori del sondaggio hanno chiesto agli italiani in che misura seguirebbero i britannici, reduci dalla Brexit. La risposta è incredibile, ma vera: «La maggioranza (56,3%) ritiene che, su un argomento così spinoso, a decidere il da farsi dovrebbero essere i politici eletti», nei quali evidentemente la maggioranza ripone ancora fiducia. Solo un italiano su quattro (il 28,1%) è dell’avviso che toccherebbe al popolo decidere.«Un simile esito – sottolinea Marini – evidenzia una cautela degli interpellati nel decidere “di pancia” su temi così complessi. E costituisce anche un’attribuzione di responsabilità nei confronti dei propri rappresentanti. Anche perché comunque l’Unione è vissuta come una conquista, un’istituzione di cui non ci si può sbarazzare con imperizia». Prova ne sia che «solo il 13% considera l’Europa un ostacolo nel cammino di uscita dalle difficoltà economiche del nostro paese». Per contro, una misura più che doppia (28%) la valuta un’opportunità per superare le carenze nostrane. Alla fine, «la maggioranza fra gli italiani vive l’Ue come una necessità (57,5%), che però deve essere ripensata nella sua struttura e negli obiettivi». Prevale cioè un orientamento verso l’Ue «duplice e complementare», spiega Marini: «Da un lato, spaventa una larga fetta di popolazione la prospettiva di uscire dall’Ue e, soprattutto, abbandonare l’euro per tornare alla vecchia lira». Nel primo caso, i due terzi degli intervistati (64,4%) ritengono che se l’Italia non facesse parte dell’Unione le difficoltà economiche sarebbero ancora peggiori. «Nel secondo caso, ben il 71,7% considera l’uscita dall’euro foriera di una recrudescenza delle nostre condizioni economiche».Dall’altro lato, «è diffusa l’idea che l’Italia si debba impegnare per favorire un mutamento delle politiche e delle prospettive dell’Ue, anche negoziando nuove e più flessibili regole». Così, continua “La Stampa”, quattro italiani su cinque (l’80,5%) sperano che il governo promuova un allentamento dei vincoli finanziari. In sostanza, gli “euro-convinti” che considerano deleterio un abbandono dell’Unione e dell’euro «costituiscono i due terzi della popolazione (67,4%), quota in leggera crescita rispetto al 2014 (63,6%)». All’opposto, gli “anti-euro” (15,2%) sono una parte minoritaria, ma anch’essi in lieve aumento sul 2014 (erano l’11,7%). «Ne consegue che gli “euro-flebili” (9,4%, erano 13,9% nel 2014), favorevoli all’Unione, ma con perplessità, e gli “euro-scettici” (8,0%, erano il 10,8% nel 2014), indifferenti o propensi a uscire dall’Ue, diminuiscono di peso». Per quanto «acciaccata e mai così frammentata, priva di una visione comune e ingessata nel rivisitare i valori di riferimento», questa Unione Europea «costituisce ancora un orizzonte comune per la grande maggioranza degli italiani». Notizia nella notizia: gli “euro-convinti” sono «i più giovani, gli studenti, i laureati», ovvero «chi auspica un futuro davanti a sé, un progetto in cui investire».Buonanotte, Italia. Nonostante tutto – la devastazione ininterrotta dell’economia, la condanna al declino – la maggioranza degli italiani vuole restare nell’Unione Europea. Lo conferma un sondaggio che il quotidiano “La Stampa” ha commissionato a Community Media Research, in collaborazione con Intesa Sanpaolo. L’insigne economista tedesco Heiner Flassbeck conferma che l’Italia è sabotata dalla “concorrenza sleale” della Germania e dai vincoli politici ed economici imposti dell’Ue e dall’Eurozona? Analisi non pervenuta: l’oligarchia tecnocratica di Bruxelles va ancora bene, a quasi 7 italiani su 10, malgrado Monti e legge Fornero, il rigore estremo, il pareggio di bilancio, il Fiscal Compact e tutti i drammatici tagli imposti dalla moneta comune, che hanno azzoppato l’industria italiana a vantaggio di quella tedesca, facendo crollare il Pil e quindi esplodere il debito pubblico. Da Bruxelles sono scappati persino gli inglesi, che nell’Ue stavano a condizioni provilegiate e senza neppure la maledizione dell’euro. Ma da noi non se ne parla neppure, anche se non mancano politici che chiedono una rottura con l’Ue dell’austerity. La maggioranza silenziosa preferisce tenersi i vincoli europei: pensa (ancora) che siano superabili, che non siano letali.
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Globalisti privatizzatori, questa catastrofe è il loro piano
Cos’è il globalismo, e perché esiste? E’ ormai noto da decenni che la spinta alla globalizzazione è un preciso piano coltivato da un’élite di finanzieri internazionali, banchieri centrali, leader politici e think-tanks esclusivi. «Spesso nelle loro pubblicazioni ammettono apertamente il loro obiettivo di globalizzazione totale, forse nella convinzione che le persone semplici e non istruite in ogni caso non le leggeranno mai», scrive Brandon Smith su “Zero Hedge”. Carroll Quigley, mentore di Bill Clinton, viene spesso citato per le sue ammissioni: «I poteri del capitalismo finanziario avevano un obiettivo di ampia portata, niente di meno che creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, in grado di dominare il sistema politico di ciascun paese e l’economia del mondo intero». Un sistema che «doveva essere controllato in maniera feudale dalle banche centrali del mondo, che avrebbero agito di concerto, con accordi segreti». Il vertice del sistema «doveva essere la Banca dei Regolamenti Internazionali a Basilea, in Svizzera, una banca privata posseduta e controllata dalle banche centrali mondiali che sono esse stesse imprese private».Ciascuna banca centrale, continua Quigley, cerca di dominare il governo del proprio paese «grazie alla capacità di controllare i prestiti del Tesoro, di manipolare gli scambi con l’estero, di influire sull’attività economica del paese e influenzare i politici disposti a collaborare, ricompensandoli poi economicamente nel mondo degli affari». Si pensi alle classiche “porte girevoli” tra politica e grandi banche d’affari. «Le persone che stanno dietro all’obiettivo di imporre la globalizzazione – scrive Smith in un post ripreso da “Voci dall’Estero” – sono legate da una particolare ideologia, quasi un culto religioso, in cui immaginano un ordine mondiale come viene descritto nella “Repubblica” di Platone. Credono di essere stati “prescelti” – dal fato, dal destino o dalla genetica – per dominarci tutti come dei re-filosofi. Pensano di essere quanto di più intelligente e capace l’umanità abbia da offrire e di poter creare dal nulla, con poteri semi-divini, il caos e l’ordine, e così poter plasmare la società a loro piacimento».Questa mentalità appare evidente nel sistema globale: «La gestione delle banche centrali non è altro che un meccanismo per intrappolare le nazioni in debiti, svalutazioni valutarie e, in ultima analisi, schiavitù, attraverso l’estorsione economica diffusa». Obiettivo ultimo delle banche centrali, «scatenare delle crisi finanziarie di portata storica, che possono poi essere usate dalle élite come leva per promuovere la completa centralizzazione globale come unica soluzione possibile». Questo processo di destabilizzazione delle economie e delle società, continua Smith, non viene neppure controllato dai presidenti delle varie banche centrali: in realtà è pilotato da istituzioni globali ancor più centralizzate come il Fondo Monetario Internazionale e la stessa Bank of International Settlements, come spiegato in interessanti articoli come “Ruling The World Of Money”, pubblicato da “Harpers Magazine”. Se ne deduce che la campagna per un “nuovo ordine mondiale” non è esattamente un progetto umanitario: «Innumerevoli persone odieranno il nuovo ordine mondiale, e moriranno protestando contro di esso».L’élite mette in conto «almeno una generazione di malcontenti, molti dei quali saranno persone buone e di valore», stando alle parole dello scrittore britannico Herbert George Welles, laburista e profeta del “Nuovo ordine mondiale” (il primo a coniare l’espressione, che titola una sua opera del 1940). «In breve, la “casa dell’ordine mondiale” dovrà essere costruita dal basso verso l’alto anziché dall’alto verso il basso. Sembrerà una grande “rumorosa, esplosiva confusione”, per usare la famosa descrizione della realtà di William James, ma alla fine un lento assedio della sovranità nazionale, che la eroda pezzo per pezzo, risulterà più efficace del vecchio sistema dell’assalto frontale», scrive nel 1974 Richard Gardner, membro della Commissione Trilaterale, su “Issue of Foreign Affairs”. Precisa un altro campione dell’élite globalista, Henry Kissinger, al “World Action Council” del 1994: «Il Nuovo Ordine Mondiale non può realizzarsi senza la partecipazione degli Stati Uniti, visto che siamo il suo membro più importante. Certo, ci sarà un Nuovo Ordine Mondiale, e imporrà agli Stati Uniti di cambiare le proprie percezioni».Mentre alcuni considerano la globalizzazione una “evoluzione naturale” del libero mercato o l’inevitabile sbocco del progresso economico, «la verità è che la spiegazione più semplice (alla luce delle evidenze disponibili) è che la globalizzazione è una guerra aperta condotta contro l’ideale dei popoli sovrani e delle nazioni», scrive Brandon Smith. «E’ una guerriglia, o una guerra di quarta generazione, intrapresa da un piccolo gruppo di élite contro tutti gli altri». Un elemento significativo di questa guerra, aggiunge, riguarda la demolizione dei confini delle nazioni, degli Stati e persino di città e villaggi, come delimitazioni di comunità solidali e identitarie: «Non ci piace essere costretti ad associarci a persone o a gruppi che non hanno i nostri stessi valori». Le culture «innalzano i confini perché, francamente, i popoli hanno il diritto di controllare coloro che desiderano aderire alla comunità e condividerne gli intenti», rifiutando «altri gruppi di persone e di ideologie che per noi risultano distruttive». Curiosamente, invece, i globalisti «sosterranno che, rifiutandoci di associarci con coloro che potrebbero distruggere i nostri valori, siamo noi che violiamo i loro diritti. Vedete come funziona?».I globalisti «sfruttano la parola “isolazionismo” per infangare i sostenitori della sovranità agli occhi della pubblica opinione», e invece «non bisogna vergognarsi dell’isolamento quando principi quali la libertà di parola e di espressione o il diritto all’autodifesa vengono messi in discussione». Inoltre, «non c’è nulla di sbagliato nell’isolare un modello economico prospero da altri modelli insoddisfacenti», anche perché, al contrario, «imporre a un’economia di mercato libero decentralizzato di adottare un’amministrazione feudale attraverso un governo e una banca centralizzati finirà per distruggere il modello». Così come «importare milioni di persone con differenti valori per rinvigorire una nazione» non è altro che «una ricetta per il disastro». In un mondo senza barriere, continua Smith, si potrà solo eliminare una cultura per sostituirla con un’altra: «Questo è quello che vogliono ottenere i globalisti. E’ lo scopo vero dietro le politiche delle “frontiere aperte” e della globalizzazione – annichilire il confronto delle idee, così che l’umanità finisca col pensare di non avere altra opzione all’infuori della religione delle élite». Lo scopo ultimo dei globalisti «non è di controllare i governi», che sono solo uno strumento, bensì «ottenere un’influenza psicologica totale», onde conquistare definitivamente «il consenso delle masse».Le élite sostengono che la loro idea di una singola cultura mondiale è il pilastro fondamentale dell’umanità, e che non c’è più alcun bisogno di confini perché nessun principio è più importante di questo. «Fino a quando i confini, come concetto, continuano a esistere, ci può sempre essere la possibilità di separare ideali diversi che competono con la filosofia globalizzatrice: questo non è accettabile per le élite». Oggi, con l’affermarsi dei movimenti anti-globalisti, la tesi portata avanti dal mainstream è che i “populisti” (conservatori) rappresentano una classe spregevole e ignorante, sono elementi pericolosi che minacciano “la pace e la prosperità” provenienti dalle sapienti mani globaliste. Ancora una volta, Carrol Quigley predice questa propaganda con decenni di anticipo, quando discute la necessità di “rimanere all’interno del sistema” per cambiarlo, anziché combattere contro di esso, e parla della «classe medio-bassa» definendola «spina dorsale del fascismo del futuro». E spiega: «I membri del partito nazista in Germania venivano per lo più da questa classe», alla quale associa «i movimenti di centro-destra» degli Stati Uniti.I globalisti, continua Smith, hanno avuto mano libera sulla maggior parte dei governi mondiali per almeno un secolo, se non di più. «A seguito della loro influenza, abbiamo avuto due guerre mondiali, la Grande Depressione, la Grande Recessione che non è ancora finita, troppi conflitti regionali e genocidi perché possano essere contati, e la sistematica oppressione dei liberi imprenditori, degli inventori e delle idee, al punto che soffriamo ormai di stagnazione sociale e finanziaria». Curioso: «I globalisti sono rimasti al potere a lungo, ma la colpa delle numerose crisi avvenute negli ultimi 100 anni viene data all’esistenza dei confini». I campioni della libertà «vengono definiti inqualificabili populisti e fascisti», mentre i globalisti si sottraggono a ogni accusa. «Non esiste uno straccio di prova che confermi l’idea che la globalizzazione, l’interdipendenza e la centralizzazione funzionino davvero», insiste Smith. Per capirlo, «basta esaminare l’incubo economico e migratorio presente nell’Ue». Quindi, i globalisti «sosterranno che il mondo non è abbastanza centralizzato», cioè diranno che «ci vuole più globalizzazione, non meno, per risolvere i problemi del mondo».Nel frattempo, «i principi della sovranità devono essere demonizzati storicamente». Intollerabile, infatti, la stessa esistenza di diverse culture: «Per le generazioni future deve essere psicologicamente associata al male». Vogliono un mondo in cui «il principio di sovranità sia considerato così aberrante, così razzista, così violento e insidioso che chiunque si vergognerebbe di averlo sostenuto». E’ una vera «prigione mentale», ed è «il luogo dove i globalisti vogliono portarci». Ribellarsi? Per Smith, è possibile solo col volontariato, costruendo «una spinta verso la decentralizzazione, la localizzazione, l’indipendenza e la vera produzione». Meglio i confini, se lasciano l’individuo «libero di partecipare a qualsiasi gruppo sociale che desidera o che crede migliore per lui», nell’ambito di una società «non costretta ad associazioni forzate». Ma Smith non è ottimista: «Questo sforzo richiederebbe enormi sacrifici e una battaglia che probabilmente durerebbe per una generazione». L’unica sicurezza è nera: «Posso solo mostrare che il mondo dominato dai globalisti in cui viviamo oggi è chiaramente destinato alla catastrofe. Potremo discutere su cosa fare dopo solo quando avremo tolto la testa dalla ghigliottina».Cos’è il globalismo, e perché esiste? E’ ormai noto da decenni che la spinta alla globalizzazione è un preciso piano coltivato da un’élite di finanzieri internazionali, banchieri centrali, leader politici e think-tanks esclusivi. «Spesso nelle loro pubblicazioni ammettono apertamente il loro obiettivo di globalizzazione totale, forse nella convinzione che le persone semplici e non istruite in ogni caso non le leggeranno mai», scrive Brandon Smith su “Zero Hedge”. Carroll Quigley, mentore di Bill Clinton, viene spesso citato per le sue ammissioni: «I poteri del capitalismo finanziario avevano un obiettivo di ampia portata, niente di meno che creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, in grado di dominare il sistema politico di ciascun paese e l’economia del mondo intero». Un sistema che «doveva essere controllato in maniera feudale dalle banche centrali del mondo, che avrebbero agito di concerto, con accordi segreti». Il vertice del sistema «doveva essere la Banca dei Regolamenti Internazionali a Basilea, in Svizzera, una banca privata posseduta e controllata dalle banche centrali mondiali che sono esse stesse imprese private».
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Renzi presto a casa, ma intanto il lavoro sporco l’ha fatto
Il fenomeno Renzi può essere considerato come la risposta dell’establishment all’ascesa folgorante del M5S: banche, Confindustria, Marchionne, De Benedetti e lo stesso Berlusconi hanno puntato sul ricambio del vecchio gruppo dirigente del Pd ormai logoro e privo di qualsiasi spinta propulsiva. E così è stato creato Renzi il gran Rottamatore, una delle figure più reazionarie del periodo repubblicano. Renzi aveva il compito di fare esattamente quello che hanno fatto Monti e Letta, però doveva sembrare diverso agli occhi della gente perché il tracollo di Monti alle elezioni del 2013 scottava ancora. Renzi è stata una mossa giusta per le élite. Ha retto 3 anni, che è moltissimo per qualcuno incaricato di attuare politiche impopolari. Sparirà probabilmente nel 2018, se non prima, ma ha fatto quello di cui aveva bisogno chi l’ha messo lì: oltre ad aver ricoperto le imprese di incentivi che non sono serviti a rilanciare la nostra economia, ha finalmente spazzato via i diritti dei lavoratori.
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Ue, ricatto Italia: se vince il No torna l’agguato dello spread
Ci sono due modi per commentare la lettera della Commissione europea con cui si fanno le pulci alla manovra italiana, finalmente arrivata al Tesoro. Sorridere, perché è davvero singolare che un’istituzione così importante perda il tempo col calcolo dei decimali nella legge di bilancio, quando in mare muoiono centinaia di persone, l’Italia ne accoglie 153.000 da inizio anno e altri paesi, a partire dall’Ungheria, meriterebbero molto più di una tirata d’orecchie perché di questi disperati non ne vuole vedere l’ombra. Oppure preoccuparsi. Di fronte al dramma della giungla di Calais sgombrata, ai quotidiani morti nel “Mare Mostrum”, al veto della minuscola Vallonia a un accordo internazionale, Bruxelles si sarebbe premurata di comunicare solo il 5 dicembre la sua risoluzione sulla legge di bilancio da 27 miliardi, non certo in odore di santità e perfettibile quanto si voglia. La tempestività o meno di una comunicazione comunque così rilevante può avere effetti nefasti sui mercati finanziari, che già hanno cerchiato di rosso il primo lunedì dell’ultimo mese del 2016, perché quel giorno sarà noto il risultato del referendum costituzionale.Ci mancava anche la solita pagella comunitaria. Difficile che quella sarà una giornata tranquilla, a prescindere dal contenuto della stessa comunicazione, già ampiamente anticipata peraltro da fonti di vario genere: si preannuncia un giorno del giudizio, per giunta probabilmente negativo. Gli economisti le chiamano profezie auto-avveranti e di precedenti analoghi ce ne sono. Possibile che nessuno ricordi infatti lo smottamento che provocò la diffusione, nell’agosto del 2011, di un’altra lettera, quella della Bce e della Banca d’Italia al governo Berlusconi, in cui di fatto si annunciava la fine degli acquisti dei titoli di stato se non si fosse messo mano ad un decreto legge lacrime e sangue? Con quella disclosure improvvisa sui diktat dei banchieri centrali – spedita anche a Madrid ma in questo caso rimasta riservata – si posero le basi per la tirannia dello spread, che poco dopo sarebbe arrivato a 575 punti base rispetto ai bund tedeschi, comportando un traumatico cambio di esecutivo.È di qualche giorno fa la decisione dell’agenzia di rating Fitch di mantenere a livello quasi spazzatura il voto sull’Italia, Bbb+, con prospettive, guarda caso, non più stabili ma negative, nel mentre la Francia, che è già da anni in procedura d’infrazione per disavanzo eccessivo e lotta contro un debito in crescita, ha mantenuto la sua doppia A. Un divario enorme ed ingiustificato. Se non fosse per il paracadute della Bce, che col suo Quantitative Easing mette al riparo dalla speculazione i titoli di Stato del Belpaese, ci sarebbe da allacciare le cinture, perché annunciare il verdetto Ue per il 5 dicembre è un po’ come aver dato appuntamento a tutti gli hedge fund del mondo.(Roberto Sommella, “La Commissione dà appuntamento agli speculatori il 5 dicembre”, dall’“Huffington Post” del 5 dicembre 2016).Ci sono due modi per commentare la lettera della Commissione europea con cui si fanno le pulci alla manovra italiana, finalmente arrivata al Tesoro. Sorridere, perché è davvero singolare che un’istituzione così importante perda il tempo col calcolo dei decimali nella legge di bilancio, quando in mare muoiono centinaia di persone, l’Italia ne accoglie 153.000 da inizio anno e altri paesi, a partire dall’Ungheria, meriterebbero molto più di una tirata d’orecchie perché di questi disperati non ne vuole vedere l’ombra. Oppure preoccuparsi. Di fronte al dramma della giungla di Calais sgombrata, ai quotidiani morti nel “Mare Mostrum”, al veto della minuscola Vallonia a un accordo internazionale, Bruxelles si sarebbe premurata di comunicare solo il 5 dicembre la sua risoluzione sulla legge di bilancio da 27 miliardi, non certo in odore di santità e perfettibile quanto si voglia. La tempestività o meno di una comunicazione comunque così rilevante può avere effetti nefasti sui mercati finanziari, che già hanno cerchiato di rosso il primo lunedì dell’ultimo mese del 2016, perché quel giorno sarà noto il risultato del referendum costituzionale.
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Sylos Labini: solo lo Stato può salvarci dall’inferno dell’euro
Scrisse Antonio Gramsci: «La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere». Questa citazione descrive bene ciò che sta succedendo nel periodo attuale, sostiene Stefano Sylos Labini: il capitalismo finanziario neoliberista è entrato in crisi ormai da anni e sta utilizzando l’intervento delle banche centrali per rimanere in piedi. Si è capito che i vecchi approcci sono ormai superati perché non riescono più a garantire crescita e benessere diffuso. «L’intervento pubblico è paralizzato dal peso del debito mentre il sistema bancario si è inceppato e non sta finanziando in modo adeguato le famiglie e le imprese». Per questo servono nuove logiche di intervento per sostenere l’economia reale. Sylos Labini cita il Sardex, moneta complementare lanciata in Sardegna come “sistema di compensazione di credito reciproco”, attraverso cui l’economia reale crea la sua moneta per finanziare scambi e investimenti evitando l’intermediazione del sistema bancario. Ma ovviamente non basta: «E qui in Europa abbiamo anche il problema dell’euro», aggiunge l’economista, «che si fonda su delle regole che impediscono di promuovere la crescita dell’economia e non consentono di attuare politiche per ridurre la disoccupazione».Si tratta di una situazione preoccupante, se consideriamo gli imponenti fenomeni migratori che si stanno riversando sul Vecchio Continente, osserva Sylos Labini in una riflessione prooposta al festival “Mitzas” di Cagliari e ripresa da “Megachip”. «Si parla di piani di accoglienza e di re-distribuzione dei migranti, ma quello che serve è un grande Piano del Lavoro: questa gente se si ferma in Europa deve lavorare per avere un reddito. Ma in tal caso il Piano del Lavoro deve riguardare – e con diritto di precedenza – i disoccupati europei, che sono circa 20 milioni di persone». Attenzione: «Solo lo Stato può garantire quel contributo fondamentale all’impiego in lavori di pubblica utilità, servizi sociali, manutenzione del territorio e delle infrastrutture». Il settore privato può fare la sua parte, certo, «ma da solo non sarà mai in grado di risolvere il problema della disoccupazione». Non esiste alternativa allo Stato, che «deve avere le risorse finanziarie nonché le capacità organizzative per offrire un impiego a tutti coloro che sono in grado di lavorare».E se non riusciremo a mettere in campo delle nuove politiche economiche per assicurare una vita dignitosa alla popolazione europea, continua Sylos Labini, corriamo il rischio di entrare in quella che Giorgio Ruffolo ha definito una “Nuova Età dei Torbidi”: dopo la fase socialdemocratica dell’Età dell’Oro e la fase neoliberista dell’Età del Capitalismo Finanziario, oggi si sta profilando una nuova fase storica dominata dalla destra protezionista e nazionalista. A Bretton Woods nel 1944 si era stabilito un sistema che prevedeva una forte limitazione dei trasferimenti di capitale da un paese all’altro dando piena libertà agli scambi commerciali. Questo sistema, ricorda l’economista, lasciava ai governi nazionali un largo spazio di autonomia nella gestione della politica monetaria e della politica economica. «In tal modo si consolidò un compromesso tra capitalismo e democrazia che in Europa permise ai governi socialdemocratici di assicurare benessere diffuso e piena occupazione».Alla fine degli anni ‘70, però, «si scatenò la controffensiva capitalistica: Reagan e la Thatcher avviarono un processo di deregolamentazione e di liberalizzazione dei movimenti di capitale che determinò un completo rovesciamento dei rapporti di forza sia tra capitale e lavoro, sia tra capitalismo e democrazia», creando «una condizione di fortissimo vantaggio per le grandi imprese private nei confronti degli Stati nazionali». Da quel momento, prosegue Sylos Labini, la capacità di intervento dello Stato nell’economia andò incontro ad un drastico ridimensionamento, mentre i lavoratori iniziarono a subire i ricatti delle delocalizzazioni produttive: imprese trasferite nel terzo mondo, dove il lavoro costa pochissimo, a tutto vantaggio del nuovo capitalismo finanziario. «Si è creato così un mercato finanziario integrato che ha consentito al capitale di tutto il mondo di entrare in collegamento e di dar luogo all’“internazionale dei capitalisti”, un’élite globale che concentra in sé un potere immenso». Ironia della storia: «L’appello di Karl Marx, “proletari di tutto il mondo unitevi”, si è realizzato, ma al contrario».Oggi, i mercati finanziari sono diventati un’istituzione strutturata. E si esprimono come gli Stati. «È ben noto, infatti, che a Wall Street si tengono riunioni periodiche dei capi delle grandi banche e delle società finanziarie che stabiliscono i tassi di interesse e, attraverso le decisioni di investimento, possono sfiduciare i governi che attuano politiche economiche non gradite, condizionando il destino di intere popolazioni». Di fatto, «la democrazia è stata svuotata e la sovranità popolare umiliata». Vie d’uscita? Una: «Superare la globalizzazione gestita dal capitale finanziario». Ma costruire un nuovo modello di sviluppo non sarà semplice, «perché il vasto schieramento che è contro l’austerità e il liberismo non ha una strategia unitaria». Troppe fazioni, in contrasto tra loro. «Una situazione particolarmente grave in Europa, dove esiste il problema di una moneta unica che sta allargando i divari tra il blocco dell’euro-marco e i paesi della periferia». Per Sylos Labini, «ci troviamo in una trappola infernale», perché «uscire dalla moneta unica è complicato», ma «continuare con queste politiche economiche ci porterà al disastro». E sperare in una svolta progressista dell’Europa è «un’ingenua illusione».Scrisse Antonio Gramsci: «La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere». Questa citazione descrive bene ciò che sta succedendo nel periodo attuale, sostiene Stefano Sylos Labini: il capitalismo finanziario neoliberista è entrato in crisi ormai da anni e sta utilizzando l’intervento delle banche centrali per rimanere in piedi. Si è capito che i vecchi approcci sono ormai superati perché non riescono più a garantire crescita e benessere diffuso. «L’intervento pubblico è paralizzato dal peso del debito mentre il sistema bancario si è inceppato e non sta finanziando in modo adeguato le famiglie e le imprese». Per questo servono nuove logiche di intervento per sostenere l’economia reale. Sylos Labini cita il Sardex, moneta complementare lanciata in Sardegna come “sistema di compensazione di credito reciproco”, attraverso cui l’economia reale crea la sua moneta per finanziare scambi e investimenti evitando l’intermediazione del sistema bancario. Ma ovviamente non basta: «E qui in Europa abbiamo anche il problema dell’euro», aggiunge l’economista, «che si fonda su delle regole che impediscono di promuovere la crescita dell’economia e non consentono di attuare politiche per ridurre la disoccupazione».
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Clamoroso, il Financial Times molla l’inutile Matteo Renzi
All’inizio furono i buoni uffici di Davide Serra, fondo Algebris e tessera Pd, il finanziere che è stato ripagato con un inside trading che ha permesso di guadagnare sul rialzo delle Popolari dopo un decreto e sul crollo di Mps dopo una serie di misure interne. Renzi andava bene sul “Financial Times”: prometteva di fare la sponda liberista a Cameron, un approdo italiano per i capitali in cerca di affari e di essere un bastione contro l’austerità tedesca (quella che, nella lettura angloamericana della crisi impedisce la proliferazione dei capitali). Insomma, un’Italia dove la città tipo è molto più simile a Manchester che a Pescara. Una apertura di credito, da parte del quotidiano finanziario londinese, di proprietà giapponese, nella speranza di una rottura definitiva con i rigidi assetti di quel blocco di potere (dalle grandi opere al management bancario, all’amministrazione dello Stato, al ceto politico) visto come un impedimento per un compiuto sbocco della globalizzazione in Italia.In effetti Matteo, per compiacere quel mondo, di diplomazia ne ha messa tanta. Solo che il renzismo è un veloce movimento di parole, un compulsivo movimento di poteri quanto un immobile movimento politico. Tutta l’innovazione politico-finanziaria si è concretizzata nella richiesta di “flessibilità” a Bruxelles, qualche miliardata di sforamento del deficit per tirare a campare; e Cameron, a suo tempo, è stato lasciato solo come uno Tsipras qualsiasi. La polpa che interessa alla City (dalle opere pubbliche, alle partecipate, alla spesa sanitaria) è rimasta o virtuale (vedi la vicenda della spending review) o in mano ai soliti soggetti. Per non parlare delle banche e dei tentativi, che alla City parranno davvero demode’, di mantenere i Patuelli (in oggetto, ex segretario del Pli e oggi presidente delle banche italiane) o i Profumo al timone degli istituti bancari.Alla City piace un’Italia spartita tra grossi fondi di investimento, non tra reduci di cene con Carrai e la Boschi. Eppure a capodanno 2015, dopo una decina di mesi di avventure del guitto di Rignano, Tony Barber, uno degli editorialisti più importanti del “Financial Times”, tuonava convinto: «Renzi è l’ultima speranza per l’Italia». Per non parlare del corsivo del “Financial Times”, sempre di Tony Barber, che campeggia sulle pagine del comitato del Sì da luglio: «La salvezza dell’unione monetaria dipende dall’esito del referendum costituzionale italiano». Insomma, sembrava tutto vero, specie se visto da un’Italia a reti unificate (grave problema democratico minimamente non affrontato) dove parla solo Renzi: da Matteo dipendono i destini dell’Italia e dell’Europa. Nemmeno De Gasperi aveva avuto tanta buona stampa nella City. Ma, nel mondo finanziario di oggi, la regola è la volatilità, e questo vale anche per la politica.Passano infatto solo quattro mesi e il salvatore dell’Italia e dell’Europa viene rappresentato dallo stesso Tony Barber, sempre sul “Financial Times”, come l’architetto di riforme costituzionali che «sono un ponte verso il nulla»!!! Da non credere se non fosse tutto vero. Barber punta il dito contro l’assetto dell’amministrazione pubblica, visto come simile a un mandarinato (impermeabile quindi alla City), l’apertura a Berlusconi sul ponte di Messina (conferma di un assetto di potere nelle opere pubbliche anch’esso impermeabile alla City) e intravede più rischiosa, per l’Italia, la crisi bancaria che il No al referendum (la verità, seppure rivelata con tardivo interesse). Oggi persino la vittoria di Renzi pare indigesta al quotidiano anglo-giapponese e all’editorialista che, ancora poche settimane fa, incoronava come novello Giovanni Sobieski (il salvatore dell’Europa dai turchi durante l’assedio di Vienna) proprio il presidente del consiglio italiano.Tony Barber, con la disinvoltura di un Alfano qualsiasi, oggi conclude infatti l’editoriale dicendo che una vittoria del Sì sarebbe un qualcosa di folle che salverebbe gli interessi tattici di Renzi e non quelli del paese. E’ evidente che non c’è più un grosso fondo che crede, dal punto di vista strategico, in Renzi, alla vigilia di tante mutazioni in Europa. E, ricordiamo, se l’aumento dei tassi della Fed in dicembre avviene (il presidente della Fed di Chicago lo dà come certo) e innesca una dinamica di rialzo dei bond italiani, ci sarà da ballare parecchio, sul fronte del debito pubblico. Un ballo che, comunque vada, il “Financial Times” non vorrebbe fare con Matteo Renzi. Alla notizia è stata messa, ovviamente, la sordina. Al contrario, se Tony Barber avesse finito di incoronare Renzi, avremo visto la scena sulle consuete reti unificate. La saldatura Renzi-Mediaset-Rai non pare preoccupare un granché. Auguri comunque a tutti loro, visto lo scenario.(“Clamoroso, il Financial Times molla Matteo Renzi”, da “Senza Soste” del 5 ottobre 2016).All’inizio furono i buoni uffici di Davide Serra, fondo Algebris e tessera Pd, il finanziere che è stato ripagato con un inside trading che ha permesso di guadagnare sul rialzo delle Popolari dopo un decreto e sul crollo di Mps dopo una serie di misure interne. Renzi andava bene sul “Financial Times”: prometteva di fare la sponda liberista a Cameron, un approdo italiano per i capitali in cerca di affari e di essere un bastione contro l’austerità tedesca (quella che, nella lettura angloamericana della crisi impedisce la proliferazione dei capitali). Insomma, un’Italia dove la città tipo è molto più simile a Manchester che a Pescara. Una apertura di credito, da parte del quotidiano finanziario londinese, di proprietà giapponese, nella speranza di una rottura definitiva con i rigidi assetti di quel blocco di potere (dalle grandi opere al management bancario, all’amministrazione dello Stato, al ceto politico) visto come un impedimento per un compiuto sbocco della globalizzazione in Italia.
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Riparare l’Italia? Impossibile, se gli Usa non vogliono
Arrivano i nostri e sistemeranno tutto, con riforme dettate dal buon senso? Perfetto, in teoria. In pratica, però, non succede mai. Motivo? Semplice: le soluzoni esistono, ma non ci è permesso adottarle. Da chi? Dalla ristrettissima élite finanziaria che ha in mano il sistema economico. Le cose vanno male (per noi) perché così hanno deciso loro. Inutile illudersi che possa davvero cambiare qualcosa, dice l’avvocato Marco Della Luna, se prima non si stracciano i trattati di sudditanza verso gli Usa e, in Europa, verso la Germania, il vassallo incaricato di frenare – con la crisi indotta – lo sviluppo del vecchio continente, allo scopo di sabotarne la sovranità e quindi la vitalità. Il pericolo, per loro, è sempre lo stesso: la nostra libertà d’azione. «Un ristretto numero di grandi famiglie bancarie, cioè l’establishment angloamericano e poc’altro, detiene nel mondo il potere economico, quindi politico e militare; il suo consenso è indispensabile per ogni significativa riforma in ogni paese dell’area del dollaro. Impone spesso, nel proprio interesse, riforme contrarie all’interesse collettivo, come l’abolizione del Glass Steagal Act, e le mantiene anche dopo che si è manifestata la loro nocività».Un giorno anche questo “impero” crollerà, come tutti gli altri, aggiunge Della Luna nel suo blog. Ma a farlo collassare non saranno certo i ragazzi di “Occupy Wall Street” o del movimento di Grillo. «Siamo inclini ancora oggi a pensare che i policy-makers, i decision-makers, siano tuttora gli Stati, i governi, i parlamenti». Ma in realtà «non lo sono più da molto tempo: essi sono controllati da chi li finanzia, detiene il loro debito, gli fa il rating». Siamo portati a pensare e a promettere: prendiamo la maggioranza assoluta e aggiustiamo le cose per il paese. Ma non funziona così: «I vincoli e i poteri esterni sono ampiamente preponderanti e dettano ciò che puoi e ciò che devi fare, e se non ottemperi ti fanno cadere, mobilitando mass media e giustizia». In piccolo, la falsa partenza della giunta Raggi a Roma dimostra la stessa verità: anche per cambiare le cose in una città non basta avere i voti, «bisogna fare i conti con interessi consolidati appoggiati da ampi settori istituzionali, mediatici e “religiosi”».Sul piano tecnico, continua Della Luna, i metodi per risanare il sistema bancario italiano e per rilanciare l’economia con idonei finanziamenti di ampio respiro sono già disponibili e più volte descritti. Ma, per introdurre riforme importanti, bisogna fare i conti con l’oste: «Chi avanza proposte di riforma di qualche rilevanza, soprattutto in ambiti economico-finanziari, geostrategici, scientifico-tecnologico (soprattutto energetici), dovrebbe preliminarmente verificare se il predetto consenso vi è o non vi è – il cosiddetto “Washington consensus” (e “Berlin consensus”), esponente degli interessi di quell’establishment finanziario-militare-politico che già Dwight Eisenhower indicava come incompatibile con la democrazia e che ancora prima Charles Wright Mills denominò “power elite”». Non se parla mai, «perché discuterne è sgradevole, scabroso». Chi fa proposte di riforma sostanziale dovrebbe prima verificare «quali siano gli spazi di manovra consentiti all’Italia dai vincoli esterni, e in primo luogo dai trattati di pace e relativi protocolli anche riservati, seguiti alla fine della II Guerra Mondiale, e configuranti per l’Italia una sovranità limitata in subordinazione agli Usa».Lo stesso vale per la Germania: «Ogni cancelliere tedesco, prima di assumere il suo ufficio, deve sottoscrivere la “Kanzlerakte”, ossia un impegno di obbedienza alla Casa Bianca». E un protocollo riservato del trattato di pace con gli Usa «attribuisce a questi la “Medienhoheit”, ossia la sovranità sui mass media tedeschi». Ma se la Germania è “previsto” che sia efficiente, per l’Italia le cose cambiano: Della Luna parla di «obblighi verso gli Usa che impongono all’Italia di restare inefficiente in determinati settori e di subire, nascondendolo all’opinione pubblica, prelievi di ricchezza e di altri assets da parte degli Usa o di loro soggetti imprenditoriali. Prelievi che si traducono in tasse e tagli». L’Italia, poi, è costretta a subire «la sistematica violazione delle regole fiscali europee» da parte della Germania, nonché «lo shopping delle sue aziende migliori». Abbiamo «subito passivamente l’attacco ai Btp per imporre il “regime change” nel 2011 con la leva dello spread». E fu il cancelliere Kohl, racconta Della Luna nel saggio “Polli da spennare” (Nexus, 2008) a frenare la riforma italiana dell’efficienza.Piatto forte, comunque, i nostri soldi da versare al sistema finanziario americano: «Negli anni ’90, i governanti italiani – costretti o corrotti – hanno stipulato con primarie banche statunitensi contratti derivati Irs del tipo “banca vince se tassi calano” quando già era determinato che sarebbero calati; quindi l’Italia, il contribuente italiano, sta pagando centinaia di miliardi di perdite su questi contratti, e questi pagamenti chiaramente costituiscono la corresponsione di un tributo alla potenza vincitrice da parte del paese sconfitto e sottomesso». Una pratica turpe, rinnovata «anche grazie all’“Europa”». Per non parlare degli F-35, aerei-rottame, o delle guerre in Iraq, Afghanistan e Libia, «contrarie agli interessi italiani». La prima vittima? Enrico Mattei: «Fu ucciso mentre, come presidente dell’Eni, disturbava il cartello petrolifero angloamericano».L’indurre destabilizzazioni finanziarie, civili e politiche nei vari paesi della loro zona di influenza, a scopo di sottometterli e sfruttarne le risorse, è una prassi costante delle multinazionali americane, come ben illustrato e documentato da uno dei principali esecutori, John Perkins, nel saggio “Confessioni di un sicario dell’economia” (Minimum Fax). Gli Usa sono il peggior “Stato-canaglia” del pianeta? Già, ma «la sua forza imperiale e il suo controllo dell’informazione gli consente di non apparire tale, in superficie». Della Luna indica una direzione di ricerca, quella dei «protocolli riservati annessi ai trattati di pace e relativi al Piano Marshall». Se risulterà che ci sono e che non permettono le progettate riforme, allora è inutile insistere nel portarle avanti, conclude il saggista. Meglio, a quel punto, progettare «una vasta campagna globale di informazione su quei vincoli, sulla loro dannosità, sulla loro iniquità, al fine di contestare la loro validità e compatibilità coi diritti dell’uomo e coi principi democratici», in modo che americani (e tedeschi) scendano dal trono.Arrivano i nostri e sistemeranno tutto, con riforme dettate dal buon senso? Perfetto, in teoria. In pratica, però, non succede mai. Motivo? Semplice: le soluzioni esistono, ma non ci è permesso adottarle. Da chi? Dalla ristrettissima élite finanziaria che ha in mano il sistema economico. Le cose vanno male (per noi) perché così hanno deciso loro. Inutile illudersi che possa davvero cambiare qualcosa, dice l’avvocato Marco Della Luna, se prima non si stracciano i trattati di sudditanza verso gli Usa e, in Europa, verso la Germania, il vassallo incaricato di frenare – con la crisi indotta – lo sviluppo del vecchio continente, allo scopo di sabotarne la sovranità e quindi la vitalità. Il pericolo, per loro, è sempre lo stesso: la nostra libertà d’azione. «Un ristretto numero di grandi famiglie bancarie, cioè l’establishment angloamericano e poc’altro, detiene nel mondo il potere economico, quindi politico e militare; il suo consenso è indispensabile per ogni significativa riforma in ogni paese dell’area del dollaro. Impone spesso, nel proprio interesse, riforme contrarie all’interesse collettivo, come l’abolizione del Glass Steagal Act, e le mantiene anche dopo che si è manifestata la loro nocività».